Franciacorta: non è uno spumante, non sono bollicine, è un vino!

Poco fa ho sentito per radio lo spot della Franciacorta (inteso come DOCG, non è così chiaro all’inizio), dove viene definito come “un vino”.

Purtroppo non riesco ad essere più preciso perchè lo spot in rete non lo trovo, nemmeno tra le news del sito del Consorzio (lo so che gli speacker radiofonici sono rognosi con la cessione dei diritti, ma almeno la news che partiva la campagna!).

Ora chiedo al Consorzio (ciao Maurizio), non è che la definizione “un vino” sia un po’ scialba, al di là della genericità già evidente nella semantica?

Oggi come oggi dire “Un vino” non mi pare un concetto particolarmente positivo ed attraente per il consumatore, bene che vada è ininfluente, con il forte rischio che sia deleterio rispetto al percepito di “spumante/bollicine” in generale.

Sicuramente mi sento di dire che è sminuente per la percezione che ha raggiunto il Franciacorta sul mercato in termini di qualità, reputazione ed appeal. In sintesi per il posizionamento che ha nella testa del consumatore e dei portatori di interesse sul mercato(stakeholders come dicono quelli seri). Non mi dilungo su cosa significa “posionamento”, se volete approfondire potete leggere qui.

Detto in altre parole, e volendo parlare per slogan, per me “il Franciacorta è più di un vino” (dopo avere regalato il claim “Conegliano e Valdobbiadene: dove il Prosecco è Superiore” continuo nella tradizione. Si vede che gli spumanti mi ispirano in modo particolare).

Da parte mia per le prossime festività vi auguro di bere vino spumante all’aperitivo, a tutti pasto e con il dessert, perchè le bollicine mettono sempre allegria e vi faranno sentire più felici (l’altro post di oggi sulla felicità lo trovate qui).

I soldi fanno la felicità solo fino ad un certo punto. Adesso sappiamo quale!

Trafiletto a pagina 101 del numero 1.029 del 6/12/13 dell’Internazionale: secondo una ricerca pubblicata su Plos One, la soddisfazione delle persone aumenta con l’aumentare del loro reddito fino a 15.000 dollari (annui presumo), rimane costante fino ai 36.000 e dopo questo importo diminuisce leggermente.

Ecco trovato il rapporto tra PIL (prodotto interno lordo) e FIL (felicità interna lorda).

A me sembra un’informazione rilevantissima, sia a livello personale che a livello collettivo nella (ri)definizione del sistema e delle politiche economiche e del lavoro.

Un bel punto di partenza per ragionare sul “peso insostenibile del lavoro che ti permette di guadagnare, ma non di vivere” come scrive Lee Marshall a pagina 84 dello stesso numero dell’Internazionale recendenso il fil TIR di Alberto Fasulo.

Biscomarketing chiude per le festività natalizie (ma oggi doppio post, l’altro lo trovate qui).

A tutti il mio augurio di esser felici.

Eterodossia ed innovazione.

Negli ultimi tre mesi mi sono trovato a riflettere sul concetto di “eterodossia” (i motivi che mi hanno spinto a farlo non sono importanti).

Questa riflessione mi ha portato al convincimento che il senso delle situazioni si può comprendere in larga misura partendo dal significato preciso delle parole che le descrivono. I ragionamenti sul concetto di eterodossia sono infatti proseguiti per quelle che potrei definire “tautologie successive”.

A ben guardare anche il titolo è una tautologia come si nota analizzando il significato della parola eterodossia:
Wikipedia: Con la parola eterodossia, dal greco heteros («diverso», «differente») e [[Doxa (filosofia)|doxa}} («opinione», «dottrina]]») ci si riferisce ad una serie di opinioni, ideologie, scelte di vita o credenze non in linea con quelle dominanti o maggiormente diffuse. È spesso usata, in modo contrastivo con ortodossia, per sottolineare e rivendicare la propria posizione non allineata a quella tradizionale.

Devoto-Oli: Atteggiamento di totale o parziale distacco dalle idee imposte o subite dalla maggioranza in determinati campi..

L’eterodossia è importante dal punto di vista della strategia (aziendale) perchè è la base dell’innovazione (o volendo si può anche dire che l’innovazione è sempre eterodossa), ergo del progresso (delle persone, delle organizzazioni, ecc…Scegliete voi la dimensione a cui volete riferirvi).

Risulta interessante come l’eterodossia si definisca in base all’ortodossia (non viceversa) perchè in realtà l’innovazione di successo nasce (quasi sempre) dal SUPERAMENTO dell’ortodossia. Citando Picasso “A quattro anni dipingevo come Raffaello
mi ci è voluta una vita intera per imparare a disegnare come un bambino”
.

Non si tratta di fare qualcosa di diverso dal solito per il semplice gusto di farlo o per spirito di contraddizione. Si tratta di trovare un modo nuovo e proprio per risolvere le situazioni meglio di quanto non si possa fare con i modi ortodossi. L’eterodossia efficente parte dai limiti dell’ortodossia, che possono essere risonosciuti solamente se si ha il dominio della materia.

Conoscere la genesi dell’eterodossia che si ha di fronte serve per valutarne la credibilità e quindi ridurre la (forte) resistenza al cambiamento delle organizzazioni che puntano a garantire e massimizzare efficacia ed efficienza.

Per definizione (tautologia) l’eterodossia è destabilizzante e, sempre per definizione, la destabilizzazione spaventa.

Per questa ragione spesso si cerca di favorire l’adozione dell’innovazione nascondendone l’effettivo livello di cambiamento. E’ una soluzione che funziona solamente se l’adozione dell’innovazione è semplice in termini di processo e porta rapidamente a risultati che permettono di fugare qualsiasi dubbio.

