Sono andato a fare la spesa da ALDI ed è stata una delusione.

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Nelle scorse settimane la catena tedesca di discount ALDI ha aperto i primi punti vendita in Italia. In realtà erano anni che si parlava dell’arrivo di ALDI in Italia, ma questa veniva sempre rimandata per la valutazione dell’azienda tedesca rispetto all’attrattività del mercato italiano, considerato troppo complesso per riuscire ad applicare con successo il proprio modello di business.

Ma qual è il modello di business di ALDI? Pur non avendoci mai lavorato dentro, credo di poter dire che si tratta di una catena distributiva che conosco abbastanza bene, per averla frequentata come consumatore prima (ogni viaggio in Germania di lavoro o di piacere prevedeva almeno una spesa da ALDI per vedere cosa si erano “inventati” di nuovo) sia perché per diversi anni sono stato un loro fornitore in Germania.

Detto in sintesi ALDI è l’insegna che negli anni ’60 del secolo scorso ha inventato e realizzato il concetto di hard discount. Il nome ALDI è la crasi di ALbrecht (cognome dei due fratelli che la fondarono rilevando l’attività fondata dalla madre nel 1913) e DIscount.

L’azienda è ancora di proprietà dei discendenti dei due fratelli Karl e Theo Albrecht ed è una delle più grandi aziende della distribuzione a livello mondiale, presente in 18 nazioni.

La proposta di base di ALDI è quella di offrire ai clienti prodotti di qualità medio-alta al prezzo più basso del mercato. Uno dei tanti esempi per esperienza personale: il succo d’arancia di ALDI è più buono di quelli che posso trovare negli altri supermercati (discount e non) e costa meno di tutti, ergo perché dovrei andare a fare la spesa altrove?

La domanda che spesso si fanno anche i professionisti del settore è come sia possibile mantenere questa promessa guadagnando (un sacco di) soldi.

Senza pensare di avere la verità in tasca, e non chiamandomi (purtroppo) Lorenzo Albrecht, secondo me si possono individuare alcuni fattori riconducibili alla massima efficienza e praticità nella gestione del business, che si traduce anche in efficienza e praticità per le persone che vanno a fare la spesa da ALDI.

Nell’analizzarli mi riferirò alla realtà tedesca, sia perché la conosco meglio, sia perché quella originaria/archetipica. In realtà comunque i punti vendita australiani, inglesi o americani differiscono poco da quelli tedeschi.

 

Posizione e disposizione dei punti vendita.

Come ha detto W. Galen Weston, il manager canadese che negli anni 70 ha preso in mano la gestione della Loblaws, la catena distributiva di famiglia, portandola dall’orlo della bancarotta ad essere una delle aziende di distribuzione di maggior successo di tutto il nord america, la vendita al dettaglio si basa su tre “L”: location, location, location.

I fratelli Albrecht, senza dirlo a nessuno, l’avevano capito prima. I negozi ALDI si trovano all’interno delle città, appena fuori dei centri storici e/o nell’immediata periferia. Sono sostanzialmente dei punti vendita di prossimità facilmente raggiungibili, con un buon spazio per parcheggiare in zono “normali” dal punto di vista commerciale e residenziale, quindi zone dove gli spazi commerciali non sono particolarmente costosi. Soprattutto non richiedono lo sforzo di tempo e stress necessario per andare in un centro commerciale all’estrema periferia cittadina (quando non è nel mezzo del nulla).

I punti vendita ALDI sono tutti sostanzialmente uguali: un parallelepipedo ad un piano livello strada con una superficie di vendita di circa 1.000 m2 (tenete presente che un supermercato va da 400 a 2.500 m2, mentre un ipermercato parte da 2.500 m2, ma la dimensione normale è tra i 4.000 ed i 10.000 m2). 

La sensazione all’interno però è di ampiezza perché le corsie sono create dai pallet espositori che non superano il 1,5 m di altezza circa. Quindi non vi trovate a camminare all’interno di corridoi di scaffali per cui la visuale copre l’intero spazio del punto vendita. Scaffali o esposizioni di prodotto più alti vengono realizzati lungo le pareti perimetrali, senza intralciare la vista dello spazio interno.

