L’evoluzione del (bisco)marketing: la P di Place diventa PRESENZA e quella di Promotion diventa PERCEZIONE.

In apertura di questo post voglio innanzitutto reiterate la mia assoluta e totale deferenza a Philip Kotler ed al suo testo fondante Marketing Management.

E’ una cosa che ho affertamo e spiegato più volte in questo blog, quindi non mi dilungo oltre, limitandomi a linkare l’ultimo della serie dei post fatti a suo tempo dopo aver partecipato al suo seminario a Milano nel 2007 (tempus fugit). Oppure cercate Kotler all’interno del blog e vedete quanti post vengono fuori.

Fatta questa doverosa premessa per evitare di essere arruolato nelle schiere di coloro che dicono che Kotler oramai è superato solo per darsi un po’ di visibilità, devo anche confessare che la definizione di 2 delle “4P” mi è sempre sembrata risolta in modo non eccezionale.

Mi riferisco alla P di “Place” per definire la distribuzione e, soprattutto, a quella di “Promotion” per definire il complesso delle strategie e tattiche di pubblicità, pubbliche relazioni, promozioni di vendita (sia di prezzo che concorsi ecc…) e vendita diretta.

Se nel caso di “Place” si tratta solo di un termine un po’/molto lato rispetto a quello che descrive, ma nel caso di “Promotion” il termine mi sembra veramente limitato per rappresentare tutto quello che dovrebbe concettualmente comprendere. Tra l’altro le promozioni alla vendita confinano con le strategie di prezzo (che d’altra è una delle caratteristiche con il più forte potere di comunicazione nel posizionamento complessivo di una marca) e le vendite dirette (Personal Selling nella terminologia kotleriana) sono più tattiche di push che strategie di pull. in altre parole, mi sembrano quasi estranee al marketing se non fosse che esistono (eccome se esistono) e quindi non si possono ignorare se si vuole descrivere ed applicare il concetto di marketing nella sua completezza.

Ad ogni modo peccati tutto sommato veniali rispetto alla globalità della teorizzazione del marketing management, sostanzialmente delle licenze poetiche al servizio della forza didattica ed analitica del concetto delle “4P”.

In italiano le cose cambiano perchè le”4P” si perdono. Io ho il vezzo di non utilizzare i termini inglesi se non è strettamente necessario (per dire, uso “mercato obiettivo” e non “target market”) e quindi per Promotion ho spesso usato nella didattica e nelle pubblicazioni il termine “strategie promo-pubblicitarie”. Soluzione didascalica talmente brutta e scomoda che sul lavoro credo di non averla usata mai.

Per la “Place” però non c’è trucco che tenga, si finisce sempre su “Distribuzione” e quindi le “4P” vengono inquinate e quindi indebolite.

Confesso che non essere riuscito a trovare un modo di replicare l’eleganza del concetto di Kotler in italiano è sempre stato un mio piccolo cruccio e così quando l’altro giorno mi sono messo a scrivere la presentazione sull’ABC del marketing del vino per la Vinix Unplagged Unconference (se volete potete votare le presentazioni che saranno discusse il 17 a Genova fino al 31 maggio, però solo se siete iscritti a Vinix. Iscriversi a Vinix solo per votare una presentazione è tecnicamente possibile, ma moralmente censurabile, un po’ come fare il consigliere regionale grazie alle proprie doti come ballerina di burlesque (parenti nella parentesi: ma se quelle erano le cene eleganti, quando la buttavano un po’ in vacca cosa facevano?)), l’altro giorno dicevo mi sono detto che dovevo trovare un modo almeno decente di mantenere intatte le “4P” anche in italiano.

L’ispirazione mi è venuta dall’evoluzione del contesto determinato dall’affermarsi del web nella nostra vita (alla VUU modererò la sessione sull’e-commerce).

Ecco allora che per rappresentare meglio l’attuale multicanalità della distribuzione dei prodotti (non solo e-commerce, ma anche negozi temporanei, ristoranti che vendono gli arredi ecc…) ho tradotto la P di “Place” con PRESENZA. Termine che aiuta a pensare le strategie distributive in termini, appunto, di PRESENZA del prodotto nei luoghi (analogici o digitali) dove si trovano i consumtori.

La P di “Promotion” invece l’ho tradotta con PERCEZIONE. Anche qui la logica è rappresentare la frammentazione dei diversi canali e delle modalità attraverso cui le persone si creano l’opinione sulle marche e quindi indirizzare il pensiero delle strategie comprese nel concetto kotleriano di “Promotion” in base al risultato che avranno sulla percezione della marca (secondo voi i gestori di telefonia si sono mai chiesti che influenza hanno sulla percezione della marca le loro invasive campagne di telemarketing?).

Magari non sarà una soluzione perfetta, ma mi sembrano licenze poetiche accettabili per avere davvero, finalmente, anche in italiano le “4P” del marketing.

Se volete vedere la presentazione la trovate qui. Ovviamente mancano tutti i commenti e gli approfondimenti che farò a voce perchè una buona presentazione devono contenere solamente gli spunti e le sottolineature necessarie all’oratore. Se viene votata tra le prime 10 li sentirete a Genova (se venite), altrimenti bisognerà trovare un’altra occasione.

La disoccupazione continua ad essere argomento di crescente dibattito, quindi il mio post conclusivo sull’argomento non è ancora fuori tempo massimo..

Quale futuro per la pubblicità?

