Come gestire con successo l’agenzia creativa interna.

Lo so, fa un po’ strano scrivere di marketing in questi giorni, però non fa neanche bene ragionare del minchiavirus 24 ore su 24.

E poi con il tempo a disposizione sto cercando di portarmi in pari nella lettura di “Marketing News”. Sul numero di agosto 2019 ho trovato un interessante articolo su come creare e gestire agenzie pubblicitarie/creative interne all’azienda.

Personalmente non ho mai lavorato in un’azienda che avesse un’agenzia creativa interna. Ci sono andato vicino quando ho lavorato in Stock, nel senso che l’agenzia interna era stata smantellata tre anni prima della mia assunzione, per la riorganizzazione seguita all’acquisizione da parte del gruppo tedesco Eckes nel 1997.

In Stock la creazione di un’agenzia pubblicitaria interna era stata una scelta quasi obbligata, perché nei tempi pioneristici del dopoguerra era difficile trovare una casa di produzione in grado di realizzare gli “spot” per Carosello.

L’agenzia pubblicitaria della Stock riuniva le funzioni di un’agenzia pubblicitaria, di una casa di produzione e di un centro media. C’erano quindi ufficio mezzi, art director, copywriter, grafici, ecc…

Già nel 1997, quando poi venne smantellata, si trattava di un dinosauro nel panorama delle aziende italiane (e credo anche mondiali).

Avere un’agenzia creativa interna presenta sostanzialmente due problemi:

-          È un costo fisso in termini di personale, che in momenti di minor attività di comunicazione aziendale non può essere coperto aumentando il parco clienti (problema di efficienza).

-          Rischia di essere poco creativa perché chiusa nel perimetro della marca, o marche, aziendali in termini concettuali e statica in termini di personale, quindi povera di stimoli esterni (problema di efficacia).

Specularmente ha due vantaggi:

-          Dedizione totale alle esigenze aziendali, con conseguente rapidità di intervento e massima flessibilità all’allocazione delle risorse in base alle necessità stabilite dall’azienda.

-          Miglior compenetrazione con la cultura aziendale, visto che ne è parte.

Grosso modo negli ultimi cinquant’anni le aziende hanno considerato che gli svantaggi superassero i vantaggi ed hanno gestito la propria creatività e comunicazione affidandosi ad agenzie esterne.

Se oggi si torna a valutare la creazione di agenzie creative esterne è per il cambiamento dei mezzi e dei meccanismi di comunicazione. La crescita della comunicazione attraverso il web ed i social networks implica la necessità di comunicare in maniera continuativa durante tutto l’anno, rispetto alle campagne pubblicitarie “periodiche” utilizzate nelle strategie di comunicazione “Classiche”, attraverso la creazione di contenuti più articolati rispetti a quello di uno spot TV/radio o di una pagina pubblicitaria / cartellone pubblicitario.

Da qui la cresciuta importanza che viene data alla capacità di narrare storie autentiche relative alla marca.

Ecco quindi che i vantaggi di avere un’agenzia creativa interna acquistano un peso maggiore, tale da portare a considerare la creazione di una agenzia creativa interna.

Crearla non significa automaticamente farla funzionare con efficacia ed efficienza, quindi vale la pena di individuare gli elementi critici per gestirla con successo.

Dimensione aziendale:

Per giustificare i costi di un’agenzia creativa interna è necessario che l’azienda abbia una dimensione medio-grande e/o sviluppi un volume di comunicazione elevato.

Io personalmente consiglio di avere la posizione di social media manager interna appena possibile, quindi anche in aziende relativamente piccole. Questo perché il social media manager esterno non potrà mai avere la stessa velocità di reazione ed interiorizzazione della cultura aziendale.

 

Ruolo dell’agenzia interna nell’organizzazione aziendale:

L’agenzia interna dovrebbe essere in staff alla Direzione Marketing, quindi giocare un ruolo strategico nell’organizzazione aziendale.

Dal mio punto di vista inserire l’agenzia interna nell’organigramma aziendale all’interno della Direzione Marketing invece che funzione a sé permette di “proteggerla” meglio dalle richieste tattiche e destrutturate che possono arrivare da tutte le funzioni aziendali sulle iniziative più disparate (dal folder di vendita alla carta intestata dell’Amministratore Delegato).

Prendere coscienza di questo aspetto è cruciale perché passare da avere “servizi creativi” a “servitori creativi” è un attimo. Questo rischio negli ultimi anni si è acuito già con le agenzie esterne, che indebolite economicamente sono sempre più deboli nel dialogo proposito con i clienti, figuriamoci quando l’agenzia è direttamente alle dipendenze dell’azienda.

 

Il lavoro di un’agenzia creativa interna equivale a quello di agenzia esterna e quindi va gestito con la stessa cura.

Secondo la ricerca condotta su 550 professionisti di marketing e creatività alla base dell’articolo di Marketing News il 72% diceva che la raccolta delle informazioni necessarie per iniziare a lavorare sui progetti creativi era l’attività che assorbiva la maggior parte del loro tempo. Il 79% affermava di non ricevere mai, o raramente, un feedback sui risultati della propria creatività.

Le agenzie creative esterne richiedono da parte dell’azienda il rispetto di una serie di processi, essenziali per poter svolgere il lavoro con efficacia (per il cliente) ed efficienza (per l’agenzia).

Questi stessi processi, o buona parte, sono necessari anche alle agenzie interne per lavorare con efficacia ed efficienza.

Sembra incredibile nel 2020 si debba ancora scrivere per sottolineare la necessità di definire un brief creativo, come base di partenza per ogni progetto creativi (ed ancora più incredibile che in 13 anni di biscomarketing non abbia mai scritto un post al riguardo!).

Altra cosa che l’articolo consiglia di fare periodicamente è la registrazione del tempo speso nelle diverse attività, in modo da evidenziare quanto tempo dell’agenzia (interna) è dedicato al lavoro non creativo.

 

Alimentare la creatività.

Forse la cosa più difficile da fare in un’agenzia interna rispetto a quella esterna.

L’agenzia interna infatti si occupa sempre grosso modo degli stessi mercati e delle stesse marche, fatica ad accedere e confrontarsi con best practices in settori diversi dal proprio, possiede meno appeal per attirare, trattenere e ruotare talenti creativi.

Si può ovviare a questi problemi adottando alcuni accorgimenti:

-          Integrare l’agenzia interna con quella esterna: ad esempio nel caso di un social media manager interno, può essere utile dotarlo del supporto di un’agenzia esterna per lo sviluppo degli aspetti più strategici e la misurazione dei risultati.

Avvalersi periodicamente di un’agenzia esterna con cui confrontarsi permette di vedere le cose da un punto di vista diverso, libero dalle distorsioni che si possono creare, ed accumulare, guardando le cose dall’interno.

 

-          Stabilire un programma strutturato per far entrare in contatto l’agenzia creativa con gli altri reparti aziendali, la rete vendita, i fornitori, i clienti ecc…

La creatività ne sarà avvantaggiata sia perché i creativi interni conosceranno meglio la cultura aziendale nel suo complesso che le problematiche ed i vincoli (anche per la realizzazione delle proposte creative) delle diverse funzioni aziendali e del mercato.

Stabilite un programma, una procedura, e siate disciplinati nel rispettarla, perché altrimenti le urgenze del quotidiano vi daranno ogni giorno delle scuse per rimandarlo e disattenderlo.

Ricordatevi sempre che le cose importanti non sono urgenti, perché proprio la loro importanza implica che vengano affrontate con la cura necessaria. Di conseguenza le cose urgenti non sono importanti. Ed ecco che, come per magia, sono sparite le urgenze.

 

-          Prevedete un budget e del tempo per la formazione, perché in questo modo i creativi possono confrontarsi con situazioni diverse.

Attenzione che queste considerazioni valgono pari pari anche per i componenti dell’ufficio marketing.

C’è poi un modo per mantenere più vivace, stimolante e trasparente l’ambiente lavorativo, così banale che quasi quasi nemmeno lo scrivevo: prendete regolarmente degli stagisti.

Coinvolgeteli veramente nel lavoro del reparto, il che significa fargli fare anche le fotocopie, ma non solo. E’ probabile che vi daranno qualche buona idea ed è sicuro che ne faranno venire a voi.

Biscomarketing vs. Giorgia Meloni.

Come la stragrandissima maggioranza di noi sono a casa e quindi ho più tempo libero. Ergo mi sto mettendo in pari con la lettura delle mie riviste di marketing, per cui oggi avevo in programma un bel post di marketing (nello specifico sulle politiche di prezzo negli scambi B2B). Se non altro per pensare anche a qualcosa di diverso che non sia il minchiavirus, come l’ha simpaticamente definito un mio amico (ciao Mauro).

Però poi questa mattina ho visto la riflessione sull’attuale situazione politico-economica che Giorgia Meloni ha pubblicato ieri sul proprio profilo facebook.

Premetto che normalmente non guardo/ascolto i discorsi dei politici senza contradditorio perché presumo che la loro abilità dialettica sia tale da riuscire a far apparire le proprie posizioni comunque fondate e coerenti anche in una situazione di confronto, figuriamoci quando se la suonano e se la cantano.

Questa volta ho fatto un’eccezione e, siccome alla fine del suo discorso la Meloni dice che chi non è d’accordo con lei (la Sinistra) come al solito l’offenderà, senza però risponderle nel merito (sottintendendo che non possono, perché quello che dice è tanto vero e giusto come sembra nella sua “autointervista”) a me è venuta voglia di rispondere nel merito.

Non perché creda di avere la verità in tasca, ma perché quello di oggi della Meloni è un discorso di mera propaganda e non di proposta politica. Propaganda secondo me pericolosa. In conclusione di questo post spiegherò gli elementi su cui fondo questa mia, forte, affermazione.

Tenete presente che il discorso della Meloni dura 24 minuti, e se volete vederlo lo trovate qui.

Io cercherò di controbattere in modo esauriente ma sintetico (vi stupirò 😊).

