Le conseguenza della crisi economica: l’evoluzione dei canali distributivi in Italia – 3

Dunque, dopo aver passato lo scorso fine settimana al Vinitaly e quello prima al ProWein, il prossimo sono a Chicago. L’unico fine settimana in un mese in cui sono a casa arriva finalmente la primavera ed io d avenerdì ho un fortissimo raffreddore con conseguente afonia ed eruzione cutanea (???). Niente cavallo, niente orto, niente di niente. volendo vedere il bicchiere mezzo pieno (o forse solo 1/4), la situazione ideale per concludere la saga sull’evoluzione dei canali distributivi. Spero di non aver preso qualche strano virus asiatico, con tutti i cinesi che ho visto, e parto.

Nei due post precedenti in sintesi volevo dire che in una fase di strutturale stagnazione demografica e (quindi) economica non sarà la convenienza fine a se stessa a far ripartire i consumi. Non sarà nemmeno quello che permettera di aumentare le quote di mercato, perchè nel momento in cui diventa la base dell’offerta di tutti, automaticamente non è più differenziante. L’unico risultato certo sono l’aumento medio del surplus del consumatore, in seguito all’offerta generalizzata di prezzi inferiori rivolta ad un paniere più ampio di prodotti ed a segmenti più ampi di consumatori, e la simmetrica riduzione dei margini della distribuzione. Di per sè ptrebbe anche essere una cosa positiva, fino al giorno in cui la ferramenta che vi faceva il colore che vi serviva non è costretta a chiudere.
L’esempio più emblematico di questa eccessiva corsa allo sconto è il diffondersi delle svendite di fine stagione negli outlet, format che basa la sua essenza sulla vendita di capi delle stagioni passate a prezzi di svendita. Quante paia di scarpe può avere un uomo o un donna (niente battute sessiste)?. Quanti divani, poltrone e sofà può comprare una persona in vita sua?
Per capire quale potrà essere l’evoluzione dei canali distributivi in Italia credo sia utile innazitutto recuperare un concetto di marketing di qualche anno fa e poi passato di moda: il ciclo di vita del consumatore. E’ passato di moda talmente presto che non ho trovato riferimenti in italiano e quelli in inglese si riferiscono in realtà a due aspetti diversi: i diversi stadi del rapporto del consumatore con l’azienda e i diversi comportamenti di spesa delle persone a seconda della fase del ciclo di vita in cui si trovano. Questo secondo me è l’aspetto più autentico ed interessante, soprattutto perchè i comportamenti di acquisto vengono associati alla fase relativa del ciclo di vita delle persone a non alle loro caratteristiche demografiche assolute. Detto in altre parole le coppie che hanno il primo figlio mostrano comportamenti di acquisto simili, indipendentemente dall’età dei componenti, mentre persone con profilo demografico simile hanno comportamenti di acquisto diversi se si trovano ad uno stadio diverso del loro ciclo di vita.
Mi aspetto quindi che l’evoluzione dei canali distributivi in Italia andrà nella direzione di maggior efficenza che porterà a:
- crescita dell’e-commerce che unisce minori costi di gestione e di usufruizione all’ampiezza dell’assortimento. Questo può rappresentare un’opportunità per reti di negozio esistenti che possono diventare punti di ritiro degli ordini fatti on-line (alternativa più pratica rispetto alla consegna a domicilio per vari segmenti di consumatori).
- crescita dei punti vendita di prossimità (ed infatti i supermercati tengono), con una trasformazione degli assortimenti che aumenteranno in ampiezza (per dare maggior servizio) e si ridurranno in profondità per essere meglio gestibili sia da parte del negozio che del consumatore che ci fa la spesa dentro.
- trasformazione delle reti vendita in reti di consulenti. Questo fenomeno si è già verificato circa vent’anni fa nell’industria mangimistica e credo che sia un esempio interessante. A seguito della sempre minor differenziazione del prodotto (la valutazione di un mangime si basa sui suoi componenti nutritivi, il cui contenuto è facilmente confrontabile tra le diverse marche) le aziende hanno potenziato la propria rete di vendita. Quando anche questa è diventata una caratteristica comune di tutte le aziende, le reti di vendita sono state affiancate da reti di consulenti, a quel punto la scelta di lavorare con un’azienda piuttosto che con un altra è determinata dalla capacità del consulente di far rendere di più i propri mangimi nell’allevamento dei clienti e quindi il passaggio successivo è stata l’eliminazione delle reti di vendita (poichè sono uscito dal mondo della zootecnia vent’anni fa, non so quale sia la situazione oggi. Sarebbe interessante scoprirlo, magari si trovano indicazioni interessanti per il futuro).
- crisi dei category killers secondo l’andamento delle categorie in cui operano: esaurito il drenaggio di clientela dalla piccola distribuzione tradizionale o saranno capaci di trasformarsi oppure seguiranno l’andamento delle categorie. Non c’è dubbio che le vendite di libri fisici diminuiranno (è una questione di tecnologia), o le librerie saranno in grado di ventare qualcosa di diverso, oppure chiuderanno.

Avrò ragione? Chissà! Spero solo che chi si occupa di politiche distributive si ponga queste domande e lo faccia con un minimo di progetto per evitare inutili consumi di suolo (questa sì una risorsa limitata). E’ di poche settimane fa l’inaugurazione del nuovo casello di Villesse (Gorizia) per servire quello che diventerà il più grande parco commerciale del Nordest con un bacino di utenza stimato di 1.300.000 clienti. Ora considerato che c’è già un outlet a Palmanova (10 minuti in macchina), che tutto il Friuli Venezia Giulia ha 1.236.103 abitanti e che tutta la Slovenia ne ha poco più di 2.000.000, più che il “primo tassello di un progetto importante per l’isontino” mi sembra l’ennesimo, inutile, stupro ambientale. Una volta lì era tutta campagna.

La crisi economica porta con sè il ritorno del lusso?

Tempus fugit e questa settimana proprio non riesco a mantenere la classica cadenza del mio blog.

La ncio così la domanda che sta alla base di quello che avevo in testa di scrivere, perchè non è che abbia proprio dei segnali, ma la sensazione è forte.

Qualcuno riesce a darmi qualche fatto, anche debole, a supporto?

Grazie in anticipo.

(Quando) scoppierà la bolla enogastronomica 2.

Non so se avete avuto tempo di leggere l’articolo di Steven Poole con cui concludevo il post della scorsa settimana.

Riporto qui un breve pezzo che ne riassume, per quanto possibile il senso:
<.... Nathan Myhrvold ... nell'introduzione al suo libro in 6 volumi dall'inquietante titolo Modernist cuisine (venduto a 395 sterline) si chiede: "Se la musica è un'arte, perchè il cibo non può esserlo?" Dovrebbe essere evidente che una bistecca non è una sinfonia, una pizza rustica non è una passacaglia, il foie gras non è una fuga. E comporre un menù non è come comporre un requiem e il cuoco che prepara una pietanza in cucina e la presenta su un piatto non è l'equivalente artistico di Charlie Parker>.