La disposizione dei prodotti è sempre la stessa per tutti i punti vendita, quindi in qualsiasi ALDI andiate a fare la spesa non avrete problemi ad orientarvi per trovare quello che cercate.

 

Assortimento.

Da ALDI trovate tutto il necessario e (quasi) niente di superfluo, anche se in realtà il concetto di “necessario vs. superfluo” è espresso meglio dai termini inglese “need vs nice”.

Attenzione che nel necessario ci metto dentro anche la referenza di champagne, che però è una sola, senza alternative o varianti che rappresenterebbero il “nice” o “superfluo”.

Il numero di referenze all’interno di un punto di vendita ALDI è di circa 2.000 mentre nel 2016 mediamente un supermercato in Italia ne aveva 10.923. Per capirsi una referenza corrisponde ad un codice EAN e non al numero di confezioni presenti nel punto vendita; ad esempio la confezione di nutella da 500 g e quella da 250 g sono due referenze diverse, poi a seconda della dimensione del supermercato per ogni referenza ci potranno essere 1,2,3,4, … “facing”, ossia confezioni sul fronte dello scaffale che ne occupano lo spazio lineare.

Nella maggioranza delle categorie merceologiche ALDI offre una sola referenza: una referenza di champagne, una referenza di succo di arancia, una referenza di brioche, ecc..

Inoltre la quasi totalità delle referenze, circa il 90%, è prodotto con un marchio di fantasia di proprietà di ALDI o riservato in esclusiva a loro.

Questa struttura dell’assortimento implica diversi vantaggi:

-          Meno referenze significa meno spazio necessario a magazzino per gestire le scorte e meno spazio necessario sul punto vendita per esporre i prodotti.

-          Meno referenze significa la possibilità di esporre sul punto vendita più confezioni, quindi minor frequenza nel ricaricare gli scaffali, quindi minori costi di personale, ossia più efficienza. Se poi ci aggiungete il fatto che spesso l’esposizione è fatta collocando nel punto vendita direttamente il pallet-espositore l’efficienza del personale aumenta ancora di più.

-          Meno referenze significa più rotazioni per ogni singola referenza: se c’è una sola marca di latte invece di quattro, tutti compreranno quella mentre in un supermercato tradizionale le vendite si divideranno tra le varie opzioni disponibili.

-          Più rotazioni per singola referenza significano maggiori vendite e quindi maggior potere contrattuale da parte dei compratori ai ALDI nei confronti dei fornitori.

-          … ma significano anche maggiori possibilità per i fornitori di sviluppare economie di scale e quindi di poter fornire la stessa qualità a costi/prezzi più bassi.

-          Maggiori vendite significa maggior efficienza nella logistica dei trasporti perché si spediscono quantità maggiori per ogni consegna.

-          Meno referenze significa meno fornitori e quindi maggior efficienza in tutti gli aspetti amministrativi e di gestione.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” rafforza la credibilità dei prodotti presenti nel punto vendita, che viceversa potrebbero essere messi in discussione / sminuiti dal prodotto a marchio industriale.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” differenzia il punto vendita ALDI rispetto alle altre catene di discount e supermercati nella sua totalità: i prodotti che trovo da ALDI non li posso comprare da nessuna altra parte. Indipendentemente dal marchio che ci sarà sulla confezione, le fette biscottate (ad esempio) sono percepite come le “fette biscottate di ALDI”. In questa situazione il marchio ed il packaging perdono quindi la loro funzione differenziante, per limitarsi a quella estetica ed a quella identificativa. Non a caso i prodotti di ALDI hanno tutti una confezione che riprende i codici visivi e di comunicazione della categoria merceologica a cui appartengono.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” permette ad ALDI di mantenere la promessa di prezzi bassi. Un marchio industriale infatti ha sempre anche una componente di valore intangibile che deriva dalla comunicazione e dall’innovazione, componente utile (anche per il consumatore in generale), ma non necessaria. E quindi che esula dallo scopo / promessa di ALDI. Infatti da ALDI non troverete mai un prodotto che rappresenta una novità assoluta per il mercato, però le innovazioni vengono rapidamente adottate nel momento in cui cominciano a prendere piede sul mercato.