 

La conferenza stampa di Christine Lagarde di giovedì 12 marzo 2020

Giorgia Meloni sostiene che la risposta di Christine Lagarde alla domanda di un giornalista durante la conferenza stampa del 12-03-20, «Noi non siamo qui per accorciare gli spread. Non è questa la funzione né la missione della BCE. Ci sono altri strumenti e altri attori deputati a queste materie», non sia stata una colossale gaffe, ma un tassello di una strategia ben precisa portata avanti dall’asse franco-tedesco (la Meloni non specifica se intende i governi di quei paesi, i poteri forti, entrambe le cose o altro) per indebolire l’economia italiana e potersi così comprare le nostre migliori aziende a prezzi di saldo.

Secondo la Meloni quella frase non può essere stata detta a caso, visto il contesto e la posizione / competenza /ruolo, di chi l’ha pronunciata, ergo è stata detta scientemente per far crollare la Borsa italiana e così poter comprare le azioni delle aziende italiane a prezzi scontati (la Meloni usa il termine “saccheggiare”).

Sempre secondo la Meloni, questa strategia è dimostrata dal fatto che dopo il crollo del 12-03-20, – 17%, ll giorno dopo la Borsa italiana è rimbalzata con un + 7,12%. Per questo la Meloni annuncia che chiederà alle autorità competenti di verificare chi sono i soggetti che hanno comprato venerdì (mi autodenuncio: ho comprato 200 azioni di Generali Assicurazioni, che peraltro venerdì ha chiuso la giornata in sostanziale pareggio sul crollo del giorno prima).

In teoria è un ragionamento che ci può stare (la carta si lascia scrivere e le parole si lasciano dire). Ma è andata proprio così?

Se guardiamo il volume delle azioni scambiate nei due giorni direi di no. Giovedi 12-03-20 sono state scambiate 2,013 miliardi di azioni, mentre venerdì 13-03-20 sono state scambiate 1,84 miliardi di azioni.

Ossia, malgrado il crollo del giorno prima, venerdì non c’è stata la corsa ad accaparrarsi le azioni delle aziende italiane che valevano il 17% in meno del giorno prima.

Se preferite il parametro del volume d’affari degli scambi, secondo me meno significativo perché distorto dall’effetto prezzo, il quadro non cambia: giovedì 12 scambi per 6,071 miliardi di euro, venerdì 13 scambi per 5,361 miliardi di euro.

In realtà la riflessione della Meloni è inconsistente in partenza, anche senza l’analisi del volume degli scambi azionari. Basta osservare chi detiene il capitale di controllo delle prime 17 società quotate in borsa per capitalizzazione. 5 società sono controllate dallo Stato, quindi per definizione inscalabili, 6 sono già controllate da soggetti esteri o con sede all’estero, le 6 restanti sono controllate da soggetti italiani.

Si tratta di Intesa San Paolo, Assicurazioni Generali, Unicredit, Atlantia, Moncler e Campari.

Da segnalare che Moncler era di proprietà francese ed adesso è di proprietà italiana e che Campari, ad esempio, ha un flottante pari al 49% del capitale per cui è impossibile prenderne il controllo attraverso la borsa visto che il 51% è detenuto dai discendenti del fondatore.

Situazione questa comune alla maggior parte di aziende italiane quotate in borsa, che continuano ad essere aziende famigliari.

Nota: per chi non lo sapesse il “flottante” è la quota del capitale azionario disponibile sul mercato rispetto al capitale totale. L’altra parte è detenuto da soggetti privati e non viene scambiato sul mercato. Colgo l’occasione per fare una breve chiosa: in questi giorni abbiamo imparato come ragionare a buon senso di medicina sia una cosa diversa da gestire la sanità e curare le persone. Lo stesso avviene in qualsiasi campo. Ad esempio sapere, o capire, come funziona in principio una caldaia non è difficile; però montare un impianto di riscaldamento è un’altra cosa. Anche l’economia e la borsa le loro specificità e bisogna considerarle se si vuole farne un’analisi corretta.

Inoltre la frase della Lagarde ha avuto effetti su tutte le borse non solo quella italiana. Nella settimana dal 9 al 13 marzo le perdite cumulate delle principali borse europee sono state le seguenti:

-          Indice CAC (Parigi): -15%

-          Indice DAX (Francoforte): -12,9%

-          Indice MIB (Milano): – 18,9%

-          Indice Stoxx 50 (principali 50 società europee quotate in borsa): – 19,5%

Vero che Parigi e Francoforte sono calate meno dell’Italia, ma è altrettanto indubbio che si tratta di due economie considerate più solide (se non fosse altro per il minor debito pubblico) e che la scorsa settimana non avevano ancora preso misure contro il coronavirus così impattanti sulle prospettive economiche come quelle prese in Italia (ci stanno arrivando adesso). Comunque anche per loro si tratta di cali storici.

Notare poi che lo Stoxx 50 in una settimana ha perso più del MIB.

Allora forse è più probabile che quella della Lagarde sia stata una gaffe colossale. Tanto clamorosa che è stata rettificata dalla Lagarde stessa il medesimo pomeriggio, includendo la rettifica nei documenti ufficiali della BCE (cosa mai successa in precedenza).

Che poi ci sia una parte dell’opinione pubblica, e quindi della politica, tedesca (e degli altri paesi del nord Europa contributori netti al bilancio della UE) sostenitori del fatto che non devono essere loro a pagare il costo (leggi spread) delle scelte del governo italiano di destinare 8 miliardi per il reddito di cittadinanza ed 1,5 miliardi per rimborsare azionisti ed obbligazionisti (non correntisti) delle banche fallite invece di usarli per ridurre il debito pubblico (e quindi la spesa per interessi), è sicuramente vero.

Sono posizioni legittime all’interno della dialettica democratica che, tra l’altro, arrivano da partiti con posizioni affini a quelle di Fratelli d’Italia.

Creato questo contesto del discorso, la Meloni continua nella tesi della strategia di Francia e Germania di “spolpare” (cito la Meloni) l’Italia attraverso le modifiche del fondo salvastati (o Meccanismo Europeo di Stabilità).

E qua la Meloni comincia a farsi un film, nel senso che parla 10 minuti di quello che potrebbe succedere se lunedì prossimo alla riunione dell’eurogruppo si prendessero decisioni relative al fondo salvastati.

Dico che si fa un film perché la discussione delle modifiche del fondo salvastati è stata tolta dall’ordine del giorno ed inserita nelle varie ed eventuali. La Meloni dice che in sostanza la cosa non cambia, ma chiunque abbia partecipato anche ad un’assemblea di condominio sa che non è così.

Inoltre discutere del fondo salvastati non significa approvarne la riforma hic et nunc.

Ciononostante la Meloni comincia a tracciare un quadro per cui la Germania punta a mandare in default le banche italiane ed a far così pagare indirettamente il debito pubblico a tutti i correntisti, sottolineando TUTTI e non solo quelli con depositi oltre i 100.000 euro. Mentre l’attuale regolamento prevede il contrario.

Qui non mi dilungo perché veramente, al momento attuale, stiamo parlando del nulla e siamo nell’ambito delle ipotesi (se non delle teorie complottiste).

E’ come discutere della banana che non c’è (questa la capiamo letteralmente in 4 e non so neanche quanti di quei 4 leggano il blog).

 

Su cosa ha ragione la Meloni (secondo me)

Christine Lagarde è inadeguata a dirigere la BCE.

Vero, non solo e non tanto per la pessima risposta dell’altro giorno, ma già in partenza per aver gestito la crisi greca in un modo che lo stesso FMI che dirigeva ha poi valutato sbagliata. Nel senso che ne ha di fatto ritardato la soluzione.

Per i meccanismi politici ed istituzionali però difficilmente sarà rimossa.

D’altra parte credo che la maggioranza degli italiani sia convinta che Toninelli era inadeguato a fare il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, eppure se non ci fosse stata una crisi di governo sarebbe ancora lì.

 

C’è bisogno di più Europa, non meno.

La Meloni da qualche settimana in avanti si lamenta dell’assenza dell’Europa in tanti campi.

Ad esempio nel coordinamento dei protocolli per affrontare il coronavirus. Sono d’accordo. Ricordiamoci però che per circa una settimana i protocolli relativi alle persone su cui eseguire i tamponi previsti dalla regione Lombardia erano diversi da quelli del Ministero della Salute.

E la Regione Veneto ne sta valutando un altro, più simile a quello adottato in Cina, con l’obiettivo di individuare i positivi asintomatici.

Ossia anche all’interno dell’Italia abbiamo faticato ad utilizzare protocolli sanitari omogenei, malgrado l’omogeneità sia fondamentale per poter avere dati confrontabili su cui basare le azioni. (lo stesso sta succedendo in Spagna e non so cosa succederà in Germania nei diversi lander).

Questo per dire che “più Europa” significa trasferire alle istituzioni europee competenze attualmente in capo agli stati membri (e alle loro regioni).

Provate ad immaginarvi che ci sia un protocollo europeo sul coronavirus e venga fuori il responsabile sanitario di una regione italiana che dice che è sbagliato e bisogna applicarne uno diverso. Io già vedo la Meloni che spara a palle incatenate sull’Europa che ci vuole uccidere.

Il minchiavirus sta dimostrando quanto i confini possano essere solo linee sulla carta geografica e quanto la politica dei paesi UE sia appiattita sulle posizioni dell’opinione pubblica e dei partiti sovranisti. Dove sono al potere, perché sono al potere e dove non sono al potere perché i partiti “europeisti” hanno paura di perdere consensi. Quindi di fatto si comportano in modo simile ai sovranisti.

Ci vuole più Europa, e perché succeda ci vuole qualcuno abbastanza coraggioso da parlare al cuore ed alla testa delle persone, non solo alla loro pancia.

Ma questa è un’altra storia e non voglio divagare.

 

Perché quella della Meloni è propaganda vergognosa e pericolosa.

Con questo discorso su facebook la Meloni ha dimostrato di essere un’abile politica, nel senso più cinico della parola.