L’altro giorno mi hanno detto che sembro/sono presuntuoso. Storia vecchia. La cosa curiosa per me è che in ambito lavorativo questa valutazione (negativa) mi è stata data spesso da chi stava a livelli gerarchici superiori al mio, raramente da chi si trovava allo stesso livello e quasi mai da chi rispondeva a me più o meno direttamente (intendo sia colleghi che agenzie e consulenti).
Questa valutazione non derivava dal millantare del credito, bensì dall’atteggiamento professorale nella convinzione/certezza delle mie competenze, che ostacolava i rapporti con i colleghi. La conseguenza era un invito ad essere più terra-terra per rendermi più accessibile. E questa per me è la cosa più curiosa perchè non riesco ad immaginare niente di più presuntuoso e poco rispettoso delle persone che accondiscendere a semplificare il proprio comportamento per “abbassarsi” (lo metto tra virgolette perchè non condivido il concetto in assoluto) al loro livello.
Cosa c’entra questa (auto)analisi da dilettanti con il futuro della pubblicità? E’ che mi è successo troppe volte di vedere scartare delle campagne pubblicitarie con il giudizio: “E’ bella, ma il consumatore non la capirebbe” da non pensare che la pubblicità dovrebbe essere meno presuntuosa nel giudicare il proprio pubblico.
Metto un attimo da parte questo concetto, per riprenderlo dopo aver inserito il secondo spunto di queste mie riflessioni. L’altro giorno (è stato un giorno intenso) stavo parlando con un amico importante dirigente di un’importante agenzia italiana, parte di un importante gruppo pubblicitario multinazionale che ha fatto, sintetizzanto, questa riflessione:
“se la pubblicità lavora sull’orientamento delle preferenze rispetto alla scelte fatte dal consumatore ad un livello superiore in termini decisionali (vero n.d.a.) qual’è il suo ruolo in una scenario di drastica riduzione dei consumi?”.
Detto in altre parole più semplici (più vicine a quelle che ha usato lui) se lo scopo della pubblicità è quello di orientare le scelte dei consumatori verso l’automobile B piuttosto che all’automobile A, quale diventa il suo ruolo quando le persone smettono di acquistare le automobili?
E’ opinione comune che viviamo in tempi di cambiamento (l’aveva già detto Eraclito) e, secondo me, il modo migliore per affrontarli è tornare ai fondametali. E nel marketing i fondamentali resta Philip Kotler, il suo libro Marketing Management e le famose 4P.
Nell’impostazione kotleriana la pubblicità rientra nella “P” di promotion. Forse si è trattato di una scelta dettata dall’eleganza della solida coerenza insita nel concetto “4P” (“4P + 1A” di avertising non avrebbe avuto onestamente la stessa efficacia comunicativa) però credo che l’eleganza non sia mai casuale e l’estetica costruisca (almeno in parte) la propria etica.
Quindi parto dalla funzione di promotion, che Kotler divide in due macro strategie: quelle che forniscono incentivi all’aquisto e quelle che forniscono ragioni all’acquisto. Il tecnicismo di ricondurre gli incentivi all’acquisto alle attività di promozioni di vendita e le ragioni all’acquisto alle attività di comunicazione, ossia pubblicità, pubbliche relazioni ed argomentazioni di vendita utilizzate da un venditore nella vendita diretta ad un consumatore, non modifica le due funzioni che il concetto di “promotion” svolge nei confronti dei consumatori.
Il futuro della pubblicità quindi, secondo me, sta nell’assolvere l’una o l’altra funzione, fornire sia incentivi che ragioni all’acquisto, sempre secondo il classico paradigma del processo A.I.D.A.: attention-interest-desire-action
L’esempio tipico della pubblicità che fornisce incentivo all’acquisto sono gli spot di LIDL trasmessi la domenica per annunciare le promozioni in corso da lunedì. In questi casi i meccanismi sono piuttosto semplici e diretti perchè gli elementi di attenzione-interesse-desiderio-azione risiedono in grandissima parte sull’attrattività dell’offerta.
Fornire con successo ragioni all’acquisto è diventato invece sempre più difficile, sia perchè dal lato dell’offerta aumenta la sostituibilità tra prodotti di marche diverse (riduzione del contenuto innovativo), sia perchè la proliferazione dei media rende neccessario l’utilizzo di un sistema di comunicazione articolato su più fonti. Si è passati da una situazione in cui la pubblicità poteva tranquillamente esaurire tutta la strategia di comunicazione ad una in cui ne è, sempre più spesso, solo l’attivatore.
Ecco che in questo contesto l’eccessiva ricerca di semplificazione, per presunzione nei confronti del consumatore di cui sopra, rischia facilmente di trasformarsi in banalizzazione e quindi di non ottenere l’attenzione o di non suscitare poi l’interesse.
Come il futuro dei giornali di carta a poco a che vedere con il futuro del giornalismo, così il futuro della pubblicità ha poco a che vedere con il futuro delle agenzie pubblicitarie.
Ma per oggi carne al fuoco ce n’è a sufficienza e quindi lascio questo argomento per la prossima volta.

La forza delle abitudini: riassunto e commento.

Come annunciato ecco le riflessioni che mi ha suscitato l’articolo “La forza delle abitudini” riportato nei due post precedenti a questo (se volete approfondire, l’autore dell’articolo ha anche scritto un libro sull’argomento).

Per compensare la lunghezza dei post 1 e 2, cercherò di essere sintetico con questo, limitandomi solo agli spunti più intensi.

X Factor. Mi ha colpito scoprire una volta di più l’importanza data dalle aziende americane alla ricerca ed all’analisi per la produzioni di informazioni rilevanti allo sviluppo dell’attività. Mi ha colpito soprattutto per il confronto con la realtà italiana, che continua ad essere pervasa da una cultura umanista basata sulla logica e sul ragionamento speculativo, dove la quantificazione riguarda quasi esclusivamente i risultati (di vendita, di reddività) e raramente i diversi aspetti che detrminano quei risultati.
Non credo che il problema sia la disponibilità dei dati, perchè oramai anche in Italia le azienda della grande distribuzione (e non solo) dispongono di carte fedeltà, programmi di fidelizzazione eccetera. Però non riescono a trasformare i dati in informazioni perchè non investono in persone come Andrew Pole, con forti competenza, ma, magari, non altrettanto forte personalità.
In genere nelle aziende italiane, a tutti i livelli, l’intraprendenza viene considerata l’X-factor sulla competenza. Secondo me invece ci sono livelli, ruoli e posizioni dove l’intraprendenza non è fondamentale, purchè le competenze siano valorizzate dall’imprenditore (o dalla figura imprenditoriale). Cosa sarebbero le imprese italiane se alla creatività, diciamo pure all’inventiva, si aggiungesse l’analisi?

Il grande fratello non abita qui. Le scelte del consumatore sono sempre soggettivamente razionali, ma quel “soggettivamente” implica che non c’è una linearità nei comportamenti delle persone e l’esempio dello sviluppo e lancio di Febreze è illuminante su questo aspetto: le persone non acquisteranno un prodotto che non gli interessa, nemmeno con una campagna pubblicitaria fatta dalla Procter and Gamble. Spesso chi fa marketing se ne dimentica, ancor più se dispone dei grandi mezzi delle multinazionali.
In realtà l’esempio di Febreze interessa anche l’annosa questione dell’eticità delle attività di marketing, perchè alla fine non ha dato consumatori quello che gli serviva (un prodotto per eliminari gli odori), bensì quello che volevano (un deodorante per la casa che lasciava un buon odore). Sembra tanto persuasione occulta.
Però mi chiedo: trattando di persone adulte chi ha il diritto di decidere se quello che vogliono non è quello che gli serve? Si tratta come minimo di paternalismo, che rischia di essere un sinonimo di dittatura.
E questa considerazione vale anche per le campagne di mailing della Target, che non stimolano richieste ma le intercettano.

Dinamite. Tanti anni fa ho letto la biografia a fumetti di Alfred Nobel, l’inventore della dinamite, mi è rimasto impresso il concetto (autoassolutorio come la mia riflessione qui sopra?) che la dinamite non è buona o cattiva di per sè, dipende dall’uso che ne fanno le persone. Allo stesso modo le tecniche di analisi del comportamento umano non sono buone o cattive di per sè dipende dall’uso che se ne fa.
Dopo tanti anni di azienda credo che sia normale chiedersi perchè non destinare tutte quelle risorse umane ed economiche a scopi più ampi di benessere pubblico.
Ecco quindi che pensare di utilizzare la “scienza delle abitudini” per determinare comportamenti di utilità sociale la mette in tutt’altra luce rispetto al suo utilizzo da parte delle imprese. Oppure ne fa il vero grande fratello?

La forza delle abitudini 2

Ecco la seconda, ed ultima, tranche dell’articolo La forza delle abitudini Charles Duhigg, The New York Times Magazine. E’ un po’ (poco) più corta della prima.

Nell’ultima puntata, le mie impressioni.

Buona lettura.

