La rivoluzione del web prossima ventura è già iniziata!

Masai smartphone

Sull’Internazionale di due settimane fa la copertina era dedicata ad un interessantissimo articolo dal titolo “L’altra metà di internet” (uscito in originale sull’Economist) che chiunque si occupi di marketing dovrebbe leggere.

Per chi non ha potuto leggere l’articolo, ma anche per chi l’ha letto, provo qui a farne una sintesi organica, inframmezzando qualche spunto strategico.

Cominciamo con qualche numero, altrimenti non sarei io.

-          Nel 2018 gli utenti di internet hanno superato la metà della popolazione mondiale.

-          Nei paesi ad alto reddito gli utenti di internet sono circa l’80% della popolazione, in Cina il 58%, in India il 30% e nei paesi meno sviluppati meno del 25%.

Quindi la gran parte dei nuovi utenti di internet arriverà dai paesi meno sviluppati / più poveri, quindi persone che non parlano né l’inglese né il mandarino, anzi che in buona misura sono analfabeti e che accederanno dallo principalmente dallo smartphone.

In un post del 2011 (brividi) scrivevo che per capire il futuro del marketing era opportuno guardare cosa succedeva in Brasile, Cina, India e Russia. Adesso aggiungeteci anche l’Africa, soprattutto subshariana.

La cosa più interessante dell’articolo è l’analisi di cosa fanno le persone di questi paesi più poveri, o anche le persone più povere di questi paesi, una volta che hanno accesso ad internet.

Chattano e guardano video esattamente come le persone più ricche dei paesi più ricchi. Detto in maniera più sofisticata lo usano per stare in contatto, divertirsi ed esprimersi.

Detto in maniera meno sofisticata, cazzeggiano. Detto in maniera più neutra “passano il tempo”.

Che fossero in buona o cattiva fede, le aziende ed istituzioni occidentali parlavano soprattutto della diffusione di internet tra i poveri come strumento di sviluppo e crescita economica. Formazione a distanza, informazioni sulla salute, sulle attività professionali, ecc…

Invece i più poveri vogliono innanzitutto divertirsi, come i più ricchi. Uguale uguale.

E qui mi viene in mente un’intervista a Desmond Morris letta tanti anni fa dove diceva che le tribù di cacciatori-raccoglitori alla fine della giornata (ma probabilmente anche durante) quello che fanno è trovarsi intorno al fuoco a raccontarsi storie e spettegolare. Bisognerà che prima o poi mi decida a leggere “La scimmia nuda” ed ad inserire elementi di antropologia nelle mie lezioni di marketing.

I tre paesi con la maggior penetrazione di internet nella popolazione sono U.S.A., India e Brasile.

Come per noi nei paesi sviluppati uno smartphone collegato ad internet è un’opportunità di trasformare momenti vuoti in momenti piacevoli. Internet è l’economia del tempo libero dei più poveri del pianeta.

Ma che tipo di economia, se sono poveri? Una trentina di anni l’Africa veniva utilizzata come esempio paradigmatico per spiegare l’effettivo potenziale di mercato di un’area geografica: in Africa c’è la popolazione, ma non hanno i soldi, quindi il mercato reale è piccolo ed è quello determinato dal potere d’acquisto.

Qui è tornato in mente il mio amico messicano che frequentava con me il Corso di Specializzazione in Marketing dei Prodotti Alimentari allo IAMZ di Saragozza (Spagna, non Sicilia). Dopo le lezioni sulla distribuzione tenute da docenti e manager anglosassoni ha detto una cosa tipo: “In Messico la distribuzione funziona così: ogni incrocio ci sono 4 bancarelle, una per ogni angolo, che vendono qualcosa (tacos, verdure, ferramenta, musicassette, ecc…). Niente di quello che ci hanno spiegato ha nulla a che vedere con questo sistema. Però siamo milioni”.

Nei paesi ricchi il modello di business di internet che si è affermato prevede di vendere l’attenzione degli utenti agli inserzionisti. Detto in altri termini si tratta di vendere pubblico alle aziende. Che poi è il modello di business basato sulla pubblicità che ha portato al fallimento i giornali.

L’interesse economico per i miliardi di utenti più poveri risiede nel fargli pagare per fargli accedere ad internet e per quello che fanno sulle app/piattaforme. Che poi è un modello più sano perché si focalizza sulla vendita diretta dei propri prodotti/servizi e non su quella indiretta del proprio pubblico.

Piccole somme su ampia scala.

Per dare un’idea della scala considerate che nel 2016 i canali indiani su YouTube con oltre 1 milione di iscritti erano 20. Oggi ce ne sono oltre 600 e tra i cinquanta con più iscritti ce quello in lingua bhojpuri, una lingua parlata solo in alcuni degli stati più poveri dell’India.

I video sono la modalità preferita dagli utenti più poveri di internet. In india si stima che l’impostazione di YouTube come homepage superi quella di Google.

I video sono una forma di comunicazione più facile ed efficace, per tutto non solo per l’intrattenimento. Soprattutto considerando che i prossimi utenti di internet parleranno una molteplicità di lingue, ma magari non saprà né leggerle né scriverle. I video sono più facili da comprendere e da condividere.

Inoltre parlare è comunque più comodo di scrivere per la maggior parte delle persone, come dimostra la diffusione dell’uso dei messaggi vocali su WhatsApp e delle storie su Instagram..

Attenzione che più poveri ed analfabeti non significa più stupidi e sprovveduti.

In Angola Facebook e Wikipedia, offrono servizi a “costo zero” che danno un accesso limitato ma buono ad internet. Accesso che le persone poi usano per scaricare film illegalmente.

Molto più diffuso è l’utilizzo legale dei wi-fi pubblici per scaricarsi contenuti da guardare successivamente off-line.

Siccome poi le esperienze dei consumatori (persone) sono diffuse, le modalità di utilizzo degli strumenti si moltiplicano, al di là di come erano state pensate dalle aziende che li avevano creati (vedi il mio concetto di Marketing Totale).

In India circa 1/3 degli utenti ha problemi di insufficiente spazio di archiviazione su propri smartphone, anche perché si tratta smartphone di fascia bassa. Si è diffuso quindi l’uso dei schede di memoria esterna (sistema Android) per archiviare i propri dati.

Da qui si è passati all’acquisto di schede di memoria con caricati contenuti di intrattenimento (film e musica) da guardare ed ascoltare con un’applicazione che si chiama MX Player. Questa applicazione è installata ogni giorno su oltre 1 milione di telefoni Android, ma nel 65% dei casi non viene scaricata da Google Play Store, bensì direttamente dalle schede di memoria che contengono anche i contenuti di intrattenimento. La app poi ha creato anche al suo interno un servizio di film e musica in streaming.

Ricordiamoci poi che stiamo parlando di culture molto diverse da quelle occidentali, culture in cui avere uno smartphone significa indipendenza e privacy. In famiglie dove c’è un solo televisore, quando c’è, o una sola radio, lo smartphone collegato ad internet significa poter guardare e ascoltare quello che si vuole.

In contesti rurali o di piccoli paesi e città dove la presenza ed il controllo “sociale” di famiglie (non solo fratelli e sorelle, manche zii, cugini, ecc…), vicini e conoscenti è ampio, lo smartphone collegato ad internet crea un ambito di privacy in cui interagire per parlare o fare quello che si vuole (PornHub indica che in India il 90% del suo traffico viene da cellulari, contro il 75% degli USA, che non è un dato poi così distante).

Vantaggi che rendono la questione della cessione dei propri dati alle aziende che forniscono i servizi del web un problema minore. Come disse Indira Gandhi alla conferenza internazionale che decise la proibizione del DDT, rivolgendosi ai rappresentanti dei paesi sviluppati: “Voi volete la bistecca senza il DDT, noi ci accontenteremo della bistecca”.

Culture diverse che hanno valori diversi, ad esempio rispetto ai canoni estetici minimalisti affermatisi in occidente, anche grazie alle scelte di Apple.

Oppure rispetto alle forme di espressione. In India prima degli smartphone e dei social molte persone avevano una suoneria per cui chi chiamava un cellulare sentiva una canzone scelta dall’utente e non il solito segnale acustico. I pagamenti per questo servizio avevano fruttato agli operatori indiani 82 miliardi di rupie tra il 2009 ed il 2012 (considerate che oggi il reddito medio pro-capite indiano è di 427.000 rupie all’anno, e la media non è una statistica molto veritiera della distribuzione del reddito in India).

Oggi l’azienda Times Internet sta studiando di far pagare 1 rupia per aggiungere una canzone ad un messaggio personale oppure per personalizzare l’aspetto di una app sul proprio telefono.

E il lavoro? Arriva, dopo ma arriva. L’esempio è quello di un taxista analfabeta di Mumbai che lavorare con Uber usa un’applicazione che trascrive il parlato e poi copia questo testo e lo invia come messaggio scritto agli utenti in attesa, sperando che sia sensato, come spesso succede.

Sicuro però che passa più tempo a guardare video ed ascoltare musica per ingannare il tempo tra una corsa e l’altra.

