Cos’è (e a cosa serve) il posizionamento.

Oggi torno all’essenza più pura del bisco-marketing, ossia del marketing secondo me (boom!) e lo faccio trattando un argomento apparentemente teorico, ma in realtà molto pratico, che spesso non viene approfondito come merita nella disciplina di marketing (premetto che ahimè ho lasciato in ufficio il Libro, intendo Marketing Management del Kotler, e quindi non sono riuscito a verificarne la trattazione che ne fa la bibbia del marketing.)

Se divento dottrinale fermatemi.

La migliore definizione di posizionamento rimane quella che ho sentito Thomas Funk, mio prof. di marketing in Canada, in una gelida mattina di dicembre (inizio lezione ore 8:00 a.m.): “il vostro posizionamento è quello che rappresentate nella testa del consumatore” (definizione che credo comunque essere Kotleriana).

Con l’esperienza di questi anni di lavoro io modificherei leggermente questa definizione e direi che “il posizionamento definisce quello una marca/organizzazione vuole rappresentare per il mercato”, dove “mercato” va inteso nell’accezione più ampia dei portatori di interessi (stakeholders). Poi ogni marca deciderà con quanta forza e con quali aspetti della propria personalità vuole rappresentare qualcosa per i diversi segmenti di portatori di interessi (lo so: ho già inserito altri concetti senza spiegarli, continuate a leggere …).

In realtà sono vere entrambe le definizioni, come spiega con estrema chiarezza questo post del Dr. Narayana Rao che raccoglie il pensiero di Kotler.

La seconda definizione si riferisce alla definizione dell’identità della marca, mentre la prima all’immagine che ne viene percepita dai consumatori.

E’ evidente che quanto la definizione dell’identità è chiara, forte e coerente con l’effettiva personalità della marca e tanto più ci sarà corrispondenza tra questa e l’immagine proiettata, quindi percepita, all’esterno.

Il “vuole” nella mia definizione infatti non significa che la definizione del posizionamento che rappresenta la personalità aziendale deve essere un auspicio. Significa che la definizoine del posizionamento deve esprimere una tensione verso quelli che SONO i valori dell’azienda e,soprattutto, verso la loro realizzazione con tutte le attività aziendali. “Vuole” sottolinea il fatto che la definizoine del posizionamento rappresenta una scelta che va confermata continuamente con il proprio comportamento.

Ne consegue che la definizione del posizionamento non può essere la somma delle diverse percezioni di sè e del proprio ruolo (come marca/organizzazione) che hanno le diverse persone/funzioni, ma deve esserne la SINTESI.

Solo in questo modo riuscirà ad essere allo stesso tempo precisa nel rappresentare la marca/organizzazione in modo chiaro ed unico, ma sufficientemente ampia da rappresentare un punto di convergenza per tutte le persone coinvolte con la marca/organizzazione.

Solo in questo modo diventerà la “mano invisibile” (termine utilizzato da kotler riferendosi alla mission aziendale) che allinea “automaticamente” tutte le attività legate alla marca/organizzazione (sia che vengano realizzate da soggeti interni che esterni all’organizzazione) verso un unico sistema di valori coerente perchè condiviso.

Questo si traduce in maggiore efficenza ed efficacia nell’attività dell’organizzazione perchè il posizionamento scelto definisce quali ambiti gli appartengono e quali no e come i primi vanno presidiati. In parole povere cosa e come l’organizzazione può e deve fare (prima che mi diventiate troppo talebani vi linko un mio vecchio post dal titolo: “Il posizionamento della vostra marca è davvero così stretto?”).

Viceversa se la definizione del posizionamento risulta generica, espressione di auspipci più che di aspirazioni legittimate dalla realtà aziendale, o, peggio ancora, avulsa dall’affettiva personalità dell’organizzazione si trasforma in un formalismo inutile o, più spesso, dannoso.

Crea infatti delle inefficienze per l’incoerenza tra quello che si dichiara di voler fare e quello che si può e vuole effettivamente fare.

Mi rendo conto che forse sarebbe opportuno spipegare un po’ più diffusamente qualche concetto, però e già tardi quindi vi auguro buonanotte e resto disponibile a tutti gli spunti che vorrete darmi con i commenti.

Autosegreteria.

Nel 1999 l’azianda in cui lavoravo assunse un consulente che mi chiese di fare un’analisi dell’allocazione del mio tempo lavorativo. “Autosegreteria” è il termine che ho coniato per definire il tempo che dedicavo all’archiviazione di corrispondenza in entrata ed uscita, riviste e documenti vari.