Ha messo le mani avanti così se il governo si muoverà in alcune delle (condivisibili) linee tracciate potrà prendersene il merito e se non lo farà (o lo farà parzialmente) potrà dire che lei l’aveva detto. Non può perdere, e sicuramente di questi tempi fare opposizione è comodo.

Però è altrettanto vero che di questi tempi fare propaganda politica è più vergognoso del solito.

Dico che è propaganda perché le verifiche delle ipotesi della Meloni che ho esposto sopra si fanno in poco più di mezz’ora di ricerche su internet. Per la Meloni che nel partito sicuramente avrà uno staff dedicato all’economia anche meno.

Tutti sbagliamo, indipendentemente dal curriculum, competenza ed esperienza. Però questo intervento della Meloni non è la risposta immediata ad una domanda, ma un discorso ponderato, come dichiara lei stessa in apertura.

Ed è pericoloso perché alimenta l’ansia nelle persone quando già stiamo vivendo un periodo molto difficile.

Se è un errore, chieda scusa. Viceversa è disonestà intellettuale.

The new normal per affrontare l’emergenza: Cantina Tollo per esempio.

L’Italia, dichiarata tutta “area protetta” è di fatto in emergenza.

Non so quanto questa emergenza sia reale, necessaria o generata da impreparazione e paura. E probabilmente in fondo in fondo non lo sa nessuno.

Quello che so è che questa emergenza avrà un costo, probabilmente elevato, che nessuno sembra si stia preoccupando di calcolare o stimare. Se questa considerazione vi sembra cinicamente legata al denaro / profitto / PIL, ricordatevi che le crisi economiche uccidono. L’abbiamo visto anche con l’ultima crisi del 2008 e lo dimostrano i numerosi studi che hanno misurato come la speranza di vita si riduce con il livello di istruzione e di reddito (fattori in gran parte collegati).

I costi sociali dell’emergenza coronavirus non saranno solo quelli medico-clinici. Gli altri presenteranno il conto, che qualcuno li abbia previsti o meno.

Ma tantè, tutte parole inutili di fronte all’evidenza della situazione.

E allora meglio concentrarsi sui fatti di chi cerca soluzioni per risolvere i problemi conseguenti all’emergenza coronavirus.

Cantina Tollo, Cantina Sociale (la denominazione giuridica mi sembra particolarmente calzante e non casuale) abruzzessi, tra le principali realtà viti-vinicole nazionali ha adottatto due misure che mi sembrano particolarmente interessanti:

- possibilità per i lavoratori con figli in età scolare a svolgere il laavoro da casa per un totale di 20 ore settimanali.

- abolizione del porto franco, ossia della regola per cui la cantina copre il costo di trasporto solo per gli ordini superiori ad un certo quantitativo minimo, per i clienti del canale horeca (bar, ristoranti, enoteche). In questo modo i locali che si stanno tronado in grande difficoltà per il drastico calo degli affari potranno ordinare piccole quantità, senza dover sostenere costi aggiuntivi.

 

Sono due misure che mi piacciono perchè:

- sono solidali, ovvero significano uno sforzo in più per rendere meno pesanti le problematiche degli altri;

- vanno nella direzione dell’aumento dell’efficenza per superare lo stop del paese con soluzioni diverse dall’operatività normale. Ossia non necessariamente fare “meno”, ma anche fare “diverso”.

E chissà che magari queste soluzioni non diventino il “new normal”, quando l’emergenza coronavirus sarà passata.

Che la parola “Crisi” in cinese significhi anche opportunità è una fandonia, ma per fortuna alla Cantina Tollo non lo sanno. Sarà perchè il Presidente è medico chirurgo all’ospedale di Ortona?

 

con soluzioni diverse da lo stop del  non di un semplice stop del paese che sembra quasi soggiacere

Calano i consumi di birra Corona: assurdo. Calano i consumi di birra Corona: ovvio.

Sto cercando, con alterni successi, di non esprimermi su temi collegati al corona virus per non aggiungere ulteriore rumore di fondo a quello, già grande che c’è.

L’altro giorno però su twitter ho avuto uno scambio di idee con Makkox, al secolo Marco Dambrosio, fumettista, disegnatore, vignettista e autore televisivo come lo definisce Wikipedia.

Per me semplicemente genio visto che ha fatto cose come “La Grande Opera” (ma ne avrei potute linkare decine, anche molto più leggere ed ugualmente geniali)

Lo scambio è nato da un suo post che, sintetizzo, trovava fuori luogo le reazioni al finto spot sulla pizza Corona con il pizzaiolo che scatarra sulla pizza appena sfornata trasmesso in Francia da Canal Plus e dalla mia conseguente risposta che proprio quel giorno un cliente francese che aveva chiesto ad una cantina italiana la tracciatura del prodotto riguardo al coronavirus e che le vendite di birra Corona negli Usa continuano a calare, quindi, sensato o meno il danno rimaneva.

Al quale Makkox mi rispondeva incredulo che a seguito dello spot si sarebbe venduta meno pizza.

Per i più curiosi gli screenshots della conversazione che ne è seguita tra me, Makkox ed i suoi follower di twitter li trovate in calce a questo post.

Questo scambio di battute mi ha convinto a scrivere un post che mi frullava in testa da diversi giorni (dalla notizia del calo dei consumi della birra Corona) sul comportamento del consumatore riguardo ai prodotti alimentari e le conseguenti linee guida per la comunicazione.

Lavoro nel settore dei prodotti agro-alimentari dal 1994 ed ho vissuto in prima persona almeno 3 situazioni di crisi di vendita legate a cose che non avevano direttamente a che fare con l’azienda.

  1. Nel 1995 le minacce di boicottaggio dei salumi Levoni da parte dei negozianti del sud Italia in seguito all’istituzione a Mantova del “Parlamento della Padania” da parte della lega;
  2. Nel 1997 il crollo dei consumi dei wurstel di pollo a seguito della scoperta che l’influenza aviaria si può trasmettere dagli animali all’uomo quando lavoravo al salumificio Principe;
  3. Nel 2008 lo stop delle esportazioni di vino per alcune settimane a seguito dell’inchiesta “Velenitaly” pubblicata da “L’Espresso” quando lavoravo al Gruppo Vinicolo Santa Margherita.

Nessuna di queste crisi aveva alcuna fondatezza oggettiva.

Che la Lega Nord decidesse di mettere il proprio “Parlamento della Padano” a Mantova non aveva niente a che vedere con il fatto che la sede del salumificio Levoni si trovasse, ed ancora è, a pochi chilometri, nel paese di Castellucchio.

Anzi Levoni era, ed è, fortemente radicata nelle regioni meridionali da aver brevettato in Sicilia un salame, la Paisaniella, da talmente tanto tempo che molti consumatori ritengono un salame della tradizione contadina siciliana.

La carne di pollo che si usa per i wurstel è di provenienza nazionale e, anche se fossa, la cottura dei wurstel uccide il virus.

Velenitaly, al di là del titolo usato da L’Espresso, riguardava delle frodi per cui del vino da tavola veniva venduto come DOC, senza rischi per la salute.

Però queste crisi mi hanno insegnato che le persone hanno spesso (normalmente) un comportamento estremamente emotivo, o se preferite irrazionale, riguardo ai loro comportamenti alimentari.

Perché? Di preciso non lo so, ma ho un paio di ipotesi.

  1. Anni fa ho letto un articolo di antropologia dei consumi che sottolineava come gli alimenti e le bevande sono qualcosa che mettiamo dentro al nostro corpo e questo determina un rapporto molto stretto e profondo tra noi e quello che mangiamo e beviamo. Diciamo che era una visione scientifica del proverbio “siamo quello che mangiamo”.

Se io sono quello che mangio, evito di mangiare qualsiasi cibo che mi generi fastidio, anche lieve, anche lontanamente.

  1. I cibi e le bevande sono prodotti facilmente fungibili / sostituibili in termini di marca. Evitare di bere birra Corona non è un gran problema visto che posso bere birre di altre marche, invece di wurstel di pollo posso mangiare quelli di carne di maiale ed invece di vino italiano posso bere vino prodotto in altri paesi.

Per dire, uno può essere assolutamente consapevole che bere birra Corona non comporta alcun rischio di contagio, ma decidere per un po’ di bere birre di altre marche perché ne ha abbastanza di sentire parlare del coronavirus e non vuole qualcosa che glielo ricordi anche quando si beve una birra per rilassarsi. Oppure è stufo di sentire battute sceme.

La consapevolezza del dato di fatto dell’emotività delle persone nei loro comportamenti di consumo alimentare, più ancora di quali ne siano le ragioni, implica alcune linee guida che è bene tenere a mente nella comunicazione delle marche alimentari.

Linee guida che varrebbero anche per la satira, se non fosse che per definizione la satira le regole, giustamente, se le salta. Le conseguenze però rimangano.

 

I contenuti hanno un valore in sé, indipendentemente dal contesto.

Uno che mangia una tartina di caviale e immediatamente la sputa, tipo Tom Hanks in “Big”, nel fondo rimane uno a cui il caviale fa schifo. Se siete dei produttori di caviale non aiuta.

 

Non fate troppo affidamento sul contesto per l’interpretazione del contenuto.

Se già i contenuti possono essere potenzialmente fraintesi, codifica-emissione-ricezione-decodifica e tutto il resto che insegna la semiotica, i contesti per loro natura ancora di più.

Perchè i contesti restano spesso in secondo piano, perché i contesti richiedono di essere interpretati più di quanto non succeda per i contenuti, ecc…

Ad esempio il post di facebook del Partito Democratico che segnalava lo spot della Pizza non diceva che lo spot era “finto”, inserito in un programma satirico.

Meno che meno si comprendeva il contesto (satirico) dalla visione del solo spot che circolava sui siti e sui social. Ossia che nella società digitale in cui viviamo, i contenuti si diffondono spesso spezzetati e separati dal contesto complessivo in cui sono stati creati.

Cosa quindi che peggiora l’ulteriore rischio di fraintendimento legato al fatto che non sempre i contesti sono univoci. Ad esempio “Propaganda live” è un programma di informazione oppure un programma satirico?