 

Politiche promo pubblicitarie.

La strategia di ALDI in Germania praticamente non prevede l’utilizzo della pubblicità, mentre questa è utilizzata nei paesi anglosassoni.

 In termini di politiche di prezzo la politica è quella del “prezzo-basso-tutti-i-giorni”, senza l’utilizzo di campagne di sconti periodiche. Le campagne promozionali riguardano principalmente referenze stagionali e non in assortimento continuativo, inserite temporaneamente per seguire le richieste dei clienti nei vari periodi dell’anno (articoli da giardinaggio in primavera, fuochi artificiali a Capodanno, ecc..)

 

Guadagni assoluti ottenuti attraverso l’applicazione di minori margini unitari su grandi volumi di vendita.

Oltre ai vantaggi nei costi di gestione che derivano dal modello di business adottato, in parte sommariamente descritti sopra, la capacità di ALDI di vendere a prezzi più bassi dei concorrenti deriva da una precisa scelta nel rapporto tra volumi di vendita e margini unitari per ottenere i guadagni in valore assoluto.

 

Qualità intrinseca dei prodotti elevata.

Tutti i fattori competitivi descritti prima verrebbero fortemente ridimensionati, se non annullati, nel caso in cui al basso prezzo corrispondesse una bassa qualità intrinseca dei prodotti offerti.

Infatti il principale pilastro che sostiene il successo di ALDI è indubbiamente la qualità dei prodotti che vende nei propri punti vendita, che oscilla tra eccellente e buona.

Nel processo di selezione dei fornitori ALDI non parte dal prezzo, ma dalla valutazione delle caratteristiche del prodotto. Se queste soddisfano gli standard stabiliti, che verranno controllati costantemente da loro durante tutta la fornitura, allora si passa alla valutazione della capacità di soddisfare i requisiti logistici (perché non basta fare un buon prodotto al prezzo giusto se poi non si è in grado di garantire il servizio di approvvigionamento che ne garantisca la disponibilità nei punti vendita).

Sul prezzo in realtà i fornitori di ALDI discutono poco, nel senso che l’intervallo in cui si può muovere la trattativa è intuibile a priori e dipende dal prezzo a cui il prodotto viene venduto nel punto vendita. Se non si pensa di essere in grado di fornire un determinato livello di qualità del prodotto e del servizio all’interno di quell’intervallo, è meglio lasciar perdere in partenza.

 

Questa visione ed il modo in cui è stata realizzata da oltre cinquant’anni a questa parte hanno fatto di ALDI un “game changer” in tutti i mercati in cui opera. Per questo c’era, e c’è, molta preoccupazione e curiosità per il suo arrivo in Italia.

Io però nel punto vendita di Trieste dell’ALDI che conosco ho trovato poco e non visto molto di così preoccupante. Ma oramai per oggi è tardi e ve lo racconterò dopo Pasqua.

Auguri.

Impressioni di ProWein 2018: day 2 (lunedì).

Sono tornati i russi.

I dati del commercio del vino mostrano che il 2017 ha riportato le importazioni di vino da parte della Russia ai livelli del 2014 e la presenza di molti operatori russi al ProWein lo conferma.

Vero che anche i prezzi che cercano sembrano quelli del 2014 e quelli di una vendemmia scarsa come il 2017, ma questo è un problema a cui si trova sempre una soluzione se c’è la domanda di base.

 

Chiaroscuri organizzativi.

Un’ora per arrivare in fiera con la macchina, il parcheggio P1 è lontanissimo da qualsiasi entrata (e camminare 15 minuti sottozero non è il massimo) e lo staff in fiera non trova un espositore nemmeno dandogli il nome completo e preciso.

Però il guardaroba gratuito è un dettaglio che fa la differenza per noi visitatori senza stand.

 

Qual è sarà la prossima tendenza in tema di etichette?

