Ecco cosa ho visto al London International Wine Fair (e non solo).

Ho un certo ingorgo (mentale) di post che dovrei/vorrei scrivere ma non ne trovo il tempo. Allora, visto che sono in ritardo, tanto vale che faccia una salto nell’attualità con alcune impressioni riportare dall’ultimo LIWF (pensare che non ho ancora scritto il post sul Prowein+Vinitaly ed il futuro ridimensionamento del vino italiano).

L’India per il vino italiano sarà la nuova Cina ….. intanto gli indiani presentano i vini di loro produzione in quello che è il loro ovvio primo mercato di riferimento

Una delle categorie di bevande in maggior crescita sono quelle a base vino, uno dei più importanti produttori e l’azienda italiana Bosca che esporta milioni di bottiglie sui mercati esteri nell’indifferenza generale, perchè qui il vino si concepisce solo come storia, territorio, rispetto, autenticità, ecc… intanto i francesi allargano i loro assortimenti con marchi che utilizzano parole italiane (da notare: l’indicazione di un vitigno, l’evidenza del basso grado alcolico, l’indicazione delle calorie, la dicitura in etichetta frontale “Aromatizated wine – product cocktail)

“Vi sono più cose in cielo ed in terra Orazio di quante se ne sognano nella vostra filosofia”. La frase di Amleto vale anche per il vino …. sarà per questo che c’è bisogno di una mappa per orientarsi?

….. magari copiando da altri settori contigui come questa esposizione di whisky all’aeroporto di Zurigo

… oppure ricordandosi che gamification è una delle parole d’ordine del futuro, come facevano i francesi al Prodexpo di Mosca di quest’anno.

(l’anno scorso alla fiera Imbibe, sempre a Londra, Bibendum aveva un pannello con un percorso sensoriale, ma non trovo più la foto).

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Comunque se non siete stati al LIWF, non avete perso molto. Tanto che l’anno prossimo la spostano al (più piccolo e più centrale) Olympia Center.

L’evoluzione del (bisco)marketing: la P di Place diventa PRESENZA e quella di Promotion diventa PERCEZIONE.

In apertura di questo post voglio innanzitutto reiterate la mia assoluta e totale deferenza a Philip Kotler ed al suo testo fondante Marketing Management.

E’ una cosa che ho affertamo e spiegato più volte in questo blog, quindi non mi dilungo oltre, limitandomi a linkare l’ultimo della serie dei post fatti a suo tempo dopo aver partecipato al suo seminario a Milano nel 2007 (tempus fugit). Oppure cercate Kotler all’interno del blog e vedete quanti post vengono fuori.

Fatta questa doverosa premessa per evitare di essere arruolato nelle schiere di coloro che dicono che Kotler oramai è superato solo per darsi un po’ di visibilità, devo anche confessare che la definizione di 2 delle “4P” mi è sempre sembrata risolta in modo non eccezionale.

Mi riferisco alla P di “Place” per definire la distribuzione e, soprattutto, a quella di “Promotion” per definire il complesso delle strategie e tattiche di pubblicità, pubbliche relazioni, promozioni di vendita (sia di prezzo che concorsi ecc…) e vendita diretta.

Se nel caso di “Place” si tratta solo di un termine un po’/molto lato rispetto a quello che descrive, ma nel caso di “Promotion” il termine mi sembra veramente limitato per rappresentare tutto quello che dovrebbe concettualmente comprendere. Tra l’altro le promozioni alla vendita confinano con le strategie di prezzo (che d’altra è una delle caratteristiche con il più forte potere di comunicazione nel posizionamento complessivo di una marca) e le vendite dirette (Personal Selling nella terminologia kotleriana) sono più tattiche di push che strategie di pull. in altre parole, mi sembrano quasi estranee al marketing se non fosse che esistono (eccome se esistono) e quindi non si possono ignorare se si vuole descrivere ed applicare il concetto di marketing nella sua completezza.

Ad ogni modo peccati tutto sommato veniali rispetto alla globalità della teorizzazione del marketing management, sostanzialmente delle licenze poetiche al servizio della forza didattica ed analitica del concetto delle “4P”.