 

Rispettate le persone / consumatori.

Tenere conto delle paure e delle idiosincrasie delle audiences a cui si comunica, per una marca significa rispettarle.

E’ stato David Ogilvy, uno dei più famosi pubblicitari americani, a dire “Il consumatore non è stupido, il consumatore è tua moglie”. Immagino si riferisse a quello che ogni tanto accade nelle agenzie pubblicitarie e negli uffici marketing delle aziende: trattare i consumatori/persone come se fossero stupide quando si realizzano i contenuti (messaggi) o, peggio pensare che siano stupidi perché non capiscono il nostro messaggio.

Un atteggiamento che, oltre ad essere concettualmente discriminatorio, è sostanzialmente inutile in termini di business.

Avrà anche ragione MOIMEME quando commenta la discussione su twitter scrivendo “Per non andare al ristorante cinese, a causa del coronavirus, bisogna essere un cretino. Esattamente come quello che non beve più Corona”, ma se tu sei il produttore di birra Corona sapere che i consumatori che stai perdendo sono dei cretini non risolve il problema.

Il parallelo con il marketing politico è talmente lampante che neanche lo spiego. E se non lo capite vuol dire che siete cretini.

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Come nasce un vino (innovativo)? Bosco Levada “Storie di Noir” Prosecco DOC Spumante Brut – 4° episodio: la presentazione di vendita.

Avvertenza: Bosco Levada “Storie di Noir” Prosecco DOC spumante brut è un vino che ho realizzato insieme alla Società Agricola Bosco Levada di Ceggia (VE).

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La presentazione di vendita è uno strumento fondamentale per rivolgersi ai potenziali nuovi clienti, intesi come i clienti nuovi tout court oppure quei clienti che già acquistano dalla cantina ed a cui vogliamo presentare un nuovo vino.

Al primo contatto infatti TUTTI chiedono l’invio per e-mail di questo documento.

Documento che viene utile anche per la presentazione di persona utilizzando il portatile o il pad.

Perché le persone la leggano è però necessario che aprano la mail, poi aprano anche l’allegato ed infine arrivino in fondo alla presentazione.

Nessuna di queste cose è scontata.

Per renderle più probabili ci vuole:

-          Un “Oggetto” della mail che attiri l’attenzione.

-          Un testo della mail che faccia capire chiaramente di cosa si tratta senza dilungarsi troppo.

-          Una presentazione allegata sintetica, in cui vengano indicati tutti gli elementi salienti della proposta / vino. Il che vuol dire soprattutto i benefits / vantaggi che la proposta/vino porta al cliente e non le semplici caratteristiche del vino.

L’idea non è che dopo aver ricevuto la mail e visto la presentazione i potenziali clienti vi chiamino per fare l’ordine, ma che vi chiamino per approfondire la questione (ovviamente qui non mi sto riferendo all’ e-commerce rivolto al consumatore finale).

Seguendo questo principio io anni fa ho teorizzato il “marketing all’osso” o “bare bone marketing”, che prevedeva l’eliminazione di tutto il superfluo. Quindi per contattare i potenziali clienti ho sviluppato una presentazione che consisteva in testo di una facciata, non troppo fitta.

Niente animazioni, niente immagini, niente video, niente hyperlink al web. Niente di niente.

Solamente un testo che cercava di dire chiaramente chi eravamo e cosa facevamo in modo che i potenziali clienti potessero capire se come fornitori eravamo in grado di portare più valore aggiunto al loro business rispetto a quelli che avevano già.

Tutto il lavoro si centrava su una bella carta intestata, anche per questo avevo da poco concluso il progetto del cambio del logo, un carattere tipografico piacevole da leggere e con una personalità propria (scelto tra quelli disponibili in word, ma cercandone uno meno comune del solito) ed un testo chiaro e saliente.

La salienza derivava da un’analisi della nostra personalità e competenze, incrociata con le tendenze e le richieste del mercato. Ossia far capire a chi leggeva che sapevamo di cosa stavamo parlando.

La cosa ha funzionato e sono riuscito così ad attivare 3 clienti. Forse vi sembreranno pochi, ma il mio target erano i buyers delle catene della GDO europea per fare contratti dalle 400.000 al milione di bottiglie ed oltre.

Sottolineo che il testo non conteneva alcuna indicazione di prezzo, anche perché con questo tipo di clienti i prezzi vanno fatti ad hoc sulla base delle specifiche del contratto di fornitura. Credo sia giusto segnalare anche che in diversi casi il nostro prezzo era qualche centesimo superiore a quello degli altri fornitori per vini simili o equivalenti.

Secondo me ha funzionato anche per il modo oltre che la sostanza, ovvero la modalità di presentazione si differenziava dalla solita presentazione in powerpoint. Quindi si differenziava dal resto e dimostrava anche che noi eravamo in grado di formulare un pensiero / strategia originale.

Per Bosco Levada “Storie di Noir” Prosecco DOC spumante brut però il target dei potenziali clienti è completamente diverso. Qui parliamo dei grossisti da un pallet alla volte, delle enoteche/ristoranti da qualche cartone ad ordine, dei piccoli importatori rivolti al canale specializzato.

Anche il posizionamento e la personalità del vino sono completamente diverse e più complesse rispetto ai vini a marchio della catena.

Un approccio all’osso non sarebbe visto come efficiente, ma come povero.

Quindi sono stato più classico ed ho preparato la presentazione powerpoint di 5 diapositive che apre questo post.

Questa è la quarta o quinta versione (dovrebbe essere l’ultima, ma mai dire mai).

La prima versione aveva due diapositive in meno, poi ho cominciato a mandarla in giro.

Un amico e potenziale cliente a mi ha detto che era perplesso perché vedeva “Storie di Noir” come un vino senza storia, frutto della mia fantasia e prodotto dal primo terzista che capitava.

Allora ho inserito le dichiarazioni di Maurizio Facchin e mie nella diapositiva di apertura ed aggiunto la diapositiva che descrive la Società Agricola Bosco Levada. Questo non per raccontare lee fiabe, ma per comunicare le cose come effettivamente stanno. Altrimenti sulla bottiglia non ci sarebbe il collarino con il logo “Bosco Levada”.

Un altro che l’ha vista, e che non c’entra niente con il settore del vino, mi ha detto che la trovava confusa/affollata. Mi sono ricordato della mia insegnante di comunicazione nel corso di Marketing Management all’Università di Guelph in Canada che diceva che in una diapositiva non dovevano esserci più di 4 righe, e scritte con un carattere bello grande.

Allora ho lavorato sui testi ed ho aggiunto una diapositiva sdoppiando i contenuti che riguardano le caratteristiche di posizionamento ed organolettiche del vino. In pratica le due diapositive con la bottiglia all’inizio erano una sola.

Quando si pensa alla sintesi bisogna sempre stare attenti che questa non dipende dal numero di diapositive, pagine, ecc… ma dalla quantità di contenuti. Come dico spesso quando parlo di comunicazione, bisogna evitare l’ansia di voler dire tutto e così di far la fine delle tute dei piloti di Formula 1 dove ci sono talmente tanti loghi, ovvero messaggi, che alla fine non se ne vede nessuno.

Nel mio caso dividere gli stessi contenuti in due diapositive non riduceva la sintesi, però aumentava la facilità di lettura e di comprensione.

Poi confrontandoci in cantina una persona ha detto che la presentazione era complessivamente buona, però non centrava al 100% le peculiarità del vino. Così mi sono messo a rivedere tutti i testi, accorciandoli.

Concludo con alcuni suggerimenti per migliorare l’efficacia delle presentazioni, derivati dagli esempi qui sopra.

1)      Focalizzatevi sugli elementi essenziali.

2)      Sottolineate quelli differenzianti.

3)      Cercate di farlo con modalità originali (ma evitate lo strano a tutti costi, se strani non siete)

4)      Ricordatevi del proverbio spagnolo “Lo bueno y breve, dos veces bueno”, ossia “Il buono breve/sintetico è buono due volte”. La buona comunicazione, come il buon design, funziona quasi sempre per sottrazione.

5)      Fate vedere la presentazione ad un numero ristretto di persone e correggetela in base alle loro indicazioni prima di usarla in lungo e in largo.

6)      Ricordatevi che purtroppo, o per fortuna, non viviamo nel mondo ideale ed il tempo comanda su tutto. Quindi a volte bisogna scendere a compromessi con le scadenze.

Nell’attuale presentazione di Bosco Levada “Storie di Noir” Prosecco DOC la bottiglia è una riproduzione grafica, perché non avevamo ancora imbottigliato e quindi non potevamo avere la foto della bottiglia vera. Però io dovevo contattare i potenziali clienti che contavo di incontrare al Prowein e quindi l’ho mandata lo stesso.

Poi il Prowein l’hanno rimandato, ma questa è un’altra storia.

Come nasce un vino (innovativo)? Bosco Levada “Storie di Noir” Prosecco DOC Spumante Brut – 3° episodio: l’assaggio del prodotto.

Avvertenza: Bosco Levada “Storie di Noir” Prosecco DOC spumante brut è un vino che ho realizzato insieme alla Società Agricola Bosco Levada di Ceggia (VE).

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Il primo progetto di sviluppo prodotto che ho seguito in una cantina era proprio un Prosecco, ai tempi DOC Conegliano-Valdobbiadene, oggi DOCG.

Fatta la nostra bella definizione di concetto di prodotto e definito il ruolo che il nuovo prodotto avrebbe avuto nell’architettura assortimentale (perché di Prosecchi in gamma ne avevamo già), come descritto nella prima puntata di questa serie, e definito il brief per l’immagine della bottiglia (la sessione creativa con gli enologi, vendite e marketing che girano intorno al tavolo della sala di degustazione è entrata a far parte delle leggende che si raccontano in Santa Margherita; non è colpa mia se le pareti erano di vetro), un bel giorno siamo finalmente arrivati a degustare il vino.