Il termine mi è tornato in mente perchè la scorsa settimana mi è successo per ben due volte che dei clienti mi contattassero per questioni operative urgenti, convinti che parlare con il Direttore fosse il modo migliore per garantirsi che la questione sarebbe stata affrontata con la giusta (massima) rilevanza ed urgenza.

Un giorno ero fuori ufficio ed ho visto la mail delle 9:00 di mattina alle 4:00 del pomeriggio solo perchè sono tornato prima del previsto (altrimenti l’avrei vista il giorno dopo), un’altro ero con dei clienti ed ho vista la chiamata dopo 3 ore.

Viceversa le persone incaricate di seguire le due questioni erano in azienda perfettamente disponibili

A parte dimostrare che sono un antico che non riceve le mail sullo smartphone e spegne il cellulare se è in un incontro importante, l’aneddoto mi ha fatto riflettere sulla tendenza a risolvere per via verticistica la disorganizzazione aziendale. Attenzione la cosa non riguarda la mia azienda, riguarda un numero sempre maggiore di aziende (in primis quelle di chi mi ha cercato) perchè all’autonomia operativa (io non ho mai dettato una lettera all’assistente, ci metto meno a scriverla) e la possibilità di condividere le informazioni generate dalla rivoluzione digitale (l’uso dei computer, per parlar chiaro) non ha corrisposto una riorganizzazione del lavoro.

Mi spiego meglio: quando ho iniziato a lavorare, nel 1994, l’azienda aveva da poco eliminato la posizione del responsabile dell’archivio. Scelta perfettamente logica, che però è stata accompagnata (o no, non ricordo) dalla definizione delle regole di archiviazione, perchè altrimenti dopo un mese non si trova più niente e, soprattutto, ogni volta che si deve archiviare un documento bisogna andare a chiedere come fare al responsabile dell’ufficio (almeno).

Viceversa le persone hanno gli strumenti tecnici per fare (di più), ma mancano delle informazioni per fare bene. Il risultato è che sempre più questioni per andare avanti devono essere risolte ad un livello superiore, dove ci sono le informazioni e/o le responsabilità.

Già in Stock, credo fosse il 2005, dicevo che il top management faceva il middle management, il middle management faceva l’impiegato e l’impiegato …. aspettava che gli dicessero cosa doveva fare.

L’intensificarsi della turbocompetizione, con la richiesta di fare sempre di più in sempre meno tempo, unita allo sviluppo degli strumenti di comunicazione sta peggiorando la cosa: un cliente risponde alla mia mail con un sms, io poi lo chiamo su skype per chiarirci a quattrocchi, poi il giorno dopo lui mi conferma gli accordi su whatsapp. Quando dopo due mesi su quella questione viene fuori un problema io come accipicchia ricostruisco la “pratica”.

Non ho dubbi che l’unica risposta valida sia più, non meno, organizzazione e l’empowerment (google traduttore in italiano lo traduce come … empowerment) delle persone attraverso lo sviluppo delle diverse componenti della conoscenza: competenze, esperinze, informazioni.

La voglia non costa niente, ma rende molto.

I libri non si devono valutare dal numero di pagine, i quadri non si devono valutare dalla dimensione ed i post non si devono valutare dalla lunghezza.

Settimana scorsa mi si esaurisce la batteria del cellulare (vecchio Samsung Galaxi del 2011, ma ancora in vendita). Ladurata era diventata di circa mezz’ora e se parlavo mi si spegneva anche collegato al caricabatterie della macchina.

Vado in due negozi di telefonia cellulare a Trieste (uno Vodafone come l’abbonamento ed uno no) ed ottengo la stessa risposta: questa non l’abbiamo. Vado in un Media World sicuro di trovare la batteria, anche se non originale, quanto meno per la superfice del negozio, e la commessa mi fa “Non teniamo batterie, le batterie si comprano su internet”(????!!!!).

Provo in un negozio di telefonia a Oderzo: “in casa non ce l’ho, se vuole la ordino ed arriva in una settimana”.

Provo, tanto perchè ci sono passato davanti, nell’unico negozio di telefonia di Salgareda dove c’erano due clienti prima di me, mostro il telefono. Negoziante: “Credo di averla, mi lasci controllare”, tira fuori svariati modelli di batteria (almeno ne aveva) “No, mi spiace, se vuole la ordino e arriva domani”, “No, grazie lo stesso” faccio io ….. “Aspetti un momento” fa lui, apre la vetrina con i telefoni in esposizione e prova ad aprire i vari Samsung fino a che non trova quello che ha la batteria uguale alla mia.

Non credo che i 25 euro che ha incassato gli abbiano cambiato la giornata. E’la consapevolezza del proprio lavoro che fa venire la voglia di farlo bene e questo fa la differenza.