Io personalmente oscillo tra l’evidenza che “l’arte culinaria” sia, sempre nelle parole di Poole “una più modesta attribuzione di abilità creativa (technè piuttosto che poesis) ad un’attività quotidiana” e non una “forma d’arte”, e l’evidenza del contrario pensando a certe cose che ho visto e, talvolta assaggiato, in tanti anni di lavoro nell’enogastronomia. Soprattutto pensando all’approccio, alla ricerca, alla creatività ed allo studio per l’affinamento delle proprie capacità che sono alla base dell’alta cucina. D’altra parte una delle mie più emozionanti esperienze gastronomiche di cui ricordo (lo so che con questi termini sto tornando nel territorio dell’ARTE, l’ho detto che oscillo) è una sopressa di un contadino vicentino mangiata tanti anni fa davanti al caminetto, di ritorno da una giornata sugli sci da fondo. Qui non c’era studio e consapevolezza ma solo la ripetizione di un saper fare creatosi attraverso generazioni che qualcuno chiama (giustamente?) arte della norcineria.

Al di là delle mie storie personali quello che è evidente è che la nicchia delle persone per cui la cucina (ed il vino) sono un’Arte è sostenuta da un numero sempre più ridotto di persone che conoscono, apprezzano e praticano l’arte culinaria. Sempre meno persone compreranno, e regaleranno, coltelli giapponesi di ceramica o sale rosa dell’Himalaya (concettualmente uno dei cibi più anti-ecologici che possa concepire).

Abbiamo già passato il punto di flessione se, come mi ha detto un’amica, sui canali RAI trasmettono servizi sul food design (era il dicembre 2010 quando nell’azienda in cui lavoravo ho ideato un concorso/evento sul food design insieme ad una rivista specializzata dell’alta ristorazione), Vissani riscopre le ricette della mamma (come ascoltare i Beatles suonati da un’orchestra sinfonica) e la Nutella si propone come ingrediente in cucina.

In “Si spengono le luci”, romanzo di Jay McInerney ambientato a New York nell’imminenza del crollo della borsa del 1987 uno dei personaggi ad una festa dice qualcosa tipo “Quando anche i baristi discutono del Dow Jones è il momento di vendere”. Non bisogna farsi ingannare dal fatto che, sempre citando dallo stesso libro, “L’imperatore è nudo, però mostra un gran bel fisico” (sarà un caso che poi McInerney sia diventato anche un importante critico di vini?).

A questo punto che fare? Prepararsi ad un futuro in cui per la maggior parte delle persone l’interesse per l’enogastronomia in senso edonistico sarà marginale, i gusti si semplificheranno (basta guardare il banco dell’ortofrutta o del pesce di un qualsiasi supermecato, ma anche di un fruttivendolo o di una pescheria), si omogenizzeranno e si dedicherà sempre meno tempo alla cucina. L’implicazione è che si dedicheranno anche meno soldi alla spesa alimentare. Probabilmente il futuro me l’ha detto dieci anni fa la responsabile clienti di una grande agenzia pubblicitaria milanese, descrivendomi i “4 salti in padella” Findus come un’apice gastronomico. Tipo “quando sono di fretta mangio la prima cosa che capita, ma quando voglio mangiare bene SCELGO i “4 salti in padella”. confesso di non averli mai assaggiati, ma faccio fatica ad essere d’accordo. Però l’ho già detto prima che io non conto.

Chi ci potrà salvare (a noi che lavoriamo nell’alimentare)? Ci potrà salvare l’estero, per l’allargamento della nicchia dei foodies in nuovi paesi che passano dall’alimentazione di sostentamento a quella di gratificazione edonistica e sociale.

Basterà? E’ troppo tardi per pensarci. Quello che so è che già vent’anni fa la maggior parte del gorgonzola piccante, del provolone piccante e del grana con la crosta coperta di nerofumo si vendevano negli U.S.A. dove si erano cristallizati di generazione in generazione i gusti portati dai primi emigranti. Oppure adatteremo i prodotti e le preparazioni alle richieste ed ai gusti dei mercati.

In entrambi i casi prepariamoci a cambiare (stile o lavoro).

(Quando) scoppierà la bolla enogastronomica 1.

Ben ritrovati e buon 2013. Alcuni si attendevano, giustamente, il primo post del 2013 domenica scorsa, ma la fine anno è stata parecchio intensa (direi in linea con tutto il 2012), l’inizio precoce e quindi lo scorso fine settimana mi sono dedicato ad altro.
L’ultimo post previsto per il 2012 (quello sulle strategie promozionali dei pandori è stato un di più imprevisto) si intitolava “Quando scoppierà la bolla dell’eno-gastronomia?” Nel riprendere il discorso ho aggiunto una parentesi e tolto un punto di domanda perchè una bolla prima o poi è destinata a scoppiare, per quanto surfattante si aggiunga.
Quindi il concetto di base è che siamo in presenza di una bolla riguardante l’enogastronomia
Cos’è che mi porta a fare questa affermazione?
Una serie di segnali si sono andati accumulando nella mia percezione. Il primo, e quello che sembra ver fatto da catalizzatore, è il successo mediatico della trasmissione Masterchef, format importato dagli U.S.A. in cui è una TV show (le parole sono importanti) di successo dalla prima edizione del 2010, che in Italia ha per protagonisti uno chef italiano che lavora a Milano, uno italiano che lavora a Londra ed uno americano che possiede ristoranti italiani.
Le associazioni mentali seguite a questo considerazioni sono state:
- siamo di fronte ad un fenomeno globale. E’ una moda o una tendenza? Oppure è una tendenza oramai in fase calante da diventare moda generalista moda globale.
- il successo mediatico sembra quasi superiore a quello di pubblico. Detto in altre parole la trasmissione fa ascolti eccellenti nell’ambito della piattaforma digitale terrestre/satellitare ma che comunque si aggirano in assoluto tra i 500.000 ed il milione di spettatori (finale della prima edizione), ossia intorno al 3%. Però se ne parla molto sui media e sui social network. Sarà perchè ha un pubblico molto appassionato e/o la cucina è un argomento che attira il pubblico?
- negli ultimi vent’anni, ma potremmo dire anche dieci, il tempo medio dedicato alla preparazione dei pasti nelle famiglie italiane ha continuato a ridursi arrivando a meno di 40 minuti al giorno (direi probabilmente a pasto, come rilevava già nel 2009 GPF). L’atteggiamento nei confronti dell’eno-gastronomia si sta polarizzando? Da una parte un nicchia di appassionati che dedica tempo e denaro a cibo e vino e dall’altra la maggioranza che premia la praticità? Ma questa maggioranza è comunque appassionata dall’argomento in ricordo dei vecchi tempi oppure semplicemente la nicchia di minoranza è sufficientemente grande e militante da determinare la visibilità dell’argomento? Butto lì un dato: nel 1990 i McDonalds’ in Italia erano 8, nel 2010 400. Al di là di tutte le considerazioni etiche e socio-antrolopologiche che si possono fare, il dato di fatto è che la gente ci va dentro a mangiare (quando non compra addirittura al Mc Drive).
Avevo queste cose che mi frullavano per il cervello, quando sull’ “Internazionale” ho trovato l’articolo di Steven Pole del Guardian “La dittatura della polpetta” (scusate ma ho trovato solo il link alla versione inglese originale).
Ora questo articolo è impossibile da sintetizzare, un brevissimo estratto lo0 trovate su Scatti di Gusto. Vi consiglio di leggerlo e poi riprendiamo il discorso la prossima settimana

S O R P R E S A !!! Biscomarketing è ospite di Vino al Vino

La scorsa settimana ho lasciato un breve commento al post di Franco Ziliani relativo all’esternazione di Angelo Gaja sulla venedemmia 2012, preannunciando un approfondimento qui per questa settimana.
Franco Ziliani mi ha fatto l’onore e la cortesia di chiedermi di ospitare il mio intervento su Vino al Vino, ed io ho accettato con piacere.

