Finalmente ho capito perché la Grande Distribuzione Organizzata fatica a creare valore (differenziante) per i propri clienti.

Io la GDO (Grande Distribuzione Organizzata) la frequento, ovviamente, da cliente/consumatore e l’ho frequentata da fornitore. Ho avuto colleghi e collaboratori che avevano lavorato come buyers per catene di livello nazionale, ma personalmente non sono mai stato “dall’altra parte della scrivania”.

Da esperto di marketing mi è sempre sembrato che le strategie della GDO del largo consumo (super ed iper mercati per capirsi), fossero sempre piuttosto nel targettizare, differenziare e qualificare la proposta rispetto alle insegne concorrenti.

Quando assistevo o conducevo trattative come fornitore rimanevo sempre un po’ stupito dalla comune impostazione tipo suk (senza però la gentilezza dei mercanti arabi) perché mi è sempre sembrata una logica che IMPEDISCE di lavorare per migliorare il business, tanto del fornitore come dell’insegna cliente.

Ovviamente secondo il mio connaturato approccio di marketing il miglioramento del business si ottiene attraverso la creazione di valore per le persone (consumatori).

Non è caso che il periodo in cui rapportarsi con la GDO mi è sembrato più proficuo, e sicuramente più divertente, è stato quando negli uffici acquisti delle catene ai category manager è stato dato maggior peso rispetto ai buyers nelle trattative con i fornitori.

Si è trattato però di un periodo di breve durata, 2 o 3 anni al massimo, dopodichè si è tornati a discutere solo di listini, sconti promozionali, premi di fine anno, listing e tutti i vari giochi delle tre carte ancora in uso nelle trattative di vendita.

Immagino che sia stato perché l’approccio di trattativa più o meno dura risultava più redditizio in termini di conto economico.

Di quegli anni mi ricordo una frase dettami da un buyer “Biscontin, io ho il dovere professionale di spremerla il più possibile perché in questo modo raggiungo due obiettivi: ottengo le migliori condizioni di acquisto possibili per me e riduco la sua capacità di dare le stesse condizioni (se non migliori) ai miei concorrenti.”

Non faceva una piega, come non la faceva il mio dovere professionale di trattare tutti i clienti allo stesso modo (che significa anche offrire condizioni migliori sulla base dei volumi di acquisto) non solo per una questione etica, ma anche per il concreto rischio che il cliente che scopre di essere stato trattato peggio decida di cambiare fornitore.

Poi l’altro giorno ho avuto un’illuminazione quando ho sentito per caso un vecchio amico che ha lavorato molti anni per insegne della GDO, enunciare un principio fondamentale della gestione delle insegne distributive:

“Con gli acquisti fai il margine, con le vendite fai il fatturato”

Immediatamente ho pensato “Dov’è il valore per clienti del supermercato in questa equazione?”.

E’ un mese che ci penso, ma non lo trovo.

Se parlassimo di un’azienda manifatturiera sarebbe come operare secondo il concetto di produzione. Traduco dalla mia edizione (canadese) di Marketing Management di Kotler:

“Il concetto di produzione sostiene che i consumatori favoriranno quei prodotti che sono ampiamente disponibili e di basso costo. I managers delle aziende orientate alla produzione si concentrano nel raggiungere alta efficienza produttiva ed ampia copertura distributiva.”

Da notare che nello sviluppo dei concetti di orientamento dell’impresa al mercato, quello di produzione è quello “primordiale”, a cui sono seguiti poi quello di prodotto, quello di vendita e quello di marketing, man mano che il concetto precedente entrava in crisi. Ossia non era più in grado di creare vantaggi competitivi per l’azienda .

Attenzione non significa che il concetto di successivo sostituisca il precedente (ad esempio quello di prodotto sostituisca quello di produzione), ma che il successivo si AGGIUNGE al precedente. Per cui in seguito all’attività delle aziende concorrenti le strategie legate al concetto di produzione da PLUS diventano un MUST (o conditio sine qua non, se preferite continuare con il latino), mentre quelle legate al concetto di prodotto sono il nuovo PLUS. E così via.

Visto con gli occhi degli economisti aziendali, il concetto di produzione del Kotler, somiglia al concetto di leadership dei costi sviluppato da Michael Porter.

Il punto però è che per un’insegna della GDO la leadership dei costi non si ottiene tanto con le trattative di acquisto dei prodotti in vendita, visto che i fornitori cercheranno di mantenere condizioni equivalenti per i vari clienti, quanto piuttosto lavorando sui costi della struttura e del funzionamento dell’organizzazione.

Che è esattamente quello che permette alle catene di discount di marginare bene, pur vendendo a prezzi più bassi rispetto a super ed ipermercati (non ho visto dati recenti, ma qualche anno fa la reddività per metro quadrato dei punti vendita Eurospin era seconda solo a quella di Esselunga).

