Cristiano Ronaldo, la Coca Cola ed il new normal.

New normal è un termine che suona bene.
A memoria la prima volta che si è cominciato ad usare diffusamente è stato dopo la crisi economica del 2008.
Dopo un paio di anni però le cose sono tornate a funzionare, e le persone a comportarsi, più o meno come prima.
L’altro momento in cui “new normal” è diventato popolare è quello del COVID che stiamo vivendo. Anche in questo caso i “è cambiato il mondo” oppure “Niente sarà più come prima” si sono sprecati. Rientrata, un’altra volta, l’emergenza sembra però che tutto questo cambiamento sia più a parole che nei fatti.
Invece il mondo è veramente cambiato con un processo evolutivo in corso da qualche anno; solamente che non l’avevamo notata fino a quando non si manifesta una crisi e per questo la scambiamo per rivoluzione.
Conviene rendersene conto per capire quali sono i cambiamenti destinati a rimanere anche dopo la soluzione dell’emergenza.
Immagino che molti sapranno della querelle tra Cristiano Ronaldo e la Coca Cola durante la conferenza stampa del pre partita di Portogallo – Ungheria agli Europei di calcio.
Riassumo brevemente per i pochi che ne siano all’oscuro.
All’inizio della conferenza stampa Cristiano Ronaldo ha platealmente spostato le due bottigliette di Coca Cola, messe lì perché sponsor degli Europei, fino a portarle fuori dall’inquadratura della telecamera.
Dopodiché ha alzato la bottiglia di acqua dicendo con enfasi “Acqua!” e poi “Coca Cola” con espressione infastidita.
La UEFA ha ricordato alle squadre ed ai calciatori partecipanti agli Europei l’importanza degli sponsor per tutto il movimento ed ha raccomandato di non spostare le bottiglie collocate per le conferenze stampa (dopo Ronaldo, hanno fatto qualcosa di simile, un po’ meno plateale, Pgba con una bottiglia di birra Heineken, analcolica, e Localtelli, sempre con le bottiglie di Coca Cola).
Nei giorni seguenti al gesto di Ronaldo, le azioni della Coca Cola sono calate arrivando a perdere anche oltre il -3%, facendo scendere la capitalizzazione in borsa dell’azienda americana di qualche miliardo di dollari.
Il giorno dopo la conferenza stampa, la Coca Cola ha emesso un comunicato che in cui dichiara che “… ognuno ha il diritto alle proprie preferenze in termini di gusti ed esigenze …”
Cosa ho imparato da questo piccolo aneddoto.

Oggi le persone sono delle marche.
Ovviamente quanto più popolari, tanto più importanti come marca.
Non necessariamente forti, perché per le persone, come per le marche commerciali, la forza si misura nelle due dimensioni di popolarità ed immagine.
Da qui il gesto di Ronaldo: rafforzare la propria immagine di marca ipersalutistica e fisicamente efficiente.

La forza delle persone come marche si basa sulla disintermediazione della comunicazione.
La disintermediazione è uno dei grandi fenomeni sociali resi possibili dalla rivoluzione digitale.
Come tutte le tendenze di fondo, agisce trasversalmente nei diversi contesti della società.
Dall’acquisto dei biglietti aerei alla prenotazione dei taxi, dalle consegne a casa (o dove si vuole) di qualsiasi cosa alle vendite dirette on-line, ecc…
Nel caso di Ronaldo significa che per sapere cosa fa / pensa / crede il pubblico non deve più affidarsi ai mezzi di comunicazione, ma può farlo direttamente dai suoi canali social. Informazioni di prima mano dalla viva voce del protagonista: una fonte imbattibile, nella misura in cui mantiene la propria credibilità (e si torna al punto sopra).
In molti settori gli intermediari hanno imparato a proprie spese che si può diventare rapidamente superflui e non ci sono barriere in grado di fermare questo cambiamento. Nell’ambito del giornalismo sportivo un recente esempio lampante è stato quello della tennista giapponese Naomi Osaka, ritiratasi dal Roland Garros 2021 proprio per non dover reggere lo stress delle conferenze stampa post-partita.
Ovvero, gli intermediari superflui o ritrovano una dimensione utile oppure diventano dannosi.