In italiano le cose cambiano perchè le”4P” si perdono. Io ho il vezzo di non utilizzare i termini inglesi se non è strettamente necessario (per dire, uso “mercato obiettivo” e non “target market”) e quindi per Promotion ho spesso usato nella didattica e nelle pubblicazioni il termine “strategie promo-pubblicitarie”. Soluzione didascalica talmente brutta e scomoda che sul lavoro credo di non averla usata mai.

Per la “Place” però non c’è trucco che tenga, si finisce sempre su “Distribuzione” e quindi le “4P” vengono inquinate e quindi indebolite.

Confesso che non essere riuscito a trovare un modo di replicare l’eleganza del concetto di Kotler in italiano è sempre stato un mio piccolo cruccio e così quando l’altro giorno mi sono messo a scrivere la presentazione sull’ABC del marketing del vino per la Vinix Unplagged Unconference (se volete potete votare le presentazioni che saranno discusse il 17 a Genova fino al 31 maggio, però solo se siete iscritti a Vinix. Iscriversi a Vinix solo per votare una presentazione è tecnicamente possibile, ma moralmente censurabile, un po’ come fare il consigliere regionale grazie alle proprie doti come ballerina di burlesque (parenti nella parentesi: ma se quelle erano le cene eleganti, quando la buttavano un po’ in vacca cosa facevano?)), l’altro giorno dicevo mi sono detto che dovevo trovare un modo almeno decente di mantenere intatte le “4P” anche in italiano.

L’ispirazione mi è venuta dall’evoluzione del contesto determinato dall’affermarsi del web nella nostra vita (alla VUU modererò la sessione sull’e-commerce).

Ecco allora che per rappresentare meglio l’attuale multicanalità della distribuzione dei prodotti (non solo e-commerce, ma anche negozi temporanei, ristoranti che vendono gli arredi ecc…) ho tradotto la P di “Place” con PRESENZA. Termine che aiuta a pensare le strategie distributive in termini, appunto, di PRESENZA del prodotto nei luoghi (analogici o digitali) dove si trovano i consumtori.

La P di “Promotion” invece l’ho tradotta con PERCEZIONE. Anche qui la logica è rappresentare la frammentazione dei diversi canali e delle modalità attraverso cui le persone si creano l’opinione sulle marche e quindi indirizzare il pensiero delle strategie comprese nel concetto kotleriano di “Promotion” in base al risultato che avranno sulla percezione della marca (secondo voi i gestori di telefonia si sono mai chiesti che influenza hanno sulla percezione della marca le loro invasive campagne di telemarketing?).

Magari non sarà una soluzione perfetta, ma mi sembrano licenze poetiche accettabili per avere davvero, finalmente, anche in italiano le “4P” del marketing.

Se volete vedere la presentazione la trovate qui. Ovviamente mancano tutti i commenti e gli approfondimenti che farò a voce perchè una buona presentazione devono contenere solamente gli spunti e le sottolineature necessarie all’oratore. Se viene votata tra le prime 10 li sentirete a Genova (se venite), altrimenti bisognerà trovare un’altra occasione.

La disoccupazione continua ad essere argomento di crescente dibattito, quindi il mio post conclusivo sull’argomento non è ancora fuori tempo massimo..

A proposito della Coca Cola…..

