(Quando) scoppierà la bolla enogastronomica 2.

Non so se avete avuto tempo di leggere l’articolo di Steven Poole con cui concludevo il post della scorsa settimana.

Riporto qui un breve pezzo che ne riassume, per quanto possibile il senso:
<.... Nathan Myhrvold ... nell'introduzione al suo libro in 6 volumi dall'inquietante titolo Modernist cuisine (venduto a 395 sterline) si chiede: "Se la musica è un'arte, perchè il cibo non può esserlo?" Dovrebbe essere evidente che una bistecca non è una sinfonia, una pizza rustica non è una passacaglia, il foie gras non è una fuga. E comporre un menù non è come comporre un requiem e il cuoco che prepara una pietanza in cucina e la presenta su un piatto non è l'equivalente artistico di Charlie Parker>.

Io personalmente oscillo tra l’evidenza che “l’arte culinaria” sia, sempre nelle parole di Poole “una più modesta attribuzione di abilità creativa (technè piuttosto che poesis) ad un’attività quotidiana” e non una “forma d’arte”, e l’evidenza del contrario pensando a certe cose che ho visto e, talvolta assaggiato, in tanti anni di lavoro nell’enogastronomia. Soprattutto pensando all’approccio, alla ricerca, alla creatività ed allo studio per l’affinamento delle proprie capacità che sono alla base dell’alta cucina. D’altra parte una delle mie più emozionanti esperienze gastronomiche di cui ricordo (lo so che con questi termini sto tornando nel territorio dell’ARTE, l’ho detto che oscillo) è una sopressa di un contadino vicentino mangiata tanti anni fa davanti al caminetto, di ritorno da una giornata sugli sci da fondo. Qui non c’era studio e consapevolezza ma solo la ripetizione di un saper fare creatosi attraverso generazioni che qualcuno chiama (giustamente?) arte della norcineria.

Al di là delle mie storie personali quello che è evidente è che la nicchia delle persone per cui la cucina (ed il vino) sono un’Arte è sostenuta da un numero sempre più ridotto di persone che conoscono, apprezzano e praticano l’arte culinaria. Sempre meno persone compreranno, e regaleranno, coltelli giapponesi di ceramica o sale rosa dell’Himalaya (concettualmente uno dei cibi più anti-ecologici che possa concepire).

Abbiamo già passato il punto di flessione se, come mi ha detto un’amica, sui canali RAI trasmettono servizi sul food design (era il dicembre 2010 quando nell’azienda in cui lavoravo ho ideato un concorso/evento sul food design insieme ad una rivista specializzata dell’alta ristorazione), Vissani riscopre le ricette della mamma (come ascoltare i Beatles suonati da un’orchestra sinfonica) e la Nutella si propone come ingrediente in cucina.

In “Si spengono le luci”, romanzo di Jay McInerney ambientato a New York nell’imminenza del crollo della borsa del 1987 uno dei personaggi ad una festa dice qualcosa tipo “Quando anche i baristi discutono del Dow Jones è il momento di vendere”. Non bisogna farsi ingannare dal fatto che, sempre citando dallo stesso libro, “L’imperatore è nudo, però mostra un gran bel fisico” (sarà un caso che poi McInerney sia diventato anche un importante critico di vini?).

A questo punto che fare? Prepararsi ad un futuro in cui per la maggior parte delle persone l’interesse per l’enogastronomia in senso edonistico sarà marginale, i gusti si semplificheranno (basta guardare il banco dell’ortofrutta o del pesce di un qualsiasi supermecato, ma anche di un fruttivendolo o di una pescheria), si omogenizzeranno e si dedicherà sempre meno tempo alla cucina. L’implicazione è che si dedicheranno anche meno soldi alla spesa alimentare. Probabilmente il futuro me l’ha detto dieci anni fa la responsabile clienti di una grande agenzia pubblicitaria milanese, descrivendomi i “4 salti in padella” Findus come un’apice gastronomico. Tipo “quando sono di fretta mangio la prima cosa che capita, ma quando voglio mangiare bene SCELGO i “4 salti in padella”. confesso di non averli mai assaggiati, ma faccio fatica ad essere d’accordo. Però l’ho già detto prima che io non conto.

Chi ci potrà salvare (a noi che lavoriamo nell’alimentare)? Ci potrà salvare l’estero, per l’allargamento della nicchia dei foodies in nuovi paesi che passano dall’alimentazione di sostentamento a quella di gratificazione edonistica e sociale.

Basterà? E’ troppo tardi per pensarci. Quello che so è che già vent’anni fa la maggior parte del gorgonzola piccante, del provolone piccante e del grana con la crosta coperta di nerofumo si vendevano negli U.S.A. dove si erano cristallizati di generazione in generazione i gusti portati dai primi emigranti. Oppure adatteremo i prodotti e le preparazioni alle richieste ed ai gusti dei mercati.

In entrambi i casi prepariamoci a cambiare (stile o lavoro).

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