Ecco quindi il link al post Angelo Gaja, le previsioni di vendemmia e le brioches di Maria Antonietta su Vino al Vino.

Poichè un mio vecchio lettore si è lamentato (giustamente) della lunghezza e densità del mio post pubblicato ieri qui su biscomarketing (ho dovuto ridurre il pezzo persino per l’uscita su “Il Mio Vino” avverto che l’intervento su Vino al Vino è stato spezzato in due parti.

Anche così consiglio di armarsi di un po’ di tempo e di attenzione. D’altra parte ci sono argomenti per cui è necessario un certo approfondimento e completezza di analisi.

Buone letture.

La forza delle abitudini: riassunto e commento.

Come annunciato ecco le riflessioni che mi ha suscitato l’articolo “La forza delle abitudini” riportato nei due post precedenti a questo (se volete approfondire, l’autore dell’articolo ha anche scritto un libro sull’argomento).

Per compensare la lunghezza dei post 1 e 2, cercherò di essere sintetico con questo, limitandomi solo agli spunti più intensi.

X Factor. Mi ha colpito scoprire una volta di più l’importanza data dalle aziende americane alla ricerca ed all’analisi per la produzioni di informazioni rilevanti allo sviluppo dell’attività. Mi ha colpito soprattutto per il confronto con la realtà italiana, che continua ad essere pervasa da una cultura umanista basata sulla logica e sul ragionamento speculativo, dove la quantificazione riguarda quasi esclusivamente i risultati (di vendita, di reddività) e raramente i diversi aspetti che detrminano quei risultati.
Non credo che il problema sia la disponibilità dei dati, perchè oramai anche in Italia le azienda della grande distribuzione (e non solo) dispongono di carte fedeltà, programmi di fidelizzazione eccetera. Però non riescono a trasformare i dati in informazioni perchè non investono in persone come Andrew Pole, con forti competenza, ma, magari, non altrettanto forte personalità.
In genere nelle aziende italiane, a tutti i livelli, l’intraprendenza viene considerata l’X-factor sulla competenza. Secondo me invece ci sono livelli, ruoli e posizioni dove l’intraprendenza non è fondamentale, purchè le competenze siano valorizzate dall’imprenditore (o dalla figura imprenditoriale). Cosa sarebbero le imprese italiane se alla creatività, diciamo pure all’inventiva, si aggiungesse l’analisi?

Il grande fratello non abita qui. Le scelte del consumatore sono sempre soggettivamente razionali, ma quel “soggettivamente” implica che non c’è una linearità nei comportamenti delle persone e l’esempio dello sviluppo e lancio di Febreze è illuminante su questo aspetto: le persone non acquisteranno un prodotto che non gli interessa, nemmeno con una campagna pubblicitaria fatta dalla Procter and Gamble. Spesso chi fa marketing se ne dimentica, ancor più se dispone dei grandi mezzi delle multinazionali.
In realtà l’esempio di Febreze interessa anche l’annosa questione dell’eticità delle attività di marketing, perchè alla fine non ha dato consumatori quello che gli serviva (un prodotto per eliminari gli odori), bensì quello che volevano (un deodorante per la casa che lasciava un buon odore). Sembra tanto persuasione occulta.
Però mi chiedo: trattando di persone adulte chi ha il diritto di decidere se quello che vogliono non è quello che gli serve? Si tratta come minimo di paternalismo, che rischia di essere un sinonimo di dittatura.
E questa considerazione vale anche per le campagne di mailing della Target, che non stimolano richieste ma le intercettano.

Dinamite. Tanti anni fa ho letto la biografia a fumetti di Alfred Nobel, l’inventore della dinamite, mi è rimasto impresso il concetto (autoassolutorio come la mia riflessione qui sopra?) che la dinamite non è buona o cattiva di per sè, dipende dall’uso che ne fanno le persone. Allo stesso modo le tecniche di analisi del comportamento umano non sono buone o cattive di per sè dipende dall’uso che se ne fa.
Dopo tanti anni di azienda credo che sia normale chiedersi perchè non destinare tutte quelle risorse umane ed economiche a scopi più ampi di benessere pubblico.
Ecco quindi che pensare di utilizzare la “scienza delle abitudini” per determinare comportamenti di utilità sociale la mette in tutt’altra luce rispetto al suo utilizzo da parte delle imprese. Oppure ne fa il vero grande fratello?

La forza delle abitudini 2

Ecco la seconda, ed ultima, tranche dell’articolo La forza delle abitudini Charles Duhigg, The New York Times Magazine. E’ un po’ (poco) più corta della prima.

Nell’ultima puntata, le mie impressioni.

Buona lettura.