Gli individui prevalgono sulle comunità e le organizzazioni.
L’individualizzazione della società viene da lontano ed il suo paradigma può essere ritrovato nella frase pronunciata da Margaret Thatcher nel 1987: “… la società non esiste. Esistono gli uomini e le donne, individui, ed esistono le famiglie …”
Sono passati 35 anni, è crollata l’URSS, sono spariti i regimi comunisti nell’Europa dell’est, ci sono state (almeno) due crisi economiche mondiali e la peggiore pandemia degli ultimi 100 anni, eppure questa visione (politica) della società (scusate il gioco di parole) non ha mai smesso di diffondersi ed affermarsi.
Qualche decennio fa Cristiano Ronaldo sarebbe stato ampiamente criticato per non rispettare le regole degli impegni presi dalla UEFA.
Oggi l’individuo è chiaramente più importante del gruppo / organizzazione.
Ci si aspetta che le singole persone prendano posizione, non che si riuniscano in una comunità per creare un insieme di valori condivisi che guidi i comportamenti.
Le comunità di follower non partecipano all’elaborazione di una visione comune, ma approvano (applaudono) quella del leader.
Ma se oggi le persone sono marche, vale anche il contrario: per avere successo le marche devono essere persone, prima che contenitori di idee.

L’ANTIMARKETING: bloccare gli ad blockers.

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Uno dei temi di analisi e discussione più caldi nella comunità dei professionisti marcom (marketing e communication) negli U.S.A. oggi è quello degli ad blockers.

In sintesi gli adblocker sono sostanzialmente dei programmi (chiedo scusa ai nerds) che evitano il caricamento delle diverse forme di pubblicità durante la navigazione su pc, tablet e smartphone. L’utilizzo di adblockers da parte delle persone secondo Wikipedia è in forte crescita e tra il 2014 e 2015 è cresciuto del 41% a livello mondiale e del 48% negli USA. Si stima che nel 2015 circa 45 milioni di cittadini USA utilizzasero ad blockers.

In realtà concettualmente gli ad blockers non sono niente di nuovo, visto che i primi televisori con un sistema di videoregistrazione incorporato che permettevano di saltare la pubblicità risalgono al 1999. Praticamente il televisore registra i programmi eliminando automaticamente la pubblicità che quindi non appare quando poi i programmi vengono visti dall’utente. Il sistema più diffuso, esistente ancora oggi, è TiVo.

Ossia: i professionisti di marketing, comunicazione e pubblicità hanno la conferma del “sospetto” che le persone se possono preferiscono evitare la pubblicità da oltre 15 anni.

Eppure non hanno modificato di una virgola il loro approccio strategico basato sul rincorerre (perseguitare) le persone in ogni momento possibile. Invece di cambiare strategia di comunicazione (contenuti e media) nel 2002 i principali network televisivi americani per proteggere i propri investitori (e quindi i propri profitti) hanno fatto causa a Replay TV (concorrente di TIVO poi fallito) sulla considerazione che saltare la pubblicità viola i diritti di copyright.

Allucinante. Allucinante perchè più che “miopia di marketing” è un comportamento da “autismo di marketing” che non vuole accettare la realtà. E la realtà è che le persone non guardano la pubblicità, se gli togliete TIVO, si alzeranno e andranno a fare altro durante gli spot oppure semplicemente non gli daranno attenzione.

Il parametro classico che si è utilizzato per misurare l’efficacia della pubblicità nei media classici (televisione, giornali, radio, ecc…) è il GRP o Gross Rating Point. Io l’ho studiato per la prima volta nel 1989 durante il mio corso di Marketing Management all’università di Guelph in Canada. Sul testo di Philip Kotler il GRP viene definito come Reach x Frequency x Attention, ossia il numero di persone che sono raggiunte dal messaggio x il numero di volte che lo vedono x per l’attenzione che gli danno. Perfetto.

Peccato che poi quando sono entrato in azienda ed ho cominciato a lavorare con le agenzie di pubblicità e con le concessionarie che vendevano spazi pubblicitari (grandi quotidiani e riviste, RAI, Canale 5, Rete 4, Italia 1, grandi emittenti radio nazionali), di fatto il GRP veniva misurato solo come Reach (spesso in % sul totale del mercato obiettivo) x Frequenza. Io chiedevo lumi riguardo alla componente di “Attenzione” e loro mi guardavano come un alieno che crede di sapere come va il mondo solo perchè a letto un libro. Non è che non considerassero il parametro l’Attenzione per partito preso, è che si tratta di un parametro difficile da determinare e poi non era così importante partendo dal presupposto che tanto le persone si “bevono” tutto quello che i media gli propinano.

Questa stessa logica di spinta (push) è stata applicata all’attuale realtà di proliferazione e frammentazione dei media, con la crescita dei media digitali e dei social network.