Acquisti per eventi speciali
Andrew Pole era stato assunto dalla Target per aumentare le vendite usando lo stesso tipo di studio sulle abitudini dei consumatori. Doveva analizzare tutti i cicli stimoloroutine-gratificazione e aiutare l’azienda a capire come poteva sfruttarli. Il compito del suo reparto era piuttosto semplice: trovare i clienti che avevano dei bambini per mandargli il catalogo dei giocattoli prima di Natale; cercare le persone che di solito in aprile comprano un costume da bagno per mandargli buoni per l’acquisto di creme solari a luglio e la pubblicità di libri sulle diete a dicembre. Ma il compito più importante di Pole era individuare quei momenti unici nella vita delle persone in cui le abitudini di spesa diventano particolarmente flessibili e la pubblicità o il buono sconto giusto possono spingerle a modificare le abitudini di acquisto.
Negli anni ottanta un gruppo di ricercatori guidati da un professore dell’università della California a Los Angeles di nome Alan Andreasen condusse uno studio sugli acquisti più comuni, come il sapone, il dentifricio, i sacchetti della spazzatura e la carta igienica. Scoprirono che la maggior parte delle persone non prestava quasi nessuna attenzione a quegli acquisti, erano un’abitudine che non richiedeva decisioni complicate.
Questo signiicava che, nonostante i buoni e le promozioni, era difficile convincerle la gente a cambiare.
Ma quando nella vita di qualcuno c’era un evento speciale, come una laurea, un nuovo lavoro o il trasferimento in un’altra città, le abitudini d’acquisto diventavano più flessibili e prevedibili, trasformando quei clienti in potenziali miniere d’oro per i venditori. Dallo studio emerse che quando una persona si sposa è più probabile che cambi marca di caffè. Quando una coppia si trasferisce in una nuova casa, è più disposta a cambiare tipo di cereali per la colazione.
Quando divorzia, ci sono più probabilità che cominci a comprare una marca di birra diversa. I consumatori che attraversano una fase particolare della loro vita spesso non si accorgono che le loro abitudini d’acquisto sono cambiate, ma per i rivenditori è importante.
Dal punto di vista delle aziende, il più significativo di questi eventi speciali è l’arrivo di un bambino. Quando nasce un figlio,le abitudini dei genitori sono più flessibili che in qualsiasi altro periodo della vita di un adulto. Se le aziende riescono a individuare le donne che aspettano un bambino possono guadagnare milioni.
Ma individuarle è più diicile di quanto si possa immaginare. La Target ha un registro delle baby shower, le feste in cui si portano dei regali alle future mamme, e Pole cominciò da lì. Osservò come cambiavano le abitudini d’acquisto delle donne dell’elenco via via che si avvicinavano al parto, in base ai racconti che loro stesse avevano fornito all’azienda. Condusse un test dopo l’altro, analizzò i dati e dopo un po’ cominciarono a essere evidenti alcuni schemi. Per esempio, molte persone comprano creme per il corpo, ma un suo collega aveva notato che le donne incinte comprano più creme senza profumo dopo il terzo mese di gravidanza. Un altro analista si era accorto che durante i primi cinque mesi, le donne incinte compravano più integratori alimentari a base di calcio, magnesio e zinco.
Molte persone acquistano saponi e ovatta, ma quando una donna comincia a comprare saponi senza profumo e buste giganti di batuffoli di cotone, disinfettanti per le mani e asciugamani nuovi, significa che si sta avvicinando il momento del parto.
Quando i computer ebbero elaborato i dati, Pole riuscì a individuare circa venticinque prodotti che, messi insieme, gli permettevano di attribuire a ogni donna un “punteggio gravidanza”. Ma soprattutto, poteva calcolare la data del parto con una buona approssimazione, per permettere alla Target di mandare alla futura mamma i buoni relativi alle diverse fasi della gravidanza.
Pole applicò il suo programma a tutte le clienti abituali del database nazionale dell’azienda e ben presto ebbe una lista di
decine di migliaia di donne che probabilmente aspettavano un bambino. Se riuscivano a convincere quelle donne o i loro mariti ad andare nei loro negozi e comprare prodotti per neonati, con il sistema stimoloroutine-gratiicazione potevano spingerli a comprare anche prodotti alimentari, costumi da bagno, giocattoli e vestiti. Quando Pole presentò la sua lista, gli esperti di marketing rimasero estasiati. Cominciarono a invitarlo a tutte le riunioni importanti. E alla fine gli aumentarono lo stipendio.
Ma a quel punto qualcuno si chiese: come reagiranno le donne quando capiranno quante cose sappiamo di loro?
“Se si vede arrivare un catalogo con la scritta: ‘Congratulazioni per il suo primo figlio!’ e non ci ha mai detto di essere incinta, qualcuna si insospettirà”, mi ha raccontato Pole. “Siamo molto attenti alle norme sulla privacy. Ma anche se rispetti la legge certe cose mettono in guardia le persone”.
Circa un anno dopo che Pole aveva creato il suo modello per prevedere le gravidanze, un uomo entrò in un negozio Target alla periferia di Minneapolis e chiese di vedere il direttore. Aveva in mano dei buoni che erano stati mandati a sua figlia e, secondo un impiegato che aveva assistito alla conversazione, era molto arrabbiato. “Questi sono arrivati per posta a mia figlia!”, disse. “È ancora alle superiori e le mandate buoni per comprare abbigliamento da neonato e culle? State cercando di incoraggiarla a rimanere incinta?”.
Il direttore non aveva idea di cosa fosse successo. Guardò la busta, senza dubbio era indirizzata alla figlia dell’uomo e conteneva la pubblicità di abiti premaman, mobili per la stanza dei bambini e foto di bimbi sorridenti. Si scusò e qualche giorno dopo lo richiamò per scusarsi ancora.
Ma al telefono il padre sembrava imbarazzato.
“Ho parlato con mia figlia”, disse. “Ho scoperto qualcosa di cui non ero al corrente. Partorirà in agosto. Sono io che devo
scusarmi”.
Quando mi sono rivolto alla Target per discutere il lavoro di Pole, i rappresentanti dell’azienda si sono rifiutati di parlare con me. “Il nostro obiettivo è fare dei magazzini Target la destinazione preferita dei nostri clienti garantendo loro prodotti validi, innovazione continua e un’esperienza d’acquisto eccezionale”, mi hanno scritto. “Abbiamo creato una serie di strumenti di ricerca che ci consentono di capire meglio le tendenze e le preferenze di vari segmenti demografici della popolazione”. Quando gli ho mandato una sintesi del mio articolo, la risposta è stata più lapidaria: “Quasi tutte le sue affermazioni si basano su notizie inesatte e la loro pubblicazione sarebbe fuorviante.
Non intendiamo discuterle punto per punto”. L’azienda si rifiutava di specificare quali fossero le inesattezze, ma aggiungeva che “la Target rispetta tutte le leggi statali e federali, comprese quelle sulla segretezza delle informazioni sanitarie”.
Quando mi sono offerto di andare da loro per discutere le cose che li preoccupavano, una portavoce dell’azienda mi ha
scritto un’email dicendo che nessuno mi avrebbe ricevuto. Ci sono andato lo stesso, e mi hanno comunicato che ero nella lista dei visitatori indesiderati. “Ho ricevuto l’ordine di non farla entrare e di chiederle di andarsene”, mi ha detto un gentile agente di sicurezza di nome Alex.
Poco dopo che Pole aveva perfezionato il suo modello, la Target si era resa conto che usare i dati in suo possesso per scoprire una gravidanza sarebbe stato disastroso per i suoi rapporti con il pubblico. Quindi il problema era diventato: come far arrivare le pubblicità alle donne incinte senza che si sentano spiate? Come sfruttare le abitudini di qualcuno senza fargli capire che state studiando la sua vita?