Acquisti per eventi speciali
Andrew Pole era stato assunto dalla Target per aumentare le vendite usando lo stesso tipo di studio sulle abitudini dei consumatori. Doveva analizzare tutti i cicli stimoloroutine-gratificazione e aiutare l’azienda a capire come poteva sfruttarli. Il compito del suo reparto era piuttosto semplice: trovare i clienti che avevano dei bambini per mandargli il catalogo dei giocattoli prima di Natale; cercare le persone che di solito in aprile comprano un costume da bagno per mandargli buoni per l’acquisto di creme solari a luglio e la pubblicità di libri sulle diete a dicembre. Ma il compito più importante di Pole era individuare quei momenti unici nella vita delle persone in cui le abitudini di spesa diventano particolarmente flessibili e la pubblicità o il buono sconto giusto possono spingerle a modificare le abitudini di acquisto.
Negli anni ottanta un gruppo di ricercatori guidati da un professore dell’università della California a Los Angeles di nome Alan Andreasen condusse uno studio sugli acquisti più comuni, come il sapone, il dentifricio, i sacchetti della spazzatura e la carta igienica. Scoprirono che la maggior parte delle persone non prestava quasi nessuna attenzione a quegli acquisti, erano un’abitudine che non richiedeva decisioni complicate.
Questo signiicava che, nonostante i buoni e le promozioni, era difficile convincerle la gente a cambiare.
Ma quando nella vita di qualcuno c’era un evento speciale, come una laurea, un nuovo lavoro o il trasferimento in un’altra città, le abitudini d’acquisto diventavano più flessibili e prevedibili, trasformando quei clienti in potenziali miniere d’oro per i venditori. Dallo studio emerse che quando una persona si sposa è più probabile che cambi marca di caffè. Quando una coppia si trasferisce in una nuova casa, è più disposta a cambiare tipo di cereali per la colazione.
Quando divorzia, ci sono più probabilità che cominci a comprare una marca di birra diversa. I consumatori che attraversano una fase particolare della loro vita spesso non si accorgono che le loro abitudini d’acquisto sono cambiate, ma per i rivenditori è importante.
Dal punto di vista delle aziende, il più significativo di questi eventi speciali è l’arrivo di un bambino. Quando nasce un figlio,le abitudini dei genitori sono più flessibili che in qualsiasi altro periodo della vita di un adulto. Se le aziende riescono a individuare le donne che aspettano un bambino possono guadagnare milioni.
Ma individuarle è più diicile di quanto si possa immaginare. La Target ha un registro delle baby shower, le feste in cui si portano dei regali alle future mamme, e Pole cominciò da lì. Osservò come cambiavano le abitudini d’acquisto delle donne dell’elenco via via che si avvicinavano al parto, in base ai racconti che loro stesse avevano fornito all’azienda. Condusse un test dopo l’altro, analizzò i dati e dopo un po’ cominciarono a essere evidenti alcuni schemi. Per esempio, molte persone comprano creme per il corpo, ma un suo collega aveva notato che le donne incinte comprano più creme senza profumo dopo il terzo mese di gravidanza. Un altro analista si era accorto che durante i primi cinque mesi, le donne incinte compravano più integratori alimentari a base di calcio, magnesio e zinco.
Molte persone acquistano saponi e ovatta, ma quando una donna comincia a comprare saponi senza profumo e buste giganti di batuffoli di cotone, disinfettanti per le mani e asciugamani nuovi, significa che si sta avvicinando il momento del parto.
Quando i computer ebbero elaborato i dati, Pole riuscì a individuare circa venticinque prodotti che, messi insieme, gli permettevano di attribuire a ogni donna un “punteggio gravidanza”. Ma soprattutto, poteva calcolare la data del parto con una buona approssimazione, per permettere alla Target di mandare alla futura mamma i buoni relativi alle diverse fasi della gravidanza.
Pole applicò il suo programma a tutte le clienti abituali del database nazionale dell’azienda e ben presto ebbe una lista di
decine di migliaia di donne che probabilmente aspettavano un bambino. Se riuscivano a convincere quelle donne o i loro mariti ad andare nei loro negozi e comprare prodotti per neonati, con il sistema stimoloroutine-gratiicazione potevano spingerli a comprare anche prodotti alimentari, costumi da bagno, giocattoli e vestiti. Quando Pole presentò la sua lista, gli esperti di marketing rimasero estasiati. Cominciarono a invitarlo a tutte le riunioni importanti. E alla fine gli aumentarono lo stipendio.
Ma a quel punto qualcuno si chiese: come reagiranno le donne quando capiranno quante cose sappiamo di loro?
“Se si vede arrivare un catalogo con la scritta: ‘Congratulazioni per il suo primo figlio!’ e non ci ha mai detto di essere incinta, qualcuna si insospettirà”, mi ha raccontato Pole. “Siamo molto attenti alle norme sulla privacy. Ma anche se rispetti la legge certe cose mettono in guardia le persone”.
Circa un anno dopo che Pole aveva creato il suo modello per prevedere le gravidanze, un uomo entrò in un negozio Target alla periferia di Minneapolis e chiese di vedere il direttore. Aveva in mano dei buoni che erano stati mandati a sua figlia e, secondo un impiegato che aveva assistito alla conversazione, era molto arrabbiato. “Questi sono arrivati per posta a mia figlia!”, disse. “È ancora alle superiori e le mandate buoni per comprare abbigliamento da neonato e culle? State cercando di incoraggiarla a rimanere incinta?”.
Il direttore non aveva idea di cosa fosse successo. Guardò la busta, senza dubbio era indirizzata alla figlia dell’uomo e conteneva la pubblicità di abiti premaman, mobili per la stanza dei bambini e foto di bimbi sorridenti. Si scusò e qualche giorno dopo lo richiamò per scusarsi ancora.
Ma al telefono il padre sembrava imbarazzato.
“Ho parlato con mia figlia”, disse. “Ho scoperto qualcosa di cui non ero al corrente. Partorirà in agosto. Sono io che devo
scusarmi”.
Quando mi sono rivolto alla Target per discutere il lavoro di Pole, i rappresentanti dell’azienda si sono rifiutati di parlare con me. “Il nostro obiettivo è fare dei magazzini Target la destinazione preferita dei nostri clienti garantendo loro prodotti validi, innovazione continua e un’esperienza d’acquisto eccezionale”, mi hanno scritto. “Abbiamo creato una serie di strumenti di ricerca che ci consentono di capire meglio le tendenze e le preferenze di vari segmenti demografici della popolazione”. Quando gli ho mandato una sintesi del mio articolo, la risposta è stata più lapidaria: “Quasi tutte le sue affermazioni si basano su notizie inesatte e la loro pubblicazione sarebbe fuorviante.
Non intendiamo discuterle punto per punto”. L’azienda si rifiutava di specificare quali fossero le inesattezze, ma aggiungeva che “la Target rispetta tutte le leggi statali e federali, comprese quelle sulla segretezza delle informazioni sanitarie”.
Quando mi sono offerto di andare da loro per discutere le cose che li preoccupavano, una portavoce dell’azienda mi ha
scritto un’email dicendo che nessuno mi avrebbe ricevuto. Ci sono andato lo stesso, e mi hanno comunicato che ero nella lista dei visitatori indesiderati. “Ho ricevuto l’ordine di non farla entrare e di chiederle di andarsene”, mi ha detto un gentile agente di sicurezza di nome Alex.
Poco dopo che Pole aveva perfezionato il suo modello, la Target si era resa conto che usare i dati in suo possesso per scoprire una gravidanza sarebbe stato disastroso per i suoi rapporti con il pubblico. Quindi il problema era diventato: come far arrivare le pubblicità alle donne incinte senza che si sentano spiate? Come sfruttare le abitudini di qualcuno senza fargli capire che state studiando la sua vita?