Dopo l’ondata di animali in etichetta abbiamo avuto quella del minimalismo spinto. Tutte le ricerche sembrano mostrare che per il consumatore il “vino di qualità” è quello che le etichette classiche: disegno della cantina/vigneto, nome del vino annata, grafica e carattere tipografici tradizionali.

Ma, per fortuna, non si consuma solo “vino di qualità”.

Girando per i padiglioni del ProWein una tendenza chiara della direzione in cui sta andando l’immagine delle etichette io non l’ho vista. E  non ho visto nemmeno un’etichetta che mi abbia colpito per il suo “wow effect”.

Se penso a quello che ho visto (soprattutto) nel nuovo mondo vedo parecchi tentativi di fare etichette “esplicite” nella loro comunicazione di una storia, un pensiero o un’emozione.

Riusciranno poi i vini che sono dentro a mantenere le promesse così specifiche fatte dalle bottiglie? Qui sotto un esempio di una viticoltrice della Borgogna che ha chiamato i tre chardonnay ottenuti da parcelle diverse rispettivamente “L’impatiente“, “L’elegante” e “La Voluptuese

20180319_152509Strillare i concetti in etichetta invece di incuriosire e differenziare non rischia forse di ottenere l’effetto contrario?

thumb_54060_default_mediumDubbi legittimi o il segnale dell’avanzare della mia età?

Partendo dalla constatazione che il vino è, diventato (ahimè) un oggetto culturale e pensando a come sono cambiate le copertine dei libri, oggetto culturale per eccellenza, negli ultimi 25 anni probabilmente hanno ragione loro.

 

E per il ProWein 2018 è tutto, anche perchè buona parte del pomeriggio l’ho passato ad approfondire le mie conoscenze di Pinot Bianco dell’Alto Adige, di Champagne, di Borgogna e perfino dei vini del Libano. Ma questa è un’altra storia ….

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Impressioni di ProWein: day 1.

Comparto del prosecco: novità nelle dinamiche competitive del settore.

E’ ufficiale: la Henkell, uno dei principali produttori tedeschi di vini spumanti di proprietà del gruppo Oetker, ha acquisito il 50,67% delle azioni del principale produttore di cava spagnolo, e probabilmente leader mondiale nella produzione di spumante metodo classico, Freixenet (circa 150.000.000 di bottiglie annuali).

L’annuncio è stato dato sabato 17 marzo. Per capirsi il gruppo Oetker è quello che noi in Italia conosciamo come “Cameo”.

In realtà è un po’ più di quello: le varie aziende che appartengono al gruppo, la cui proprietà è ancora famigliare, nel 2017 sommavano 26.000 dipendenti e vendite per 6,1 MILIARDI di euro. Cifre che non comprendono quelli relativi alla società di trasporti marittimi Hamburg Sud, che il Gruppo Oetker ha venduto lo scorso 30 dicembre per 3,7 MILIARDI di euro al gruppo Maersk (quindi non è che abbiano grandi problemi per trovare i 220 milioni di euro che pare abbiano pagato per acquisire la maggioranza di Freixenet).

Per chi non lo sapesse, vale la pena di ricordare che Henkell è anche già proprietaria della cantina italiana Mionetto, uno dei marchi leader nel Prosecco in generale e nella DOCG Conegliano-Valdobbiadene in particolare, e che Freixenet dall’anno scorso commercializza con il proprio marchio Prosecco DOC e DOCG Conegliano-Valdobbiadene che si fa produrre dal gruppo cooperativo “La Marca” di Oderzo, di gran lunga il primo produttore di prosecco DOC.

Per concludere il quadro conviene aggiungere che i volumi di vendita sviluppati dal Prosecco DOC Freixenet non sembra siano stati molto elevati (per il tipo di aziende di cui parliamo ovviamente), anche in seguito al posizionamento elevato dato all’immagine ed al prezzo del vino.

Cosa succederà in futuro riguardo al Prosecco DOC nelle dinamiche tra Freixenet, Mionetto e La Marca non è dato di sapere. Quello che è certo è che le dinamiche del comparto sempre di più seguiranno logiche che esulano dalla realtà del territorio in cui il Prosecco è nato e si è sviluppato, fino a diventare il successo mondiale che è oggi.