Decifrare la sequenza
Prima di incontrare Andrew Pole, prima ancora di decidere di scrivere un libro sulla teoria della formazione delle abitudini, avevo un altro obiettivo: volevo perdere peso. Avevo preso la brutta abitudine di andare ogni pomeriggio alla caffetteria del giornale e di mangiare un dolce al cioccolato, così avevo preso qualche chilo. Quattro, per essere precisi. Avevo incollato un foglietto sul mio computer con scritto: “Niente più dolci”. Ma tutti i pomeriggi riuscivo in qualche modo a ignorarlo, entravo nella caffetteria e mangiavo un dolce parlando con i colleghi. Domani, mi dicevo sempre, troverò la forza di resistere.
E il giorno dopo ne mangiavo un altro.
Quando ho cominciato a intervistare gli esperti di formazione delle abitudini, concludevo ogni intervista chiedendo cosa dovevo fare. La prima cosa, mi dicevano, era capire come funziona la sequenza. La routine era semplice: tutti i pomeriggi entravo nella caffetteria, compravo un dolce e lo mangiavo chiacchierando con gli amici. Poi sono arrivate le domande meno ovvie. Qual’era lo stimolo: la fame, la noia, un calo della glicemia? E qual era la gratificazione: il sapore del dolce, la distrazione dal lavoro, la possibilità di socializzare con i colleghi? Le gratificazioni sono importanti perché soddisfano sempre un nostro desiderio, ma spesso non sappiamo qual è il bisogno che dà origine a un’abitudine. Perciò un giorno, quando ho sentito il desiderio del dolce, ho deciso invece di andare a fare una passeggiata. Il giorno dopo sono andato alla caffetteria e ho preso un caffè. Quello successivo ho comprato una mela e l’ho mangiata parlando con gli amici. È chiaro, no? Volevo verificare qual era la gratificazione che cercavo. Se avevo fame, la mela avrebbe dovuto funzionare. Avevo bisogno di una carica di energia? Allora bastava il cafè. Oppure, come avrei scoperto alla fine, dopo tante ore di concentrazione sul lavoro volevo socializzare, essere aggiornato sugli ultimi pettegolezzi dell’ufficio, e il dolce era solo una scusa. Mi bastava avvicinarmi alla scrivania di un collega e fare due chiacchiere con lui per non sentire più il bisogno del dolce. Ora dovevo capire qual era lo stimolo. Ma decifrare gli stimoli è molto difficile.
Spesso nella nostra vita ci sono troppe informazioni per permetterci di capire cosa scatena un particolare comportamento.
Facciamo colazione a una certa ora perché abbiamo fame? O perché è cominciato il tg della mattina? O perché mangiano i nostri figli? Alcuni esperimenti hanno dimostrato che quasi tutti gli stimoli rientrano in cinque categorie: luogo, tempo, stato emotivo, presenza di altre persone o azioni immediatamente precedenti. Quindi per capire cosa scatenava il mio desiderio di dolce, nel momento in cui ne sentivo il bisogno ho cominciato a rispondere a queste cinque domande.
Dove sei? (Seduto alla mia scrivania).
Che ore sono? (Le 15.36).
Qual è il tuo stato emotivo? (Sono annoiato).
Chi c’è con te? (Nessuno).
Cosa hai fatto prima? (Ho risposto a un’email).
Il giorno dopo l’ho fatto di nuovo. E anche quello successivo. Dopo un po’ ho capito qual era lo stimolo: sentivo sempre il bisogno di mangiare qualcosa intorno alle tre e mezzo del pomeriggio. Una volta individuata la sequenza, sembrava piuttosto facile cambiare abitudine.
Ma gli psicologi e i neuroscienziati mi hanno avvertito che per modificare il mio comportamento dovevo basarmi sullo stesso principio che aveva permesso alla Procter & Gamble di vendere Febreze. Per cambiare la routine – cioè socializzare invece che mangiare un dolce – dovevo sfruttare un’abitudine già esistente. Perciò ora, tutti i giorni intorno alle tre e mezza, mi alzo, mi guardo intorno per vedere se in redazione c’è qualcuno con cui chiacchierare, passo una decina di minuti a scambiare pettegolezzi e poi torno alla mia scrivania. Lo stimolo e la gratificazione sono rimasti gli stessi. È cambiata solo la routine. Non mi sembrava di aver preso una decisione più di quanto i topi dell’Mit avessero deciso di correre attraverso il loro labirinto. È diventata un’abitudine, e da allora ho perso dieci chili (metà dei quali eliminando il rituale del dolce).

Tosaerba e pannolini
Dopo che Andrew Pole aveva perfezionato il suo modello e individuato migliaia di donne che probabilmente aspettavano un bambino, dopo che qualcuno aveva pensato che forse alcune di quelle donne sarebbero rimaste turbate ricevendo una pubblicità dalla quale si capiva chiaramente che la Target spiava il loro comportamento riproduttivo, tutti decisero di allentare la pressione.
Il reparto marketing condusse alcuni test scegliendo un piccolo campione a caso di donne dalla lista di Pole e mandando loro varie combinazioni di pubblicità per vedere come reagivano. “Siamo in grado di mandare a ogni cliente un opuscolo pubblicitario studiato specificamente per lui o per lei che dice: ‘Queste sono le cose che ha comprato la settimana scorsa e un buono per ricomprarle’”, mi ha spiegato uno dei dirigenti dell’azienda. “Per i prodotti alimentari lo facciamo sempre”. Ma con le donne in attesa, l’obiettivo della Target era vendere prodotti per neonati dei quali non sapevano ancora di aver bisogno.
“Con i prodotti per la gravidanza, però, abbiamo scoperto che alcune donne reagiscono veramente male”, ha continuato il dirigente. “Perciò abbiamo cominciato ad aggiungere la pubblicità di prodotti che una donna incinta non comprerebbe mai per far sembrare casuale la nostra scelta. Mettevamo la pubblicità di un tosaerba accanto a quella dei pannolini. Quella di un vino accanto a quella dell’abbigliamento per neonati. Così sembrava che tutti i prodotti fossero stati scelti a caso. E abbiamo scoperto che se una donna incinta non pensa di essere spiata, alla fine usa i buoni. Immagina semplicemente che tutti nel suo palazzo abbiano ricevuto lo stesso opuscolo, così non si spaventa e il sistema funziona”.
In altre parole, sfruttando le abitudini già esistenti – gli stessi stimoli e le stesse gratificazioni che già spingevano i clienti a comprare detersivi o calzini – la Target poteva creare una nuova routine e spingerli a omprare prodotti per neonati. Lo stimolo è “Guarda, un buono per una cosa che mi serve!”, la routine è “Compra, compra, compra” e la gratificazione è “Così posso risparmiare”. Poi, una volta che la persona entra nel negozio, trova altri stimoli e gratificazioni che la spingono a mettere nel carrello tutto quello che normalmente compra altrove. Quando la Target riuscì a dare l’impressione che tutto rientrasse nella norma, la sua pubblicità funzionò.
Poco dopo l’inizio della nuova campagna, le vendite di prodotti per neonati salirono alle stelle. L’azienda non rende note le cifre relative a settori specifici, ma tra il 2002 – anno in cui assunse Pole – e il 2010, i suoi incassi sono passati da 44 a 67 miliardi.
Nel 2005 il presidente della Target, GreggSteinhafel, si è vantato con gli investitori della “maggiore attenzione della sua azienda per i prodotti che interessano particolari categorie di consumatori come le mamme e i bambini”.
Pole è stato promosso e invitato a parlare ai convegni. “Non avrei mai pensato che diventasse una cosa così importante”, mi ha detto l’ultima volta che gli ho parlato.
Qualche settimana prima che questo articolo venisse pubblicato, sono andato a Minneapolis per cercare di parlarne con lui ancora una volta. Era più di un anno che non ci sentivamo. Quando eravamo ancora amici gli avevo detto che mia moglie era incinta di sette mesi. Anche lei fa la spesa alla Target, gli avevo detto, e gli avevo lasciato il nostro indirizzo per ricevere i buoni. Man mano che la gravidanza di mia moglie procedeva, avevo notato un leggero aumento delle pubblicità di pannolini e abbigliamento per neonati che arrivavano a casa.
Quando sono arrivato a Minneapolis, Pole non ha risposto né alle mie email né alle mie telefonate. Sono andato a casa sua, in un bel quartiere, ma nessuno mi ha aperto. Mentre tornavo in albergo, mi sono fermato in un grande magazzino Target perché mi serviva un deodorante e ho comprato anche una maglietta e un gel per i capelli. Poi mi è venuto in mente di aggiungerci qualche ciuccio per vedere come reagivano i computer. Ormai nostro figlio ha nove mesi
e i ciucci non bastano mai.
Quando sono andato a pagare, con mia grande delusione, non mi hanno offerto nessun buono per i pannolini o il latte in
polvere. D’altra parte era comprensibile, ero in una città dove non ero mai stato prima, alle dieci di sera di un giorno feriale e avevo comprato tutte cose diverse. Stavo usando una carta di credito aziendale e, a parte i ciucci, non avevo comprato nulla di quello che di solito serve a chi ha un bambino.
I computer avevano capito benissimo che ero in viaggio di lavoro. Il calcolatore di Pole mi aveva dato un’occhiata e aveva deciso di aspettare un momento più opportuno.
Una volta tornato a casa, le offerte sarebbero arrivate. Come mi aveva detto Pole l’ultima volta: “Aspetta. E vedrai che ti manderemo i buoni per le cose che vuoi prima ancora che tu sappia di volerle”.