Non sono d’accordo con i due commenti che Daniele Zanette e Diego Illeterati hanno fatto al mio ultimo post (questo ovviamente NON significa che io abbia ragione).
Troppo comodo pensare che le attività della Coca Cola hanno successo sempre e comunque grazie all’ampiezza dei budget. Almeno per 4 motivi:
1. I budget di cui dispone la Coca Cola sono commisurati all’ampiezza dell’audience, alla portata degli obiettivi da raggiungere ed alla forza dei concorrenti.
2. Le strategie mal pensate e peggio realizzate portano ai flop clamorosi di cui è pieno il mercato; e più grandi i budget, maggiori le perdite. Lo dico perchè viceversa le grandi multinazionali non sbaglierebbero mai un lancio (restando alla Coca Cola, ricordo il disastroso lancio della New Coke nel 1985, indipendentemente dal fatto che siano poi riusciti a trasformarlo in un successo), lo dico perchè l’ho visto succedere, anche sotto il mio naso. E questo è tanto più vero oggi perchè la frammentazione dei media, il moltiplicarsi dei messaggi, il conseguente abbassarsi dell’attenzione e la fruizione attiva del mezzo web hanno alzato il livello di investimento in mezzi e risorse umane per coprire in modo effettivamente massiccio l’audience.
3. Anche nel caso di una pressione comunicativa che permette di far passare comunque il messaggio (esempi emblematici Ferrero e Mulino Bianco in TV), una strategia concettualmente forte e chiara, ben realizzata renderà l’investimento nei mezzi più efficace di una strategia debole, mal realizzata. Lo so che sembra (è) una tautologia, però proprio il fatto che un grande budget porta spesso comunque qualche risultato, rischia di mascherare innefficacia ed inefficienza nello definizione della strategia e nella sua realizzazione.
4. Soprattutto è troppo comodo ridurre l’efficacia delle strategie di Coca Cola al budget nel momento in cui il diffondersi della fruizione del web per le attività più diverse (informative, ludiche, sociali, ecc….) ha abbassato enormemente i costi di accesso alla propria audience.

La differenza la fanno sempre di più le idee e la capacità di realizzarle/trasferirle in modo coerente, trasparente ed efficace alla propria audience.

Oggi efficace significa anche che le strategie devono avere una componente tattica (essere un moltiplicatore dei risultati a breve) e le tattiche una componente strategica (supportare e rafforzare il posizionamento/l’identità della marca).

Però misurare le strategie di pubblicità e PR in base agli effetti sul breve è una miopia di breve periodo che porterà giocoforza a ridurre gli investimenti sulle fondamenta della marca e quindi ad indebolirla nel medio periodo. Credo che l’evoluzione del settore nel mobile del manzanese sia emblematico in questo senso. Chi ha avuto la capacità di sviluppare una visione del proprio business è sopravvissuto (e magari prospera), chi ha cercato di resistere nel breve con una concetto di produzione o, bene che andasse, con una concetto di vendita sofre (o purtroppo è sparito).

E’ per questo che è importante imparare da quelli bravi, indipendentemente dal fatto che siano grandi o meno. Spesso però i grandi hanno la necessità e la mentalità di misurare gli effetti di quello che fanno per le ragioni di cui sopra, quindi fanno più ricerche ed analisi.

Tornando alla Coca Cola, giovedì ero in giro, mi fermo in autogrill e vedo le bottiglie della Coca Cola con i nomi di persona, mentalmente mi tolgo il cappello davanti all’idea che hanno avuto che uno possa prendersi la Coca Cola con il suo nome, mi avvicino per prendere la MIA Coca Cola e quando leggo l’etichetta vedo che gli strateghi della Coca Cola sono andati oltre le mie aspettative (always try to exceed consumer expectations diceva il mio professore di Marketing Management in Canada).
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Non si tratta, egoisticamente, di comprare la MIA Coca Cola, ma di condividere una Coca Cola, un momento di felicità, con una persona ben precisa. Non vi piacerebbe che qualcuno comprasse per voi una Coca cola con il vostro nome? Oppure non vi sembra una buon sistema di rompere il ghiaccio con qualcuno appena conosciuto quello di dargli una Coca Cola con il suo nome? Oppure con un aggettivo che lo rappresenta (a me sono sembrati in sincerità un po’ artificiali, ma magari è perchè sono fuori target)?
Sottolineo l’uso della parola “condividere”, che 10 anni fa sarebbe stata obsoleta e troppo aulica, ma oggi è assolutamente familiare nel linguaggio del web. D’altra parte il claim globale è o non è “share the happiness“.
Qui non si tratta di budget, qui si tratta di sviluppare una strategia che fa evolvere la marca, declinando i valori universali su cui si basa la sua identità in modo da mantenerne la vicinanza ad un target sempre più ampio in una logica additiva e non sostitutiva. Più che spostarsi, la personalità della marca si allarga.
Strategia di comunicazione sul pack (già ai tempi della Keglevich ho sostenuto ed utilizzato il fatto che 1,5 milioni di bottiglie sugli scaffali sono un media, figuriamoci 350) che si integra egregiamente con la campagna di comunicazione sui media “classici” in cui il Presidente 17enne della Coca Cola (in un paese gerontofilo, messaggio forte) annuncia a tutti, in special modo alle mamme (ampiezza del target) la sua decisione di regalare 1 bicchiere di felicità (non sconti, tagli prezzo o 3×2).
Un percorso forte e coerente inziato nel 2009 con la campagna della semplicità in tavola, proseguito nel 2010 con quella della formula della felicità e nel 2012 con la campagna “Ceniamo insieme” con protagonista Simone Rugiati.