Sono sceso in cantina ed il mio amico Loris mi ha fatto assaggiare i 5 campioni. Ne abbiamo discusso un po’ ed alla fine io ho detto una cosa tipo “Seconde me i più interessanti sono il 2 ed il 5. A questo punto facciamo un test sul consumatore, vediamo qual è il preferito e partiamo con la produzione”. Loris mi ha guardato un po’ stranito e mi ha spiegato che nel vino non funziona così perché comunque la prossima autoclave non sarebbe mai stata al 100% uguale a quella di prova e che l’ulteriore fase di ricerca sul consumatore avrebbe allungato i tempi, impedendoci di essere pronti per presentare il nuovo spumante al Vinitaly (che ai tempi iniziava al giovedì e finiva il lunedì successivo).

E’ così che ho imparato l’unica vera differenza tra il vino e quasi tutti gli altri prodotti alimentari: il vino non si fa con una ricetta. Nemmeno lo spumante che è un vino tecnico per definizione.

Questo determina due corollari:

-          Se si vuole/deve fare un vino che abbia un profilo organolettico costante nelle varie annate, dovrà essere necessariamente un assemblaggio di uve/vini provenienti da vigneti diversi e/o un uvaggio di vitigni diversi. Detto in altro modo: il profilo sensoriale di un vino ottenuto da un singolo cru mostrerà sempre una certa variabilità in base all’andamento climatico dell’annata.

-          Se si vuole/deve fare un vino che abbia un profilo organolettico costante nelle varie annate, bisognerà farlo diverso ogni anno. Ovvero le proporzioni tra i vini dei vari vigneti/vitigni cambieranno per il diverso profilo che presentano i vini “base” conseguentemente all’andamento climatico dell’annata.

Detto in altre parole, una volta definito concettualmente il profilo sensoriale che deve avere un vino, per avere effettivamente quel profilo bisogna affidarsi all’abilità dell’enologo (e per me è in questo che risiede l’aura quasi magica che circonda questa professione).

La scorsa settimana abbiamo quindi assaggiato il Bosco Levada “Prosecco Noir” Prosecco DOC Spumante Brut con il titolare dell’azienda e con l’enologo.

Non che ci fosse molto da decidere, viste le riflessioni di cui sopra, però c’era la curiosità di se e come si sarebbe fatta sentire la presenza del pinot nero vinificato in bianco.

Queste le mie note di degustazione:

Colore: giallo paglierino carico.

Naso: delicato, elegante, complesso e lungo. La prima nota che si percepisce è quella di mela golden, poi appare un sottofondo di rosa canina e smalto che si mantiene costante mentre la mela evolve in pera matura e banana.

Palato: fresco, croccante ad ampio in bocca. Si ritrovano la mela e la pera su una base di frutti rossi (ribes) per concludere con un finale agrumato.

 

Noi siamo rimasti molto contenti del risultato perché il vino ha una sua personalità propria che gli deriva dalla presenza del pinot nero. Un Prosecco DOC unico, particolare che mantiene allo stesso tempo chiaramente l’impronta della denominazione.

Abbiamo anche ragionato se nella prossima produzione alzare leggermente la percentuale di Pinot Nero nella cuvée, ma ci siamo risposti che va bene così, anche per evitare il rischio che le commissioni di assaggio della DOC lo giudichino fuori dal profilo.

Ci siamo anche chiesti se sarebbe migliorato aumentando il dosaggio dello zucchero, visto che questo tende ad esaltare tutti i profumi e gli aromi (regola generale che vale anche per i liquori ed un po’ tutti i prodotti alimentari, se non si esagera).

Abbiamo quindi provato a portarlo da brut ad extra dry, ma siamo stati tutti concordi che rendendolo più dolce si coprivano le sfumature di profumi e sapori, rendendo Bosco Levada “Storie di Noir” Prosecco DOC più “piatto” e banale.

La settimana prossima si imbottiglia e poi arriva la prova più importante: quella del mercato. Prowein stiamo arrivando!

Come nasce un vino (innovativo)? Bosco Levada “Storie di Noir” Prosecco DOC Spumante Brut – 2° episodio: l’immagine della bottiglia.

Avvertenza: Bosco Levada “Storie di Noir” Prosecco DOC spumante brut è un vino che ho realizzato insieme alla Società Agricola Bosco Levada di Ceggia (VE).

Com’è fatta una bella etichetta?

Un’etichetta è bella nella misura in cui trasmette l’identità della marca. E’ perfetta se oltre a questo, fa anche allungare il braccio comprare la bottiglia.

Da questi assiomi derivano diversi corollari:

  1. Fare etichette, e più in generale fare identità di marca, NON è fare arti figurative. Un’etichetta non può essere giudicata bella o brutta in base al senso estetico, evidentemente soggettivo, di ognuno. Indifferentemente che si tratti di un campione di consumatori, del management/proprietà della cantina titolare della cantina o della zia, che ha tanto buon gusto.
  2. Per fare una bella etichetta è innanzitutto necessario definire l’identità / personalità /valori che dovrà trasmettere.
  3. Definita l’identità / personalità /valori che l’etichetta / bottiglia / confezione dovrà trasmettere, la valutazione dell’adeguatezza delle proposte non sarà più soggettiva, ma diventa oggettiva.
  4. Poi questa definizione va trasferita ad un’agenzia / designer / grafico-a professionista perché risolva creativamente il compito di trasferirli su un’etichetta / bottiglia / confezione. “Trasferirli” non significa mandare una mail e/o un documento, significa assicurarsi che chi deve fare l’etichetta abbia compreso qual è l’obiettivo di posizionamento / comunicazione.

Alcuni consigli per gestire con efficienza (senza perdite di tempo) ed efficacia (ottenendo i risultati attesi) questo processo.

Dopo un paio di decenni di esperienza nella realizzazione di identità di marca in aziende e settori diversi, mi sento di poter affermare che un processo creativo di successo passa attraverso queste, e solo queste fasi:

  1. Brief: il documento dove viene spiegato l’incarico al designer. E’ bene farlo anche a voce, di persona o per telefono/video/ ecc…, perché così si possono chiarire meglio le cose, ma non cadete nella tentazione di fare il brief solo a voce. Magari perché vi conoscete bene con il designer o valutate che il progetto sia semplice. Fate sempre un documento scritto, perché questo vi servirà da riferimento condiviso durante tutto il corso dello sviluppo del progetto.
  2. Il brief deve descrivere il contesto e gli obiettivi del progetto. Non fate un brief dove spiegate i dettagli dell’etichetta perché così sprecate le competenze del designer. Mettete però i paletti obbligatori per legge o per caratteristiche aziendali. Ad esempio il colore aziendale, oppure i vincoli tecnici: se il vostro impianto di imbottigliamento non è in grado di centrare collarino ed etichetta ditelo subito, eviterete di perdere, e far perdere, tempo dopo. Attenzione a non esagerare con i paletti, altrimenti ricadete nel problema di dire voi al designer come deve fare l’etichetta. Invece dovete spiegare al designer cosa deve dire l’etichetta, il come farglielo dire è il suo compito (e il suo mestiere).
  3. De-brief: è la spiegazione del brief che il designer fa al cliente. In questo modo si capisce effettivamente cosa è stato compreso dal designer e si possono correggere gli eventuali fraintendimenti. Come committente non siate rigidi, con il de-brief capita anche di rendersi conte che alcune cose sono confuse perché sono mal definite oppure perché sono semplicemente sbagliate. Ascoltate quello che vi dicono i professionisti di cui vi avvalete, d’altra parte li pagate per sfruttare le loro competenze. Nel brief stabilite una tempistica del progetto, partendo non da oggi, ma dal giorno in cui vi serve il progetto concluso ed andando a ritroso.
  4. Prime proposte del designer. Quanto tempo dopo il brief? Dipende dagli impegni di ognuno. Di base ne poco ne troppo. Se siete clienti, lasciate al designer il tempo necessario per ragionare sulla questione ed esplorare diverse strade. Se siete designer non chiedete troppo tempo solamente per sentirvi tranquilli perché ogni progetto aperto richiede attenzione, quindi meno dura e meglio è.
  5. Valutazione delle prime proposte. Se siete il cliente non fatevi mettere fretta dal designer. Lui ha avuto un mese per fare il lavoro, voi avete diritto ad una settimana per valutarlo.
  6. Scelta delle 2 proposte da sviluppare. Non 4 o 5, DUE. Dovete avere il coraggio di decidere, se non ce l’avete significa che qualcosa nella fase brief/de-brief è andato storto. E non lo risolverete facendo, e facendo fare, extra lavoro. Aumenterete solo la confusione.
  7. C’è una sola eccezione alla regola dello sviluppo delle 2 proposte. Tra le prime proposte presentate dall’agenzia ce ne può essere anche una fuori brief, totalmente o in parte. Secondo me una cosa positiva, che anzi stimolo chi lavora con me a fare perché dimostra che hanno interiorizzato la questione tanto da poter sviluppare una visione originale. Nel caso in cui questa proposta “fuori dal coro” sembri promettente, potete eccepire alla regola e proseguire con lo sviluppo di 3.
  8. Presentazione proposte sviluppate da parte del designer.
  9. Valutazione delle proposte sviluppate da parte del cliente e scelta della proposta da affinare. UNA proposta da affinare. Se a questo punto avete ancora dubbi su quale puntare, meglio che torniate indietro a vedere dov’è il problema.
  10. Affinamento proposta scelta da parte dell’agenzia.
  11. Verifica della proposta affinata da parte del cliente su aspetti legali ed ultimi dettagli.
  12. Correzioni da parte dell’agenzia, esecutivo, stampa.

 

Tre raccomandazioni a chi in cantina gestisce questi progetti:

-          Siate esigenti e non accontentatevi. Se non siete convinti delle proposte in qualsiasi fase del processo siate espliciti al riguardo ed esigete all’agenzia/designer di risolvere il problema.

L’inerzia, la pressione delle scadenze, il timore che creando tensione nel rapporto peggiorerà la qualità del lavoro (rischio reale) possono portare ad accettare soluzioni che non rispondono, o rispondono solo parzialmente, all’obiettivo di comunicazione posizionamento.