Ecco quindi l’uso del big data così da (per)seguire il consumatore sempre più da vicino grazie a strumenti come il re-marketing (la tecnica di cui tutti siamo stati vittime grazie alla quale se cerco on line informazioni su una polizza auto, continuerò a ricevere pop up pubblicitari delle diverse compagnie assicurative fino alla morte; se volete provare qualche brivido guardate la spiegazione che ne dà la guida di adwords di Google)

Con un atteggiamento dello struzzo che mette la testa sotto la sabbia, l’industria della pubblicità ha fatto finta di non sapere che questo modo di operare infastidiva le persone, tanto da creare un’attenzione negativa che danneggia la percezione dei marchi troppo invadenti.

Come se la rivoluzione digitale fosse solo tecnologica e non culturale.

Con l’uso degli adblockers le persone stanno dando un’informazione importantissima ai professioni del marketing e della comunicazione: il modo in cui vi rivolgete a noi non ci piace nè ci interessa.

Incapaci di adattarsi alla nuova realtà, la  risposta dell’industria della comunicazione è: “ed io trovo il modo di mostrarti comunque la mia pubblicità”. Anche ammesso che ci riesca (cosa di cui dubito) questo non renderà la pubblicità più piacevole ed interessante per le persone. E quindi sarà fatica sprecata.

Il motto dell’Università di Guelph riportato sul logo che apre questo post dice “Rerum Cognosere Causas”, ossia conoscere la ragione delle cose.

Resto sconcertato vedendo come professionisti seri e preparati a fronte della scoperta di cose sgradevoli che li riguardano direttamente rispondano facendo semplicemente finta di niente.

Forse sono troppo abituati a (credere di) essere loro quelli che le determinano. La realtà vi seppellirà.

Colonna sonora per questo post: “Nessuno mi può giudicare” di Caterina Caselli.

Alitalia: quando l’attenzione al cliente diventa persecuzione del cliente.

Premetto che quando devo prendre un aereo privilegio la comodità della tratta. Se c’è un volo diretto da Venezia o Lubiana prendo quello, viceversa la scelta spesso ricade su Air Dolomiti-Lufthansa visti i buoni collegamenti Trieste-Monaco di Baviera. Ho sia la tessera Millemiglia (Alitalia) che Miles & More (Lufthansa).

Non ce l’ho in modo particolare con Alitalia, anche se ero un sostenitore della vendita ad Air France prevista nel 2007 dal governo Prodi e l’ho utilizzata come esempio di azienda infedele nei confronti dei propri clienti in un post pubblicato nel febbraio 2012.

La dimostrazione di quanto sopra è che il mese scorso per andare in Brasile ho scelto nuovamente Alitalia per l’itinerario Trieste-Roma, Roma-Sao Paulo, Sao Paulo-Rio de Janiero, Rio de Janeiro-Roma, Roma-Trieste.

Visto che da Roma a Sao Paulo parliamo di più di 10 ore di volo ed io sono sempre alto 193 cm, al check in a Trieste ho chiesto se potevo avere l’uscita d’emergenza. mi hanno risposto che adesso le uscite d’emergenza le vendono (malvezzo cominciato, credo, con Air Canada, e diffusosi oramai a diverse compagnie aeree) al prezzo di 85€. Chiedo se posso fare l’upgrade utilizzando le mie miglia, mi mi dicono che a Trieste non è possibile, consigliandomi di farlo a Fiumicino.

Arrivo a Fiumicino, vado al banco assistenza clienti, chiedo di fare l’upgrade e la gentile signorina mi dice che non è possibile perchè nel mio conto ci sono solo le 1.000 miglia della tratta Trieste-Roma appena fatta. Io rimango un po’ stupito perchè la mia tessera “Ulisse” era scaduta a dicembre, ma le miglia non le avevo mai usate. “Le miglia scadevano al 31 marzo, Lei non è il primo a scoprirlo così”.

PRIMO CONSIGLIO AD ALITALIA”: attivate dei canali di comunicazione strutturati tra il personale a contatto con i clienti e chi sviluppa le strategie all’interno dell’azienda. Vi renderete conto di quante cose interessanti sapete (sapreste) già.

Me ne vado al gate con il trolley tra le gambe e scrivo questo tweet amareggiato, perchè non sono convinto che sia giusto vendere l’uscita d’emergenza, perchè potevano anche avvisarmi che le miglia scadevano, perchè anch’io potevo pensarci prima.

Tweet alitalia1

Poi il volo è stato migliore del previsto, lo spazio tra i sedili era un po’ di più del solito e la cena era mangiabile, che pensavo quasi quasi di fare un tweet positivo su Alitalia.