Quindi secondo me la strategia della Coca Cola ha successo innazitutto per la validità dei concetti, la coerenza della strategia e la bontà della realizzazione.

Dopodichè nessuno è perfetto: nello scirvere questo post sono andato sul sito www.cocacola.it e non è bello trovare la scritta “stappa la felicit” senza la “a”, nè la finestra di fb bianca.

Per concludere, e non lasciare Diego senza risposta, la ricerca di Facebook e Datalogix non dava un risultato della pubblicità su fb 3 volte superiore ai media tradizionali. Dava, nel 70% dei casi, un ritorno pari almeno a 3 volte l’investimento media.

Comunque se penso alla multicanalità nella fruizione dei media ed ai canali di acquisto (mi informo sul web anche per gli acquisti off line) non mi stupisce che la pubblicità su fb abbia dei meccanismi simili a quelli dei media tradizionali. D’altra parte anche youtube alla fine non altro che una TV. Solo che posso targettizzare l’esposizione allo spot molto peglio che con tutti i mezzi off line.

E’ tardissimo, buonanotte.

Teoria e tecnica della comunicazione (digitale) 2.

Quando il primo maggio ho scritto il primo post su questo argomento non prevededo una seconda puntata.

Poi però mi sono accorto che gli interessanti stimoli forniti dalle pubblicazioni dell’American Marketing Association, mi avevano fatto dimenticare lo spunto da cui originariamente avevo avuto l’idea di scrivere su questo argomento.

Lo spunto in questione è stata la notizia dello scorso 19 marzo secondo cui uno studio condotto dalla Coca Cola rilevava che il livello di buzz della marca aveva un effetto praticamente nullo sulle vendite a breve termine.

Ora al di là dei distinguo fatti dal management della Coca Cola già nel comunicare i dati della ricerca e dall’innegabile moda per cui molte aziende investono (investivano) in attività web, social, buzz etc.. senza darsi degli obiettivi precisi nè dotarsi di strumenti di misurazione dei risultati, la notizia mi è sembrata fin da subito una s…tupidaggine.

Per la serie le ricerche bisogna saperle scrivere ogni analisi deve essere realizzata con un obiettivo di ricerca relativo ad un’ipotesi sul fenomeno analizzato. E l’ipotesi che il buzz abbia un rilevante effetto sulle vendite a breve termine mi sembra, quanto meno, sorprendente.

Secon l’approccio, che a questo punto definirei classico, del Kotler il Promotion mix che compone la “P” di promotion delle “4 P” marketing è formato da pubbiclità (advertising), pubbliche relazioni (publicity), promozioni alla vendita (sales promotion) e vendita diretta (personal selling). I primi due strumenti hanno prevalentemente la funzione di fornire alle persone ragioni per l’acquisto mentre gli ultimi due svolgono la funzione di fornire incentivi all’acquisto.

E’ evidente che l’effetto di pubblicità e PR si realizza nel periodo medio-lungo mentre promozioni e vendita diretta agiscono nel breve.

Ora, mantenendo l’approccio per cui l’avvento del web ha influenzato prevalentemente le modalità operative del marketing e della comunicazioni, non i concetti, io assimilerei il buzz alle PR. Ecco quindi che scoprire che non c’è una forte correlazione tra buzz e vendite a breve termine non mi stupisce.