La forza delle abitudini 1

Interessantissimo articolo del New York Time Magazine pubblicato sull’Internazionale. Lo pubblico a puntate perchè (purtoppo) è veramente troppo lungo per il web; limiti del digitale (come quelli che mi dicono “L’i-pad è troppo comodo per leggere il giornale la mattina”, però con l’i-pad non leggi il giornale, lo guardi e non è la stessa cosa).

Forse sto facendo una violazione del copyright, ma se Zuckerberg dice (probabilmente a ragione) che la privacy è un concetto superato, spero che citare la fonte basti a farmi perdonare.

Poi finite le puntate probabilmente farò un post sulle riflessioni stimolate da questo articolo, nel frattempo se volete mandare le vostre ….. Mettetivi comodi e cominciate

La forza delle abitudini
Charles Duhigg, The New York Times Magazine,Stati Uniti.

Condizionano la nostra vita ogni giorno, da quando ci laviamo i denti a quando guidiamo la macchina. Da vent’anni gli scienziati cercano di capire come nascono le abitudini. Ora le loro ricerche hanno un nuovo campo di applicazione: il marketing.

Nel 2002 Andrew Pole era appena entrato a lavorare come esperto di statistica alla catena di grandi magazzini Target, quando due colleghi del reparto marketing si fermarono accanto alla sua scrivania per fargli una strana domanda: “Siamo in grado di scoprire se una cliente è incinta, anche se lei non vuole farcelo sapere?”. Pole ha un master in statistica e uno in economia e si è occupato per tutta la vita dell’incrocio tra i dati e il comportamento umano. I suoi genitori insegnavano nel North Dakota, e mentre gli altri ragazzi andavano in campeggio, Pole studiava algebra e scriveva programmi per computer. “Lo stereotipo del nerd della matematica non è un mito”, mi ha detto quando ho parlato con lui l’anno scorso. “Mi piace andare in giro a diffondere il vangelo dell’analisi”. Come gli spiegarono gli esperti di marketing – e come lui stesso ha spiegato a me prima che la Target gli proibisse di parlarmi – le persone che hanno appena avuto un figlio sono una miniera d’oro. La maggior parte della gente non compra in un unico posto tutto quello che le serve. Fa la spesa nei negozi di alimentari, compra i giocattoli nei negozi di giocattoli e va alla Target solo quando ha bisogno di certe cose che
associa ai grandi magazzini, come i detersivi, i calzini o la carta igienica. Ma la Target vende di tutto, dal latte agli orsacchiotti di peluche, dai mobili da giardino all’elettronica, perciò uno dei suoi obiettivi principali è convincere i clienti che l’unico negozio di cui hanno bisogno è il suo. Ma questo è un messaggio difficile da trasmettere, anche con le campagne pubblicitarie più ingegnose, perché non è facile far cambiare abitudini alla gente. Tuttavia, ci sono alcuni periodi della vita in cui una persona è costretta a modificare la sua routine e le abitudini d’acquisto sono più fluide. Uno di questi momenti, anzi il principale, è quando nasce un bambino, perché i genitori sono esausti e soprafatti dal nuovo impegno e più disposti a cambiare abitudini d’acquisto. Ma come spiegarono a Pole i colleghi del marketing, il tempismo è fondamentale. Dato che i registri delle nascite sono pubblici, quando una coppia ha un figlio viene immediatamente tempestata di offerte e pubblicità da aziende di ogni tipo. Perciò è decisivo riuscire a conquistare quella famiglia prima che chiunque altro scopra che è in arrivo un bambino. In particolare, i colleghi di Pole volevano mandare pubblicità mirate alle donne che avevano superato i primi tre mesi di gravidanza, perché quello è il periodo in cui la maggior parte delle mamme in attesa comincia a comprare cose come le vitamine e l’abbigliamento premaman. “Sapevamo che se fossimo riusciti a conquistare le future mamme in quel periodo, sarebbero rimaste nostre clienti per anni”, mi ha spiegato Pole. “Se cominciano a comprare i pannolini da noi, poi comprano anche tutto il resto”. Naturalmente, questo desiderio di
raccogliere informazioni sui clienti non è una novità né per la Target né per le altre catene di distribuzione. Sono decenni che la Target accumula dati sulle persone che entrano regolarmente nei suoi negozi. Quando è possibile, assegna a ognuna di loro un codice, che chiama numero di identificazione del cliente, grazie al quale controlla tutto quello che compra. “Se qualcuno usa la carta di credito o un buono sconto, risponde a un questionario, chiede un rimborso, chiama il nostro servizio clienti, apre l’email che gli abbiamo mandato o visita il nostro sito, noi registriamo l’operazione e la colleghiamo al codice”, spiega Pole. “Vogliamo più informazioni possibile”. Collegate al numero di identificazione del cliente sono anche tutte le informazioni di tipo demografico: l’età, se una persona è sposata, se ha figli, in quale zona della città vive, quanto tempo ci mette a raggiungere il negozio, approssimativamente quanto guadagna, se ha cambiato casa di recente, che carte di credito ha e quali siti visita. La Target può comprare anche i dati sull’origine etnica, sui lavori che una persona ha fatto, su quali riviste legge, se ha mai dichiarato fallimento o ha divorziato, in che anno ha comprato (o perso) la casa, se è andata all’università, di cosa parla online, se preferisce una certa marca di caffè, di tovaglioli di carta, di cereali o di succo di mela, qual è il suo orientamento politico e il suo genere letterario preferito, se fa donazioni e quante auto possiede. Tutte queste informazioni però sono inutili se non c’è qualcuno che le analizza e gli dà un senso. Era proprio questo il compito di Andrew Pole e dei suoi colleghi dell’ufficio Guest marketing analytics Quasi tutti i grandi rivenditori, dalle catene di prodotti alimentari alle banche di investimento, hanno un reparto “analisi predittive” che si occupa di scoprire non solo le abitudini d’acquisto dei consumatori, ma anche le abitudini personali, per poter arrivare a loro più facilmente. “La Target è sempre stata una delle migliori in questo campo”, dice Eric Siegel, un consulente che presiede una conferenza del settore chiamata Predictive analytics world. “Siamo nell’epoca d’oro della ricerca sui comportamenti. È incredibile quante cose possiamo sapere oggi su cosa pensano le persone”. Il motivo per cui la Target può ficcare il naso nelle nostre abitudini d’acquisto è che, negli ultimi vent’anni, la scienza della formazione delle abitudini è diventata uno dei maggiori campi di ricerca degli istituti di neurologia e di psicologia di centinaia di centri medici e di università, per non parlare dei ricchi laboratori delle aziende. “Accaparrarsi gli statistici più in gamba ormai è una specie di corsa agli armamenti”, dice Andreas Weigend, l’ex capo scienziato di Amazon. “I matematici sono improvvisamente diventati molto ricercati”. L’analisi dei dati è sempre più sofisticata, e il desiderio di capire come le abitudini quotidiane influiscono sulle nostre decisioni è uno dei temi più appassionanti della ricerca, anche se la maggior parte di noi non si rende conto di essere schiava di certi schemi. Secondo uno studio condotto dalla Duke university, sono le abitudini più che le decisioni coscienti a condizionare il 45 per cento delle scelte che facciamo ogni giorno. Le ultime scoperte stanno cambiando completamente il modo di vedere molte cose, da come concepiamo una dieta a come
i medici stabiliscono le cure per l’ansia, la depressione e le dipendenze. I ricercatori hanno scoperto come impedire a qualcuno di mangiare troppo o di rosicchiarsi le unghie. Sono in grado di spiegare perché alcuni di noi ogni mattina vanno a correre e sono più efficienti nel loro lavoro, mentre altri non riescono ad alzarsi dal letto e perdono tempo. A quanto sembra, esiste una formula per controllare i nostri desideri inconsci. Il processo grazie al quale il cervello trasforma una sequenza di azioni in una routine automatica è chiamato chunking. Ogni giorno ripetiamo decine, se non centinaia, di comportamenti di questo tipo. Alcuni sono semplici, per esempio mettere il dentifricio sullo spazzolino prima di spazzolare i denti. Altri, come preparare il pranzo per i figli, sono un po’ più complicati. Altri ancora sono così complessi che il fatto che siano diventati abitudini ci sembra incredibile. Prendiamo, per esempio, uscire dal garage di casa a marcia indietro. Quando abbiamo imparato a guidare, questa manovra richiedeva, giustamente, una buona dose di concentrazione, perché bisogna guardare nello specchietto retrovisore e in quelli laterali per vedere se ci sono ostacoli, spingere con un piede il pedale della frizione, ingranare la retromarcia, togliere il piede dalla frizione, calcolare la distanza tra il garage e la strada, mantenere dritte le ruote, calcolare come le immagini che vediamo negli specchietti si traducono in distanze reali, e regolare la pressione sull’acceleratore e sul freno. Ora facciamo tutte queste cose ogni volta che usciamo, senza pensarci troppo. Il nostro cervello ha trasformato in routine una buona parte di questi gesti. Se lo lasciamo fare, il cervello cerca di trasformare tutti i comportamenti ripetuti in abitudini, perché così si sforza di meno. Ma questa tendenza a conservare l’energia mentale può essere pericolosa, perché se il nostro cervello va in automatico nel momento sbagliato, potremmo non accorgerci di qualcosa di importante, come un bambino che attraversa la strada in bici o una macchina che arriva a tutta velocità. Perciò abbiamo inventato un sistema per decidere quando possiamo agire automaticamente. È qualcosa che scatta all’inizio e alla fine di un segmento di comportamento, e ci aiuta a capire perché, anche con le migliori intenzioni, è così difficile cambiare un’abitudine.