E quello descritto qui sopra è solo quello che si osserva con un approccio basato principalmente sulla fruizione di contenuti. Ma siamo nell’epoca dei Contenuti Generati dagli Utenti.

Una ricerca di Snapchat dice che attualmente sulla sua piattaforma ci sono 400.000 Lenses, quei “trucchi” non saprei come altro definirli, che vi cambiano la faccia, fanno zampillare stelle dalle mani, ecc … create dagli utenti.

Immaginate cosa succederà man mano che l’altra metà della popolazione mondiale entrerà in internet.

Ma questa è un’altra storia, che racconterò alla prossima occasione.

L’Estetista Cinica: un successo basato sulla fiducia.

L’altro giorno, come ogni mattina, “sfogliavo” il post sul tablet (nota: se potete abbonatevi anche se non è obbligatorio, perché è giusto), ed ho trovato questo articolo sull’Estetista Cinica
Detto in estrema sintesi l’Estetista Cinica è l’alias usato utilizzato da Cristina Fogazzi, estetista bresciana che gestisce a Milano il centro estetico Bella Vera, per parlare in modo schietto e diretto, “cinico” appunto degli argomenti relativi ai trattamenti estetici.
Magari si sarebbe potuto dire in modo “vero” invece che “cinico”, però sarebbe stato meno divertente e poi il termine “vero” c’era già nel nome del salone.
Il personaggio Estetista Cinica è stato creato nel 2013 come protagonista di vignette appese nelle stanze del centro estetico a scopo decorativo/divertente (non so perché, ma mi sembra importante ricordare che il personaggio è nato analogico)
Da lì si sono spostate su una pagina facebook, a cui sono seguiti i video su Youtube, il blog, la newsletter, un libro per Mondadori, la partecipazione alla trasmissione “Detto Fatto” su Rai2, tutti media in cui spiegava i “segreti” dei trattamenti estetici. Ossia come funzionano, cosa possono fare e cosa no.
Ovviamente adesso c’è anche un profilo il profilo instagram.
Dal 2015 l’Estetista Cinica – Cristina Fogazzi, ha creato il marchio VeraLab con cui vende prodotti estetici che fa produrre da un’azienda specializzata secondo i suoi parametri e standards.
Per farla breve, l’ho promesso all’inizio, nel 2015 ha fatturato 30.000 euro, 147.000 nel 2016, 980.000 nel 2017, 6.800.000 nel 2018 e prevede di fatturare 16.000.000 nel 2019. (nota: quando sentite dire che gli investitori di venture capital che finanziano le start-up cercano modelli di business che siano “scalable”, intendono una cosa così).
Com’è c’è riuscita?
Cercando di restare sempre all’essenza delle cose, c’è riuscita per la FIDUCIA che hanno di lei le sue potenziali clienti, che poi sono anche le sue audiencies on e off line.
E come è riuscita guadagnarsi una fiducia così forte? Per i contenuti di quello che dice, soprattutto e, in parte, per lo stile con cui lo dice. In parte, perché lo stile di comunicazione rafforza sì la credibilità, ma soprattutto genera l’attenzione da parte delle audiencies.
Per capire cosa intendo, se non conoscete già l’Estetista Cinica, guardatevi questo suo video del 2015 sulla cellulite del 2015 (oggi davanti alle telecamere è molto più spigliata).

Ora la cosa interessante è che in teoria l’Estetista Cinica dovrebbe faticare ad ottenere la fiducia delle potenziali clienti (ma sta cominciando a fare anche prodotti dedicati agli uomini) perché in evidente conflitto di interessi.
In realtà però la reputazione dipende da quello che si fa e come. Io, che non conoscevo l’Estetista Cinica, ni miei corsi di marketing faccio spesso l’esempio della Volvo, che quando parla di sicurezza delle automobili ha una credibilità pari, o vicina, a quelli delle riviste di settore. Questo grazie al fatto che la sicurezza è sempre stato un elemento centrale del loro modo di costruire automobili fin dalla fondazione e su questo obiettivo si sono basate le loro attività di ricerca.
L’Estetista Cinica spiega la fisiologia alla base dei vari fenomeni estetici e di conseguenza i trattamenti, senza parlare dei propri prodotti, anzi dicendo che si possono usare anche quelli di altre marche, basta che siano quelli giusti.
Siccome come sapere se sono giusti o meno ve l’ha spiegato lei, è abbastanza ovvio, normale e giusto che gran parte di chi la segue compri i suoi. Lo so che mi direte che è pieno di marche che hanno il terrore di rivolgersi alle persone condividendo le loro conoscenze in maniera aperta e non commerciale, ma semplicemente sbagliano. Sia in termini di reputazione, periodo medio-lungo, che di sviluppo delle vendite, breve periodo.
Non hanno ancora capito che nell’era digitale non sono più le marche a dover cercare le persone per convincerle a comprare, ma sono le persone a cercare (o trovare) le marche.
L’altra cosa che mi sembra interessante da sottolineare è che la base della credibilità dell’Estetista Cinica risiede nell’essere una professionista coinvolta direttamente nel settore di cui parla, che è anche l’elemento di potenziale conflitto di interesse.
Ovvero l’importanza della competenza per ottenere la fiducia.

“Nei prossimi 5 anni ci saranno due tipi di imprese: quelle sono su internet e quelle che sono fallite”, Bill Gates.

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Questa frase di Bill Gates mi è venuta in mente alcune settimane fa, quando al Vinitaly sono andato ad incontrare un potenziale cliente di etichette (si, adesso mi occupo anche di questo; il bello di fare il libero professionista è poter spaziare in campi diversi, per esempio faccio anche certificazioni vegane delle cantine).
Accompagnavo il responsabile vendite dell’azienda produttrice ci etichette, sleeve, soluzioni di cartotecnica, ecc… con cui collaboro ad incontrare il responsabile acquisti di una importante azienda liquoristica in cui lavorano dei vecchi collaboratori (e amici).

E meno male che conosco gente che mi vuole bene/stima perché dopo un po’ tempo che gli stavamo presentando i prodotti/servizi il responsabile acquisti ha detto “Fate molto di più di quello che mi aspettassi”, io ho chiesto “Ha avuto tempo di guardare la presentazione che abbiamo inviato?” e lui ha risposto “Si, poi sono andato sul sito e l’ho trovato piuttosto povero/scarno, tanto da pensare di cancellare l’incontro”.
Il responsabile vendite si è scusato, riconoscendo che il sito non rappresenta nel modo giusto le competenze e la capacità aziendali, ma purtroppo non si trova mai il tempo (la voglia dico io) per aggiornarlo e migliorarlo.

Va sottolineato che il responsabile acquisti non ha fatto niente di strano o eccezionale. Come ormai facciamo praticamente tutti, nel momento in cui gli è sorta una “questione” è andato a vedere su internet. Ovvio e banale.

Quello che è sorprendente a livello sconvolgente è la quantità di aziende, anche grandi, che ancora vivono il web come qualcosa di residuale.
Una specie “nota a margine” nell’attività aziendale “vera”, a cui si dedicano le risorse e attenzioni che “avanzano” dopo aver fatto le cose importanti (ossia tutto il resto).

Non sono riuscito a trovare la data della citazione di Bill Gates, però l’ho trovata tradotta in italiano come “nel XXI secolo ci saranno due tipi di imprese …..”

Beh il ventunesimo secolo è iniziato da parecchio e ho il sospetto che anche quei 5 anni siano passati da un bel po’.

Zuegg: ottima pubblicità, pessime promozioni (web).

Negli ultimi 3 mesi sto guardando più televisione del solito e quindi vedo più pubblicità.

Più ne vedo e più mi sembra inutile perché pensata secondo logiche di almeno 10 anni fa (e forse anche 20) e quindi deboli per attirare l’attenzione dell’audience obiettivo.

Forse mi sbaglio perché ho una percezione distorta dell’audience obiettivo, considerato che in questi mesi ho visto in televisione le Gemelle Kessler, Pippo Baudo, Renzo Arbore, Bruno Vespa, Celentano, Mara Venier, Marcella Bella, Ornella Vanoni (sia attualmente che in una puntata di Studio Uno del 1967/68), Loredana Bertè e perfino il mago Silvan. E questo senza aver guardato il Festival di Sanremo.

Ad ogni modo, confermato che viviamo nel 2019 e non nel 1969, la pubblicità televisiva della Zuegg mi ha colpito positivamente per la chiarezza e coerenza del messaggio, sia come concetto di base (core concept) che come rappresentazione.

Se osservate le pubblicità che ci sono in giro, vi accorgerete come predominino la ricerca delle emozioni attraverso concetti intangibile e la cura del racconto (il famoso storytelling) seguendo il paradigma che la narrativa è più efficace della saggistica per trasmette contenuti alle persone. Il problema è che la narrativa senza contenuti rimane solo forma fredda e vuota e l’intangibile senza emozioni risulta finto.

Invece di essere uno strumento attraverso cui comunicare e rafforzare gli elementi differenzianti delle marche, la pubblicità diventa una cortina fumogena per cercare di nascondere la mancanza di originalità della proposta. O per meglio dire l’incapacità di individuare l’originalità della proposta.