D’altra parte operare con il concetto “gli acquisti fanno il margine, le vendite fanno il fatturato” implica non targettizzare e non innovare in termini di assortimenti, layout, arredi, promozioni, ecc…

Non voglio dilungarmi in considerazioni operative su un settore che conosco di riflesso e quindi lascio a voi le considerazioni implicite nel concetto, magari partendo da questo esempio: le catene della GDO disponevano dei dati relativi ai comportamenti d’acquisto dei titolari delle loro carte fedeltà molto prima che esistesse Amazon, ma invece di realizzare comunicazioni e promozioni mirate hanno continuato (e continuano) a riempire le cassette della posta di tutti indistintamente con gli stessi volantini (e quindi parlano TUTTE sostanzialmente solo di prezzo).

Sono andato a fare la spesa da ALDI ed è stata una delusione.

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Nelle scorse settimane la catena tedesca di discount ALDI ha aperto i primi punti vendita in Italia. In realtà erano anni che si parlava dell’arrivo di ALDI in Italia, ma questa veniva sempre rimandata per la valutazione dell’azienda tedesca rispetto all’attrattività del mercato italiano, considerato troppo complesso per riuscire ad applicare con successo il proprio modello di business.

Ma qual è il modello di business di ALDI? Pur non avendoci mai lavorato dentro, credo di poter dire che si tratta di una catena distributiva che conosco abbastanza bene, per averla frequentata come consumatore prima (ogni viaggio in Germania di lavoro o di piacere prevedeva almeno una spesa da ALDI per vedere cosa si erano “inventati” di nuovo) sia perché per diversi anni sono stato un loro fornitore in Germania.

Detto in sintesi ALDI è l’insegna che negli anni ’60 del secolo scorso ha inventato e realizzato il concetto di hard discount. Il nome ALDI è la crasi di ALbrecht (cognome dei due fratelli che la fondarono rilevando l’attività fondata dalla madre nel 1913) e DIscount.

L’azienda è ancora di proprietà dei discendenti dei due fratelli Karl e Theo Albrecht ed è una delle più grandi aziende della distribuzione a livello mondiale, presente in 18 nazioni.

La proposta di base di ALDI è quella di offrire ai clienti prodotti di qualità medio-alta al prezzo più basso del mercato. Uno dei tanti esempi per esperienza personale: il succo d’arancia di ALDI è più buono di quelli che posso trovare negli altri supermercati (discount e non) e costa meno di tutti, ergo perché dovrei andare a fare la spesa altrove?

La domanda che spesso si fanno anche i professionisti del settore è come sia possibile mantenere questa promessa guadagnando (un sacco di) soldi.

Senza pensare di avere la verità in tasca, e non chiamandomi (purtroppo) Lorenzo Albrecht, secondo me si possono individuare alcuni fattori riconducibili alla massima efficienza e praticità nella gestione del business, che si traduce anche in efficienza e praticità per le persone che vanno a fare la spesa da ALDI.

Nell’analizzarli mi riferirò alla realtà tedesca, sia perché la conosco meglio, sia perché quella originaria/archetipica. In realtà comunque i punti vendita australiani, inglesi o americani differiscono poco da quelli tedeschi.

 

Posizione e disposizione dei punti vendita.

Come ha detto W. Galen Weston, il manager canadese che negli anni 70 ha preso in mano la gestione della Loblaws, la catena distributiva di famiglia, portandola dall’orlo della bancarotta ad essere una delle aziende di distribuzione di maggior successo di tutto il nord america, la vendita al dettaglio si basa su tre “L”: location, location, location.

I fratelli Albrecht, senza dirlo a nessuno, l’avevano capito prima. I negozi ALDI si trovano all’interno delle città, appena fuori dei centri storici e/o nell’immediata periferia. Sono sostanzialmente dei punti vendita di prossimità facilmente raggiungibili, con un buon spazio per parcheggiare in zono “normali” dal punto di vista commerciale e residenziale, quindi zone dove gli spazi commerciali non sono particolarmente costosi. Soprattutto non richiedono lo sforzo di tempo e stress necessario per andare in un centro commerciale all’estrema periferia cittadina (quando non è nel mezzo del nulla).

I punti vendita ALDI sono tutti sostanzialmente uguali: un parallelepipedo ad un piano livello strada con una superficie di vendita di circa 1.000 m2 (tenete presente che un supermercato va da 400 a 2.500 m2, mentre un ipermercato parte da 2.500 m2, ma la dimensione normale è tra i 4.000 ed i 10.000 m2). 

La sensazione all’interno però è di ampiezza perché le corsie sono create dai pallet espositori che non superano il 1,5 m di altezza circa. Quindi non vi trovate a camminare all’interno di corridoi di scaffali per cui la visuale copre l’intero spazio del punto vendita. Scaffali o esposizioni di prodotto più alti vengono realizzati lungo le pareti perimetrali, senza intralciare la vista dello spazio interno.

