Un posto pulito, illuminato bene.

Ho come il timore che il blog stia prendendo una piega da “pensierini sparsi” o, bene che vada, anedottica. Forse è inevitabile dopo tanta teorizzazione strategica e forse per un po’ non fa neanche male.
L’impressione però è di aver già detto tutte le cose interessanti che avevo da dire perchè quello che mi viene da scrivere oscilla tra considerazioni sui massimissimi sistemi, destinate quindi a rimanere fini a se stesse, è quotidianità spicciola.
Magari è un sintomo che l’eccesso di operatività quotidiana mi impedisce di vedere l’essenza della cose oppure una conseguenza di aver girato 3 continenti in poco più di un mese.

Ad ogni modo questo episodio che mi è successo a Londra 3 settimane fa mi frulla in testa da allora, quindi un senso dovrebbe pur averlo. Eccolo.
Un dopo cena non avevo voglia di andare direttamente in camera a guardare le mail (sic!) prima di dormire, così sono andato sulla terrazza fronte Tamigi dell’albergo (Hilton Docklands Riverside, non fatevi ingannare dall’altisonanza del nome: costa poco più di 100 euro a notte) ed ho chiesto un bourbon sour al cameriere. Dopo mezz’ora che mi godevo il panorama di Canary Warf ho cominciato ad avere qualche dubbio sul fatto che mi avrebbero portato qualcosa, quindi mi sono alzato (il cameriere latitava da un po’) e sono andato a al bar a chiedere lumi. Chiesto al ragazzo che c’era al bar, non gli risultava nessun ordine e quindi ho chiesto a lui di prepararmi un bourbon sour (ci ho messo un po’ perchè lui continuava a chiamarlo un whisky sour con il bourbon ed io volevo essere sicuro che non mi arrivasse nè uno scotch sour nè un Jck Daniels sour). A questo punto mi sono seduto ad un tavolo lì davanti stile “pro memoria” vivente. Passato un’altro quarto d’ora invano ho chiesto lumi al capo barman, che non ne sapeva niente nemmeno lui (serata sfortunata) ma, visto anche il mio tono un po’ brusco, mi ha detto che me lo avrebbe portato subito.
Altri dieci minuti ed arriva scusandosi, ma non avevano zucchero (???!!!) per cui non poteva farmi il bourbon sour e mi ha proponeva un’altro cocktail in alternativa (che adesso neanche mi ricordo). Ho detto sì per puro sfinimento, ho bevuto il mio drink rapidamente (oramai si stava facendo tardi) e sono andato a pagare. A quel punto con un cenno il capo barman mi ha detto che offriva la casa
L’esperienza, fino a quel momento pessima, si è trasfomata in positiva di fronte alla considerazione che avevano avuto nei miei confronti.
Ne ricavo almeno due considerazioni:
- la deontologia del servizio, rispetto (recirpoco) e etica del proprio lavoro che permea la professione del bartender (barman è in realtà un anglicismo italiano). Più uno chef senza prosopopea che un cameriere specializzato.
- l’”empowerment” che discende da questa deontologia e che permette al bartender di gestire le situazioni secondo la sua sensibilità (quante volte a fronte di un disservizio ci siamo sentiti dire che avevamo ragione, ma purtroppo le regole impedivano di trattarci in modo diverso oppure che c’era bisogno di parlare con un “responsabile”)
Forse è un film che mi faccio io, influenzato dalle letture idealizzanti, da Hemingway a Marco Mascardi, però nell’economia del terziario avanzato basata sui servizi, la cultura dei bartender professionisti potrebbe essere un utile riferimento negli ambiti più diversi.
La cosa più interessante è che si tratta di una cultura talmente solida e consolidata da mantenersi sostanzialmente inalterata in tutto il mondo.
La settimana scorsa ero al banco del bar dell’ Hotel International di Pechino (poco meno di 100 euro a notte), ho chiesto un Singapore Sling e il bartender, ancora prima di preparare il cocktail, mi ha allungato il quotidiano del giorno.
“Is not what you do, is the way you do it”.