Non fatelo perché poi con quell’etichetta dovrete conviverci per i prossimi anni (il cambiamento / aggiustamento frequente dell’identità aziendale trasmette ai clienti un’immagine di confusione e rende più difficile il consolidamento della marca).

 

-          Siate sereni, soprattutto nelle fasi iniziali, perché normalmente il risultato finale è molto diverso dalle prime proposte, anche quelle scelte che al momento sembravano già belle così.

Non serve quindi disperarsi perché le prime proposte sembrano insoddisfacenti. Siate seri ed esigenti, ma sereni, nelle valutazioni e nelle indicazioni correttive. Partite da quanto di buono c’è nelle proposte, abbiate fiducia e lasciatevi sorprendere: un buon grafico trova soluzioni che voi non avreste nemmeno sognato.

 

-          Ho detto in apertura che fare identità di marca non è fare arti figurative, però non approvate proposte che vi sembrano istintivamente brutte, perché rischiate di essere i primi a non credere nella vostra proposta.

Per noi il frutto di tutti questi principi è stata la bottiglia che vedete qui sotto. Vi piace?

Moke up Prosecco DOC Storie di Noir

Meglio le macchine delle persone: il customer service nel 2020.

coop luce e gasL’altro giorno una mia amica che mi dice:

“Ho cambiato gestore (di telefonia mobile), comodissimo. Fai tutto per internet e non devi parlare con nessuno. In più la sim è attiva da subito: la macchinetta te la sputa fuori, tu la metti nel telefono e sei a posto”

“Come la macchinetta?”

“Si c’è la macchinetta al centro commerciale. Tu vai lì, scegli se tenere il tuo vecchio numero oppure se vuoi un numero nuovo, confermi, esce la sim e cominci a telefonare. In più mi costa molto meno di prima.”

Per la cronaca il gestore è Iliad.

La cosa un po’ mi ha stupito, perché confesso che personalmente sono rimasto ancora legato al concetto che il calore umano nell’assistenza ai clienti è premiante rispetto alla freddezza delle macchine (anche se nel 2017 avevo scritto un post su come gli shopping stessero rivoluzionando i comportamenti di acquisto).

Quindi l’assenza di un rapporto umano diretto la vedevo come una scelta che le aziende fanno per abbassare i costi e che gli utenti sostanzialmente sopportavano.

La mia amica invece vedeva il fatto di non dover avere a che fare con delle persone come un plus (di efficienza).

Allora o ripensato alla mia esperienza.

L’anno scorso stufo della scarsa qualità del servizio di Fastweb (all’estero non riuscivo a fare praticamente niente con lo smartphone perché il traffico dati era di fatto piccolissimo e lentissimo) ho deciso di cambiare.

Sarei potuto tornare a Vodafone, che avevo lasciato perché di punto in bianco mi hanno addebitato dei costi previsti dal contratto, che si erano dimenticati di addebitarmi nei mesi precedenti, però la gestione clienti di Vodafone Business veniva fatta interamente per telefono. Devo dire generalmente in modo estremamente efficiente.

Ho scelto quindi di passare a 3, anche perché c’era un negozio vicino a casa e quindi in caso di problemi potevo sempre andare a parlare con una persona guardandola negli occhi. Sono così andato in negozio ed ho fatto il nuovo abbonamento con sim prepagata, anche perché la ragazza che lo gestiva era brava e preparata. Unico problema: ci ha messo un po’ a concludere la procedura perché avevano problemi con il collegamento telefonico (???).

Con la prima bolletta c’erano dei conti che non tornavano, così sono andato al negozio. Però nel frattempo il negozio l’avevano chiuso perché 3 si era spostata all’interno del negozio Wind, qualche isolato più avanti.

Vabbè. Sono andato al negozio Wind – 3 dove c’era la stessa ragazza con cu avevo fatto il contratto, la quale mi ha spiegato che nel mio contratto non erano compresi gli SMS, addebitati quindi ad un costo esorbitante (se ricordo bene 10 o 20 centesimi l’uno).

Ho chiesto anche come registrarmi sul sito per vedere il traffico e lei mi ha dato il codice cliente, che effettivamente mi veniva richiesto dal sito, ma sul contratto non appare da nessuna parte.

Ho provato alcune volte a registrarmi, ma niente. Dopo un paio di settimane (ho anche altro da fare nella vita che risolvere i contrattempi causati dal mio gestore telefonico) sono ripassato in negozio, ma la ragazza non c’era perché era in ferie (come normale che sia). Sottoposta la questione al collega che era lì, mi ha risposto “Io seguo Wind, su 3 non posso aiutarla, se vuole chiami a questo numero dell’assistenza clienti”.

Chiamata l’assistenza, risolto il problema. A remengo anche il sito, vivo lo stesso.

Passano altri mesi e sulla sim non viene fatto il riaccredito sotto una certa soglia. E’ un problema perché io con il telefono ci lavoro e non posso trovarmi nella situazione che non riesco a fare una telefonata all’estero perché mi manca credito (tra l’altro il credito residuo era comunque sufficiente per coprire lo scatto alla risposta). Vado sempre in negozio, ho preso 3 per quello, dove trovo tutti e due gli addetti. La ragazza è impegnata, quindi parlo con il ragazzo, che nel frattempo era diventato anche “3”. In teoria, perché l’unica cosa che sapeva fare era guardare sul computer e vedere che funzionava tutto, sulla carta. Peccato che non fosse così anche nel mondo reale.

Allora chiama l’assistenza al telefono, con qualche difficoltà perché loro linea era occupata (il negozio Wind-3 è in duplex con qualcun altro? Esistono ancora in telefoni in duplex?) che dicono che funziona tutto.

Alla fine ho fatto la ricarica manuale ed ho scoperto che il credito calava perché quando andavo su internet in automatico apriva il portale dei servizi 3, che è una pagina a pagamento.

In effetti, forse alla fin fine meglio le macchine. Vado a buttare via il mio Voight Kampff.

Come nasce un vino (innovativo)? Bosco Levada “Storie di Noir” Prosecco DOC Spumante Brut – 1 episodio.

autoclave Storie di Noir

In oltre dieci anni di attività nel mondo del vino ne ho fatte un po’ di tutti i colori, mi mancava però diventare (quasi) produttore. Nel 2020 proverò anche questa ebrezza.

E lo farò puntando sul NERO, perché insieme alla Società Agricola Bosco Levada di Ceggia abbiamo realizzato “Storie di Noir”, Prosecco DOC Spumante Brut che ha il Pinot Nero vinificato in bianco nella cuvée. Il “quasi produttore” significa che chi fa effettivamente il vino sono loro che sono bravi, però tutto il progetto l’abbiamo realizzato e lo gestiamo insieme (onori e oneri).

In questo post, ed in altri che seguiranno vi racconto il dietro le quinte di come nasce e cresce (speriamo) un nuovo vino.

BASTA QUESTO COME DISCLAIMER RIGUARDO ALLA MIA CO-INTERESSENZA SU TUTTO QUELLO CHE DIRO’?

Penso di sì e quindi proseguo serenamente.

Ogni prodotto, ed il vino non fa eccezione, nasce innanzitutto da un’idea. O, se preferite, da un concetto. O come dico io da un “perché”.

Nel caso del Prosecco DOC Spumante Brut “Storie di Noir” i “perché” sono diversi.

Il primo è viticolo ed enologico ed è quello di fare un Prosecco utilizzando il Pinot Nero nella cuvée. Il Pinot Nero vinificato in bianco è sempre stato tra i complementari ammessi nella produzione del Prosecco DOC, però non l’ha mai usato nessuno. Almeno dichiarandolo.
Probabilmente perché rispetto agli altri complementari ammessi, il Pinot Nero è più difficile da coltivare e da vinificare.

Quindi il Prosecco DOC con il Pinot Nero come complementare abbiamo dovuto immaginarlo, prima di farlo (tutte le cose che si fanno sono prima immaginate, a parte quelle che accadono per caso).

Come ce lo siamo immaginato, rispetto agli altri Prosecco DOC?
- Più avventuroso, d’altra parte già mettersi a fare una cosa sconosciuta è un’avventura.
- Più misterioso, vedi sopra.
- Più raffinato.
- Più ricco.
- Meno frivolo.

Definire bene l’idea fin dall’inizio è utile ed importante perchè così si crea una linea guida per tutte le scelte successive.

Brut o Extra Dry?
La maggior parte del Prosecco DOC Spumante che si beve oggi è Extra Dry, quindi dal punto di vista del mercato quindi questa sarebbe stata la scelta più logica.
Però sarebbe stata coerente con come ce lo siamo immaginato? A noi sembra di no, e quindi Bosco Levada “Storie di Noir” sarà Brut.

Quante settimane in autoclave?
La legge prevede per la spumantizzazione un periodo minimo di permanenza in autoclave di 4 settimane.
Secondo noi questo tempo però non era sufficienti per fare il vino che abbiamo immaginato e quindi il nostro minimo sarà di 8 settimane.
In più terremo le bottiglie ad affinarsi in cantina almeno un mese dopo l’imbottigliamento.

Arrivati a questo punto le domande sono due:
- Quanto somiglierà il vino che andremo ad imbottigliare a quello che ci siamo immaginati?

- Piacerà il Prosecco DOC Spumante Brut Bosco Levada “Storie di Noir” così come ce lo siamo immaginato?

Per rispondere alla prima domanda dobbiamo aspettare fino a metà febbraio.

Per rispondere alla seconda ci vorrà un po’ di più, ed un ruolo non secondario lo giocherà l’immagine della bottiglia, che sarà il tema della prossima puntata.

Pubblicato finalmente il report “The Future 100: 2020″ di JWT Intelligence.

 

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In ritardo rispetto agli anni scorsi, ma puntuale rispetto a quanto annunciato, mercoledì è stato pubblicato il report sui trend del 2020 di JWT. Lo potete scaricare qui.

