Terapie contro la marginalizzazione del marketing 2

L’altro giorno, dopo aver letto il mio (ennesimo), cahier de dolances, una persona mi ha chiesto: “Ma allora se il marketing è marginalizzato, quali sono le funzioni aziendali che contano?”.
La domanda è più che legittima e trovare una risposta risulta sicuramente importante per individuare le terapie del titolo. Per pfarlo però credo sia indispendabile prima definire cosa si deve intendere per centralità di una funzione (un po’ come per fare strategie di marketing di successo va capito cosa si intende per potere di mercato).
La centralità o marginalizzazione di una funzione e/o di una persona all’interno di una organizzazione dipende dall’importanza/peso che hanno le sue necessità e la sua visione delle cose rispetto alle altre funzioni (persone) nell’allocazione delle risorse economiche, di tempo (quantità e qualità dello staff) e di strumenti per svolgere il compito assegnato.
In questa ottica le funzioni attualmente centrali nella generalità delle aziende (ci sono sempre le eccezioni) sono l’amministrazione-finanza-controllo di gestione e le vendite.
L’altra domanda chiave è come sempre: perchè (queste due funzioni sono centrali)?
Io, ma non solo io, credo che debbano molto della propria centralità alla (presunta) misurabilità delle attività che svolgono.
La misurabilità dell’amministrazione-finanza-controllo di gestione non è messa in discussione per definizione in quanto è la funzione che misura le performances aziendali mentre le vendite sono misurabili grazie alla relazione diretta che si può stabilire tra le azioni (tattiche) di vendita ed il fatturato.
Però io ho scritto tra parentesi che la misurabilità di queste funzioni è presunta. Perchè? (sembro un bambino di due anni).
I dubbi nel caso dell’amministrazione-finanza-controllo di gestione mi nascono dalla semplice constatazione della quantità di analisi et similia, sia ad hoc che routinarie, gestite su foglio elettronico in tutti gli uffici di tutte le aziende. Credo siano una dimostrazione del gap di efficacia ed efficenza che la funzione amministrazione-finanza-controllo di gestione ha nel fornire al resto dell’azienda le informazioni di cui le diverse funzioni hanno bisogno, nel formato necessario. Nella prima azienda in cui ho lavorato, la Levoni S.p.A., il direttore amministrativo ogni anno passava a tutti gli uffici un’analisi dell’andamento delle vendite in volume, valore e prezzo medio dei principali prodotti e dei principali mercati negli ultimi cinque anni. Non l’ho visto fare in nessun’altra azienda, dove normalmente ci si limita al confronto anno precedente e budget. Mi viene quindi da dire che la situazione generale non è di soddisfacimento da parte della funzione amministrazione-finanza-controllo di gestione delle esigenze del resto dell’azienda, bensì che la centralità di questa fa sì che le sue esigenze/punto di vista siano prevalenti su quelle delle altre, che quindi si arrangiano come possono (dedicando tempo prezioso allo sviluppo e gestione di fragili files excel). Ulteriore indizio al riguardo è la tranquillità con cui nelle aziende si accetta che l’implementazione di un nuovo programma gestionale che costa svariati milioni di euro, richieda svariate centinaia di migliaia di euro in consulenze e lasci l’azienda con una disponibilità limitata di dati (quando non nel buoi totale) per un periodo che va dai 6 mesi ad un anno. Avendo sempre lavorato nei beni di largo consumo dove un ritardo di un giorno nella consegna rischia, giustamente, di farmi perdere il cliente, devo dire che questa cosa mi affascina.
La presunzione della misurabilità delle vendite è ancora più evidente, basta considerare l’effetto moltiplicatore delle vendite (volumi e prezzi) di una campagna pubblicitaria/comunicazione o solo di un forte posizionamento della marca. Probabilmente solo le promozioni basate sullo sconto sono l’unico strumento di vendita dove l’influenza delle politiche di marca e poca o nulla. Però sempre più rapidamente promozioni di questo tipo portano ad un riposizionamento del proezo di vendita, in un circolo vizioso che spesso si rivela insostenibile.
La conclusione più importante che ho tratto da queste riflessioni è però il rafforzamento della mia convinzione della necessità di individuare e sviluppare reali parametri di misura per le attività di marketing. Viceversa continueremo ad essere marginali rispetto a quelle, presuntamente, misurabili e non riusciremo a dare il nostro apporto in azienda.
Aspettative quindi, non prometto quando, una terza (e forse anche quarta) puntata.