Zuegg invece sceglie di puntare sulla caratteristica di base che determina il servizio ricercato nel prodotto dai consumatori e dice “Io non ci metto la faccia, ci metto la frutta” – “I frutteti di Oswald Zuegg”

Back to basic. Possono dirlo anche tutti gli altri produttori di marmellata? Si e no. Dipende da quanta frutta ci mettono, da quanti frutteti possiedono e/o gestiscono, ecc … E comunque chi lo dice forte e chiaro adesso è Zuegg, che quindi in un certo si appropria del concetto.

Confesso che probabilmente quello che ha attirato la mia attenzione è anche il claim, perché spesso mi sono trovato in situazioni nelle quali, a fronte della carenza di idee, veniva fuori qualcuno che diceva “E noi ci mettiamo la faccia!” e a me spontaneamente veniva da rispondere “Ma siete così sicuri che la vostra faccia valga qualcosa?”. Poi mi mordevo la lingua, non lo dicevo e provavo a ragionare avanti.

Quindi Zuegg bene, bravi, bis ed il post finisce qui, in gloria.

Sennonchè un paio di giorni dopo Pier Luca Santoro commenta su fb la notizia riportata da Il Post che Skipper Zuegg ha lanciato un concorso per vincere un “succhino di cittadinanza” e allibisco, sia come consumatore fedelissimo di Skipper all’arancia che come esperto di marketing.

Perché trovo assolutamente giusto che una marca possa prendere posizione su questioni sociali (vedi ad esempio l’ultima campagna Nike), ma inserirsi nel dibattito partitico è tutto un altro paio di maniche. Si tratta di argomenti per definizione partigiani in generale ed in questo momento in Italia particolarmente divisivi.

Se proprio una marca ritiene di avere tra i suoi valori la militanza politica (e sottolineo il SE 44 volte) allora deve farlo seriamente, non come un giochino. Ameno che non faccia della satira politica il proprio posizionamento, ma qui stiamo uscendo dal seminato.

Per quelli che non hanno visto l’iniziativa e non hanno avuto voglia di cliccare sul link riassumo il concorso.

Andando sul sito skipperzuegg.it si può fare “richiesta” per il succhino di cittadinanza “dimostrando di essere degno di ricevere uno dei nostri preziosissimi succhi gratis” (non è che avete avete un po’ esagerato con le iperboli?) rispondendo ad una serie di quesiti e lasciando una descrizione di massimo 300 caratteri perché si merita il succhino di cittadinanza.

Questi sono i quesiti che trovate sul sito (la descrizione è mia, ma se volete potete copiarla)

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Ovviamente per partecipare al concorso vanno indicati nome, cognome ed indirizzo e-mail, con relativa autorizzazione al trattamento dei dati personali non solo ai fini del concorso ma anche all’ “Utilizzo dei dati a fini promozionali attraverso l’invio di comunicazioni commerciali o realizzazione di studi di mercato”, come recita l’informativa.

In cambio di cosa io dovrei farmi riempire la casella di posta di mail promo-pubblicitarie? In cambio della possibilità di vincere N°1 succo Skipper, gusti assortiti, da 330 ml del valore indicativo di 1,00€ iva esclusa. Il premio verrà recapitato al domicilio comunicato dal vincitore in fase di registrazione. Non è possibile in alcun modo scegliere il gusto del succo Skipper vinto. (estratto dal regolamento del concorso).

Neanche una fornitura per 1 mese. E non posso nemmeno scegliere il gusto, che tra l’altro sarebbe stato interessante come informazione sulle preferenze dei consumatori più coinvolti con la marca.

Allora ho pensato “Almeno sarà un modo per fare assaggiare un determinato gusto (nuovo) ai consumatori più fedeli/coinvolti” quindi il concorso sarà solo un giochino simpatico (???) e prevederà che tutti i partecipanti riceveranno il loro “preziosissimo succo”. Che volendo era anche coerente con il concetto di “succhino di cittadinanza” per tutti i cittadini di Skipper.

E invece un’altra delusione: una giuria della società che gestisce il concorso, la Advice Group S.p.A. di Torino, sceglierà a suo insindacabile giudizio i 500 vincitori.

Quindi riassumendo cara Skipper Zuegg, questione politica a parte, non solo siete dei barboni perché fate un concorso in cui si vince un premio di 1 euro, non solo siete dei doppi barboni perché vincono solamente 500 partecipanti, non solo siete dei tripli barboni perché non si vince ad estrazione, ma non avete neanche il tempo di leggere quello che io, vostro consumatore fedele, mi sono preso la briga di scrivervi.

E poi mi tocca sentire i guru che parlano di “costruire un rapporto diretto per creare legami emotivi con i consumatori”.

Da notare che le descrizioni del perché uno si merita il succhino di cittadinanza da poter usare eventualmente per attività di content marketing si possono avere ugualmente anche facendo vincere ad estrazione. Anche perché se uno partecipa al questo concorso è perché ci tiene, non certo per il preziosissimo premio da 1 euro.

La domanda che rimane alla fine è “come è possibile che la stessa azienda centri la pubblicità e “canni” così clamorosamente l’attività promozionale?”

Senza conoscere le situazioni interne aziendali di Zuegg proverò a fare delle ipotesi gestionali “generali” che, spero, magari, possano aiutare ad evitare di incappare in errori di questo tipo.

  1. Zuegg e Skipper sono due marche diverse, con identità e posizionamenti diversi. Vero, il problema però è che sulle confezioni di Skipper c’è Zuegg in bella evidenza, il sito di Skipper si chiama “skipperzuegg”, nel sito di Zuegg c’è il link al sito Skipper, ecc..

In sintesi, “Zuegg” è la marca ombrello di Skipper sin dagli inizi. E questo è il rischio con le marche ombrello che sono anche marche prodotto (se Zuegg fosse il solo il marchio istituzionale azienda, la questione sarebbe diversa, ma non apriamo troppe parentesi). Magari quando Skipper è stato lanciato nel 1988 il posizionamento tra le due marche era coerente e sicuramente l’endorsment e la notorietà di Zuegg hanno favorito la reputazione e conoscenza di Skipper.

Però è abbastanza normale che in trent’anni le due marche abbiano preso strade diverse per mantenere ed accrescere il proprio successo. Oltre al fatto che in questi anni Skipper ha costruito una sua forza di marca “autonoma”.

Io, che già di principio non sono amico dei marchi di prodotto usati come marchi ombrello (regola generale, non assoluta), in situazioni come questa io consiglio di valutare di liberare la (ex) sotto-marca dal cappello della marca madre.

Per l’azienda, che vive la storia delle marche quotidianamente e dal di dentro, sembra uno shock, ma è probabile che la maggioranza dei consumatori nemmeno se ne accorga. Qualche indagine di mercato che misuri la sovrapposizione tra gli acquirenti/consumatori delle marmellate Zuegg ed i succhi Skipper ed il percepito/importanza del marchio Zuegg per gli acquirenti/consumatori di Skipper possono aiutare a prendere una decisione più informata.

  1. Le persone/enti aziendali e le agenzie esterne coinvolte nella gestione della marca Zuegg sono diverse da quelle che gestiscono Skipper.

Direi che la cosa è abbastanza sicura, trattandosi di due marche entrambe grandi ed importanti per l’azienda. Ma questo si verifica anche in aziende più piccole, con marche di minor peso relativo.

Il rischio è quello di perdere coerenza e coesione, quindi efficienza ed efficacia, nello sviluppo e realizzazione delle strategie. Perché non dobbiamo dimenticarci che tutto quello che si fa sulla marca Zuegg avrà un effetto anche sulla percezione di Skipper e viceversa.

Per questa ragione io ho sempre organizzato i miei dipartimenti marketing per marca o, al limite, per mercato geografico.

Non l’ho mai organizzato per canale e non ho mai voluto istituire la funzione di trade marketing. Questo sia per evitare le incoerenze di cui sopra, e quindi riuscire a sviluppare strategie che integravano tutta la filiera dall’azienda al consumatore finale, sia per rendere più facile ed immediato il trasferimento di idee ed esperienze di successo tra le strategie di trade e consumer marketing, che venivano gestite dalla stessa persona.

Nella stessa logica da anni sostengo l’utilità del ritorno dell’agenzia a servizio completo, con al proprio interno le diverse competenze specialistiche. Viceversa l’offerta del mercato della creatività in comunicazione è andato verso l’iperspecializzazione per cui ci sarà un’agenzia che fa la pubblicità al consumatore, un’altra che fa quella al trade, una che si occupa del content marketing sui social network, un’altra che disegna e realizza il sito web, una per le PR e così via.

In questa situazione riuscire a mantenere una coerenza tra le diverse attività in modo che siano sinergiche rispetto alla percezione complessiva della marca da parte delle audiencies è estremamente difficile. Per farlo è necessario che l’azienda faccia un grande lavoro di coordinamento che comincia con una definizione molto chiara e forte di posizionamento ed obiettivi strategici e tattici e prosegue con una grande quantità di tempo dedicata alla gestione delle agenzie/fornitori. Tutte cose richiedono competenze ed esperienze di marketing e gestione aziendale piuttosto elevate. Tempo e competenze di cui molte aziende non dispongono.