C’è poi l’altra questione della difficoltà di misurazione degli effetti delle diverse attività di marketing sulle vendite, soprattutto di quelle che hanno il compito di creare il posizionamento della marca, ossia una predisposizione favorevole da parte del mercato (a quanto ne so le tecniche quantitative più efficaci sono ancora le regressioni doppio log con le vendite come variabile dipendente e gli investimenti nelle varie attività di marketing come variabili indipendenti, analisi sui cui limiti non mi sembra il caso di entrare qui).

Restando a livello concettuale è chiaro che l’effetto di un taglio prezzo (promozione alle vendite) o di una attività di telemarketing (vendita diretta) è fortemente influenzato dalla conoscenza e dall’immagine della marca creata dalle attività di pubblicità e PR realizzate non solo nel momento in cui taglio prezzo e telemarketing vengono realizzati, ma anche nei periodi precedenti. La difficoltà però sta nel separare l’effetto di pubblicità e PR dal resto.

In Coca Cola ne sono ovviamente ben coscienti, come dimostra questo intervento di Wendy Clarck, Direttore di Comunicazione di Marketing integrata della Coca Cola.

Ma c’è un altro motivo per aspettare prima di cantare il de profundis della comunicazione (in senso ampio) sul web. In base alle ricerche condotte dalla Datalogix sulle campagne pubblicitarie realizzate su Facebook risulta che i banner pubblicati sulla colonna di destra del nsotro schermo hanno un ritorno che, nel 70% dei casi, è superiore di tre volte rispetto al costo dell’investimento. Secondo queste ricerche le modalità con cui agiscono questi banner sono assimilabili a quelle degli spot TV (si torna al modello teorico kotleriano classico).

Quelo che invece è sorprendente è che secondo questi dati non c’è alcuna correlazione tra l’efficacia della campagna banner ed il numero di clik sul banner stesso. E questo mette un forte dubbio sul Sacro Graal della misurazione dell’effecicia della comunicazione on line.

Consiglio vivamente di leggere il breve articolo sull’argomento pubblicato su l’Internazionale n. 993.

La prossima volta concludo le disquisizioni su occupazione e disoccupazione, promessa.

Teoria e tecnica della comunicazione (digitale).

Dopo l’ultimo post su occupazione e disoccupazione un amico mi ha detto che sto sfocalizzando troppo il blog, che rischio il delirio tuttologico e l’appannamento della credibilità dedicandomi ad argomenti in cui non sono esperto.

C’è del vero, quindi ribadisco il core business di questo blog con un post strettamente di marketing, ispirato anche dal fatto che durante il recente viaggio di lavoro a Chicago, sulla strada per l’aeroporto ho trovato una mezz’ora per passare per gli uffici dell’American Marketing Association, rinnovare la mia iscrizione e recuperare i vecchi numeri di Marketing Management che non avevo ricevuto (da qualche parte c’è un postino esperto di marketing).

Comincio dicendo una cosa che ho ripetuto spesso nei miei post; i principi del buon marketing non sono cambiati (molto) nel tempo e non cambiano tra i diversi settori, quello che cambia è il contesto e quindi le modalità di applicazione.

Dimostrazione
Questi sono i principi di una buona pubblicità presentati da un manager di una grande agenzia italiana/multinazionale al master SMEA nel1988 (per capirsi 5 anni prima che fosse creato il World Wide Web e quando il fax era una novità che avevano solo qualli più all’avanguardia): una buona pubblicità deve
- essere rivolta direttamente al consumatore;
- espressa nel linguaggio che il consumatore utilizza normalmente;
- concentrata su una sola idea;
- concentrata sull’idea chiave identificata dalla ricerca di mercato;
- avere un trattamento unico e competitivo;
- essere credibile, non ingannatoria;
- essere semplice, chiara e completa;
- avere un messaggio combinato strettamente con il prodotto (servizio) che promuove;
- sfruttare pienamente il mezzo utilizzato;
- spingere all’acquisto.

Cambiate pubblicità con comunicazione ed avrete delle ottime linee guida per le vostre strategie di comunicazione (anche digitali) nel 2013.