Terapie contro la marginalizzazione del marketing 1

Dopo la sommaria anamnesi e diagnosi dei giorni scorsi vediamo quali possono essere le soluzioni/azioni per ridare al marketing il necessario ruolo strategico all’interno delle aziende. Non mi dilungo sul perché questo sia necessario, perché il tema è stato l’argomento del primo post di questo blog (in realtà è la questione da cui tutto il blog ha preso le mosse oramai alcuni anni fa), che consiglio di leggere, se non l’avete già fatto.
La premessa ovvia ma doverosa è che la soluzione le possibili soluzioni non sono facili, né da formulare né da realizzare. Per questo ho deciso di scriverle a puntate: 1 post per soluzione, con considerazioni che derivano in parte dal solito “Marketing Management” ed in parte dalle mie riflessioni.
SOLUZIONE N. 1: IL MARKETING DEVE TORNARE AD ESSERE TEORICO
Il marketing deve tornare ad essere una scienza (sociale) di gestione delle organizzazioni. Deve tornare a sviluppare ipotesi teoriche strutturate con rigore (non sovrastrutture) relativamente a come le strategie e tattiche di marketing impattano la realtà (di mercato).
Esempio di vita vissuta (tanto oramai nessuna delle aziende e persone coinvolte sono più quelle che erano): primi mesi del 2004, riunione dei direttori marketing del Gruppo Eckes-Stock (tipo barzelletta: ci sono un italiano, un boemo, un’austriaca ed una tedesca). La mia collega tedesca presenta con giusta soddisfazione la crescita di vendite dell’anno precedente e passa a presentare COSA è stato fatto, con una tipica presentazione di condivisione di best practice. Per valutare se e cosa poteva valer la pena di trasferire sul mercato italiano, quando finisce gli chiedo una sua analisi sul PERCHE’ quelle cose avessero funzionato. Lei mi dà spiegazioni semi-tautologiche tipo con questa “sponsorizzazione abbiamo ottenuto un aumento di awareness” e mi dà ulteriori dettagli sul COME hanno realizzato le diverse cose. Io me ne torno a casa perplesso, anche perché non condividevo molto il focus dato dal top management tedesco: “stiamo perdendo vendite, dobbiamo sforzarci a FARE QUALCOSA per invertire la tendenza”.
Primi mesi del 2005, solita riunione dei direttori marketing del Gruppo Eckes-Stock di inizio anno, la mia collega tedesca è piuttosto abbattuta perché nell’anno appena trascorso le vendite sono calate, tornando sotto ai livelli del 2002. Soprattutto è preoccupata nel 2004 hanno confermato le stesse strategie che avevano funzionato così bene nel 2003 e quindi non capisce il motivo della perdita di fatturato, né sa cosa fare per affrontare il problema.
Mancava un quadro teorico di riferimento che fornisse una comprensione al di là del meccanismo stimolo-risposta, grazie a delle ipotesi sui motivi di quella risposta a quello stimolo. In altre parole mancava l’idea del percorso che portava dallo stimolo alla risposta.
Elemento fondamentale del rigore teorico è l’approccio sperimentale, nel senso galileiano del termine. Se infatti un quadro teorico è indispensabile nelle fasi di pianificazione ed esecuzione delle strategie, diventa poi cruciale la valutazione dei risultati per ripianificare con maggiore efficacia ed efficienza. Si va così a creare il circolo virtuoso PIANIFICAZIONE-ESECUZIONE-VALUTAZIONE-RIPIANIFICAZIONE.
Per realizzare l’approccio sperimentale ed evitare di fermarsi alla pura teoria, col rischio di riportare il marketing nella torre d’avorio dell’astrazione, sono quindi necessari dei metodi di analisi. Che saranno quindi l’argomento della prossima puntata.

Logo Barilla: evoluzione-rivoluzione e ritorno

Premessa: in questi anni di lavoro ho realizzato più volte cambiamenti di immagine di marchi/prodotti in senso evolutivo. Keglevich (2 volte), Limoncè, Brandy Stock, Grappa Julia, Santa Margherita sono i primi che mi vengono in mente. La questione è sempre di modificare l’aspetto dei marchi/prodotti in modo che le persone le percepiscano “meglio” rispetto al posizionamento voluto (più prestigio, più genuinità, più contemporaneità, più freschezza ecc.) senza quasi rendersi conto del cambiamento. In altre parole il prodotto diventa più “bello”, ma se non metto di fianco le due versioni (prima e dopo) difficilmente riesco a dire cosa è cambiato.
Visto che oramai sono vecchio del mestiere ho realizzato anche cambiamenti in senso rivoluzionario. I wurstel Principe sono diventati Wulevù, il Wapping Gin, l’amaro Radis, la grappa Goccia, i vini della Cantina Torresella e quelli della Tenuta Sassoregale. In questi casi l’aspetto delle marche/prodotti è talmente distonico rispetto al posizionamento voluto, che diventa necessario creare una rottura, nei casi estremi facendo un prodotto totalmente nuovo anche in termini di nome e di caratteristiche organolettiche (visto che ho sempre lavorato nell’alimentare).
Pensavo a queste cose oggi quando mi è arrivato l’invito per un convegno organizzato da Barilla, su una carta intestata che riportava il nuovo logo corporate che vedete qui sotto