Le solite avvertenza di lettura:

- dai report degli anni passati è dimostrato che ci prendono abbastanza.

- dai report degli anni scorsi è dimostrato che ci vedono lungo, ossia stiamo parlando di tendenze ai loro albori, non di mode di stagione.

- ovviamente andrete subito a vedere i trend del settore che vi riguarda. Io però consiglio vivamente di leggerlo tutto, sia per trovare spunti (cross-fertilization) che per trovare le connessioni tra i diversi trend nei diversi settori ed individuare così le macro-tendenze di fondo.

Buona lettura (io non ho ancora avuto il tempo di leggerlo, quindi non chiedetemi cosa ritengo particolarmente interessante).

P.S. Se non vi fidate di JWT Intelligenge potete sempre andare a leggere l’ #oroscopodimmerda per il 2020 di Paola Sucato su facebook.

Elegante e di classe: 19-4052 Classic Blue è il colore Pantone per il 2020.

pantone-color-institute-color-of-the-year-2020-classic-blueCome ogni anno da vent’anni, anche quest’anno il Pantone Color Institute ha indicato quello che secondo loro, e loro di colori se ne intendono parecchio, sarà il colore dell’anno.

Questo è il link alla pagina del loro sito sull’argomento e comunque riporto integralmente il loro testo esplicativo, così non dovete fare troppi sforzi che vi state ancora riprendendo dalle feste.

Nel leggerlo ricordatevi che:

-          Ogni anno c’è un nuovo colore dell’anno, quindi stiamo parlando più di mode che di tendenze.

-          L’individuazione del colore dell’anno da parte della Pantone non è banale, perché sono il riferimento mondiale dei colori, però è anche un’operazione di pubbliche relazioni. Quindi prendetela cum granu salis.

-          La vostra identità visiva (di marca) si costruisce e rafforza con la costanza nel tempo e dipende dalla vostra identità (di marca) complessiva. Attenzione a farsi sviare dalle mode (che però possono essere molto utili come contorno). Io personalmente anche quest’anno continuerò ad oscillare tra il rosso passione ed il verde speranza.

-          Fate comunque un salto sulla pagina e andate in fondo a guardarvi i colori dell’anno degli ultimi 20 anni.

 

PANTONE 19-4052 Classic Blue

Infondendo calma, fiducia e un senso di connessione, questa intramontabile tonalità di blu mette in evidenza il nostro desiderio di una base stabile e affidabile da cui partire mentre ci apprestiamo a varcare la soglia di una nuova era.

Sfumatura di blu intramontabile e senza tempo, PANTONE 19-4052 Classic Blue è elegante nella sua semplicità. Rievocando il cielo all’imbrunire, le qualità rassicuranti di questo colore stimolante mettono in evidenza il nostro desiderio di una base stabile da cui partire mentre ci apprestiamo a varcare la soglia di una nuova era.

Imprimendosi nella nostra mente come un colore rilassante, PANTONE 19-4052 Classic Blue offre rifugio e infonde nell’animo umano un senso di pace e tranquillità. Esso consente di rifocalizzare i nostri pensieri facilitando la concentrazione e fornendo un’eccellente chiarezza. Sfumatura di blu che invita alla riflessione, Classic Blue favorisce la resilienza.

Dal momento che l’abilità umana fatica a tenere il passo con la tecnologia, non stupisce che siamo attratti da colori onesti che offrono un senso di protezione. Tonalità non aggressiva con cui ci si identifica facilmente, l’affidabile PANTONE 19-4052 Classic Blue si presta a un’interazione rilassata. Questo colore universalmente prediletto associato all’avvento di un nuovo giorno è accolto senza indugi.

 pantone-color-of-the-year-2020-classic-blue-lee-eiseman-quote-it

Informazioni sul Pantone Color of the Year

Da oltre 20 anni, il Pantone Color of the Year influenza lo sviluppo dei prodotti e le decisioni in materia di acquisti in svariati settori, tra cui moda, arredamento di interni, design industriale, imballaggio dei prodotti e graphic design.

La scelta del colore dell’anno è frutto di un’attenta valutazione e dell’analisi delle tendenze. In effetti, per effettuare tale selezione, ogni anno gli esperti del Pantone Color Institute perlustrano ogni angolo della terra alla ricerca delle nuove influenze in fatto di colore. Parliamo di influssi che possono provenire dagli ambiti più svariati, quali il mondo dello spettacolo e della produzione cinematografica, le collezioni d’arte itineranti e i nuovi artisti, la moda, tutte le sfere del design, le mete turistiche più gettonate, così come i nuovi stili di vita, di gioco e le condizioni socio-economiche. Le influenze possono derivare anche da nuove tecnologie, materiali, texture ed effetti che hanno un impatto sul colore, dalle più importanti piattaforme di social media e persino da eventi sportivi che catturano l’attenzione internazionale.

Informazioni sul Pantone Color Institute

Il Pantone Color Institute è la divisione commerciale di Pantone che mette in evidenza i principali colori stagionali delle passerelle, prevede le tendenze cromatiche mondiali e fornisce consulenza alle aziende in merito al colore nell’identità visiva del marchio e dei prodotti. Il Pantone Color Institute collabora con marchi di livello mondiale mediante previsioni sulle tendenze stagionali, ricerche sulla psicologia del colore e consulenza, per integrare nella loro strategia di design tutta la potenza, la psicologia e l’emozione del colore.

JWT Intelligence Future 100: 2019, quali previsioni si sono avverate un anno dopo?

Monumento alle vittime del terrorismo. Cartagena, Spagna.

Monumento alle vittime del terrorismo. Cartagena, Spagna.

In attesa che JWT Intelligence pubblichi il nuovo report Future 100:2020 il prossimo 15 gennaio, vediamo quali delle tendenze identificate l’anno scorso sono state confermate dai fatti.

Non è un’analisi che ho fatto io ma, con lodevole onestà intellettuale, l’ha fatta direttamente JWT Intelligence in tre post pubblicati questo mese.

Io qui mi limiterò solamente ad elencarli, senza dilungarmi nelle spiegazioni che dimostrano perché sono stati confermati.

Curiosi e malfidenti possono andare sul sito della JWT Intelligence ed approfondire da soli https://www.jwtintelligence.com/

Trend n. 4: ridefinizione della mascolinità.

Trend n. 13: imperi sonori, ovvero utilizzo anche di suoni/musica per l’identità/personalità.

Trend n. 21: monumenti usati come punti di riferimento e coinvolgimento pubblici (immersive public landmarks). Nota: la foto che apre questo post l’ho scattata oggi a Cartagena, Murcia – Spagna.

Trend n. 32: mediavolution, termine che indica la ricerca/creazione di nuovi media e formats (spesso proprietari) da parte delle marche per riuscire a raggiungere e coinvolgere le audiences in uno scenario di comunicazione sempre più affollato.

Trend n. 47: wine waters, ovvero acqua avvinata o vini annacquati (secondo come vogliate vederli), ovvero bevande a base vino con basso o nullo contenuto alcolico.

Trend n. 52: influencers virtuali.

Trend n. 66: vendite via SMS (text commerce).

Trend n. 74: vegan luxury (questo neanche lo traduco).

Trend n. 88: silenzio.

 

Ricordatevi che si sta parlando di tendenze agli, quindi possono essere (vantaggi competitivi) importanti anche, e soprattutto, se sono ancora poco diffuse.

Ricordatevi che le tendenze non sono mode, quindi si tratta ancora di nicchie (più o meno grandi) destinate però a durare e crescere nei prossimi anni.

Dino Buzzati diceva che essere felici ed allo stesso tempo esserne coscienti capita un paio di volte nella vita, a meno di non essere pazzi o particolarmente fortunati.

A tutti i miei migliori auguri per un felice 2020 da incoscienti.

Nel mondo c’è un surplus di felicità, per valorizzarla bisogna condividerla.

Lo so che il titolo di questo post suona molto natalizio (complice anche il periodo), ma è una considerazione che ho veramente trovato in un articolo pubblicato sul numero di agosto (quindi in tempi non sospetti) di Marketing News.

Il presupposto parte dalla lettura dell’indagine “Perils of Perception” (Pericoli della Percezione) condotta dalla Ipsos ogni anno a partire dal 2012.

L’ultima edizione pubblicata è quella del 2018, però purtroppo non tutti gli anni ripetono le stesse domande. Quindi l’ultima edizione con la domanda che riguardava la felicità è quella del 2016.

L’indagine è stata condotta in 40 paesi, intervistando un totale di 27.250 persone con campioni rappresentativi dei diversi paesi, tra il 22 settembre ed il 6 novembre 2016.

La domanda sulla felicità era: “Conducendo un’indagine sulla popolazione, secondo Lei che percentuale di persone direbbe di essere tutto considerato “molto felice” o “abbastanza felice”?”

Il risultato delle risposte a questa domanda è stato poi confrontato con la % di persone che effettivamente avevano risposto di essere “molto felice” o “abbastanza felice” in quel paese secondo l’indagine World Value Survey.

In questo modo è possibile avere una misura della differenza di percezione tra la % di persone che si crede si dichiarano felici e la % di persone che effettivamente si sente felice.

Si ottiene così il grafico qui sotto, che mostra come in tutti i paesi ci sia una percezione di felicità molto più bassa di quella effettiva. Ovvero c’è più felicità di quella che pensiamo.

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Non cercate l’Italia perché in questo grafico non c’è, pur se viene citata tra i paesi su cui è stata condotta l’indagine.

Tralascio tutte le considerazioni sull’affidabilità dei dati, di risposte basate sulla percezione ed autopercezione e sui livelli assoluti di felicità dichiarata nei diversi paesi (i valori più alti si concentrano tendenzialmente nei paesi relativamente più poveri).

Prendo l’analisi per buona e mi concentro invece, come ha fatto J.Walker Smith che ha scritto l’articolo di Marketing News, sul fatto che nel mondo c’è abbondanza di felicità.

Il marketing, in estremissima sintesi, si basa sull’obiettivo di rendere la vita delle persone più felice (o se preferite facile, comoda, piena, ecc…).