In realtà la differenziazione digitale/analogico è solamente tecnica, non concettuale perchè tutto avviene nella testa delle persone e la testa è una.

In un’intervista David Meerman Scott dice giustamente che se qualcuno cerca informazioni riguardo ad un prodotto sul web non gli interesse se le trova attraverso google o i propri contatti, se le trova su un blog, un articolo, un video su youtube oppure il sito di un’azienda. La migliore informazione (in termini di completezza e credibilità n.d.a.) sarà quella che vince.
Io aggiungo che mi sembra sbagliato limitarsi solamente al web, lo stesso ragionamento vale se l’informazione arriva da uno spot TV/radio, da un giornale stampato, dal commento di un amico/conoscente. Il mondo delle persone è uno solo e dentro c’è sia l’off che l’on line.

Lo stesso autore identifica 4 modalità che le organizzazioni hanno per generare attenzione nei loro confronti, le prime tre legate all’analogico e la quarta legata al Web.
1. BUY Le organizzazioni comprano attenzione (si chiama pubblicità).
2. BEG Le organizzazioni elemosinano attenzione (si chiamano pubbliche relazioni).
3. BUG Le organizzazioni scocciano le persone una alla volta per avere la loro attenzione (si chiama vendita diretta).
4. EARNLe organizzazioni ottengono attenzione on line creando contenuti interessanti e pubblicandoli gratuitamente sul web.

A parte che sarebbe stato più elegante trovare un termine che iniziasse con la “B” anche per l’ultima modalità (bring in non ha esattamente lo stesso significato, però è un buon sinonimo ed avrebbe permesso di parlare delle “4B”), non sono d’accordo con questa visione concettualmente web centrica.

La rilevanza del messaggio (sintesi di interesse del contenuto, credibilità dell’emittente e visibilità del mezzo) è comunque la precondizione per avere l’attenzione dell’audience (che altro non è se non un sinonimo di “segmento di mercato”).
Viceversa la pubblicità resta un mero acquisto di spazi media, le PR uno spreco di carta che finiscono nel cestino dei giornalisti/bloggers/lettori (a seconda del livello a cui bengono cestinate e scocciare le persone rimane esattamente scocciare le persone, quindi un boomerang comunicativo.

Le differenze tecniche nell’attuale ambiente socio-mediatico riguardano la facilità, basso costo e rapidità con cui è possibile diffondere i messaggi sul web, messaggi che possono poi riverberarsi sui media off-line se sufficientemente rilevanti.

L’implicazione, sottolineata da Scott è che si riduce il vantaggio competitivo della dimensione e del potere d’acquisto dei media da parte delle organizzazioni a favore della velocità e dell’agilità (io ci aggiungerei anche capacità ed accuratezza, elementi costitutivi della credibilità). In altre parole un concetto che ho imparato nel 1994 e mi è capitato di utilizzare spesso in azienda: non sempre il più grande batte il più piccolo, ma (quasi) sempre il più veloce batte il più lento.

Ma veloci in cosa? Già in passato in un vecchio post ho detto che nessuno compra prodotti, tutti comprano i servizi che ottengono dall’uso dei prodotti.
John Deighton in un’altro articolo da un’interessante definizione di quello che è il modello di business del nuovo secolo dicendo che siamo tutti nell’editoria nel senso che il modello di business in tutti i settori si basa(baserà) sulle capacità di creare contenuti, cercarli, selezionarli e disseminarli verso un audience, mappare il percorso dell’audience rispetto ai contenuti disseminati e, alla fine, monetizzare. Ogni azienda dovrà definire il proprio posto nello scenario competitivo attraverso i contenuti che è in creado di creare o aggregare. Cambiano le tecniche, ma il concetto di positioning come quello che rappresenta l’azienda/marca nella testa dei consumatori rimane sostanziale immutato.

Adesso che ho ribadito il mio diritto di cittadinanza nel territorio del marketing, posso dedicare il prossimo post alla seconda puntata degli effetti della crisi su occupazione e disoccupazione (lasciare il primo in sospeso non sarebbe serio e pure antizodiacale