Cambiare si può
Il processo di formazione delle abitudini è formato da tre fasi. Prima di tutto c’è uno stimolo che dice al nostro cervello che può andare in automatico e quale sequenza deve usare. Poi c’è la routine, che può essere fisica, mentale o emotiva. Infine c’è la gratificazione, che aiuta il cervello a capire se vale la pena di ricordare quella sequenza in futuro. Nel corso del tempo, questo ciclo – stimolo, routine, gratificazione, stimolo, routine, gratificazione – diventa sempre più automatico. Livello neurologico, lo stimolo e la gratificazione si legano strettamente tra loro fino a quando non si instaura il desiderio. L’aspetto particolare di questo meccanismo è che gli stimoli e le gratificazioni possono essere molto sottili. Alcuni studi neurologici hanno dimostrato che certi stimoli durano solo qualche millesimo di secondo. E le gratificazioni possono andare dalle più ovvie (come l’innalzamento del livello glicemico provocato dalla ciambella che mangiamo al mattino) alle più insignificanti (come il senso di sollievo impercettibile, ma misurabile, che proviamo quando usciamo dal garage). Nella maggior parte dei casi tutto succede così rapidamente che non ce ne rendiamo conto. Ma il nostro sistema neurale se ne accorge e usa queste sequenze per costruire comportamenti automatici. Le abitudini non sono immutabili. Possono essere ignorate, modificate o sostituite. Ma quando abbiamo issato una sequenza e acquisito un’abitudine, il cervello smette di intervenire nelle decisioni. Perciò, a meno che non decidiamo di combattere quell’abitudine, cioè di trovare una nuova sequenza, la vecchia si ripeterà automaticamente. “Abbiamo condotto alcuni esperimenti con i ratti, addestrandoli a percorrere un labirinto fino a quando per loro non è diventata un’abitudine. Poi abbiamo modificato l’abitudine spostando la ricompensa finale”, racconta Ann Graybel, una neuro scienziata del Massachusetts institute of technology. “Un giorno abbiamo rimesso il premio dov’era prima e la vecchia abitudine, incredibilmente, è riemersa. Le abitudini non scompaiono mai del tutto”. Fortunatamente, capire come funzionano le abitudini le rende più facili da controllare. Prendiamo per esempio una serie di studi condotti qualche anno fa alla Columbia university e all’università di Alberta. I ricercatori volevano capire come si instaura l’abitudine di fare esercizio fisico. Il programma prevedeva che 256 persone con un’assicurazione sulla salute frequentassero un corso in cui si dava molta importanza all’esercizio fisico. Metà dei partecipanti assisteva a una lezione in più su come si formano le abitudini e in seguito doveva individuare gli stimoli e le gratificazioni che avrebbe potuto usare per prendere abitudini più sane. Il risultato fu sorprendente. Nel corso dei quattro mesi successivi, le persone che avevano imparato a individuare la sequenza facevano il doppio dell’attività fisica di quelle che non avevano imparato a farlo. Altri studi hanno prodotto risultati simili. Secondo un recente studio, se vogliamo cominciare a correre tutte le mattine, è essenziale scegliere uno stimolo semplice (come mettere sempre le scarpe da ginnastica prima di colazione o preparare la tuta vicino al letto) e una gratificazione chiara (come un dolcetto a mezzogiorno o la soddisfazione che dà registrare i chilometri percorsi in un diario). Dopo un po’ di tempo il cervello comincia ad aspettarsi la gratificazione – a desiderare il dolce o quel senso di soddisfazione – e produrrà un impulso neurologico a infilarci le scarpe da ginnastica ogni mattina. Il nostro rapporto con la posta elettronica funziona nello stesso modo. Quando il computer o il cellulare segnalano che c’è un nuovo messaggio, il cervello comincia ad anticipare il “piacere” che (anche se non lo riconosce) gli provoca cliccarci sopra e leggerlo. Se non viene soddisfatta, questa aspettativa può crescere fino a farci impazzire all’idea che c’è un messaggio non letto, anche se a livello razionale sappiamo che probabilmente non è niente di importante. Se rimuoviamo lo stimolo togliendo la vibrazione al telefono o il volume al computer, il desiderio non si scatena, e riusciamo a lavorare tranquillamente senza controllare di continuo la posta in arrivo.