La disposizione dei prodotti è sempre la stessa per tutti i punti vendita, quindi in qualsiasi ALDI andiate a fare la spesa non avrete problemi ad orientarvi per trovare quello che cercate.

 

Assortimento.

Da ALDI trovate tutto il necessario e (quasi) niente di superfluo, anche se in realtà il concetto di “necessario vs. superfluo” è espresso meglio dai termini inglese “need vs nice”.

Attenzione che nel necessario ci metto dentro anche la referenza di champagne, che però è una sola, senza alternative o varianti che rappresenterebbero il “nice” o “superfluo”.

Il numero di referenze all’interno di un punto di vendita ALDI è di circa 2.000 mentre nel 2016 mediamente un supermercato in Italia ne aveva 10.923. Per capirsi una referenza corrisponde ad un codice EAN e non al numero di confezioni presenti nel punto vendita; ad esempio la confezione di nutella da 500 g e quella da 250 g sono due referenze diverse, poi a seconda della dimensione del supermercato per ogni referenza ci potranno essere 1,2,3,4, … “facing”, ossia confezioni sul fronte dello scaffale che ne occupano lo spazio lineare.

Nella maggioranza delle categorie merceologiche ALDI offre una sola referenza: una referenza di champagne, una referenza di succo di arancia, una referenza di brioche, ecc..

Inoltre la quasi totalità delle referenze, circa il 90%, è prodotto con un marchio di fantasia di proprietà di ALDI o riservato in esclusiva a loro.

Questa struttura dell’assortimento implica diversi vantaggi:

-          Meno referenze significa meno spazio necessario a magazzino per gestire le scorte e meno spazio necessario sul punto vendita per esporre i prodotti.

-          Meno referenze significa la possibilità di esporre sul punto vendita più confezioni, quindi minor frequenza nel ricaricare gli scaffali, quindi minori costi di personale, ossia più efficienza. Se poi ci aggiungete il fatto che spesso l’esposizione è fatta collocando nel punto vendita direttamente il pallet-espositore l’efficienza del personale aumenta ancora di più.

-          Meno referenze significa più rotazioni per ogni singola referenza: se c’è una sola marca di latte invece di quattro, tutti compreranno quella mentre in un supermercato tradizionale le vendite si divideranno tra le varie opzioni disponibili.

-          Più rotazioni per singola referenza significano maggiori vendite e quindi maggior potere contrattuale da parte dei compratori ai ALDI nei confronti dei fornitori.

-          … ma significano anche maggiori possibilità per i fornitori di sviluppare economie di scale e quindi di poter fornire la stessa qualità a costi/prezzi più bassi.

-          Maggiori vendite significa maggior efficienza nella logistica dei trasporti perché si spediscono quantità maggiori per ogni consegna.

-          Meno referenze significa meno fornitori e quindi maggior efficienza in tutti gli aspetti amministrativi e di gestione.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” rafforza la credibilità dei prodotti presenti nel punto vendita, che viceversa potrebbero essere messi in discussione / sminuiti dal prodotto a marchio industriale.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” differenzia il punto vendita ALDI rispetto alle altre catene di discount e supermercati nella sua totalità: i prodotti che trovo da ALDI non li posso comprare da nessuna altra parte. Indipendentemente dal marchio che ci sarà sulla confezione, le fette biscottate (ad esempio) sono percepite come le “fette biscottate di ALDI”. In questa situazione il marchio ed il packaging perdono quindi la loro funzione differenziante, per limitarsi a quella estetica ed a quella identificativa. Non a caso i prodotti di ALDI hanno tutti una confezione che riprende i codici visivi e di comunicazione della categoria merceologica a cui appartengono.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” permette ad ALDI di mantenere la promessa di prezzi bassi. Un marchio industriale infatti ha sempre anche una componente di valore intangibile che deriva dalla comunicazione e dall’innovazione, componente utile (anche per il consumatore in generale), ma non necessaria. E quindi che esula dallo scopo / promessa di ALDI. Infatti da ALDI non troverete mai un prodotto che rappresenta una novità assoluta per il mercato, però le innovazioni vengono rapidamente adottate nel momento in cui cominciano a prendere piede sul mercato.

 

Politiche promo pubblicitarie.

La strategia di ALDI in Germania praticamente non prevede l’utilizzo della pubblicità, mentre questa è utilizzata nei paesi anglosassoni.

 In termini di politiche di prezzo la politica è quella del “prezzo-basso-tutti-i-giorni”, senza l’utilizzo di campagne di sconti periodiche. Le campagne promozionali riguardano principalmente referenze stagionali e non in assortimento continuativo, inserite temporaneamente per seguire le richieste dei clienti nei vari periodi dell’anno (articoli da giardinaggio in primavera, fuochi artificiali a Capodanno, ecc..)