Decifrare la sequenza
Prima di incontrare Andrew Pole, prima ancora di decidere di scrivere un libro sulla teoria della formazione delle abitudini, avevo un altro obiettivo: volevo perdere peso. Avevo preso la brutta abitudine di andare ogni pomeriggio alla caffetteria del giornale e di mangiare un dolce al cioccolato, così avevo preso qualche chilo. Quattro, per essere precisi. Avevo incollato un foglietto sul mio computer con scritto: “Niente più dolci”. Ma tutti i pomeriggi riuscivo in qualche modo a ignorarlo, entravo nella caffetteria e mangiavo un dolce parlando con i colleghi. Domani, mi dicevo sempre, troverò la forza di resistere.
E il giorno dopo ne mangiavo un altro.
Quando ho cominciato a intervistare gli esperti di formazione delle abitudini, concludevo ogni intervista chiedendo cosa dovevo fare. La prima cosa, mi dicevano, era capire come funziona la sequenza. La routine era semplice: tutti i pomeriggi entravo nella caffetteria, compravo un dolce e lo mangiavo chiacchierando con gli amici. Poi sono arrivate le domande meno ovvie. Qual’era lo stimolo: la fame, la noia, un calo della glicemia? E qual era la gratificazione: il sapore del dolce, la distrazione dal lavoro, la possibilità di socializzare con i colleghi? Le gratificazioni sono importanti perché soddisfano sempre un nostro desiderio, ma spesso non sappiamo qual è il bisogno che dà origine a un’abitudine. Perciò un giorno, quando ho sentito il desiderio del dolce, ho deciso invece di andare a fare una passeggiata. Il giorno dopo sono andato alla caffetteria e ho preso un caffè. Quello successivo ho comprato una mela e l’ho mangiata parlando con gli amici. È chiaro, no? Volevo verificare qual era la gratificazione che cercavo. Se avevo fame, la mela avrebbe dovuto funzionare. Avevo bisogno di una carica di energia? Allora bastava il cafè. Oppure, come avrei scoperto alla fine, dopo tante ore di concentrazione sul lavoro volevo socializzare, essere aggiornato sugli ultimi pettegolezzi dell’ufficio, e il dolce era solo una scusa. Mi bastava avvicinarmi alla scrivania di un collega e fare due chiacchiere con lui per non sentire più il bisogno del dolce. Ora dovevo capire qual era lo stimolo. Ma decifrare gli stimoli è molto difficile.
Spesso nella nostra vita ci sono troppe informazioni per permetterci di capire cosa scatena un particolare comportamento.
Facciamo colazione a una certa ora perché abbiamo fame? O perché è cominciato il tg della mattina? O perché mangiano i nostri figli? Alcuni esperimenti hanno dimostrato che quasi tutti gli stimoli rientrano in cinque categorie: luogo, tempo, stato emotivo, presenza di altre persone o azioni immediatamente precedenti. Quindi per capire cosa scatenava il mio desiderio di dolce, nel momento in cui ne sentivo il bisogno ho cominciato a rispondere a queste cinque domande.
Dove sei? (Seduto alla mia scrivania).
Che ore sono? (Le 15.36).
Qual è il tuo stato emotivo? (Sono annoiato).
Chi c’è con te? (Nessuno).
Cosa hai fatto prima? (Ho risposto a un’email).
Il giorno dopo l’ho fatto di nuovo. E anche quello successivo. Dopo un po’ ho capito qual era lo stimolo: sentivo sempre il bisogno di mangiare qualcosa intorno alle tre e mezzo del pomeriggio. Una volta individuata la sequenza, sembrava piuttosto facile cambiare abitudine.
Ma gli psicologi e i neuroscienziati mi hanno avvertito che per modificare il mio comportamento dovevo basarmi sullo stesso principio che aveva permesso alla Procter & Gamble di vendere Febreze. Per cambiare la routine – cioè socializzare invece che mangiare un dolce – dovevo sfruttare un’abitudine già esistente. Perciò ora, tutti i giorni intorno alle tre e mezza, mi alzo, mi guardo intorno per vedere se in redazione c’è qualcuno con cui chiacchierare, passo una decina di minuti a scambiare pettegolezzi e poi torno alla mia scrivania. Lo stimolo e la gratificazione sono rimasti gli stessi. È cambiata solo la routine. Non mi sembrava di aver preso una decisione più di quanto i topi dell’Mit avessero deciso di correre attraverso il loro labirinto. È diventata un’abitudine, e da allora ho perso dieci chili (metà dei quali eliminando il rituale del dolce).

Tosaerba e pannolini
Dopo che Andrew Pole aveva perfezionato il suo modello e individuato migliaia di donne che probabilmente aspettavano un bambino, dopo che qualcuno aveva pensato che forse alcune di quelle donne sarebbero rimaste turbate ricevendo una pubblicità dalla quale si capiva chiaramente che la Target spiava il loro comportamento riproduttivo, tutti decisero di allentare la pressione.
Il reparto marketing condusse alcuni test scegliendo un piccolo campione a caso di donne dalla lista di Pole e mandando loro varie combinazioni di pubblicità per vedere come reagivano. “Siamo in grado di mandare a ogni cliente un opuscolo pubblicitario studiato specificamente per lui o per lei che dice: ‘Queste sono le cose che ha comprato la settimana scorsa e un buono per ricomprarle’”, mi ha spiegato uno dei dirigenti dell’azienda. “Per i prodotti alimentari lo facciamo sempre”. Ma con le donne in attesa, l’obiettivo della Target era vendere prodotti per neonati dei quali non sapevano ancora di aver bisogno.
“Con i prodotti per la gravidanza, però, abbiamo scoperto che alcune donne reagiscono veramente male”, ha continuato il dirigente. “Perciò abbiamo cominciato ad aggiungere la pubblicità di prodotti che una donna incinta non comprerebbe mai per far sembrare casuale la nostra scelta. Mettevamo la pubblicità di un tosaerba accanto a quella dei pannolini. Quella di un vino accanto a quella dell’abbigliamento per neonati. Così sembrava che tutti i prodotti fossero stati scelti a caso. E abbiamo scoperto che se una donna incinta non pensa di essere spiata, alla fine usa i buoni. Immagina semplicemente che tutti nel suo palazzo abbiano ricevuto lo stesso opuscolo, così non si spaventa e il sistema funziona”.
In altre parole, sfruttando le abitudini già esistenti – gli stessi stimoli e le stesse gratificazioni che già spingevano i clienti a comprare detersivi o calzini – la Target poteva creare una nuova routine e spingerli a omprare prodotti per neonati. Lo stimolo è “Guarda, un buono per una cosa che mi serve!”, la routine è “Compra, compra, compra” e la gratificazione è “Così posso risparmiare”. Poi, una volta che la persona entra nel negozio, trova altri stimoli e gratificazioni che la spingono a mettere nel carrello tutto quello che normalmente compra altrove. Quando la Target riuscì a dare l’impressione che tutto rientrasse nella norma, la sua pubblicità funzionò.
Poco dopo l’inizio della nuova campagna, le vendite di prodotti per neonati salirono alle stelle. L’azienda non rende note le cifre relative a settori specifici, ma tra il 2002 – anno in cui assunse Pole – e il 2010, i suoi incassi sono passati da 44 a 67 miliardi.
Nel 2005 il presidente della Target, GreggSteinhafel, si è vantato con gli investitori della “maggiore attenzione della sua azienda per i prodotti che interessano particolari categorie di consumatori come le mamme e i bambini”.
Pole è stato promosso e invitato a parlare ai convegni. “Non avrei mai pensato che diventasse una cosa così importante”, mi ha detto l’ultima volta che gli ho parlato.
Qualche settimana prima che questo articolo venisse pubblicato, sono andato a Minneapolis per cercare di parlarne con lui ancora una volta. Era più di un anno che non ci sentivamo. Quando eravamo ancora amici gli avevo detto che mia moglie era incinta di sette mesi. Anche lei fa la spesa alla Target, gli avevo detto, e gli avevo lasciato il nostro indirizzo per ricevere i buoni. Man mano che la gravidanza di mia moglie procedeva, avevo notato un leggero aumento delle pubblicità di pannolini e abbigliamento per neonati che arrivavano a casa.
Quando sono arrivato a Minneapolis, Pole non ha risposto né alle mie email né alle mie telefonate. Sono andato a casa sua, in un bel quartiere, ma nessuno mi ha aperto. Mentre tornavo in albergo, mi sono fermato in un grande magazzino Target perché mi serviva un deodorante e ho comprato anche una maglietta e un gel per i capelli. Poi mi è venuto in mente di aggiungerci qualche ciuccio per vedere come reagivano i computer. Ormai nostro figlio ha nove mesi
e i ciucci non bastano mai.
Quando sono andato a pagare, con mia grande delusione, non mi hanno offerto nessun buono per i pannolini o il latte in
polvere. D’altra parte era comprensibile, ero in una città dove non ero mai stato prima, alle dieci di sera di un giorno feriale e avevo comprato tutte cose diverse. Stavo usando una carta di credito aziendale e, a parte i ciucci, non avevo comprato nulla di quello che di solito serve a chi ha un bambino.
I computer avevano capito benissimo che ero in viaggio di lavoro. Il calcolatore di Pole mi aveva dato un’occhiata e aveva deciso di aspettare un momento più opportuno.
Una volta tornato a casa, le offerte sarebbero arrivate. Come mi aveva detto Pole l’ultima volta: “Aspetta. E vedrai che ti manderemo i buoni per le cose che vuoi prima ancora che tu sappia di volerle”.