Domanda per tutti quelli che hanno la responsabilità della gestione di persone: date la consapevolezza del loro lavoro e del loro ruolo ai vostri collaboratori? Sono pronti a fare un passo in più per risolvere le situazioni?

Sempre di più fa e farà la differenza tra il successo e l’insuccesso delle organizzazioni.

Il marketing virale di successo si può pianificare (!)(?)

Oggi avevo in mente di scrivere un post, alquanto pessimistico, sulla visione di Oscar Farinetti su come affrontare la crisi che attraversa il paese. Poi però ho pensato di curare un po’ il mio karma (evitando le negatività) e magari anche le statistiche di biscomarketing che vedono le visite in picchiata.

Allora ho deciso di concentrarmi sul punto di forza del blog, ossia il marketing strategico, evitando di lanciarmi ancora una volta in ragionamenti sui massimi sistemi, argomento su cui la mia credibilità langue.

Prendo quindi spunto da un articolo dell’ultimo numero di Marketing News, che ha intervistato il prof. Jonah Berger, autore del libro “Contagious: why things catch up” che raccoglie i risultati delle sue ricerche sul marketing virale (il link al sito del prof. Berger potrebbe valere da solo questo post).

Ovviamente nell’intervista Berger non spiega tutto, altrimenti perchè comprare il libro, ma quello che spiega è già sufficente per migliorare una strategia di marketing virale.

Condivido con il prof. Berger lo stupore per il mistero di cosa diventa di tendenza e cosa no, lui però ha studiato e dice che, passata la prima sorpresa, ci sono elementi comuni che caratterizzano la diffusione di idee e contenuti, anche molto diversi tra loro.

L’argomento mi sembra di estremo interesse perchè è da oltre dieci anni che periodicamente qualche agenzia di pubblicità/pr mi propone una strategia basata su iniziare un’attività/un racconto/ecc… per poi vederla crescere grazie alla rete/comunità. Le centinaia (migliaia?) di profili facebook aziendali che languono sono la dimostrazione che le cose non sono così semplici ed automatiche.

Da buon americano ha creato un acronimo (potenza della semiotica): STEPPS = Social currency (rilevanza sociale), Triggers (attivatori), Emozioni, Public (pubblico), Practical value (valore pratico), Storie.

I casi di marketing virale di successo hanno alla base un mix di questi fattori.

La base della ricerca nasce dall’analisi nel 2011 dei contenuti dei 7.000 articoli più condivisi del New York Time. Innazitutto si è riscontrato che le persone sono meno propense a condividere le storie tristi (vedi il karma di cui sopra?), mentre quelle condivise sono quelle che suscitatano emozioni forti come rabbia, stupore, ansia o meraviglia.

L’implicazione pratica è che la creazione di contenuti genericamente positivi che contraddistingue la gran parte (totalità?) dei contenuti creati dalle aziende hanno poca probabilità di essere condivisi. Detto in altri termini: per avere emozioni forti (condivisione dei contenuti) devo offrire emozioni forti.

Oppure trovare degli attivatori. La campagna Kit Kat “Give me a break” con il trigger pausa caffè (coffee break) ha portato un aumento di vendite del +8%.

L’analisi suggerisce anche come l’importanza che spesso viene data agli “influenzatori”, a far arrivare il messaggio alle persone “giuste”, appaia eccessiva. Non ci sono evidenze come il fatto che provenga da una fonte “popolare” stimoli la condivisione di un messaggio tanto quanto le caratteristiche dei contenuti. Il punto quindi è concentrarsi nel creare messaggi che si diffondano da persona a persona, indifferentemente se le persone hanno 10 o 1.000 amici. L’aumento delle interconnesioni tra le persone fa sì che la differenza sia soprattutto nella velocità del risultato.

Dalla relativa rilevanza degli influenzatori deriva la cruciale implicazione del potenziale rappresentato dagli attuali consumatori di una marca in ragione di una considerazione talmente semplice da essere banale: gli attuali consumatori sono persone a cui la marca piace già.

Sono le persone che più facilmente parleranno della marca, se gli si aiuta a farlo. Ed aiutarli ha più a che vedere con le storie ed i contenuti che gli si dà piuttosto che con gli strumenti, i quali diventano ogni giorno più diffusi, accessibili e banali.

Come dice Berger: smettete di focalizzarvi sulla tecnologia e concentratevi sulla psicologia. Anche perchè, come ho già detto lo scorso 18 agosto, quando il mezzo diventa mainstream non fa più il messaggio.

A rafforzare l’importanza della psicologia Berger aggiunge un dato sorprendente, che vi giro così com’è: l’85% del passaparola avviene faccia a faccia e solo il 7% avviene on line (dell’altro 8% non so).