 

Guadagni assoluti ottenuti attraverso l’applicazione di minori margini unitari su grandi volumi di vendita.

Oltre ai vantaggi nei costi di gestione che derivano dal modello di business adottato, in parte sommariamente descritti sopra, la capacità di ALDI di vendere a prezzi più bassi dei concorrenti deriva da una precisa scelta nel rapporto tra volumi di vendita e margini unitari per ottenere i guadagni in valore assoluto.

 

Qualità intrinseca dei prodotti elevata.

Tutti i fattori competitivi descritti prima verrebbero fortemente ridimensionati, se non annullati, nel caso in cui al basso prezzo corrispondesse una bassa qualità intrinseca dei prodotti offerti.

Infatti il principale pilastro che sostiene il successo di ALDI è indubbiamente la qualità dei prodotti che vende nei propri punti vendita, che oscilla tra eccellente e buona.

Nel processo di selezione dei fornitori ALDI non parte dal prezzo, ma dalla valutazione delle caratteristiche del prodotto. Se queste soddisfano gli standard stabiliti, che verranno controllati costantemente da loro durante tutta la fornitura, allora si passa alla valutazione della capacità di soddisfare i requisiti logistici (perché non basta fare un buon prodotto al prezzo giusto se poi non si è in grado di garantire il servizio di approvvigionamento che ne garantisca la disponibilità nei punti vendita).

Sul prezzo in realtà i fornitori di ALDI discutono poco, nel senso che l’intervallo in cui si può muovere la trattativa è intuibile a priori e dipende dal prezzo a cui il prodotto viene venduto nel punto vendita. Se non si pensa di essere in grado di fornire un determinato livello di qualità del prodotto e del servizio all’interno di quell’intervallo, è meglio lasciar perdere in partenza.

 

Questa visione ed il modo in cui è stata realizzata da oltre cinquant’anni a questa parte hanno fatto di ALDI un “game changer” in tutti i mercati in cui opera. Per questo c’era, e c’è, molta preoccupazione e curiosità per il suo arrivo in Italia.

Io però nel punto vendita di Trieste dell’ALDI che conosco ho trovato poco e non visto molto di così preoccupante. Ma oramai per oggi è tardi e ve lo racconterò dopo Pasqua.

Auguri.

(bando alle ciance) La questione dei sacchetti di plastica vista secondo l’approccio di marketing.

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Come primo post del 2018 avevo in mentre due argomenti diversi, però da quando il 4 gennaio sono rientrato in Italia l’argomento “sacchetti di plastica” mi ha sopraffatto.
All’inizio l’ho sostanzialmente ignorato, anche per l’oggettivo ridotto peso economico della questione, però poi la quantità di spazio che continua ad occupare su tutti i mezzi di comunicazione (formali ed informali, digitali ed analogici) gli conferisce un indubbio peso sociale.
Quindi mi è venuta voglia di approfondire tutte le mezze informazioni, nessuna risolutiva o completamente esatta, per cui spesso contrastanti tra loro, in cui mi sono imbattuto, anche perché giovedì sono andato a fare la spesa. Ho potuto così osservare quali potrebbero essere i cambiamenti nei comportamenti di vendita e di acquisto indotti dalla nuova legge e le relative opportunità e minacce sui diversi mercati.
Quella che segue quindi è un’analisi della situazione secondo un approccio (integrato, ovviamente) di marketing, libera da valutazioni politiche e/o demagogiche.
Per facilitarne l’esecuzione e la comprensione l’ho divisa in 3 parti: definizione del quadro normativo, analisi dei possibili/probabili cambiamenti dei comportamenti di mercato, brevi considerazioni sulla comunicazione politica. La parte principale è la seconda, ma non si poteva svolgere senza la prima, perché la legislazione definisce i confini entro cui ci si può muovere. La terza non sarebbe necessaria ai fini dello scopo di questo post, però deriva direttamente dalla seconda e, già che c’ero, mi sembrava un peccato “buttarla via”.