E’ evidente, magari anche logico e condivisibile, che Barilla abbia voluto cercare di darsi un logo che possa rappresentare meglio l’allargamento del suo ambito di business, eppure non posso fare a meno di chiedermi perchè abbia abbandonato il suo logo storico:

Il nuovo logo corporate sarà anche graficamente è più pulito ed ha proporzioni che ne rendono sicuramente più semplice l’utilizzo sui più diversi materiali, però è artificiale. Sembra la copia fredda (non solo per il colore blu) di quello originale. Non so se è solo questione che quello originale (mantenuto per la pasta) sono abituato a vederlo da quando sono nato, argomento comunque non banale. Secondo mè è soprattutto dovuto al fatto che è troppo uguale, senza essere lui. Una volta qualcuno mi ha raccontato che l’ovale bianco contornato di rosso che fa da sfondo alla scritta Barilla è la stilizzazione di un uovo (che tra l’altro è l’esempio del packaging design perfetto) per richiamare la genuinità e la ricchezza degli ingredienti con cui veniva fatta la pasta Barilla. Non ho mai saputo se la storia fosse vera o meno, però è sicuramente bella ed altrettanto sicuramente poco conosciuta. Se proprio devo decidere che devo mettere una didascalia al mio logo (non proprio un sintomo di forza di marchio) almeno che sia affascinante.
Il logo corporate avrà (forse) guadagnato qualcosa in stile, ma ha perso molto in anima.
Chiudo rispondendo alla prevedibile obiezione che uno è il logo corporate e l’altro è quello di un’azienda (o strategic business unit che dir si voglia): non ho mai creduto alle aziende ed alle marche schizofreniche con personalità dissociata. Una marca è un insieme di segni a cui le persone attribuiscono un determinato significato, quindi o le varianti di marchio sono abbastanza simili da trasmettere lo stesso significato (Barilla corporate o Barilla pasta che sia) oppure sono abbastanza diverse da trasmettere due significati diversi (di conseguenza non capiscono più di cosa si sta parlando).
L’impressione guardando la cosa totalmente dall’esterno è che in Barilla abbiano quello che il mio maestro di scherma rumeno chiamava un attacco a coda di pesce, quando volendo fare una cosa, senza però esserne convinto fino in fondo, veniva fuori una cosa a metà, che andava un po’ da una parte ed un po’ dalla parte opposta.
Il 99% delle volte uno prendeva la stoccata, ma non è detto che questo succeda anche ai signori di Barilla perchè il mondo degli affari perdona molto di più degli avversari in pedana.

La marginalizzazione del marketing NON ha toccato il fondo

Nell’ultimo post (lo so che è passato un po’ di tempo, ma ho avuto da fare) mi ero impegnato ad approfondire gli aspetti concettuali del supposto declino del marketing.
Nel frattempo però ho cambiato idea sull’ipotesi, che è diventata una affermazione, perchè al di là dei concetti ho messo in fila un po’ di fatti (fonte sempre gli articoli vecchi di un anno di Marketing Management):
- dal 1998 al 2007 la quota del budget dedicata al trade marketing è cresciuta dal 56% al 60%, quella per la pubblicità è passata dal 25% al 26% mentre quella per promozioni al consumatore è passata dal 19% al 14%. Ergo le aziende hanno ridotto il loro dialogo diretto con il consumatore, delegandolo in misura maggiore al trade. Anche con la più buona volontà, ipotizzare che qualcosa si sia perso nel trasferimento è il minimo.

- malgrado oggi ci sia una disponibilità di strumenti di analisi del mercato e del consumatore che non ha eguali nella storia, sotto la pressione continua della (presunta) urgenza, l’inquadramento delle situazioni aziendali viene generalmente fatta in modo approssimativo e semplicistico e le decisioni vengono quindi prese di fatto in base ad intuito/esperienza. La media è la madre di tutti i descrittori, bene che vada si fanno distribuzioni di frequenza. Poi ogni tanto qualche alieno riesce a sviluppare strategie basate sull’applicazione di tecniche di analisi multivariata ai semplici dati interni ed ottiene risultati talmente eclatanti da sembrare casuali. Questo senza parlare della mappatura neuronale o dei panel on line, perchè in realtà il punto non sono le tecniche, quanto piuttosto l’approccio focalizzato sulla mera risposta agli stimoli piuttosto che sulla comprensione dei meccanismi che attivano la risposta.