Una volta, parlo di trent’anni fa in un mondo competitivo estremamente più semplice, le aziende sopperivano a queste, normali, carenze avvalendosi delle competenze, anche strategiche, dell’agenzia di pubblicità che seguiva (quasi) tutti gli aspetti della comunicazione e si faceva carico del coordinamento interno tra i messaggi ed i media.

Oggi agenzie di questo tipo non esistono (quasi) più e quindi le aziende o investono sulle risorse interne, con il rischio di sovrastrutturarsi, oppure si avvalgono di consulenti.

  1. Debole definizione da parte dell’azienda di mission/posizionamento/obiettivi e poca disciplina nel seguirli al momento della realizzazione strategica e tattica.

Sono cosciente che lavorare con me può essere fastidioso (non so perché, ma mi piace pensare che lo sia più per i miei superiori che per i miei collaboratori).

Una delle ragioni è che io (mi) chiedo sempre il “perché” delle cose e questo viene spesso percepito come una (inutile) rottura di scatole perché nelle aziende tende a prevalere la cultura del “come”.

Però dal “perché” deriverà il “come”, ma non viceversa.

Da questa visione deriva anche la tecnica di strutturazione gerarchica degli obiettivi partendo dalla mission per scendere, volendo, al gadget aziendale. In questo modo è più probabile che gli obiettivi rispondano allo stesso “perché” iniziale in modo coordinato e coerente.

Poi bisogna avere la disciplina di rispettarli nella realizzazione delle attività che sviluppano per raggiungerli, senza farsi sviare troppo dalle situazioni contingenti. E questo immagino spieghi il senso del motto della testata di questo blog e che guida la mia attività di consulenza

Nel caso della promozione di Skipper non so le debolezze nascano da una definizione debole, parziale e imprecisa degli obiettivi o da successive distorsioni operative. Le classiche obiezioni alle soluzioni ideali proposte in prima battuta: “costa troppo”, “ci vuole troppo tempo”, “è troppo complicato”, ecc…

Tutte obiezioni sensate, sia chiaro, che però portano a fare cose che non rispondono agli obiettivi che ci eravamo prefissati, quindi, se siamo fortunati, con risultati parziali, spesso inutili e talvolta dannose.

Lo so che il tempo stringe, il budget è risicato, ecc… ma la mia raccomandazione rimane di essere sempre e comunque onesti con se stessi, disciplinati ed ambiziosi.

Anche perchè, proprio visto che tutte le risorse sono limitate è necessario che le strategie siano anche un po’ tattiche, ossia che spingano all’azione, e le tattiche un po’ strategiche, ossia rafforzino il posizionamento/equity della marca.

P.S. Io comunque continuerò a bere Skipper all’arancia, perché è il miglior succo non fresco sul mercato ed a me interessa innanzitutto il gusto, ossia la frutta che c’è dentro.

P.P.S. Un “bravi” al marketing della Skipper per aver tolto dal tetrapack l’indicazione che era fatto con arance del Brasile perché si trattava di un messaggio era un po’ distonico con l’altra indicazione “Prodotto con amore in Italia – tutti i nostri prodotti sono fatti in Italia, la terra delle cose buone e fatte bene”.

P.P.P.S. Mi rendo conto che in questo post ci sono un sacco di concetti di marketing e di gestione (gestione di marketing) non spiegati. E’ che mi sembrava già lungo a sufficienza e si tratta di concetti che ho affrontato e spiegato in passato. Qualsiasi curiosità di approfondimento di venga, inserite una parola o una frase nell’apposita casella di ricerca in alto a destra e vedrete che, con dieci anni di post, qualcosa (di interessante) viene fuori.

Le tecniche di vendita (digitale) stanno uccidendo il marketing (e le marche)?

Tanti anni fa da qualche parte ho sentito qualcuno che diceva più o meno che il marketing perfetto non ha bisogno né di forza vendita né di pubblicità. Se si propone al proprio mercato obiettivo il prodotto/servizio per lui ideale ed al giusto prezzo rispetto al valore percepito saranno i consumatori a cercarlo ed a promuoverlo con il passaparola.

E’ un concetto con cui ero sostanzialmente d’accordo quella volta ed ancora di più oggi visto che l’era digitale con i social networks ha aumentato ancora di più l’importanza e la portata del passaparola nella comunicazione delle marche rispetto alle varie forme di comunicazione controllate dalle aziende (pubblicità in primis) e con le vendite on line ha smaterializzato la distribuzione di moltissime categorie merceologiche.

Non a caso uno dei concetti alla base della mia visione del marketing totale (che son quasi 4 anni) è che le marche devono preoccuparsi di rendersi facili da trovare per i consumatori invece di preoccuparsi di cercarli.

La pratica però sembra andare in una direzione molto diversa rispetto a questa teoria e sempre più spesso viviamo esempi di tecnologie digitali utilizzati per spingere le vendite, in modo più o meno mirato (la mia impressione è che quando il “push” supera certi livelli di invasività anche una proposta in linea con le mie esigenze/desideri/interessi diventa fastidiosa).

Ne scrivevo lo scorso febbraio e ne scrivo oggi perché l’altro giorno dovevo fare un acquisto on line sul sito di Decathlon ed ho intenzionalmente cliccato sul primo risultato apparso nel motore di ricerca.

Normalmente evito i risultati sponsorizzati perchè so che spesso e volentieri portano in luoghi pericolosi, ma questa volta l’ho fatto intenzionalmente proprio a scopi investigativi. Un po’ come i  chimici, medici e biologi che nel XIX e XX secolo che sperimentavano su se stessi i risultati delle proprie teorie e ricerche, ma con molto meno rischio.

Inoltre mi aveva incuriosito il fatto che, benché fosse sponsorizzata, il link apparisse come Decathlon, esattamente come quello “organico” che c’era sotto.

Quindi si è aperta l’home page di Decathlon con sopra un banner che offriva la possibilità di vincere buoni sconto Decathlon a fronte della compilazione di un breve questionario. Sito Decathlon, buoni sconto Decathlon per avere i miei dati, ci sta. Tanto più che io da Decathlon faccio già acquisti 2/3 volte all’anno.

Ho risposto a poche domande sul mio “profilo” sportivo e poi per poter partecipare all’estrazione dovevo fornire i miei dati. Ci sta. Come mail ho dato la solita mail a rischio “spazzatura” che poi non guardo mai, però era richiesto anche il cellulare. La cosa un po’ mi ha insospettito, ma neanche tanto perché pensavo di esser in territorio Decathlon, e poi comunque ero lì per vedere cosa succedeva.

Non ho vinto, ma mi subito mi è arrivata un’offerta, da un altro URL. Lì ho capito che NON ero da Decathlon, ma in una imboscata di vendita.

Visto che ero in ballo ho continuato a ballare per un po’, dando qualche risposta a caso e dopo un po’ ho chiuso tutto perché avevo altro da fare e l’esperimento era durato abbastanza.

Tutto tranquillo per una decina di giorni e poi ieri, sabato, alle 13:04 mentre pranzavo mi chiama sul cellulare uno dalla Sardegna per propormi un’offerta di EON Energia, dicendo che avevo espresso il mio interesse e dato il mio consenso.

Probabile che sia anche vero, però comunque il sabato mentre sto pranzando non è proprio il momento in cui ho più voglia di ragionare di quanto sto pagando adesso la luce e valutare proposte alternative.

Detto in altre parole, mi state disturbando e non era nemmeno tanto difficile da prevedere.

Tra l’altro vi potrei forse capire se mi aveste chiamato al telefono fisso (sabato a pranzo è effettivamente uno dei momenti in cui è più probabile trovarmi a casa), ma visto che avete il cellulare perché non avete chiamato in un momento più consono?

Il bello è che potrei essere anche interessato a cambiare fornitore, perché ho la sensazione che quello attuale sia un po’ caro, però a questo punto EON energia lo escludo per fastidioso.

Non so se io sono particolarmente rompiscatole, però sicuramente questo non è un esempio isolato (ho già scritto un post al riguardo), e temo che le cose siano destinate a peggiorare visto che l’altro giorno è sentito un esperto di marketing sostenere che l’acronimo WIIFM – What’s is it For Me? (Qual è il mio vantaggio?) non esprimerebbe la domanda che le persone si fanno di fronte ad una qualsiasi proposta (di marca) come credevo io, ma la domanda che noi (l’azienda) deve farsi ogni volta che viene a contatto con qualcuno.

Ossia quali e quanti vantaggi posso trarre io dalla relazione.

Non credo si essere l’unico ad avere crisi di rigetto sempre più frequenti.

InspiringPR 2017: cosa ho visto, cosa mi è piaciuto, cosa no e cosa mi ha lasciato perplesso.

InspiringPR 2017

Lo scorso sabato 20 maggio si è svolta a Venezia, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, la IV edizione di inspiringPr, “Un momento di incontro e d’ispirazione aperto ai comunicatori e a tutti coloro che operano nelle e per le organizzazioni, pubbliche o private, ma anche a chi, seppur non del settore, influenza sensibilmente la professione.”

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Marketing is global, business is local; ovvero location-based marketing is here to stay.