Normalmente questo si realizza dando più/migliore accesso a risorse scarse. Tra le caratteristiche che la teoria economica indica perché un bene sia potenzialmente oggetto di scambio c’è la sua scarsità rispetto alla domanda.

Ora è vero che si può sempre essere PIU’ felici, ma è altrettanto vero che questa indagine dimostra (dimostrerebbe) che la felicità è un “bene” piuttosto abbondante. E l’abbondanza, di qualsiasi cosa, porta normalmente ad essere più altruisti nel condividere quello che si ha.

Qui poi Walker Smith tira in ballo il filosofo australiano Peter Singer e la sua teorizzazione dell’utilitarismo che considera come azioni moralmente più accettabili quelle che puntano a massimizzare il livello netto di utilità/piacere/felicità di tutti (umani e non umani compresi). Nel corso della carriera Singer è passato dall’utilitarismo preferenziale all’utilitarismo edonistico. Questo se volete ve lo cercate da soli su wikipedia.

(Eccessi?) di filosofia a parte, è interessante notare le crescenti tendenze di comportamenti basati sull’abnegazione (self-sacrifice) piuttosto che sull’arricchimento (self-enrichment).

Il manifesto degli Amministratori Delegati delle grandi aziende per tener conto anche degli interessi della società in senso ampio e non solo degli azionisti, le campagne pubblicitarie centrate sul miglioramento della vita delle persone (charity e non) ed in generale l’attivismo sociale delle marche sono tutte strategie basate sulla creazione di valore attraverso la condivisione del surplus di felicità.

Crederci è il primo passo per agire.

Almeno a Natale.

Passate bene, ci risentiamo nel 2020.

I millenials stanno invecchiando, dite ciao alla Generazione Z.

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Il termine “millennials” è una dimostrazione della forza evocativa che ancora possiedono le parole.

Peccato però che in questo caso l’evocazione sia sbagliata. Infatti suggerisce che si tratti delle persone nate negli anni 2000, mentre ufficialmente indica i nati tra il 1981 ed il 1996.

Questo implica che il termine “millennials” nel parlare comune (anche di “prestigiosi” mezzi di comunicazione) sia usato a sproposito e, soprattutto, che i millennials abbiano oggi tra i 38 ed i 23 anni.

Nella fascia di età più alta quindi non proprio dei ragazzini.

Si potrebbe aggiungere che forse una persona di 38 anni ha più cose in comune con una di 43 che non con una di 23, ma questo è il brutto delle segmentazioni basate sui parametri demografici. Soprattutto nei segmenti più giovani, perché poi andando avanti con gli anni lee fasi del ciclo di vita delle persone si appiattiscono (un po’).

Questa è la ragione per cui non amo le segmentazioni demografiche, preferendo quelle sui valori e sui vantaggi (benefits) ricercati ed attesi dalle persone. Indubbiamente però le caratteristiche socio-demografiche sono necessarie per definire come raggiungere le persone, soprattutto per le politiche di percezione e di presenza (termini che nella mia teoria del marketing totali sostituiscono rispettivamente promotion e place; oramai non lo spiego più, se siete curiosi basta cercare uno dei tanti post passati in cui tratto l’argomento).

Probabilmente l’ennesimo caso di eterodossia da parte mia, visto che sostanzialmente tutti da qualche anno parlano dell’importanza dei millennials per il futuro delle marche.

Mi arrendo quindi all’ortodossia (quasi) e, siccome la vita è una ruota, sintetizzo di seguito le indicazioni fornite dalla ricerca sulla Generazione Z realizzata lo scorso giugno dal JWT Intelligence e Snapchat.

L’impressione è che la presenza di Snapchat distorga leggermente la visione rispetto all’utilizzo di altre piattaforme, ma visto che Facebook è sempre equivalente al diario del liceo (nomen omen), quindi di chi al liceo scriveva sul diario cose che andavano oltre la scuola, Instagram il posto dove pubblicano quelli più “smart” di facebook e su TikTok sono arrivate perfino Barbara D’Urso e Caterina Balivo, forse la visione distorta è la mia.

Come spesso accade nell’adozione di un termine per indicare una “generazione”, l’origine del nome (cosa di cui ci interessa poco) e l’intervallo demografico che comprende non sono definiti in modo univoco e preciso.

Il Pew Research Centre comprende i nati tra il 1997 ed il 2012. Lo studio di JWT ha preso in considerazione il segmento compreso tra i 13 e 22 anni.

Quelli che una volta si sarebbero chiamati gli adolescenti, per cui non stupisce più di tanto che nella ricerca condotta in Usa e Regno Unito a maggio di quest’anno su 1.208 adolescenti che usano lo smartphone almeno una volta al giorno, la grandissima maggioranza indicasse come lo slogan della propria generazione “sii te stesso”. Parlate con qualsiasi psicologo dell’età evolutiva e vi dirà che l’adolescenza è una fase dello sviluppo caratterizzata dalla definizione del (nuovo) sé.

Ma basta banalizzare tutto. Passo a descrivere le principali indicazioni contenute nella ricerca (il report completo di 70 pagine lo trovate qui, gratis, basta registrarsi).

 

Creatività trilingue.

Anni fa tra i 100 trend per l’anno individuati sempre da JWT c’era il “parlare per immagini” (speacking visually). Per la Generazione Z questo è la norma perché ci sono cresciuti dentro.

Se per i Millenials si parlava di nativi digitali, qui possiamo parlare di (visual) social digitali.

A questo si aggiunge la creatività per cui le immagini sono spesso manipolate con effetti speciali, musiche e testi.

Tutto questo permette alla Generazione Z di esprimere pensieri complessi in maniera molto ricca, ed allo stesso tempo di mostrare in modo molto diretto le proprie emozioni.

Per capire cosa dicono bisogna quindi sapere lo stesso linguaggio ed ancora di più per “parlarci”. Se pensate ad una comunicazione (che dovrà essere) più povera solo perché non leggono i libri e non scrivono, rischate di fare molta poca strada.

 

C’è tutto, è qui ed è adesso.

Se ci penso attentamente quello scritto sopra è un concetto che a me fa venire le vertigini (ed infatti cè una vecchia vignetta di Mafalda che mostra proprio questo), ma per la Generazione Z è la situazione normale in cui sono nati e cresciuti.

Lo smartphone mette letteralmente il mondo in mano, quindi sono abituati al fatto che le cose che trovano in partenza sono (sembrano) tutte uguali. Così non hanno preconcetti nel mescolarle per ricrearle e condividerle. Fondono i confini estetici e culturali.

Esplorano diverse identità senza apparente contraddizione, il che non poi così sorprendente trattandosi di persone il cui cervello è letteralmente ancora in via di formazione anatomicamente e fisiologicamente. Chiunque ha degli adolescenti in casa sa esattamente cosa intendo.

 

Sono autentici, anche quando si contraddicono.

Anche nelle molteplici identità che possono esplorare, il loro comportamento è sempre orientato alla verità.

Le foto pulite, filtrate, perfette come in un set sono roba da (relativamente) vecchi. Chi mette più #nofilter tra gli ashtag di Instagram?

Le manipolazioni delle immagini e dei video non sono fatte per renderle più “belle”, bensì per renderle più emotivamente autentiche. Per esprime in modo più chiaro e compiuto cosa provano veramente.

Spontaneità vs. posa.

 

I principali motivatori sono il divertimento e l’intrattenimento.

Anche questa non proprio una scoperta clamorosa se ricordiamo che stiamo parlando di adolescenti (se dico “sbarbati” c’è qualcuno che mi capisce).

Sarebbe sbagliato però scambiare questi atteggiamenti con il disimpegno. Piuttosto si tratta degli approcci usati per far arrivare il messaggio, sia lo si mandi agli amici oppure all’universo mondo (web).

 

Le questioni sociali sono importanti.

Cresciuti nell’internet dell’odio, dove tutti giudicano tutti, la Generazione Z usa sfacciatamente la propria portata social (social reach) per creare comunità in cui dialogare rispetto alla loro fluidità (nuovamente caratteristica dell’età).

Ridefiniscono le identità di genere, i canoni di bellezza, ecc… in una logica inclusiva che va oltre i tutorials ed i selfies per stabilire personalità multiforme.

 

Online ed offline hanno pari importanza.

Proprio grazie al fatto di essere cresciuti in una società in cui il web ed i social erano già maturi, La Generazione Z è assolutamente cosciente dei pro e dei contro dei social media.

Per esprimere la propria creatività possono realizzare indifferentemente attività online o offline. Poi ovviamente pubblicheranno sul web le prove del loro gruppo musicale o il proprio disegno. Facilmente integreranno analogico e digitale per creare qualcosa di ancora diverso.

Perché comunque le app social gli danno una libertà di espressione praticamente infinita.

Ultima nota importante, visto che questo rimane un blog di marketing e la maggior parte delle organizzazioni che realizzano attività di marketing sono aziende for-profit: la Generazione Z ha un potere d’acquisto superiore a quello che hanno avuto in passato i loro pari età.

Una ricerca del 2013 stimava solo negli USA una capacità di spesa di 44 miliardi di dollari. Già quella volta si trattava una delle stime più prudenziali, e sono già passati 6 anni.

Tempus fugit.

Organizzazione, gestione e controllo.

please take me to disneyland

(nella mia visione)

scopo dell’organizzazione è che il funzionamento dell’azienda fluisca senza intoppi;

compito della gestione è guidare l’azienda nella direzione voluta, risolvendo gli intoppi che fatalmente si vengono a creare;

ruolo del controllo è informare sull’andamento dell’azienda.

 

Allora perchè continuo ad imbattermi in situazioni in cui:

l’organizzazione è mera burocrazia fine a se stessa che poco aiuta il funzionamento dell’azienda (quando non lo intralcia);

la gestione si dedica quasi interamente a far sì che l’azienda funzioni;

il controllo viene utilizzato per attribuire le colpe delle cose che non vanno come desiderato (i meriti non si riconoscono praticamente mai).