Se invece l’adozione dell’innovazione richiede un intervento sui processi (quindi sull’organizzazione delle persone) ampio nel tempo e nello spazio prima di ottenere i risultati, sarà più efficace esplicitarne l’origine dall’ortodossia.

Lo so che, soprattutto a quest’ora tarda, il post puzza di fuffa, eppure è STRATEGIA (e i due termini NON sono sinonimi).

Moet & Chandon Golden Ritual Service.

Ho in testa due post: uno sulla visione di Farinetti per il futuro del paese ed uno su etorodossia ed innovazione.
Due begli argomenti generici, o come dice Federico, chiacchere di poco interesse su cui non ho una competenza riconosciuta che indeboliscono il blog.
Il drastico calo di visite rilevato dagli analytics gli dà ragione, però trovare sull’Internazionale del 22 novembre un articolo uscito sul New Yorker relativo al fatto che il valore generato per le persone dall’economia digitale dai prodotti e servizi gratuiti non viene misurato dai classici indici utilizzati per valutare l’andamento dell’economia (pil in primis), mi fanno venire la tentazione di proseguire nell’affrontare temi generali, visto che la questione l’avevo sollevata en passant in un post del 2008.

Però resisto alla tentazione e parlo invece di un grandissimo esempio di marketing strategico/tattico.

Nell’ottobre 2012 ero in viaggio a Pechino con altri produttori di vino del Veneto Orientale e visitando alcuni locali notturni (musica dal vivo, karaoke, ecc…) mi ha colpito il fatto che c’erano tutti i marchi mondiali di superalcolici, presenti con gli stessi stumenti di promozione e visibilità che usano in tutto il resto del mondo (a pensarci bene niente di sorprendente trattandosi di marchi globali).

Tenuto conto dell’aumento anche nelle metropoli cinesi della clientela femminile ho/mi sono detto “Qui c’è un bel potenziale per fare diventare il Prosecco la bollicina/spumante di moda nel mondo della notte, però bisogna trovare un rituale”. La reazione degli altri produttori è andta dall’indignazione, perchè il vino è (solo) una cosa seria, alla perplessità, per la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un mercato che funziona secondo logiche che non conoscono.

In realtà non avevo detto niente di particolarmente soprendente, semplicemente vedevo (vedo) l’opportunità di utilizzare anche per il vino le medesime logiche che utilizzavo negli spirits quando ci si rivolge agli stessi consumatori, all’interno degli stessi locali. Esperienza che ho già fatto direttamente ai tempi della Stock con successo con il Cava Freixenet.

Evidentemente ed ovviamente non ero l’unico che lo stava pensando visto che l’altra sera in un locale a Montreal ho trovato il Moet & chandon Golden Ritual Service. Ecco le foto:

Moet & Chandon Golden Ritual Service Innanzitutto il “menu’” perche un rituale per essere condiviso deve essere codificato (i prezzi sono in dollari canadesi: 1 euro=1,2 $ canadesi)
Poi l’allestimento, ossia i “simboli” che rendono il rituale visibile e ne sostanziano la diversità e l’importanza.
La mega bottiglia nella vasca da bagno con sfondo “brandizzato” (quante foto condivise in facebook in una sera?) Moet bathtub
La gabbia dorata che sottolinea la preziosità del prodotto (dalla foto non si vede, ma sopra alla gabbia c’è una corona con le luci che girano e brillano)
Moet golden cage
La magnum dorata diversa dal prodotto “standard”, perchè il rito è qualcosa di speciale,ed il bicchiere “d’oro” perchè è la coerenza che rende le tattiche strategiche (o dalle strategie nascono le tattiche coerenti). Moet golden glass.

Ogni rituale però ha bisogno di officianti quindi aggiungeteci il servizio al tavolo veniva fatto da cameriere vestite di lamè (i camerieri in nero, come sempre l’abbigliamento da sera degli uomini è noioso) che attraversavano il locale tenendo in alto i bicchieri, le bottiglie e le spumantiere (ovviamente dorate) con in mano “stelle di Natale” accese ed avrete il quadro completo della festa che si creava quando qualcuno ordinava un “rituale”. Ossia della festa continua che animava il locale, rito a cui si sentivano di appartnere anche quelli che “semplicemente” si bevevano un bicchiere dorato di champagne versato da una magnum (piccola annotazione tecnica: grazie al rituale lo champagne veniva servito nei bei bicchieri capienti invece che nelle magrissime flute di ordinanza utilizzate in tutto il Nord America, permettendo quindi al vino di sprigionare meglio tutti i suoi aromi e quindi oggettivamente migliorando anche l’esperienza sensoriale)

Siccome non ho voluto esagerare non ho fatto la foto del logo Moet proiettato sulla parete di fondo del locale e sugli schermi sopra il bar. Invece come corollario aggiungo due foto di come si presentavano le bottiglie normali nello stesso locale:
Dom Perignon
Moet standard.

Anche questa volta ero con altri produttori di vino ed anche questa volta qualcuno, incurante delle magnum di champagne che andavano via come aranciata (o forse scandalizzati proprio da questo) ha detto “Qui può funzionare perchè la gente non ha cultura del vino e quindi gli serve tutto questo marketing, ma da noi una cosa così (pacchiana) non avrebbe successo”.

E già, Campari ha portato in tutta Italia l’abitudine dello spritz parlando dei tioli, mica creando (appropriandosi) del rito.

Ecco che forse l’argomento eterodossia ed innovazione non sembra più così tanto generico.

P.S. Io ho bevuto un gin tonic, sarà che sto diventando iconoclasta.