La prima frase del titolo l’ho sentita dire da nonmi ricordo più chi ad un convegno al Cibus del 1992. Alcune ere geologiche digitali fa. E per un bel pezzo “glocal” è stato uno dei termini di modi nella comunicazione e gestione aziendale.

L’effettivo avvento della società digitale sta riportando il marketing ai suoi aspetti fondamentali, dando la possibilità di realizzare con un’immediatezza raramente vista prima gli enunciati di principio.

Se la creazione e gestione dei contenuti, fatta in gran parte sui media digitali, è alla base dell’immagine (reputazione) della marca, il location-based marketing è quello che permette di utilizzare gli stessi media per monetizzarla.

Cos’è il location-based marketing?

Da definizione di wikipedia si tratta di una nuova forma di comunicazione (pubblicità in originale, N.d.A.) che integra la comunicazione su dispositivi portatili con servizi/prodotti su base locale. La tecnologia è utilizzata per identificare dove si trova il (potenziale N.d.A.) consumatore e fornirgli comunicazioni legate specificatammente al luogo in cui si trova sui sui dispositivi portatili (smartphone per farla breve N.d.A.).

Secondo Bruner e Kummar (2007) ” location-based marketing si riferisce ad informazioni controllate dall’azienda e disegnate specificatamente per il luogo in cui gli utenti accedono ad un mezzo di comunicazione.”

Questa la definizione, che come vedete risale a quasi 10 anni fa, ma quali sono le tendenze?

Un articolo di Mireya Prado nel numero primaverile di Marketing Insights, rivista dell’American Marketing Association, indica queste come le principali.

1. La facilità d’uso su smartphone (e tablet) è cruciale.

La diffusione della navigazione da smartphone ha portato i motori di ricerca ad adottare nuove tecnologie per migliorare l’esperienza di utilizzo. Google ad esempio ha spinto sulle Accellerated Mobile Pages (in sintesi una tecnologia che permette di caricare più velocemente le pagine su smartphone ed ha effettuato vari aggiornamenti dell’algoritmo per migliorare la ricerca locale da dispositivi mobili.

Anche per il 2016 è prevedibile che gli aggiornamenti continuino ed una delle direzione in cui si svilupperanno è quella di utilizzare gli “structured data” come elemento di dterminaazione del ranking nelle ricerche (se sapessi cosa significa, lo spiegherei. al momento l’ho solo intuito leggendo la spiegazione che ne fa google search)

La sintesi di tutto questo è che nel 2016, per avere successo nelle ricerche su base locale bisognerà disegnare i nostri media digitali con un approccio “mobile first” in modo da fornire agli utenti la miglior esperienza di navigazione possibile per semplicità e completezza.

 

2. Capire che le persone (consumatori) usano i social come vogliono loro, non come l’azienda vorrebbe che li usassero.

Sulla diffusione dei social creo ci sia poco da dire, perchè la viviamo tutti in prima persona. Come in prima persona viviamo la diffusione del loro utilizzo da cellullare (i direi quasi che il secondo ha favorito il primo).

Questo ha creato la proliferazione di messaggi/contenuti in tempo reale a livello globale.

La conseguenza per i messaggi di contenuti locali è la necessità di comunicare direttamente con il consumatore e quindi di creare un coinvolgimento (dimenticatevi likes e follower: sono solo scalpi, al limite, decorativi).

Oggi i consumatori si aspettano una risposta diretta da una marca in meno di un’ora (io qualche anno fa avevo fissato come obiettivo del mio dipartimento di rispondere entro un giorno. Ognuno pensi ai tempi di risposta che riceve dalle marche, quando le riceve).

Perchè allora fare la fatica di accontentare questi tempi di risposta? Perchè una connessione rilevante con la marca aumenta di 7 volte la probabilità che un consumatore risponda positivamente ad una promozione.

 

3. Beacons e mobile wallet non sono una moda.

L’adozione di beacons e mobile wallet è ancora marginale perchè queste tecnologie non hanno ancora portato chiari vantaggi per le persone (consumatori). Nel momento in cui le marche saranno in grado di offrire esperienze (di acquisto) in grado di rispondere alla domanda del consumatore “A me cosa me ne viene?”, l’adozione sarà rapida.

La marca Sephora nel 2015 ha fatto dei test integrando beacons e mobile wallet nella ricerca dei punti vendita ed all’interno del punto vendita. In questo modo è possibile ottenre informazini riguardo a cosa e/o come porta i consumatori ad effettuare un acquisto e sviluppare le proprie strategie di conseguenza.

 

4. La cura della privacy non è un’opzione.

Il location-based marketing ha per sua natura un rischio intrinseco di diventare spam agli occhi del consumatore.

Quello che evita questo rischio è la rilevanza dei messaggi che la marca invia relativamente al contesto in cui si trovano le persone.

Secondo uno studio realizzato da Accenture negli USA, il 49% dei consumatori non hanno problemi a condividere i propri dati con una marca, se questa fornisce informazioni per loro rilevanti. Viceversa preparatevi ad essere nella lista dei loro adblockers.

Alla rilevanza nei confronti dei consumatori, vanno aggiunte trasperenza e chiarezza su come, quando e perchè la marca utilizzerà i loro dati.

 

5. La crescente importanza del location-based marketing richiede una sua gestione da parte delle aziende.

Si prevede la creazioen di una nuova figura all’interno dlele aziende: il Chief Location Officer, responsabile di gestire la comunicazione tra le varie funzioni aziendali per creare una miglior relazione con il cliente / consumatorea livello di esperienza locale.

 

Concludo con tre considerazioni mie:

a) molti dei concetti del location-based marketing mi sembrano collegati a quelli del (mio) marketing totale. La gestione però appare estremamente complessa.

b) leggendo l’articolo su Marketing Insights e scrivendo questo post mi sono sentito molto vecchio e affaticato.

c) i miei post hanno fama di essere complessi e non di facile comprensione. molte delle cose che ho scritto in questo post non sono chiare nemmmeno a me (vedi punto precedente). Se qualcuno me le volesse spiegare è il benevenuto.

 

Sul web si crea la reputazione, non la conoscenza di marca.

 

Diapositiva1Avverto che questo è un post scritto con un approccio manicheo, bianco o nero, con considerazioni tagliate con l’accetta piuttosto che cesellate con il bulino.

Dietro non c’è nemmeno granchè di ricerche, piuttosto un po’ di pensiero speculativo, un po’ di esperienze dirette, un po’ di annusare l’aria e scambio di idee con un paio di amici.

Se trovate qualcosa che vi sembra utile bene, viceversa avrete perso un po’ di tempo (almeno sarà yn post corto).

Veniamo al dunque.

Continuo ad imbattermi in persone/aziende insoddisfatte dei risultati delle loro strategie web (basate principalmente sui social networks). Però continuo ad imbattermi anche in persone/aziende che continuano a credere che le strategie web (basate principalmente sui social networks) siano la pietra filosofale, capace di trasformare il ferro in oro.

Di entrambe le cose hanno una buona dose di responsabilità i professionisti della comunicazione e/o gli opinion leaders che appaiono sui mezzi di comunicazione specializzati e generalisti, che continuano a dipingere il web come il futuro (radioso) ed invece è il presente (ricco di opportunità per le persone, ma complesso).

Ai tempi della comunicazione “classica”, diciamo vent’anni fa, si insegnava che i diversi mezzi dovevavo essere utilizzati in modo da sfruttare in pieno le loro caratteristiche specifiche. Quindi evitare di pianificare sulla radio una campagna per un concetto di comunicazione/marca/prodotto basato sul visuale (se vi sembra ovvio, non avete idea di quante ne ho viste fare con la scusa che non c’era budget per fare la campagna in TV) oppure pianificare le campagne di esterna (leggi cartellonistica stradale) nei mesi estivi che hanno più ore di luce (sempre che non dobbiate fare la campagna dei pandori).

Se guardo a come si muovono tante aziende, ma recentemente anche i partiti ed i candidati in campagna elettorale, sembra che nessuno si sia preoccupato di capire quale sia la specificità del web come mezzo di comunicazione.

Bene, io sono parecchio convinto che il web per sua natura sia il mezzo ideale per costruire reputazione/immagine di marca e sia piuttosto debole se si vuole ottenere conoscenza di marca (o awareness se volete parlare come i veri esperti di comunicazione).

Questo perchè sul web, come al bar, la persone ci vanno per informarsi, divertirsi ed interagire con altre persone.

Se quando siete a bere un aperitivo con i vostri amici e quando questi vi stanno raccontando cosa gli è successo o cosa faranno, ogni tanto si intromettesse uno che vi dice di comprare la marca X, voi cosa fareste? Se l’esempio vi sembra surreale, beh è esattamente quello che succede con i post sponsorizzati che appaiono nella vostra timeline di facebook. E quello che fate voi, come tutti (adblockers a parte) e non fare attenzione all’intruso.

Stesso discorso, anche peggio, per i banner.

Viceversa essere citati nelle conversazioni oppure essere ricercati per i contenuti dà una credibilità ed una forza di immagine che nessuna pubblictà può eguagliare.

E’ quello che in inglese si chiama leadership di pensiero (thought leadership). Per acquisirla bisogna avere delle cose interessanti da dire, dirle bene e dirle con continuità.