Atterro a Sao Paulo, accendo il cellulare e mi trovo con questi tre tweet da parte di Alitalia:
Tweet alitalia2

SECONDO CONSIGLIO AD ALITALIA:tutti i manuali insegnano che nel gestire le lamentele/reclami dei clienti si parte sempre dall’accogliere le loro ragioni. Confermo per esperienza personale che è vero e che funziona. Non si tratta di piaggeria o servilismo. E’ sincero dispiacere perchè la persona ha avuto un’esperienza deludente con il nostro prodotto/servizio/marca, indipendentemente dal fatto che la colpa sia stata nostra o meno. In realtà la colpa è sempre almeno un po’ nostra perchè potevamo spiegarci meglio per evitare si creassero aspettative sbagliate. E il dispiacere deriva dalla potenziale perdita di business, dall’accorgersi di aver fatto un errore e dall’aver creato un inconveniente a qualcuno.

Alitalia invece ha alzato il ditino e mi ha insegnato come si dovrebbe comportare un membro del Club Millemiglia. Come un qualsiasi impiegato a qualsiasi sportello che, dopo che abbiamo fatto mezz’ora di coda, ci spiega con condiscendenza che manca un timbro/una marca da bollo/un modulo/ecc…, che dobbiamo andare a procurarcelo e poi tornare (rifacendo la fila).

Con il mio tweet di risposta gli davo anche in parte ragione e consideravo chiusa la questione. Invece Alitalia non ci sta ad essere meno che perfetta e quindi mi ha replicato con 4 tweet dandomi educatamente dell’imbecille.
Tweet alitalia3

Perchè racconto questa mia piccola disavventura della serie “biscomarketing storie e gite”? Perchè credo sia emblematica delle difficoltà che hanno alcune (molte) aziende ad entrare nell’era digitale (intendendo con questo termine l’intera società risultante dalla “rivoluzione digitale” e non solo gli aspetti prettamente on-line).

Diversamente dall’opinione comune di accademici ed operatori, sono abbastanza convinto (ci sto ancora pensando) che la rivoluzione digitale non abbia cambiato gli strumenti, ma non i fondamenti del marketing. D’altra parte l’unione dell’effetto combinato dell’involuzione del marketing durante gli ultimi vent’anni da una parte e della portata degli strumenti digitali, con la loro capacità di amplificare nel bene o nel male le attività aziendali, costringono molte aziende ad un cambiamento culturale (se vogliono sopravvivere).

Distinguere se la rivoluzione digitale ha portato o meno ad una modifica dei principi del marketing diventa quindi un discorso di lana caprina per tutte quelle aziende che opera(va)no con una logica di vendita più che di marketing. Nell’era digitale le bugie hanno le gambe cortissime e gli errori vengono al pettine immediatamente.

La situazione peggiore è l’unione di una (sorpassata) cultura di superiorità nei confronti del cliente (visto più come “utente” o, peggio ancora, “consumatore”) con le tecniche nuove, perchè l’adozione meccanicistica degli strumenti digitali porta inevitabilmente a fare “brutte figure” su larga scala.

Al di là del contenuto, è ovvio che non ha senso rispondere ad un cliente con 4 tweet collegati (se non ti bastano 140 caratteri, significa che lo strumento da usare è un’altro), eppure sono convinto che secondo gli standard Alitalia la gestione del mio tweet è stata eccellente.

E’ stato rilevato rapidamente, ha avuto una risposta in tempi brevi, con tutte le informazioni del caso.

Dal punto di vista aziendale (in una cultura aziendale autoreferenziale) ognuno ha svolto il suo compito.

Dal mio punto di vista non mi ha risolto il problema, ha evidenziato che Alitalia fornisce un servizio peggiore rispetto ad altre compagnie aeree che mi avvisano quando le miglia stanno per scadere e mi ha spammato la timeline.

Prima di fare della facile ironia su Alitalia, guardatevi intorno: sarebbe troppo bello se questi problemi riguardassero solo le aziende pubbliche decotte.

Visto che sono alla ricerca di un lavoro / consulenze, forse farei meglio a misurare di più l’argomento e contenuti dei miei post. Incorreggibile.

P.S. Il viaggio di ritorno da Rio de Janeiro a Roma è tornato sui soliti standard: servizio approssimativo, cena così-così, colazione fredda e cuffie che funzionavano solo tenendo lo spinotto con la mano nella posizione giusta.

P.P.S. Prima o poi imparerò come inserire le immagini nei post senza che ci sia testo intorno. Nel frattempo si accettano suggerimenti.