La forza delle abitudini 1

Interessantissimo articolo del New York Time Magazine pubblicato sull’Internazionale. Lo pubblico a puntate perchè (purtoppo) è veramente troppo lungo per il web; limiti del digitale (come quelli che mi dicono “L’i-pad è troppo comodo per leggere il giornale la mattina”, però con l’i-pad non leggi il giornale, lo guardi e non è la stessa cosa).

Forse sto facendo una violazione del copyright, ma se Zuckerberg dice (probabilmente a ragione) che la privacy è un concetto superato, spero che citare la fonte basti a farmi perdonare.

Poi finite le puntate probabilmente farò un post sulle riflessioni stimolate da questo articolo, nel frattempo se volete mandare le vostre ….. Mettetivi comodi e cominciate

La forza delle abitudini
Charles Duhigg, The New York Times Magazine,Stati Uniti.

Condizionano la nostra vita ogni giorno, da quando ci laviamo i denti a quando guidiamo la macchina. Da vent’anni gli scienziati cercano di capire come nascono le abitudini. Ora le loro ricerche hanno un nuovo campo di applicazione: il marketing.

Nel 2002 Andrew Pole era appena entrato a lavorare come esperto di statistica alla catena di grandi magazzini Target, quando due colleghi del reparto marketing si fermarono accanto alla sua scrivania per fargli una strana domanda: “Siamo in grado di scoprire se una cliente è incinta, anche se lei non vuole farcelo sapere?”. Pole ha un master in statistica e uno in economia e si è occupato per tutta la vita dell’incrocio tra i dati e il comportamento umano. I suoi genitori insegnavano nel North Dakota, e mentre gli altri ragazzi andavano in campeggio, Pole studiava algebra e scriveva programmi per computer. “Lo stereotipo del nerd della matematica non è un mito”, mi ha detto quando ho parlato con lui l’anno scorso. “Mi piace andare in giro a diffondere il vangelo dell’analisi”. Come gli spiegarono gli esperti di marketing – e come lui stesso ha spiegato a me prima che la Target gli proibisse di parlarmi – le persone che hanno appena avuto un figlio sono una miniera d’oro. La maggior parte della gente non compra in un unico posto tutto quello che le serve. Fa la spesa nei negozi di alimentari, compra i giocattoli nei negozi di giocattoli e va alla Target solo quando ha bisogno di certe cose che
associa ai grandi magazzini, come i detersivi, i calzini o la carta igienica. Ma la Target vende di tutto, dal latte agli orsacchiotti di peluche, dai mobili da giardino all’elettronica, perciò uno dei suoi obiettivi principali è convincere i clienti che l’unico negozio di cui hanno bisogno è il suo. Ma questo è un messaggio difficile da trasmettere, anche con le campagne pubblicitarie più ingegnose, perché non è facile far cambiare abitudini alla gente. Tuttavia, ci sono alcuni periodi della vita in cui una persona è costretta a modificare la sua routine e le abitudini d’acquisto sono più fluide. Uno di questi momenti, anzi il principale, è quando nasce un bambino, perché i genitori sono esausti e soprafatti dal nuovo impegno e più disposti a cambiare abitudini d’acquisto. Ma come spiegarono a Pole i colleghi del marketing, il tempismo è fondamentale. Dato che i registri delle nascite sono pubblici, quando una coppia ha un figlio viene immediatamente tempestata di offerte e pubblicità da aziende di ogni tipo. Perciò è decisivo riuscire a conquistare quella famiglia prima che chiunque altro scopra che è in arrivo un bambino. In particolare, i colleghi di Pole volevano mandare pubblicità mirate alle donne che avevano superato i primi tre mesi di gravidanza, perché quello è il periodo in cui la maggior parte delle mamme in attesa comincia a comprare cose come le vitamine e l’abbigliamento premaman. “Sapevamo che se fossimo riusciti a conquistare le future mamme in quel periodo, sarebbero rimaste nostre clienti per anni”, mi ha spiegato Pole. “Se cominciano a comprare i pannolini da noi, poi comprano anche tutto il resto”. Naturalmente, questo desiderio di
raccogliere informazioni sui clienti non è una novità né per la Target né per le altre catene di distribuzione. Sono decenni che la Target accumula dati sulle persone che entrano regolarmente nei suoi negozi. Quando è possibile, assegna a ognuna di loro un codice, che chiama numero di identificazione del cliente, grazie al quale controlla tutto quello che compra. “Se qualcuno usa la carta di credito o un buono sconto, risponde a un questionario, chiede un rimborso, chiama il nostro servizio clienti, apre l’email che gli abbiamo mandato o visita il nostro sito, noi registriamo l’operazione e la colleghiamo al codice”, spiega Pole. “Vogliamo più informazioni possibile”. Collegate al numero di identificazione del cliente sono anche tutte le informazioni di tipo demografico: l’età, se una persona è sposata, se ha figli, in quale zona della città vive, quanto tempo ci mette a raggiungere il negozio, approssimativamente quanto guadagna, se ha cambiato casa di recente, che carte di credito ha e quali siti visita. La Target può comprare anche i dati sull’origine etnica, sui lavori che una persona ha fatto, su quali riviste legge, se ha mai dichiarato fallimento o ha divorziato, in che anno ha comprato (o perso) la casa, se è andata all’università, di cosa parla online, se preferisce una certa marca di caffè, di tovaglioli di carta, di cereali o di succo di mela, qual è il suo orientamento politico e il suo genere letterario preferito, se fa donazioni e quante auto possiede. Tutte queste informazioni però sono inutili se non c’è qualcuno che le analizza e gli dà un senso. Era proprio questo il compito di Andrew Pole e dei suoi colleghi dell’ufficio Guest marketing analytics Quasi tutti i grandi rivenditori, dalle catene di prodotti alimentari alle banche di investimento, hanno un reparto “analisi predittive” che si occupa di scoprire non solo le abitudini d’acquisto dei consumatori, ma anche le abitudini personali, per poter arrivare a loro più facilmente. “La Target è sempre stata una delle migliori in questo campo”, dice Eric Siegel, un consulente che presiede una conferenza del settore chiamata Predictive analytics world. “Siamo nell’epoca d’oro della ricerca sui comportamenti. È incredibile quante cose possiamo sapere oggi su cosa pensano le persone”. Il motivo per cui la Target può ficcare il naso nelle nostre abitudini d’acquisto è che, negli ultimi vent’anni, la scienza della formazione delle abitudini è diventata uno dei maggiori campi di ricerca degli istituti di neurologia e di psicologia di centinaia di centri medici e di università, per non parlare dei ricchi laboratori delle aziende. “Accaparrarsi gli statistici più in gamba ormai è una specie di corsa agli armamenti”, dice Andreas Weigend, l’ex capo scienziato di Amazon. “I matematici sono improvvisamente diventati molto ricercati”. L’analisi dei dati è sempre più sofisticata, e il desiderio di capire come le abitudini quotidiane influiscono sulle nostre decisioni è uno dei temi più appassionanti della ricerca, anche se la maggior parte di noi non si rende conto di essere schiava di certi schemi. Secondo uno studio condotto dalla Duke university, sono le abitudini più che le decisioni coscienti a condizionare il 45 per cento delle scelte che facciamo ogni giorno. Le ultime scoperte stanno cambiando completamente il modo di vedere molte cose, da come concepiamo una dieta a come
i medici stabiliscono le cure per l’ansia, la depressione e le dipendenze. I ricercatori hanno scoperto come impedire a qualcuno di mangiare troppo o di rosicchiarsi le unghie. Sono in grado di spiegare perché alcuni di noi ogni mattina vanno a correre e sono più efficienti nel loro lavoro, mentre altri non riescono ad alzarsi dal letto e perdono tempo. A quanto sembra, esiste una formula per controllare i nostri desideri inconsci. Il processo grazie al quale il cervello trasforma una sequenza di azioni in una routine automatica è chiamato chunking. Ogni giorno ripetiamo decine, se non centinaia, di comportamenti di questo tipo. Alcuni sono semplici, per esempio mettere il dentifricio sullo spazzolino prima di spazzolare i denti. Altri, come preparare il pranzo per i figli, sono un po’ più complicati. Altri ancora sono così complessi che il fatto che siano diventati abitudini ci sembra incredibile. Prendiamo, per esempio, uscire dal garage di casa a marcia indietro. Quando abbiamo imparato a guidare, questa manovra richiedeva, giustamente, una buona dose di concentrazione, perché bisogna guardare nello specchietto retrovisore e in quelli laterali per vedere se ci sono ostacoli, spingere con un piede il pedale della frizione, ingranare la retromarcia, togliere il piede dalla frizione, calcolare la distanza tra il garage e la strada, mantenere dritte le ruote, calcolare come le immagini che vediamo negli specchietti si traducono in distanze reali, e regolare la pressione sull’acceleratore e sul freno. Ora facciamo tutte queste cose ogni volta che usciamo, senza pensarci troppo. Il nostro cervello ha trasformato in routine una buona parte di questi gesti. Se lo lasciamo fare, il cervello cerca di trasformare tutti i comportamenti ripetuti in abitudini, perché così si sforza di meno. Ma questa tendenza a conservare l’energia mentale può essere pericolosa, perché se il nostro cervello va in automatico nel momento sbagliato, potremmo non accorgerci di qualcosa di importante, come un bambino che attraversa la strada in bici o una macchina che arriva a tutta velocità. Perciò abbiamo inventato un sistema per decidere quando possiamo agire automaticamente. È qualcosa che scatta all’inizio e alla fine di un segmento di comportamento, e ci aiuta a capire perché, anche con le migliori intenzioni, è così difficile cambiare un’abitudine.