Se siete fortunati da esser una marca di nicchia, ma nicchia nicchia, la conoscenza che viene come conseguenza della visibilità data dalla creazione di reputazione potrà bastare.

Se invece ricadete nella grandissima maggioranza dei casi, dovrete costruire la conoscenza dell’azienda/marca/prodotto con della pubblicità, in larga misura classica.

Rispetto ad una volta magari meno televisione e stampa e più esterna e presenza del marchio sul territorio (eventi, sponsorizzazioni, ecc…). Però sempre pubblicità.

Unica (?) eccezione, secondo me, gli spot in apertura ai video su youtube. E’ come la buona vecchia pubblicità televisiva, con in più il “vantaggio” che non posso cambiare canale, almeno per un bel po’ di secondi. Non a caso è un mezzo costoso.

Perchè questa è l’altra amara verità: ottenere conoscenza di marca è costoso.

Tutto come una volta quindi, come se la rivoluzione digitale non fosse esistita.

Non proprio. E’ possibile rendere più efficiente l’investimento, quindi ottenere un livello più alto di conoscenza con lo stesso più budget oppure lo stesso livello di conoscenza con un budget più basso, affinando la targetizzazione.

Però quante aziende hanno una definizione precisa e dettagliata del loro target principale e di quelli allargati in termini di comportamenti, atteggiamenti nei confronti della categoria di prodotto e della marca e di caratteristiche socio-demografiche.

A poco mi serve avere un cannocchiale più potente se non so dove puntarlo.

Di giornali e giornalisti (nel marketing prossimo futuro).

Qualche settimana fa si parlava con un amico, già giornalista, redattore e pubblicitario dell’ineluttabilità (secondo me) del ruolo editoriale delle aziende e quindi della direzione marketing come editore/direttore responsabile dei contenuti raccolti, creati o sviluppati dalle aziende.

Lui era contrario, nel senso che non vedeva nelle aziende le competenze per svolgere questa funzione (concordo al 100%), che dovrebbe rimanere patrimonio dei professionisti dell’informazione.

Questa la sintesi, per i curiosi però descrivo di seguito il percorso del ragionamento.

Per quelli che invece vogliono sapere davvero cosa succede nel mondo dell’informazione rimando, come sempre al sito Datamediahub.

 

1. (la maggior parte de) I giornali (italiani) sono morti.

O meglio si sono suicidati. Nell’ormai lontanissimo 30 agosto 2008 ho pubblicato un post dal titolo “Perchè i giornali si stanno suicidando“. Non ho molto da aggiungere a quanto scritto allora (è un post breve, una volta ero più bravo), se non che la situazione è andata peggiorando.

Non faccio distinzione tra edizioni cartacee ed on line. Quello che sta uccidendo i giornali è la pochezza dei contenuti, l’imprecisione (se non peggio) delle notizie, il livello sempre più basso della scrittura.

Non a caso, ad esempio, diffusione e raccolta pubblicitaria de “L’Internazionale” sono in crescita.

La questione non riguarda solo l’Italia, ma in Italia mi sembra più evidente. Andate a guardare, ad esempio, i siti di El Pais o del Guardian, dove non esistono “colonne destre” piene di notizie da click baiting e capirete cosa intendo.

 

2. La comunicazione delle aziende / marche si baserà sempre di più nella raccolta, selezione e creazione di contenuti.

La pubblicità come strumento di spinta al consumo è morta tanto quanto i giornali (non fatevi ingannare / impressionare dagli zombis dell’uno e dell’altro tipo che vedete ancora in giro).

Il posizionamento delle marche si costruisce e rafforza legando alla marca dei contenuti. Quanto più i contenuti sono originali, tanto più il posizionamento sarà forte (ampio e profondo).

Quindi tutte le aziende oggi di fatto operano (anche) nel settore dell’editoria (altrimenti perchè hanno un sito, un profilo facebook, twitter, instagram, pinterest, ecc…).

In Italia ha fatto sensazione ENI che dialoga alla pari con Report. In giro per il mondo ci sono già esempi di aziende che pubblicano giornali, e non intendo house organ. Io nel mio piccolo per 3 anni al Vinitaly ho pubblicato un’edizione quotidiana di “Santa Margherita News”.

 

3. Perchè siano credibili, le aziende devono gestire direttamente la creazione dei contenuti.

Nuovamente non è una questione di forma ma di sostanza. Comunicare contenuti non è come fare pubblicità  e quindi non basta definire una copystrategy, definire un brief con l’agenzia ed aspettare che loro preparino la campagna.

Questo significa che le aziende devono dotarsi di competenze giornalistiche al loro interno (la creazione dei contenuti, altro non è che giornalismo). Tutte le diverse competenze giornalistiche necessarie per gestire la creazione e diffusione di contenuti.

Oggi le aziende hanno questo tipo di competenze? Al 99,9% no.

Ma questo non sposta di una virgola i termini della questione. Se vogliono competere con successo dovranno svilupparle / acquisirle.

Il salto più difficile è quello culturale, in termini di visione del proprio lavoro e del proprio ruolo. Le competenze sono quasi un tecnicismo.

In realtà è un processo che non ha niente di nuovo: con lo sviluppo delle analisi di mercato, ad esempio, la funzione marketing aziendale ha dovuto acquisire competenze che le permettessero di gestire ed interloquire con gli Istituti di ricerca.

Affidare ad una società esterna la gestione dei propri contenuti e continuare in azienda a lavorare come prima è una finta scorciatoia che non porta in realtà da nessuna parte.

Per me il quadro è chiaro. Mi rimane solo un dubbio: chi formerà le prossime generazioni di giornalisti?

I giornali non lo stanno più facendo. Le aziende saranno in grado di fare un salto mortale culturale così difficile?

SEO nel 2016: le nuove regole di ricerca.

La scorsa settimana mi sono occupato delle strategie di web marketing dal punto di vista concettuale (quasi dottrinale direi).

Oggi vado sull’operativo sintetizzando un interessante articolo uscito sul numero di novembre 2015 di “marketingnews”, una delle riviste dell’American Marketing Association (ho già detto che consiglio di associarsi?) a firma di Christine Birkner.

L’articolo originale ha esattamente lo stesso titolo di questo post, solo in inglese, ed indica 6 punti chiave per massimizzare i propri investimenti di marketing e comunicazione attraverso il SEO (che per i meno esperti significa Search Engine Optimization).

Prima di passare ai sei punti però alcune considerazioni generali sui principali fattori che avranno impatto sul SEO nel 2016 secondo uno studio della società di consulenza Moz Inc. di Seattle.:

- usufruibilità sui dispositivi mobili (smartphone e tablet): impatto + 88%.

- analisi del valore percepito delle pagine: impatto + 81%.

- dati di utilizzo delle pagine come il dwell time (tempo effettivo che un visitatore passa su una pagina web prima di tornare alla pagina dei risultati della ricerca sul motore di ricerca): impatto + 67%.

- leggibilità e design delle pagine: impatto +67%.

 

Lo studio identifica anche i fattori che ridurranno il loro impatto SEO nel 2016, quali l’efficacia di link a pagamento (-55%) e l’influenza dell’anchor text (il testo cliccabile di un link che porta ad una pagina, normalmente in blu) con -49%.

Ma veniamo ai sei consigli su come ottimizzare il SEO:

 

1. Intention is everything:

Non c’è può bisogno di focalizzarsi sulle parole chiave. Oggi i motori di ricerca si sono fatti più furbi (o più raffinati) e guardano a come le persone interagiscono con le pagine/sito. Vanno avanti e indietro tra la pagina dei risultati della ricerca sul motore di ricerca (SERP), oppure trovano sul sito quello che cercavano?

Prima per il SEO bastava preoccuparsi di avere i “clicks”, oggi è fondamentale l’attività dopo il click. Non basta più solamente avere i clicks, bisogna soddisfare l’intenzione / aspettativa dell’utente.

 

2. Keywords aren’t the be-all and end-all:

Inserire parole chiave nei titoli sta diventando meno importante. Una volta se si voleva migliorare la propria classifica come “miglior ristorante”, scrivevi “miglior ristorante” tre o quattro volte. Oggi i motori di ricerca hanno migliorato l’analisi semantica del discorso, quindi se scrivo riferendomi ae eccezzionali esperienze enogastronomiche nel mio ristorante, loro abboccheranno comunque (anzi meglio).

Va considerato anche che il 75% delle ricerche viene fatto inserendo da 3 a 5 parole, quindi i titoli dei siti/pagine vanno scritti di conseguenza.

 

3. Focus on the user experience:

Attualmente Google cambia il proprio algoritmo di ricerca circa 500 volte all’anno con lo scopo di far si che chi utilizza Google come motore di ricerca trovi quello che gli interessa nelle prime pagine (io direi nella PRIMA pagina, N.d.A.).

Il punto non è come faccio a fregare l’algoritmo; il punto è come faccio ad assicurarmi che il mio contenuto sia il miglior contenuto possibile sul web per le parole che mi interessano (che poi è il concetto dell’importanza dell’identità nell’approccio del marketing totale).