Il quadro normativo.
Alla luce delle informazioni parziali e contradditorie relativamente al quadro normativo che trovavo sui vari mezzi di informazione a cui accennavo in precedenza, sono andato alla fonte e mi sono letto tutti provvedimenti coinvolti (grazie internet per permettere di trovarli e di spulciarli senza doverli stampare: più comodo e più ecologico). Nel testo trovate tutti i link.
La legge 123 del 03-08-17 che prevede che dal primo gennaio 2018 non possano più essere utilizzate buste di plastica con meno del 40% di materia prima rinnovabile (percentuale che salirà progressivamente fino al 60% dal 1° gennaio 2021), ottempera a quanto previsto dalla Direttiva UE 2015/70 che a sua volta modificava la Direttiva 94/62/CE per quanto riguarda la riduzione dell’utilizzo di borse in plastica in materiale leggero (definito come quello con spessore inferiore ai 50 micron).
La legge 123 a sua volta è la conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91 recante disposizioni urgenti per la crescita economica del Mezzogiorno. Se vi chiedete cosa diavolo c’entrino le borse in plastica con le “disposizioni urgenti per la crescita economica del Mezzogiorno”, la risposta è niente. Si tratta dell’ennesima dimostrazione di quanto le leggi italiane sia scritte male sia come impianto strutturale sia come redazione. Un giurista mi ha detto che il problema è noto, la sua soluzione è costantemente all’ordine del giorno, ma non se ne esce probabilmente perché deriva dai regolamenti parlamentari. E’ un problema non da poco, ma ha poco a vedere con l’argomento di questo post e quindi lo lascio perdere.
In realtà il DL 20-06-17 n.91 riguardo ai sacchetti di plastica non dice sostanzialmente niente. Li tratta all’articolo 9, che consta di un solo comma. E’ talmente breve che vale la pena di riportarlo integralmente:

Art. 9

Misure urgenti ambientali in materia di classificazione dei rifiuti

1. I numeri da 1 a 7 della parte premessa all’introduzione
dell’allegato D alla parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006,
n. 152, sono sostituiti dal seguente: «1. La classificazione dei
rifiuti e’ effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente
codice CER ed applicando le disposizioni contenute nella decisione
2014/955/UE e nel regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione,
del 18 dicembre 2014».

La legge 123 del 03-08-17 conferma quanto sopra (con una minima modifica formale) ed aggiunge l’articolo 9-bis che, nei suoi numerosi commi, disciplina la commercializzazione delle borse di plastica in materiale leggero ed ultraleggero (definito come quello con spessore inferiore ai 15 micron), sua con disposizioni ex-novo che modificando articoli del Capo V del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia ambientale”.
Fatto un minimo di ordine nell’intrico dei provvedimenti che si riferiscono alla questione (prometto che non ne ti tiro fuori altri), andiamo a vedere le cose salienti che dicono partendo dalla Direttiva UE 2015/70. Vale la pena spiegare per i meno avvezzi alla legislazione comunitaria che la Direttiva è un provvedimento con cui la UE sostanzialmente definisce un obiettivo, lasciando ampia libertà agli Stati Membri su come raggiungerlo (viceversa il Regolamento Comunitario è un provvedimento legislativo che dice a tutti gli Stati Membri quello che devono fare con limitata, o nulla, libertà riguardo alle modalità di recepimento).
In altre parole si sapeva che “ce l’ha chiesto l’Europa” era probabilmente una bugia senza nemmeno leggere la Direttiva (che poi è solo di 5 pagine e quindi si legge anche in fretta).
La Direttiva comunque contiene ovviamente cose importanti. Secondo me il principio più importante è quello enunciato al punto 9 delle considerazioni iniziali (il grassetto è mio):
“Inoltre, è provato che le informazioni ai consumatori svolgono un ruolo decisivo nel raggiungimento degli obiettivi di riduzione dell’utilizzo di borse di plastica. Pertanto, è necessario impegnarsi a livello istituzionale per aumentare la consapevolezza del pubblico in merito agli impatti sull’ambiente delle borse di plastica e liberarsi dall’idea ancora diffusa che la plastica sia un materiale innocuo e poco costoso“.
A cui aggiungerei subito dopo il punto 15 delle considerazioni iniziali:
“I programmi di sensibilizzazione per i consumatori in generale e i programmi educativi per i bambini possono svolgere un ruolo importante nella riduzione dell’utilizzo di borse di plastica.”
Dal punto di vista operativo invece la cosa più importante contenuta dalla Direttiva è che lascia libertà agli Stati Membri sulle misure da adottare per raggiungere una riduzione sostenuta dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero. Queste misure però devono includere una delle seguenti opzioni, oppure entrambe (copie e incollo, il grassetto come sempre è mio):
“Le misure adottate dagli Stati membri includono l’una o l’altra delle seguente opzioni o entrambe:
a) adozione di misure atte ad assicurare che il livello di utilizzo annuale non superi 90 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre 2019 e 40 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre 2025 o obiettivi equivalenti in peso. Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse dagli obiettivi di utilizzo nazionali;
b) adozione di strumenti atti ad assicurare che, entro il 31 dicembre 2018, le borse di plastica in materiale leggero non siano fornite gratuitamente nei punti vendita di merci o prodotti, salvo che siano attuati altri strumenti di pari efficacia. Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse da tali misure“.
Come vedete viene esplicitato che le borse in plastica in materiale ultraleggero, quelle usate per frutta e verdura per capirsi, possono essere escluse dalle misure di riduzione dell’utilizzo di borse in plastica (i più attenti di voi l’avevano già capito dal fatto che la norma si riferisce sempre alla “borse in plastica di materiale leggero”. Per di più la direttiva richiede che il pagamento delle borse in plastica venga fatto entro il 31 dicembre 2018.
Quindi è stato il Parlamento Italiano a decidere di far pagare anche le borse in plastica di materiale ultraleggero e di farle pagare dal 1 gennaio 2018 e non, per esempio dal 30 dicembre 2018.
Chiarisco subito che io sono personalmente d’accordissimo con questa decisione.
L’altra considerazione è che tutto il can-can che si sta facendo in questi giorni su giornali e social è in ritardo 5 mesi, perché il 3 di agosto 2017 si sapeva già che dal 1 gennaio 2018 tutte le borse di plastica avrebbero dovuto avere almeno il 40% di materia prima rinnovabile e sarebbero stati a pagamento. Il che ha come corollario una certa disonestà intellettuale da parte delle forze sociali (partiti politici e non solo) che oggi si stracciano le vesti.