Cambiare si può
Il processo di formazione delle abitudini è formato da tre fasi. Prima di tutto c’è uno stimolo che dice al nostro cervello che può andare in automatico e quale sequenza deve usare. Poi c’è la routine, che può essere fisica, mentale o emotiva. Infine c’è la gratificazione, che aiuta il cervello a capire se vale la pena di ricordare quella sequenza in futuro. Nel corso del tempo, questo ciclo – stimolo, routine, gratificazione, stimolo, routine, gratificazione – diventa sempre più automatico. Livello neurologico, lo stimolo e la gratificazione si legano strettamente tra loro fino a quando non si instaura il desiderio. L’aspetto particolare di questo meccanismo è che gli stimoli e le gratificazioni possono essere molto sottili. Alcuni studi neurologici hanno dimostrato che certi stimoli durano solo qualche millesimo di secondo. E le gratificazioni possono andare dalle più ovvie (come l’innalzamento del livello glicemico provocato dalla ciambella che mangiamo al mattino) alle più insignificanti (come il senso di sollievo impercettibile, ma misurabile, che proviamo quando usciamo dal garage). Nella maggior parte dei casi tutto succede così rapidamente che non ce ne rendiamo conto. Ma il nostro sistema neurale se ne accorge e usa queste sequenze per costruire comportamenti automatici. Le abitudini non sono immutabili. Possono essere ignorate, modificate o sostituite. Ma quando abbiamo issato una sequenza e acquisito un’abitudine, il cervello smette di intervenire nelle decisioni. Perciò, a meno che non decidiamo di combattere quell’abitudine, cioè di trovare una nuova sequenza, la vecchia si ripeterà automaticamente. “Abbiamo condotto alcuni esperimenti con i ratti, addestrandoli a percorrere un labirinto fino a quando per loro non è diventata un’abitudine. Poi abbiamo modificato l’abitudine spostando la ricompensa finale”, racconta Ann Graybel, una neuro scienziata del Massachusetts institute of technology. “Un giorno abbiamo rimesso il premio dov’era prima e la vecchia abitudine, incredibilmente, è riemersa. Le abitudini non scompaiono mai del tutto”. Fortunatamente, capire come funzionano le abitudini le rende più facili da controllare. Prendiamo per esempio una serie di studi condotti qualche anno fa alla Columbia university e all’università di Alberta. I ricercatori volevano capire come si instaura l’abitudine di fare esercizio fisico. Il programma prevedeva che 256 persone con un’assicurazione sulla salute frequentassero un corso in cui si dava molta importanza all’esercizio fisico. Metà dei partecipanti assisteva a una lezione in più su come si formano le abitudini e in seguito doveva individuare gli stimoli e le gratificazioni che avrebbe potuto usare per prendere abitudini più sane. Il risultato fu sorprendente. Nel corso dei quattro mesi successivi, le persone che avevano imparato a individuare la sequenza facevano il doppio dell’attività fisica di quelle che non avevano imparato a farlo. Altri studi hanno prodotto risultati simili. Secondo un recente studio, se vogliamo cominciare a correre tutte le mattine, è essenziale scegliere uno stimolo semplice (come mettere sempre le scarpe da ginnastica prima di colazione o preparare la tuta vicino al letto) e una gratificazione chiara (come un dolcetto a mezzogiorno o la soddisfazione che dà registrare i chilometri percorsi in un diario). Dopo un po’ di tempo il cervello comincia ad aspettarsi la gratificazione – a desiderare il dolce o quel senso di soddisfazione – e produrrà un impulso neurologico a infilarci le scarpe da ginnastica ogni mattina. Il nostro rapporto con la posta elettronica funziona nello stesso modo. Quando il computer o il cellulare segnalano che c’è un nuovo messaggio, il cervello comincia ad anticipare il “piacere” che (anche se non lo riconosce) gli provoca cliccarci sopra e leggerlo. Se non viene soddisfatta, questa aspettativa può crescere fino a farci impazzire all’idea che c’è un messaggio non letto, anche se a livello razionale sappiamo che probabilmente non è niente di importante. Se rimuoviamo lo stimolo togliendo la vibrazione al telefono o il volume al computer, il desiderio non si scatena, e riusciamo a lavorare tranquillamente senza controllare di continuo la posta in arrivo.