Per farlo la chiave è creare contenuti originali. Quindi bisogna darsi un piano editoriale (siamo tutti nel mercato dell’editoria vero Federico? Vero Pier Luca Santoro? Il bello è che i nostri contenuti originali possono partire anche da contenuti esistenti di altri. Curare i contenuti significa anche prendere pezzi di altri (citando SEMPRE le fonti) aggiungendo però la nostra idea / visione: “condivido questo perchè ….”

 

4. Size matters:

Gli articoli più lunghi sono quelli che in media ottengono i migliori risultati nelle ricerche sul web. Qui confesso che ho goduto, poi l’entusiasmo è un po’ scemato perchè come lunghi si considerano i pezzi tra 1.200 e 1.500 battute, il mio pezzo manualistico su “Come, ma soprattutto PERCHE’, fare il budget aziendale” uscito su Vinix superava le 3.000.

Per rendere più digeribili i pezzi lunghi divideteli in paragrafi, usate elenchi puntati, foto, ecc…

 

5. Optimize for mobile:

Le ricerche sui motori di ricerca da smartphone e tablet sono in costante crescita, quindi assicuratevi che i vostri contenuti siano ricercabili anche attraverso questi apparecchi. Punto.

 

6. Use unique images:

Le immagini in Google non sono un riferimento così importante come una volta, però ogni volta che potete usate un’ immagine personalizzata o unica. Nel lungo periodo sarete ripagati dello sforzo.

 

Ma il consiglio più importante di SEO più importante per il 2016, secondo la’utrice dell’articolo è focalizzarsi sulla propria audience. In passato gli operatori di marketing /aziende provavano a promuovere quello che loro volevano che le persone vedessero (in passato? Magari fosso passato. N.d.A.). Oggi quello che veramente fa schizzare il proprio SEO è dare alle persone quello che effettivamente vogliono vedere.

Ricordiamo che l’azienda non fa i profitti perchè appare prima o seconda nella pagina di ricerca di Google. L’azienda fa i profitti perchè apparendo nei primi risultati di ricerca la nostra audience obiettivo è facilitata a trovarci. Se poi quando arrivano nel sito/pagina/profilo social hanno una delusione è peggio che non se non ci avessero mai trovati.

 

Come migliorare l’efficacia delle proprie strategie (di comunicazione) web.

Oggi un post talmente semplice e diretto da sembrare naif.

Quante aziende conoscete che hanno un sito internet e/o un profilo facebook e/o twitter e/o pinterest e/o instagram e/o ecc…?

Quante di queste aziende analizza giornalente/settimanalmente/mensilmente i dati relativi all’interazione generata dalla sua presenza sul web?

Quante di queste aziende definisce/modifica le proprie atttività sul web (piano editoriale, contenuti, ecc..) in base al risultato dell’analisi di cui sopra?

Magari sperimentando, ossia variando intenzionalmente le proprie attività, in modo da misurare l’efficacia dei diversi approcci/comportamenti?

Magari anche confrontando i risultati ottenuti rispetto ad obiettivi definiti in precedenza (che significa aver ragionato su quello che si vuole fare)?

Anche senza tecniche e competenze specifiche, il buon vecchio metodo scientifico galileiano è la base del miglioramento dell’efficacia.

Non ci sono più scuse che mancano le informazioni, è solo questione di voglia.

Mi ha scritto il Signor Arexons …

…. per cui faccio un’eccezione alla mia classica cadenza domenicale di pubblicazione.

Non lo faccio tanto per ringraziare dell’attenzione (il dottor Elber mi ha scritto tempestivamente lunedì, sono io che ho avuto da fare) ma perchè hanno chiarito che l’assenza dell’app è una scelta e non un caso.

Scelta dovuta principalmente ad un rischio di bassa efficacia, legata all’inflazione di apps ed alla necessità che il consumatore consumatore se la scarichi, ed alla certezza dei considerevoli costi per scriverla nei tre sistemi operativi attualmente sul mercato, quindi scarsa efficienza.

Da qui la scelta di utilizzare la chat sul sito. Per completezza sono andato a vedere il sito da cellulare, perchè se funzionasse bene solo dal computer cadrebbe tutta la strategia, e confermo che l’utilizzo della chat è assolutamente pratico.

Questa strategia di Arexons, unita alla frammentazione dei sistemi operativi smartphone ed alla crescente arbitrarietà degli algoritmi delle piattaforme social, pone in dubbio uno degli orientamenti che sto personalmente adottando nel web marketing dal 2011: conviene andare ad interagire con le persone dove si trovano loro invece di fare (l’inutile) fatica di portarli sul proprio sito, che va quindi rivisto sostanzialmente come statico e monografico.

Devo rivalutare i vantaggi e l’importanza di attrarre le persone in un ambiente (il sito) di cui ho il pieno controllo. Intanto ci penso, poi magari una settimana di queste approfondisco.

 

 

Marketing Totale: origini, ragioni, implicazioni in 50 diapositive.

In settimana ho pubblicato su slideshare le diapositive del mio seminario sul MARKETING TOTALE.

Poichè è una presentazione, è stata fatta con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione dei partecipanti e quindi le diapositive NON sono autoesplicative (ricordo ancora la mia professoressa di comunicazione in Canada che giudicava le presentazioni dei casi di marketing: “Massimo 4 righe di testo con dimensione del carattere minimo 20).

C’è quindi la certezza che alcune diapositive appaiano criptiche ed il rischio che siano persino interpretate al contrario. D’altra parte basta pensare che per ogni diapositiva sono previsti in media 5 minuti di commenti per capire che i contenuti del seminario sono molto di più della semplice presentazione.

Cionondimeno credo che possa essere di aiuto per megliorare il concetto di marketing totale, in aggiunta ai post che ho già pubblicato sull’argomento in questo blog.

Quanto meno colloca il marketing totale in un contesto più organico rispetto al passato ed al futuro del marketing.

Mettetevi comodi e … buona lettura. Qui trovate il link alla presentazione.

Ineedcoffee di Lavazza: opportunità e problemi della comunicazione nell’era digitale.

Doverosa premessa: questo spot non è stato sponsorizzato da Lavazza (ben triste per l’informazione in generale e per il blogging in particolare doverlo specificare, ma così è).

Nelle migliori tradizioni di biscomarketing analizzo la campagna Ineedcoffee di Lavazza con un buon mese di ritardo dalla sua conclusione (a meno che non riparta) perchè mi è sembrata una cosa ben fatta e quindi sono particolarmente interessanti i problemi irrisolti collegati.

Non è che in rete si trovi granchè che spieghi la campagna nella sua articolazione. Vedo di ricostruirla per esperienza diretta.

In primavera estate Lavazza ha lanciato con una campagna radio di sponsorizzazione del programma del Trio Medusa su radio Dee Jay la campagna #Ineedcoffee sul concetto della necessità di un caffè per iniziare la giornata ed invitando a condividere sui social i propri momenti #Ineedcoffee.

Probabilmente la campagna è stata lanciata anche sui social networks, ma io non l’ho vista (e questo è strano). Forse la comunicazione ha coinvolto altri programmi di radio Dee Jay o altri mezzi, ma io non l’ho vista nè sentita (se qualcuno ha maggiori infomazioni, prego commentare ed integrare).

Ad un certo punto Lavazza ha analizzato i luoghi da cui provenivano le interazioni sui social network ad ha scoperto, direi sorprendentemente, che la città dove (in proporzione?) c’era più bisogno di un caffè era Portogruaro in provincia di Venezia.

Quindi ha realizzato un evento Ineedcoffee Portogruaro edition, il cui video è stato pubblicato su youtube.

Perchè mi è piaciuta, marketingamente parlando, questa campagna?

1. Nell’era digitale la separazione on e off line non esiste: vedo ancora moltissime campagne di comunicazione basate esclusivamente sui social network, come se il mezzo facesse il messaggio. E’ almeno 10 anni che non è più così. Ricordo nel 2005 che le interazioni al sito “Your Fun” Keglevich erano del tutto indipendenti ai flight della campagna radio, ma era appunto il 2005. Oggi la scelta di ridursi solamente ai social/web può essere dettata solamente da limiti di budget, non dai target (che fino almeno ai 60 anni sono multimedia) nè dal tono (che può e deve essere declinato sui diversi mezzi).

2. La cosa più difficile in una campagna che punta a coinvolgere le persone sui social media è stimolare effettivamente un’azione (call to action volendo parlare come quelli veri). Esiste il grande rischio di ritrovarsi senza niente, ovvero con profili social pieni di aggiornamenti di stato e commenti palesemente finti. Tristezza. Lavazza ha ovviato a tutto questo organizzando (prevedendo) l’evento sul territorio. Che i commenti/interazioni fossero 100.000, 1.000, 100 o 10 comunque ci sarebbe stata una conclusione eclatante e notiziabile.

3. Il taglio popolare della campagna. Che non significa nazionalpopolare, ma vicino alle persone reali, senza elitismi e snobismi. L’esemplificazione di quello che intendo è la scelta di servire ai partecipanti all’evento di Portogruaro il caffè fatto con la moka, per un prodotto ed un momento di consumo per cui sembrava esistessero oramai solo le capsule.