Opportunità e minacce del nuovo quadro di mercato.
Secondo quanto riporta un articolo del mensile della Coop “Con: consumatori e responsabilità”, in Italia venivano utilizzati attualmente 8.000.000.000 di sacchetti di polietilene ultraleggeri all’anno.
Considerando un prezzo di vendita medio di 0,03 euro (sto largo), significa un maggior fatturato da parte della distribuzione alimentare piccola e grande (soprattutto) di 240.000.000 di euro. Quindi maggiori introiti dello stato tramite l’IVA di 52.800.000 euro. Un po’ pochi rispetto al bilancio dello stato per pensare che l’obiettivo principale della scelta del Governo sia stata quella di fare cassa (per dare un’idea il debito del Comune di Roma è di 17.000.000.000 di euro).
Per le entrate delle tasse sul reddito d’impresa è difficile fare delle previsioni perché dipendono dall’effettivo aumento dei guadagni da parte delle aziende del dettaglio alimentare. Se il prezzo di cessione dei nuovi sacchetti corrisponde alla differenza di costo tra quelli vecchi e quelli nuovi non ci sarà aumento del reddito d’impresa, se invece il prezzo di cessione supera questa differenza ci sarà un aumento dei guadagni mentre se le aziende distributive decidono di investire e vendono i nuovi sacchetti ad un prezzo che non copre la differenza di costo rispetto ai vecchi, il reddito d’impresa diminuirà e di conseguenza anche le tasse pagate dalle aziende. Il tutto ovviamente in una situazione di ceteris paribus, ossia con le tutte le altre variabili immutate.
In sintesi comunque le cifre in gioco sono piccole sia a livello unitario, 0,02 / 0,03 euro a sacchetto – 5 / 10 euro a famiglia all’anno, che a livello complessivo.
Più significativi invece appaiono i cambiamenti nei comportamenti di vendita e di acquisto ed ancora di più le opportunità strategiche per le catene della GDO, che al momento paiono essersi limitate a soddisfare i requisiti minimi di legge.
In termini del comportamento del consumatore bisogna tenere conto della combinazione di due fattori.
Da una parte l’imposizione di far pagare i sacchetti di plastica ultraleggeri sembra sia stata vissuta da ampie fasce di popolazione come un balzello (quanto questo sia stata spontaneo e quanto alimentato da strategie politiche populiste e demagogiche, qui poco importa) mentre dall’altra è noto, provato, consolidato e generalizzato l’interesse delle persone nei confronti dell’ambiente se questo non comporta (eccessivi) costi monetari o “comportamentali”.
Per questo quindi dubito fortemente che il pagamento dei sacchetti per frutta e verdura sposti gli acquisti delle persone sui prodotti cosiddetti di IV gamma, ossia l’ortofrutta già preparata per il consumo e confezionata in buste di plastica, come hanno suggerito alcuni esperti.
Osservando le persone al supermercato ho notato piuttosto un interesse per la frutta e verdura fresca già confezionata in rete di plastica e per quella venduta a cassetta intera.
Se io fossi il Direttore Marketing di una catena della GDO osserverei con attenzione il dato del peso medio dell’acquisto per atto di acquisto per vedere se cresce e quello della frequenza di acquisto per vedere se cala. Nel caso in cui crescesse il primo e rimanesse invariato il secondo significherebbe che le persone stanno comprando più frutta e verdura. Se ne stanno anche mangiando di più dipende da quanta ne buttano via (spero nell’umido) perché è andata a male.
Farei anche un’altra cosa: comincerei ad inserire nell’assortimento frutta e verdura fresca confezionata in rete in formati più piccoli di quelli attuali e vedere come ruotano. Oltre ad offrire al consumatore il vantaggio di una confezione più ecologica (meno plastica) e che a lui non costa, miglioro tutta l’organizzazione del reparto riducendo l’utilizzo delle bilance (tempo per pesare, inceppamenti, manutenzione, sostituzione rotoli etichette) e le conseguenti perdite di tempo alle casse (sacchetti non pesati e prezzati, codici EAN illeggibili). In sintesi fornisco più valore ai consumatori ed abbasso i miei costi: meglio di così, impossibile.
Queste le prime due cose che mi vengono in mente e che si possono realizzare da subito.
Il comportamento del consumatore però apre prospettive su cui potrebbe essere interessante investire, sia per fidelizzare gli attuali che per attirarne di nuovi.
In questo senso l’avviso nel supermercato Coop della foto che apre questo post è deludente da tutti i punti di vista.
E’ deludente la forma: un foglio A4 stampato al computer ed attaccato con il nastro adesivo. Si poteva fare di meglio su un argomento al quale le persone stanno dando così tanta attenzione e che quindi diventa un’opportunità di comunicazione rilevante.
E’ deludente nel contenuto: COOP semplicemente si adegua alla normativa e comunica che il prezzo di 2 centesimi al sacchetto copre solo in parte i costi. Quindi con i 2 centesimi in realtà Coop sta assorbendo parte dei costi che altrimenti avrei dovuto pagare io? E quanti costi assorbe? Visto che anche altre catene di supermercati li fanno pagare 2 centesimi all’uno anche loro coprono parte dei costi che sarebbero stati a carico del consumatore, oppure no? Se veramente Coop si sta impegnando per me mi piacerebbe sapere come e quanto, instillare dubbi di credibilità nella mente dei propri clienti credo sia la cosa peggiore che un negoziante possa fare.
In comunicazione ci si sforza tanto per poter attirare l’attenzione delle persone e poi quando ce la danno spontaneamente la sprechiamo così.
Nel frattempo leggo sul giornale che Coop annuncia che “presenterà a breve soluzioni e materiali di confezionamento sulla merce fresca e sfusa che siano effettivamente riutilizzabili a bassissimo costo per i consumatori e di maggior vantaggio per l’ambiente”.
Si poteva fare di più e meglio per differenziarsi? Credo proprio di sì e continuo con l’esempio di Coop perché la rivista “Con” riporta che durante l’iter legislativo si era opposta al pagamento dei sacchetti da parte dei consumatori, quindi aveva previsto di sopportare i costi aggiuntivi per i 350.000.000 di sacchetti che utilizza ogni anno.
Si poteva far pagare i sacchetti 0,01 euro l’uno, si potevano utilizzare sacchetti con il 100% di materia prima rinnovabile, si potevano usare sacchetti di carta.