Piccoli riti
In questo campo, alcuni degli esperimenti più ambiziosi sono stati condotti dalle aziende private. Per capire perché i manager sono così affascinati da questa scienza, pensate che una delle più grandi aziende del mondo, la Procter & Gamble, ha usato la teoria delle abitudini per trasformare un flop in uno dei suoi prodotti più venduti. Questo colosso produce una gamma vastissima di articoli, dagli ammorbidenti per il bucato agli asciugamani di carta, dalle batterie a decine di prodotti per la casa. A metà degli anni novanta i manager della Procter & Gamble avviarono un progetto segreto per la creazione di un nuovo prodotto in grado di eliminare i cattivi odori. L’azienda spese milioni di dollari per creare un liquido incolore e poco costoso che si poteva spruzzare su una camicetta impregnata di fumo, su un divano puzzolente, su una vecchia giacca o sulla tappezzeria macchiata di un’automobile e far sparire ogni odore. Per lanciare sul mercato il prodotto, che si chiamava Febreze, la società creò una squadra formata da un ex matematico di Wall street di nome Drake Stimson e da alcuni studiosi della teoria delle abitudini. Il loro compito era garantire che gli spot televisivi, trasmessi in via sperimentale a Phoenix, Salt Lake City e Boise, nell’Idaho, sottolineassero nel modo giusto gli stimoli e le gratificazioni del prodotto. Nel primo spot c’era una donna che si lamentava della zona fumatori di un ristorante. Ogni volta che mangiava lì, diceva, la sua giacca si impregnava di fumo. Un’amica le faceva notare che con Febreze avrebbe potuto eliminare quell’odore. Lo stimolo era chiaro: l’odore acre del fumo di sigaretta. E anche la gratificazione: la scomparsa di quell’odore dai vestiti. Nel secondo spot c’era una donna preoccupata per il fatto che la sua cagnetta Sophie saliva sempre sul divano. “Sophie avrà sempre il suo odore”, diceva, ma con Febreze, “non ce l’hanno più i miei mobili”. Gli spot furono mandati in onda a rotazione e i pubblicitari cominciarono a pregustare i loro premi. Passò una settimana. Un mese. Due mesi. Le vendite erano sempre più basse. Febreze era un lop. In preda al panico, la squadra di esperti condusse una serie di interviste approfondite tra i consumatori per capire cosa non andava. Il primo sospetto lo ebbero quando andarono a intervistare una donna alla periferia di Phoenix. La sua casa era pulita e ben organizzata. Lei stessa si definiva una maniaca della pulizia. Ma quando i ricercatori della Procter & Gamble entrarono nel salotto, dove i suoi nove gatti passavano la maggior parte del tempo, l’odore era così forte che uno di loro ebbe un conato di vomito. Stimson ricorda che un suo collega chiese alla donna: “Cosa fa per l’odore dei gatti?”. “Di solito non è un problema”, disse lei. “Non lo sente?”. “No”, rispose la donna. “Non è meraviglioso? Non puzzano affatto!”. La stessa scena si ripeté in decine di altre case. Il motivo per cui Febreze non vendeva era che la gente non sentiva i cattivi odori. Se vivi con nove gatti, non ti accorgi più che puzzano. Se fumi, dopo un po’ non senti più l’odore di fumo. Quando l’esposizione è costante, non sentiamo più neanche gli odori più forti. Lo stimolo che avrebbe dovuto far scattare il bisogno di usare Febreze tutti i giorni non veniva recepito. E la gratiicazione, una casa senza odori, non aveva senso per chi non li sentiva. La Procter & Gamble chiese a un professore della Harvard business school di analizzare la campagna di marketing del prodotto. I ricercatori raccolsero ore e ore di filmati di persone che pulivano la casa per cercare qualche indizio che potesse aiutarli a collegare Febreze alle abitudini quotidiane delle persone. Non scoprirono nulla e decisero di fare altre interviste. La svolta avvenne quando andarono a trovare una donna sulla quarantina con quattro figli che viveva alla periferia di Scottsdale, in Arizona. La casa era pulita, anche se non perfettamente ordinata, e non sembrava avere alcun odore, non c’erano animali né fumatori. Con grande sorpresa di tutti, lei adorava Febreze.
“Lo uso tutti i giorni”, disse. “Quali odori cerca di eliminare?”, le chiese un ricercatore. “Non devo eliminare nessun odore specifico”, disse la donna. “Lo uso durante le pulizie, un paio di spruzzi quando ho finito una stanza”. I ricercatori la seguirono mentre riordinava la casa. In camera da letto, rifaceva il letto, tirava bene le lenzuola e poi spruzzava Febreze sulla trapunta. In soggiorno, passava l’aspirapolvere, raccoglieva le scarpe dei bambini, rimetteva a posto il tavolino e poi
spruzzava Febreze sul tappeto appena pulito.
“È piacevole, no?”, disse. “È un piccolo rito per concludere la pulizia di una stanza”. A quel ritmo, calcolarono i ricercatori, avrebbe finito un flacone in due settimane. Quando tornarono nel loro ufficio, gli esperti riguardarono i filmati. Ora sapevano cosa cercare e videro gli errori scena dopo scena. Chi pulisce ha già delle abitudini.
In uno dei video, una donna entrava in una stanza sporca (stimolo), cominciava a spazzare e a raccogliere giocattoli (routine), poi riguardava la stanza e sorrideva (gratificazione).
In un altro, una donna guardava il letto disfatto (stimolo), aggiustava le lenzuola e le coperte (routine) e poi sospirava mentre passava la mano sui cuscini appena sbattuti (gratificazione). Con Febreze la Procter & Gamble aveva cercato di creare una nuova abitudine, ma la mossa vincente era sfruttare quelle già esistenti. Doveva presentare il prodotto come il momento conclusivo del rituale delle pulizie, come una gratificazione piuttosto che come una nuova routine.
L’azienda preparò nuovi cartelloni pubblicitari in cui si vedevano finestre aperte dalle quali entrava aria fresca. Venne aggiunto più profumo a Febreze, così invece di eliminare gli odori lo spray ne aveva uno tutto suo. Nei nuovi spot televisivi le donne, dopo aver finito di pulire, lo spruzzavano sui letti appena fatti e sulla biancheria fresca di bucato. Le pubblicità si basavano su abitudini già esistenti: quando vedi una stanza appena pulita (stimolo), tira fuori Febreze (routine) e goditi il profumo che ti conferma di aver fatto un buon lavoro (gratificazione).
Quando inisci di rifare il letto (stimolo), spruzza Febreze e tira un sospiro di soddisfazione (gratificazione). Febreze, lasciavano intendere gli annunci, era un piacere in più, non un modo per ricordarti che la tua casa puzza.
E così un prodotto che in origine era stato concepito come un sistema rivoluzionario per eliminare gli odori diventò un deodorante per la casa che si usava dopo aver pulito. Tutto questo successe nell’estate del 1998. Nel giro di due mesi, le vendite raddoppiarono. Un anno dopo, Febreze fece incassare all’azienda 230 milioni di dollari. Da allora è nata tutta una serie di prodotti collaterali – deodoranti, candele e detersivi per il bucato – le cui vendite hanno raggiunto un miliardo di dollari l’anno. In seguito la Procter & Gamble ha cominciato a dire ai suoi clienti che, oltre ad avere un buon profumo, Febreze eliminava anche i cattivi odori. Oggi è uno dei prodotti più venduti nel mondo.

Il re è nudo (ma non l’ho spogliato io)

Premessa n. 1: sono un bevitore recente ed occasionale di caffè, di fatto lo bevo solo al bar.
Premessa n. 2: più passano gli anni e meno sopporto i rumori inutili.
Premessa n. 3: la sensibilità delle persone ai temi ambientali è un atteggiamento oramai consolidato.
Premessa n. 4: un giorno ho sentito dire che per non perdere una buona battuta può valere la pena di perdere un’amicizia. non sono d’accordo, meno che meno quando invece di una battuta si tratta di un post.