Intanto Freixenet a questo ProWein nel suo stand mostra solamente le bottiglie del Prosecco DOC e DOCG Conegliano Valdobbiadene, come l’anno scorso, con l’aggiunta del “Rosato Italiano”. Quindi non uno spumante rosè generico (il Cava rosè l’avevano già), ma uno spumante specificatamente italiano, con un’immagine allineata a quella dei Prosecchi.

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A dare un’idea dell’internazionalità che oramai caratterizza il Gruppo Freixenet i tre pannelli luminosi che decorano lo stand mostrano un vino fermo francese, i due cava “storici” ed il nuovo spumante rosato italiano.

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Comparto del Prosecco (ancora): una nuova tendenza rinnoverà l’immagine del prodotto?

Tra le tante cose che ha caratterizzato e distinto in questi anni il prosecco rispetto agli altri spumanti c’è l’immagine originale delle bottiglie proposta da molte cantine rispetto ai classici spumanti esistenti. Difficile pensare che questa scelta condivisa, o su cui si è allineato, tutto il comparto non abbia giocato un ruolo nel successo degli ultimi 10 anni.

Bottiglie più informali, moderne, dinamiche rispetto alla classica bottiglia da spumante / champagne hanno giocato un ruolo chiave nel posizionare il prosecco come lo spumante nuovo, originale, di qualità ma “rilassato” rispetto agli altri concorrenti più “ingessati”.

Senza perdersi in troppi esempi basta ricordare la bottiglia cosiddetta “Collio” usata per moltissimi Prosecchi, a partire da quelli più economici, che si contraddistingue per forme più arrotondate, minore altezza. Diciamo più simpatia e meno “importanza”.

Da qualche anno a questa l’evoluzione delle bottiglie di prosecco, poi estesasi anche ad altre bollicine italiane, è stata quella di proporre bottiglie più basse e panciute, come ad esempio la bottiglia “Atmosphere”.

Nell’ultimo paio d’anni alcune cantine si sono spostate verso bottiglie più “magre”, senza per questo essere slanciate. Potremmo dire bottiglie che sembrano più da vino fermo (o ancora di più da birra artigianale) piuttosto che da spumante. Ad esempio Bisol, Merotto, Santa Margherita.

Aver trovato oggi Viticoltori Ponte con una bottiglia di questo stile mi fa pensare ad una tendenza che si sta diffondendo. La mancanza del capsulone non è dovuta ad una scelta di immagine ma semplicemente al fatto che non sono arrivati in tempo per l’imbottigliamento per la fiera.

A me però il dubbio che siano più “belle” così rimane (ho messo “belle” tra virgolette perché non ho né intenzione né tempo per spiegare qui il concetto di bello in termini di marketing). Voi cosa ne pensate?

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Venezia è un concetto già usurato da milioni di turisti, vale davvero la pena di utilizzarlo così tanto.

Prima lezione del corso di addestramento dei cani: non ripetete più di 4 volte il comando senza che il cane ubbidisca, altrimenti lo “bruciate”. Alla quinta volta dovete fisicamente far fare al cane quello che avete chiesto in modo che lo associ alla parola. (tutto questo è spiegato meglio nella serie di post “Gestione del personale ed etologia” che trovate in questo blog).

Ora “Venezia” è già un concetto usurato in generale, temo che anche in ambito vinicolo il suo abuso lo stia svalutando (le foto qui sotto sono solo un esempio, tra i vari utilizzi di Venezia nella comunicazione del vino ricordo la campagne Ferrari di un paio di anni fa)

Non mi metto qui a discutere il “diritto” o meno di utilizzarlo da parte delle diverse cantine e consorzi situati in tutto il triveneto, mi pongo più banalmente un dubbio sulla sua efficacia, soprattutto quando non viene contestualizzata in una declinazione. E se cominciassero ad utilizzarlo anche in Istria e Dalmazia, storicamente tanto, o forse più, veneziane di gran parte del triveneto?