Attenzione, non è che ce l’ho con la Coop, di cui sono affezionato cliente: sono tutte cose che potevano fare anche le altre catene di supermercati.

La carta è la strada che la stessa Coop ha preso nel reparto pescheria e mi sembra la strada che sta prendendo il piccolo dettaglio indipendente, per il quale far pagare i sacchetti è un po’ più complesso in termini operativi e soprattutto è molto più difficile in termini di rapporto con la clientela.

Quindi la nuova norma crea una situazione evidentemente favorevole per i produttori di bioplastica, a attenzione anche ai produttori di sacchetti di carta.
Ecco perché sono d’accordo con la scelta del Parlamento di far pagare anche i sacchetti ultraleggeri: la norma sta spingendo verso una riduzione dell’uso della plastica al di là degli obblighi di legge e sta contribuendo a smontare l’idea che la plastica sia un materiale innocuo e poco costoso.
Se poi avessero destinato l’introito IVA a campagne di sensibilizzazione sulla visione degli imballaggi secondo la regola delle 3R – Ridurre, Riusare, Riciclare in questo ordine di priorità – sarebbe stato ancora meglio, ma per il momento mi accontento.

La comunicazione del PD sulla questione del pagamento che sacchetti di plastica ultraleggeri.
Il post è già lungo, quindi sarò estremamente sintetico.
Sul pagamento dei sacchetti di plastica per l’ortofrutta il PD a tre mesi dalle elezioni ha fatto la figura del Governo gabelliere che ruba ai poveri per dare agli amici ricchi.
Questo anche perché alle accuse populiste e demagogiche si è risposto con altrettanta confusione ed imprecisione (per non dire bugie “E’ una norma europea”).
La materia in realtà era chiara e conosciuta, il governo del Pd ha fatto una scelta precisa nel recepimento della direttiva che immagino (e voglio sperare) non era casuale, a basata su precise valutazioni.
Valutazioni che probabilmente porteranno a risultati apprezzati da ampie face di elettori fedeli e potenziali.
Anche nell’attuale frammentazione della comunicazione non avrebbe fatto male una presa di posizione ufficiale da parte del PD che ne spiegasse le ragioni, anche perché magari sarebbe stato un indirizzo e riferimento per tutti i rappresentanti del Partito, gli attivisti ed i simpatizzanti che sui social hanno condiviso posizioni sbagliate e contradditorie che alla fine fanno il gioco degli avversari.
Populista è chi populista fa e rispondere al populismo con il populismo sullo stesso argomento non funziona. Se proprio si vuole percorrere questa strada comunicativa (tutto da vedere se è nelle corde del proprio target elettorale, a questa è un’altra storia) bisogna usarlo per distrarre l’attenzione da questo argomento per portarla su altri.
Detto in altre parole, il meme della cugina di terzo grado di Renzi funziona solo per chi si rende conto che è un meme e comunque continua a rimestare l’argomento togliendo attenzione a quello del miglioramento dei dati sui musei.
Ricordo Prodi che, sbeffeggiato come “Mortadella”, arrivava ai dibattiti con il suo plico di carte e l’aria da professore (in teoria quanto di peggio si poteva immaginare per la raccolta del consenso) e le elezioni le vinceva, anche con tutte le televisioni contro.