Spero quindi che i miei amici e conoscenti che lavorano nell’industria del caffè non se la prendano per quello che sto per scrivere.

Poco più di un mese fa in ufficio prima di una riunione sono stati preparati di seguito svariatti caffè da una, oramai classica, macchina a capsule. Il fastidio, vedi premessa 2, mi ha fatto pensare all’evoluzione dalla moka – capsula – cialda ed al progressivo inquinamento ambientale (compreso quello acustico) che ha implicato.

Evidentemente non sono stato nè il primo nè l’unico a porsi questa domanda ed infatti se mettete in un motore di ricerca “impatto ambientale capsule caffè” trovate un po’ di siti e blog dove si sottolinea l’ecoincompatibilità delle capsule rispetto alle cialde, per non parlare della moka con il suo ridotto consumo energetico rispetto alle macchine per l’espresso casalingo.

Tra l’altro vengono citate le esperienze di “Vergnano 1882″ e “7 gr.” (possibile sia ancora così diffuso e frequente l’errore di indicare i grammi con la sigla “gr.” invece del simbolo “g”?) che commercializzano esclusivamente le cialde proprio puntando sulla loro eco-compatibilità.

Ho trovato anche un intervento del 2008 di Andrea Illy che, non senza un certo coraggio imprenditoriale, sottolinea come le capsule in plastica ed alluminio siano il non plus ultra dell’eco-compatibilità in quanto materiali perfettamente riciclabili. I commenti al post però tendono, giustamente, ad impallinarlo. Ricordo che il concetto di sostenibilità ambientale si base sulla pratica delle 3R: RIDUCI, RIUSA, RICICLA.

La cosa è tanto più sorprendente se si pensa che Illy fu l’ideatore del sistema E.S.E. (Easy serving Espresso) in cialde totalmente biodegradabili e lo liberalizzò dando origine al consorzio E.S.E. proprio con l’obiettivo di favorirne la diffusione sia tra i produttori che tra i produttori di macchine. Un grande esempio di co-opetizione con l’obiettivo di favorire ed accellerare la crescita di un nuovo mercato più che di escludere i concorrenti; in altre parole meglio giorcarsi una quota piccola di un mercato grande che una quota grande di un mercato piccolo.

Eppure negli ultimi anni anche illy è passata alle capsule che funzione su macchine “brand specifiche” per cui una volta scelta la macchina Illy, il consumatore non potra utilizzare altre marche di caffè (stessa politica seguita da Lavazza, Nespresso, ecc..).

Cos’è successo? Partendo dal presupposto che le capsule permettono di ottenere un espresso migliore, i produttori di caffè hanno valutato che tra la coscenza ed il piacere, il consumatore sceglierà quest’ultimo. Tanti anni fa nel risolvere un caso aziendale che riguardava la catena di supermercati americani Giant Food ho detto che le persone vogliono essere trattati da cittadini, me quando si trovano nel momento dell’acquisto si comportano da consumatori.

Però era, appunto, tanti anni fa ed oggi mi chiedo: fino a quando?

Alixir di Barilla

regularis_barretta_nocciola Qualche tempo fa avevo visto sulla stampa specializzata la notizia del lancio da parte di Barilla della nuova linea Alixir e la cosa mi aveva incuriosito. Quando poi un paio di settimana fa ho visto la pubblicità in televisione, la mia curiosità è cresciuta ancora di più ed ho quandi pensato di condividere nel mio (rinato blog) i miei pensieri.
Primo motivo di curiosità è stato il packaging perchè non lo capisco nè in senso assoluto, nè in quello relativo. In senso assoluto la combinazione nero/giallo (arancio) è, almeno nelle società occidentali, quella utilizzata (e quindi associata) ai segnali di pericolo. In senso relativo perchè assolutamente distonica rispetto alla categoria. E’ vero che, ad esempio, Muller è riuscito a distinguersi cambiando i codici colore di riferimento della categoria degli yogurt con il suo blu, e nella stessa categoria Activia ha fatto del verde un elemento importante del suo posizionamento. Però erano colori appunto coerenti con il posizionamento distintivo, piacere e salutarietà, con cui si proponevano le marche. Il nero è sicuramente disntivo nella categoria specifica e nell’alimentare in genere, ma non è detto che lo sia in positivo.
Poi sempre in termini relativi la scelta dei codici colori non ha niente a che vedere con quelli della marca Barilla. Niente impedisce ad un’azienda, specie se grande, di lanciare una nuova marca indipendente, però in questo caso la pubblicità di apre con lo speaker che dice “Barilla presenta …”.
Ecco quindi il secondo motivo di curiosità, perchè mi sono guardato tutto lo spot aspettando che in qualche momento apparisse la firma Barilla, ma ho aspettato invano. Dove sta quindi il vantaggio di spendersi il valore del marchio Barilla se l’aspetto del prodotto non lo richiama in alcun modo ed il marchio nemmeno appare. Che ci sia forse il tentativo di dare comunque il supporto di un grande marchio ad una nuova linea in una nuova categoria merceologica, senza però volerlo far apparire troppo per evitare eventuali indebolimenti dovuti ad eccessiva distonia merceologica e/o eventuale insuccesso della nuova linea? Non vorrei essere troppo drastico per un’analisi fatta a tavolino con informazioni che definire parziali è già troppo, ma sento puzza di quella che il mio maestro di scherma romena chiamava una strategia a “coda di pesce”: ho deciso di fare una cosa, ma non sono del tutto convinto e quindi la lascio a metà senza andare nè da una partenè dall’altra. avrete già intuito che il risultato più probabile, almeno a spada, è quello di subire la stoccata.
La mia sorpresa però è aumentata ancora quando sono andato sul sito e mi sono trovato un’immagine coerente con il packaging dei prodotti firmata in calce da quello che defineri un abbozzo di logo Barilla (nel senso che c’è il nome scritto con il suo specifico carattere, ma senza la stilizzatione dell’uovo intorno.
A questo punto il fatto che i diversi prodotti non appaiano sullo schermo quando si passa mouse sui nomi delle 4 linee che compongono la gamma mi è sembrato un dettaglio (non banale direi per una linea nuova che deve farsi conoscere dal consumatore).
L’ultima delusione (perchè comunque Barilla è un’azienda che merita ed ha tutto il mio rispetto) mi è venuta dallo strumento per trovare con cui trovare i punti vendita dove sono distribuiti i prodotti Alixir. Quando ho inserito Trieste mi sono venuti fuori numerosi supermercati (a dimostrazione della forza distributiva di Barilla), peccato però che fossero indicati con la ragione sociale e non con il nome dell’insegna e quindi, a parte PAM e Coop, irriconoscibili per il consumatore. E’ vero che uno può sempre andare all’indirizzo preciso e li troverà un supermercato, ma non mi sembra il massimo del servizio al consumatore indicargli la TM 2004 srl – via Battisti 22.
Ad onor del vero devo ammettere che nelle quattro aziende per cui ho lavorato nei miei quindici anni di professione solo nella prima le anagrafiche dei clienti riportavano sia la ragione sociale che l’utilissima informazione del nome del negozio/supermercato/locale ed in tutte le altre ho faticato (anche perchè è un lavoraccio) a farlo aggiungere.
in sintesi non so come sta andando e come andrà la linea Alixir (a cui auguro ogni bene), ma se la coerenza intrinseca delle strategie è una precondizione del successo di una marca direi che non mi sembra partita con il piede giusto. Se qualcuno ha maggiori informazioni a supporto o smentita della mia analisi, sono benvenutissime.