Piccoli riti
In questo campo, alcuni degli esperimenti più ambiziosi sono stati condotti dalle aziende private. Per capire perché i manager sono così affascinati da questa scienza, pensate che una delle più grandi aziende del mondo, la Procter & Gamble, ha usato la teoria delle abitudini per trasformare un flop in uno dei suoi prodotti più venduti. Questo colosso produce una gamma vastissima di articoli, dagli ammorbidenti per il bucato agli asciugamani di carta, dalle batterie a decine di prodotti per la casa. A metà degli anni novanta i manager della Procter & Gamble avviarono un progetto segreto per la creazione di un nuovo prodotto in grado di eliminare i cattivi odori. L’azienda spese milioni di dollari per creare un liquido incolore e poco costoso che si poteva spruzzare su una camicetta impregnata di fumo, su un divano puzzolente, su una vecchia giacca o sulla tappezzeria macchiata di un’automobile e far sparire ogni odore. Per lanciare sul mercato il prodotto, che si chiamava Febreze, la società creò una squadra formata da un ex matematico di Wall street di nome Drake Stimson e da alcuni studiosi della teoria delle abitudini. Il loro compito era garantire che gli spot televisivi, trasmessi in via sperimentale a Phoenix, Salt Lake City e Boise, nell’Idaho, sottolineassero nel modo giusto gli stimoli e le gratificazioni del prodotto. Nel primo spot c’era una donna che si lamentava della zona fumatori di un ristorante. Ogni volta che mangiava lì, diceva, la sua giacca si impregnava di fumo. Un’amica le faceva notare che con Febreze avrebbe potuto eliminare quell’odore. Lo stimolo era chiaro: l’odore acre del fumo di sigaretta. E anche la gratificazione: la scomparsa di quell’odore dai vestiti. Nel secondo spot c’era una donna preoccupata per il fatto che la sua cagnetta Sophie saliva sempre sul divano. “Sophie avrà sempre il suo odore”, diceva, ma con Febreze, “non ce l’hanno più i miei mobili”. Gli spot furono mandati in onda a rotazione e i pubblicitari cominciarono a pregustare i loro premi. Passò una settimana. Un mese. Due mesi. Le vendite erano sempre più basse. Febreze era un lop. In preda al panico, la squadra di esperti condusse una serie di interviste approfondite tra i consumatori per capire cosa non andava. Il primo sospetto lo ebbero quando andarono a intervistare una donna alla periferia di Phoenix. La sua casa era pulita e ben organizzata. Lei stessa si definiva una maniaca della pulizia. Ma quando i ricercatori della Procter & Gamble entrarono nel salotto, dove i suoi nove gatti passavano la maggior parte del tempo, l’odore era così forte che uno di loro ebbe un conato di vomito. Stimson ricorda che un suo collega chiese alla donna: “Cosa fa per l’odore dei gatti?”. “Di solito non è un problema”, disse lei. “Non lo sente?”. “No”, rispose la donna. “Non è meraviglioso? Non puzzano affatto!”. La stessa scena si ripeté in decine di altre case. Il motivo per cui Febreze non vendeva era che la gente non sentiva i cattivi odori. Se vivi con nove gatti, non ti accorgi più che puzzano. Se fumi, dopo un po’ non senti più l’odore di fumo. Quando l’esposizione è costante, non sentiamo più neanche gli odori più forti. Lo stimolo che avrebbe dovuto far scattare il bisogno di usare Febreze tutti i giorni non veniva recepito. E la gratiicazione, una casa senza odori, non aveva senso per chi non li sentiva. La Procter & Gamble chiese a un professore della Harvard business school di analizzare la campagna di marketing del prodotto. I ricercatori raccolsero ore e ore di filmati di persone che pulivano la casa per cercare qualche indizio che potesse aiutarli a collegare Febreze alle abitudini quotidiane delle persone. Non scoprirono nulla e decisero di fare altre interviste. La svolta avvenne quando andarono a trovare una donna sulla quarantina con quattro figli che viveva alla periferia di Scottsdale, in Arizona. La casa era pulita, anche se non perfettamente ordinata, e non sembrava avere alcun odore, non c’erano animali né fumatori. Con grande sorpresa di tutti, lei adorava Febreze.
“Lo uso tutti i giorni”, disse. “Quali odori cerca di eliminare?”, le chiese un ricercatore. “Non devo eliminare nessun odore specifico”, disse la donna. “Lo uso durante le pulizie, un paio di spruzzi quando ho finito una stanza”. I ricercatori la seguirono mentre riordinava la casa. In camera da letto, rifaceva il letto, tirava bene le lenzuola e poi spruzzava Febreze sulla trapunta. In soggiorno, passava l’aspirapolvere, raccoglieva le scarpe dei bambini, rimetteva a posto il tavolino e poi
spruzzava Febreze sul tappeto appena pulito.
“È piacevole, no?”, disse. “È un piccolo rito per concludere la pulizia di una stanza”. A quel ritmo, calcolarono i ricercatori, avrebbe finito un flacone in due settimane. Quando tornarono nel loro ufficio, gli esperti riguardarono i filmati. Ora sapevano cosa cercare e videro gli errori scena dopo scena. Chi pulisce ha già delle abitudini.
In uno dei video, una donna entrava in una stanza sporca (stimolo), cominciava a spazzare e a raccogliere giocattoli (routine), poi riguardava la stanza e sorrideva (gratificazione).
In un altro, una donna guardava il letto disfatto (stimolo), aggiustava le lenzuola e le coperte (routine) e poi sospirava mentre passava la mano sui cuscini appena sbattuti (gratificazione). Con Febreze la Procter & Gamble aveva cercato di creare una nuova abitudine, ma la mossa vincente era sfruttare quelle già esistenti. Doveva presentare il prodotto come il momento conclusivo del rituale delle pulizie, come una gratificazione piuttosto che come una nuova routine.
L’azienda preparò nuovi cartelloni pubblicitari in cui si vedevano finestre aperte dalle quali entrava aria fresca. Venne aggiunto più profumo a Febreze, così invece di eliminare gli odori lo spray ne aveva uno tutto suo. Nei nuovi spot televisivi le donne, dopo aver finito di pulire, lo spruzzavano sui letti appena fatti e sulla biancheria fresca di bucato. Le pubblicità si basavano su abitudini già esistenti: quando vedi una stanza appena pulita (stimolo), tira fuori Febreze (routine) e goditi il profumo che ti conferma di aver fatto un buon lavoro (gratificazione).
Quando inisci di rifare il letto (stimolo), spruzza Febreze e tira un sospiro di soddisfazione (gratificazione). Febreze, lasciavano intendere gli annunci, era un piacere in più, non un modo per ricordarti che la tua casa puzza.
E così un prodotto che in origine era stato concepito come un sistema rivoluzionario per eliminare gli odori diventò un deodorante per la casa che si usava dopo aver pulito. Tutto questo successe nell’estate del 1998. Nel giro di due mesi, le vendite raddoppiarono. Un anno dopo, Febreze fece incassare all’azienda 230 milioni di dollari. Da allora è nata tutta una serie di prodotti collaterali – deodoranti, candele e detersivi per il bucato – le cui vendite hanno raggiunto un miliardo di dollari l’anno. In seguito la Procter & Gamble ha cominciato a dire ai suoi clienti che, oltre ad avere un buon profumo, Febreze eliminava anche i cattivi odori. Oggi è uno dei prodotti più venduti nel mondo.