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Una, cento, mille Italia.

Il proliferare di aree espositive collettive diverse riunite da diverse espressioni del concetto “vino italiano”, non è nuova, ma giova ripeterlo e ricordarlo perché il risultato è che si annullano a vicenda e quindi un’area espositiva a rappresentare il vino italiano nella sua globalità non c’è e non può esserci.

Tra l’altro con due padiglioni in cui sono presenti solo cantine italiane non è che un logo tricolore sia particolarmente differenziante.

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Non è che l’organizzazione tedesca sia sempre perfetta.

Credo che il mio primo post di analisi e confronto tra Vinitaly e ProWein sia del 2013 o 2014.

Questa che vedete in foto è la coda per comprare il ghiaccio al padiglione italiano alle 10:28 di oggi. Le bestemmie degli espositori non potete sentirle ma le potete immaginare.

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Se domani avrò altre impressioni scrivo la seconda puntata, altrimenti vorrà dire che non c’è stato altro che mi ha colpito.

 

“Che cos’è la psichiatria” dovrebbe essere lettura obbligatoria in tutti i corsi di gestione aziendale.

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Oggi un post breve perché sarete tutti a guardare i risultati delle elezioni.

Ho finito di leggere “Che cos’è la psichiatria” a cura di Franco Basaglia, Baldini e Castoldi, 1997.

In realtà questa è una ri-edizione con prefazione di Franca Ongaro Basaglia del volume uscito nel 1967 a cura dell’Amministrazione Provinciale di Parma (da cui al tempo dipendevano gli Ospedali Psichiatrici).

Si tratta di un libro che raccoglie alcuni saggi sulla situazione della psichiatria e dell’istituzione “ospedale psichiatrico” ed alcuni verbali / stralci delle assemblee di comunità dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, dove Basagli nel 1961 cominciò a mettere in pratica le sue teorie ed il suo approccio, trasferite poi nella più famosa esperienza dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste. Esperienze sfociate poi nella legge 180 del 1978 che riformava l’assistenza psichiatrica (gli specialisti del tema mi perdoneranno le semplificazioni).

E’ un testo che oramai si trova solo nelle biblioteche e non in commercio. Ed è un peccato perché secondo me dovrebbe essere un testo obbligatorio in tutti i corsi di gestione aziendale, in special modo negli MBA (Master in Business Administration) per quello che permette di imparare su leadershi, gestione delle organizzazioni, gestione dei gruppi ed empowerment dei collobaratori / persone.

Cito solo il fatto che in Ospedale Psichiatrico Basaglia non indossava il camice e che nelle assemblee di comunità al tavolo di presidenza sedevano 3 degenti: un presidente, una presidente ed un/a segretario/a. Queste cariche venivano votate dall”assemblea a cui partecipavano i degenti ed il personale dell’ospedale e duravano normalmente una settimana (ma potevano essere prolungate nel caso ci fossero da gestire questioni di complessità e durata tale da richiederlo, sempre con votazione ovviamente).

Altro che von Clausewitz o Sun Tzu.

Questa la parte professionale.

Permettetemi anche una considerazione di carattere più personale: è stupefacente come leggendo il libro di Basaglia ci si rendi conto come la spersonalizzazione sia ancora oggi la base dell’organizzazione dell’istituzione ospedaliera (intendo quella “normale”, non quella psichiatrica).

Ovviamente non ai livelli dei manicomi degli anni ’60 del secolo scorso con i malati legati al letto o agli alberi, tranquillizzati attraverso tecniche di soffocamento, curati con elettroshock e lobotomie.

Però l’impostazione è che l’efficienza dell’ospedale sarà maggiore quanto più i ricoverati non si comportino da individui senzienti, ma siano ubbidienti/sottomessi. “Pazienti” nel senso più completo del termine.

In modo particolare se si tratta di pazienti anziani.

La settimana prossima devo restituire il libro alla biblioteca, ma spero di riuscire ad acquistarlo prima o poi perché è uno di quei libri che mi piacerebbe avere in casa.