Come caso di studio però sono forse ancora più interessanti i problemi collegati alla campagna:

Credibilità: non è questione di essere malfidenti, ma Portogruaro suona molto strano. Abbiamo già visto gli spot finti di Telecom e PIF (tu quoque) sui milioni di passioni degli italiani. Qualche dettaglio in più su come è stata fatta l’analisi non avrebbe guastato. Se invece il risultato è stato pilotato, mi complimento per la scelta di una cittadina di Provincia in termini di originalità e quindi notiziabilità da una parte e coinvolgimento dell’audience dall’altra, ma questa è un’altra storia.

Genericità: con l’eccesso di comunicazione che contraddistingue l’era digitale trovare una frase allo stesso tempo memorabile ed originale sta diventando estremamente difficile. Ineedcoffee è un messaggio estremamente efficace per la marca, però è già di uso comune. Su fb ci sono tre pagine e nessuna è collegata all’iniziativa, su twitter ed istagram i post sono innumerevoli legati ai contesti più diversi. Vero che questo in teoria rappresenta un’opportunità per l’azienda di appropriarsi di un modo di dire già diffuso e conosciuto, ma temo che per farlo ci vogliano investimenti in comunicazione troppo elevati per rendere questa opportunità concreta.

Mi rendo conto che in parte sono pensieri buttati lì, ma dopo 8 anni e 439 post pubblicati ricominciare quest’anno è un po’ più dura del solito (ma la mia equitazione migliora)

Faccio anch’io una call to action ai miei lettori::io metto gli spunti, lo svolgimento fatelo voi .

 

 

 

 

Social communication: to syncro or not to syncro?

Mi sono (un po’) riposato e quindi eccomi con il post preannunciato domenica scorsa.

Circa un anno fa mi sono trovato coinvolto in uno scambio di battute su facebook riguardo alla correttezza o meno di sincronizzare i profili social, poi la settimana scorsa ho partecipato su twitter ad una discussione più articolata sullo stesso argomento, nata dagli spunti al riguardo sorti nei seminari organizzati al forume wine2wine di Vinitaly.

Per sintetizzare il mondo si divide in due grandi categorie (che bello: sognavo da anni di scrivere questa frase): quelli che sincronizzano i propri profili social in modo da pubblicare in automaticamente sui vari medium e quelli che invece pubblicano post/aggiornamenti di stato specifici per ogni social.

I primi lo fanno principalmente per praticità, i secondi per accuratezza. Aggiungo che ho l’impressione che i secondi guardino i primi con una certa dose di sussiego, considerando il mancato adattamento del messaggio ad ogni medium una pigra sciatteria (l’ozio, si sa, è il padre dei vizi) ed una negligente mancanza di attenzione e rispetto nei confronti dei propri lettori.

Chi ha ragione? Dipende! (anche questa è una di quelle espressioni classiche che sognavo di scrivere da anni).

Klout, che è un sito/strumento di misurazione dell’influenza in rete, consiglia di collegare i network per aumentare il proprio punteggio Klout. La teoria classica della comunicazione indica di gestire in modo specifico ogni medium per:

- essere rivolta direttamente al consumatore;
- espressa nel linguaggio che il consumatore utilizza normalmente;
- concentrata su una sola idea;
- concentrata sull’idea chiave identificata dalla ricerca di mercato;
- avere un trattamento unico e competitivo;
- essere credibile, non ingannatoria;
- essere semplice, chiara e completa;
- avere un messaggio combinato strettamente con il prodotto (servizio) che promuove;
- sfruttare pienamente il mezzo utilizzato;

Queste sono le regole di una buona pubblicità che utilizzava nel 1988 (ossia, preistoria) una grande agenzia pubblicitaria multinazionale (la Publicis se non ricordo male). Le trovate commentate, ragionate ed integrate con altre considerazioni più recenti nel mio vecchio post “Teoria e tecnica della comunicazione (digitale)”.

Tornando a noi: dipende. Dipende da diversi aspetti, che vado ad analizzare partendo da quello che faccio io.

Io collego i diversi social networks in cui sono presente in una sola direzione. Linkedin è collegato a Twitter che è collegato a Facebook. Il mio ragionamento quindi è che tutto quello che pubblico su Linkedin ha senso che vada anche su twitter e tutto quello che va su twitter ha senso che vada anche su facebook. Non viceversa, nè tra fb e twitter, nè tra twitter e linkedin.

Ho anche un profilo Instagram e fino ad oggi quello che ho pubblicato su Intragram l’ho sempre collegato a Twitter, quindi fb.

Ho anche un profilo Google +, che sostanzialmente non uso.

Mentre scrivo mi chiedo se Whatsapp sia o meno un social network; fino ad oggi non l’ho mai considerato tale e quindi per il momento lo escludo dalla trattazione di questo post.

Ecco quindi, secondo me, da cosa dipende la scelta se, e cosa e quanto, collegare i diversi profili social.

1-Praticità/tempestività: la tempestività nella comunicazione sui sociale è cruciale. La praticità della sincronizzazione aiuta la tempestività. Se devo scegliere tra accuratezza e tempestività, io non ho dubbi nel scegliere la seconda.Una cosa detta perfettamente, ma in ritardo vale molto meno di una cosa detta in modo approssimativo ma nel momento giusto. Quindi l’equilibrio tra praticità ed accuratezza, ossia collegamento o targettizzazione della comunicazione social, dipende dalle risorse di tempo e persone che potete dedicarci. Se ne avete tante potete permettervi di personalizzare ogni contenuto rispetto al medium che utilizzate, viceversa collegate.

2-Coerenza/identità: non crediate che questo punto sia in relazione con il precedente, perchè non è così. Collegare i propri social network in modo da pubblicare la stessa cosa in contemporanea su tutti è garanzia di identità e di coerenza della comunicazione.

Io dico spesso che l’ideale sono marche dalla personalità articolata perchè questo permette di stare nei diversi contesti nel modo migliore, senza perdere se stessi. In altre parole, non è necessario essere integralisti per essere coerenti. Però bisogna stare attenti anche a non essere schizofrenici, contraddicendo se stessi a seconda del medium in cui mi trovo.

3-Riduzione della ridondanza: ho scritto “riduzione” perchè, come ho detto diversi anni fa, la rete è pervasiva. Quindi un certo livello di ridondanza è inevitabile.

Cosa intendo per ridondanza? Il fatto che parte dei miei amici di facebook sono anche i miei follower di twitter e i istagram, nonchè i miei contatti di Linkedin. E questo malgrado il mio tentativo di mantenere facebook nella sfera del privato. Il motivo per cui di fatto non uso Google+ è proprio perchè in questo caso la sovrapposizione dei contatti con gli altri social sarebbe massima. Non posso evitare lo “spam” di dire la stessa cosa più volte alla stessa persona sui diversi social networks, ma collegandoli la dico nello stesso modo e così lui/lei potrà riconoscerla subito e capire di averla già vista.

Cito testualmente la dichiarazione di Leslie Petry, Direttore Marketing della società di media intelligence “Aggregate Knowledge” di San Mateo, California: “Un sacco di aziende oggi stanno parlando/raggiungendo alle persone, ma non capiscono che stanno parlando alle stesse persone attraverso una molteplicità di canali diversi, e che forse gli stanno parlando così tante volte da generare una immagine negative per la marca”

Questo punto HA una relazione con il punto 2, nel senso che minore la sovrapposizione delle audiences tra i diversi social networks e minori sia i problemi di ridondanza che quelli di identità e coerenza.

4-Contenuti: la vostra comunicazione si caratterizza per il contenuto informativo o per l’intrattenimento? Nel primo caso il rischio di perdita di efficacia comunicativa implicito nel collegare i diversi social e minore rispetto al secondo. L’informazione infatti ha una base fattuale che non cambia sui diversi medium, mentre l’intrattenimento fatto nella forma sbagliata rispetto al medium …. non intrattiene.

5-Fonte: io collego, parzialmente, i social network perchè tutti i miei profili sono personali quindi la valutazione dei punti 1, 2 e 3 tendono verso la sincronizzazione (per il punto 4 posso decidere di volta in volta riguardo ai social più eterogenei e trasversali che sono, secondo me, facebook ed instragram). Dovendo gestire dei profili aziendali è (forse) più probabile avere maggiori risorse, una personalità meno definita, delle audiences meno sovrapposte e contenuti prevalentemente caratterizzati dall’intrattenimento. Quindi la valutazione dei punti precedenti si sposta verso la targettizazione. Dipende dalla dimensione e della strutturazione dell’azienda: l’artigiano, anche se è azienda, si avvicina di più al caso dei profili personali; la multinazionale al caso dei profili aziendali.

Attenzione però: non so per quanto durerà questa distinzione tra individui ed aziende. Nella società digitale la comunicazione si basa su rapporti tra pari, ossia, in sintesi, tra persone, poco importa se fisiche o giuridiche.

Concludo notando che tendenzialmente coloro che hanno meno di 25 anni collegano i propri profili social (e non sono nè andranno su fb). Se tanto mi da tanto, al di là di tutti le mie elucubrazioni qui sopra, è molto probabile che il futuro sarà questo.