- la funzione marketing ha smesso di essere il centro della creatività aziendale come era in passato (direi oramai più 10 che 5 anni fa), con conseguente perdita della capacità di innovare significativamente e quindi banalizzazione (commodization) delle marche e dei prodotti.

Credo che la lista dei problemi adesso sia sufficentemente lunga e dettagliata. Al prossimo post (spero presto) le soluzioni.

La marginalizzazione del marketing ha toccato il fondo?

Nel suo commento al mio ultimo post Diego Illetterati mi invita ad essere ottimista sul presente e futuro del ruolo del marketing nelle organizzazioni, ricordando che dopo aver toccato il fondo, si può solo risalire.
Sarà che in questo periodo sono particolarmente pessimista, però ho visto abbastanza situazioni aziendali per sapere che toccato il fondo … si può sempre cominciare a scavare. E poi, come si dice a Venezia, el pezo no xè mai morto.
In realtà il punto è cercare di definire la situazione per trovare delle possibili soluzioni.
Buona parte del mio pessimismo mi viene, come già detto, dalle circostanziate analisi che ho letto durante le vacanze.
Particolarmente interessante un articolo di M.Carl Johonson III, senior vice president e chief strategic officer della Campbell Soup Company (non il primo mona che passa, per capirci) ed Henry Rak (consulente). Ecco in sintesi cosa dice.
Uno degli obiettivi principali delle aziende di beni di consumo (Consumer Packaged Goods) è quello dei sostenere una crescita organica e profittevole (scusate l’anglicismo, ma sul momento non mi viene niente di meglio). Non è solo, evidentemente, una delle sfide principali, ma è anche quella in cui sono più alti i fallimenti, anche da parte delle grandi aziende che, in teoria, dovrebbero avere tutti i mezzi per vincerla.
La loro ipotesi è che la ragione principale di questi fallimenti sia il declino delle competenze e capacità di costruzione delle marche, acuito dal mancato utilizzo degli strumenti di analisi del mercato che, ironia della sorte, non sono mai stati potenti come oggi.
Il marketing strategico ha il compito, e quindi deve avere l’abilità, di formulare un posizionamento strategico della marca in grado di guidare ed indirizzare con efficientemente ed efficaciemente la pianificazione di marketing, tanto nella visione di lungo periodo che nelle tattiche di breve. Deve quindi definire con precisione target, scenario competitivo, il benefit della marca, i suoi attributi e la sua personalità.
Se tutto questo può sembrare ovvio, ecco un dato di una ricerca del 2005 realizzata dall’ Association of National Advertiser americana secondo cui i 4.000 dirigenti di marketing interpellati definivano “un-healthy” l’organizzazione e le pratiche di marketing all’interno della propria organizzazione in una percentuale che oscillava dal 64% del settore energia al 31% di quello retail.
Secondo un sondaggio informale (e qui la cosa va presa con le molle) condotta dalla Henry Rank Consulting (la società di consulenza di uno degli autori) presso i dirigenti di marketing di alcune tra le principali aziende produttrici di beni di consumo, questi dichiaravano di destinare solo il 15-30% del loro tempo a fare effettivamente marketing. La maggior parte del loro tempo veniva assorbita da altre attività che afferivano in realtà ad altre funzioni (l’unico parametro serio che conosco io per attibuire effettivamente i compiti alle funzione è quello di chi possiede/genera direttamente il maggior numero di informazioni necessario per svolgere quel compito) oppure potevano essere automatizzati. Gli esempi sono: fare previsioni di vendita, sollecitare feed-backs sui progetti in corso, verificare piani di produzione. Suona familiare a qualcuno dei professionisti di marketing che leggono? Se sì, consolatevi perchè a risultati simili è arrivata anche una ricerca del 2006
Il problema non riguarda solo il presente, ma soprattutto il futuro, nel momento in cui i nuovi professionisti di marketing crescono professionalmente senza capire l’importanza cruciale che ha il posizionamento strategico nella crescita di una marca e quindi non hanno nella loro formazione le basi dell’analisi e del pensiero strategico. Il risultato sarà lo sviluppo di un visione di breve periodo da parte di persone che vengono valutate e promosse all’interno dell’organizzazione in base ai risultati che ottengono nella gestione delle limitate mansioni tattiche che gli vengono affidate.
In sintesi, prendendo l’esempio a prestito da un’altro articolo è che la moggior parte dei professionisti di marketing passa la maggior parte del proprio tempo a servire ai tavoli (prendendo le “comande” delle altre funzioni aziendali), senza guardare al menù, creare nuovi menù e stare in cucina a sviluppare nuovi piatti insieme allo chef.
Soluzioni? Forse è il caso di approfondire ancora un po l’analisi concettuale delle cause.