Eurospin sta creando un nuovo modello di grande distribuzione: il supermercato low cost.

Eurospin è una catena della grande distribuzione classificata tradizionalmente come discount.

Nel 2015 aveva oltre 1.000 punti vendita distribuiti in tutta Italia (forse solo Conad ha una copertura del territorio altrettanto capillare), con un fatturato di 4,4 miliardi di euro, in crescita del 6,7% rispetto al 2014.

Secondo un’analisi Mediobanca sulle perfomances delle principali catene italiane della grande distribuzione nel periodo 2010-2014 Eurospin ha mostrato:

-          La più crescita maggiore con un +48,7% contro il +1,5% medio del settore;

-          Il più alto fatturato per addetto nel 2014 con 650 euro, doppio rispetto ad Esselunga che si colloca al secondo posto;

-          La più alta redditività nel 2014 con un ROE (Return on Equity) del 24,2%, Esselunga è al secondo posto con il 13,6%.

Bastano i prezzi bassi insiti nel concetto di discount a spiegare questo successo.

Io direi di no, perché nello stesso periodo Lidl, storica insegna del discount tedesco presente in Italia dal 1992, è andata bene ma non così tanto ed altre insegne di discount a livello locale/regionale sono andate male, tanto che alcune hanno chiuso e/o sono state cedute (vedi catena e marchio DICO ceduti da COOP al Gruppo Tuo nel 2013).

Secondo me forse non è nemmeno dovuto solo all’abilità di Eurospin nel fare bene il proprio lavoro, ossia i discounter, ma anche alla creazione di una formula nuova e diversa.

Il paradigma della formula discount è Aldi, catena tedesca al momento non presente in Italia.

I punti vendita Aldi sono tutti uguali con superficie tra gli 800 e 1.000 m2 (in pratica un supermercato di medie dimensioni), la stessa disposizione dei reparti, l’esposizione dei prodotti direttamente nei cartoni sul pallet con cui sono consegnati.

L’assortimento è di circa 800 referenze limitato non tanto in termini di ampiezza (numero di categorie merceologiche) quanto, soprattutto, in termini di profondità (numero di referenze per ogni categoria merceologica).

Le promozioni sono poche o nulle sui prodotti in assortimento continuativo e si limitano a prodotti in assortimento temporaneo, spesso legati alla stagione (ad esempio razzi e petardi nel periodo di Capodanno).

I prodotti sono tutti a marchio privato dell’insegna, non sono presenti marchi industriali (tipo Coca Cola per capirsi).

Tutti gli aspetti della gestione tendono alla massima efficienza in modo poter massimizzare la parte del prezzo del prodotto che serve per pagare la qualità del prodotto stesso e non i costi di funzionamento del supermercato.

In questa logica rientra probabilmente anche la scelta di non fare pubblicità. L’immagine di Aldi viene diffusa attraverso il passaparola e la riconoscibilità del marchio e dei punti vendita (edifici bassi bianchi con tetto spiovente scuro)

Grazie a questa gestione ed alle capacità negoziali dei buyers (che sfruttano anche i grandi volumi di acquisto) Aldi riesce ad offrire prodotti di buona qualità intrinseca a prezzi più bassi rispetto alle catene di supermercati tradizionali.

Due aneddoti:

-          Ogni volta che i miei colleghi della Repubblica Ceca andavano a trattare per rinnovare i contratti annuali il buyer di Aldi controllava l’auto aziendale con la quale erano arrivati: modello cilindrata e se era nuova rispetto a quella dell’anno prima.

-          I miei parenti che vivono in Germania fanno la spesa da Aldi secondo il principio che “hanno il pane più buono di tutti gli altri supermercati ed è anche quello che costa meno. Perché andare da un’altra parte”.

Considerazione in linea con quello che dicono i due fratelli Albrecht, proprietari di Aldi, rispetto alle loro due tipologie di clientela: quelli che devono fare bene i conti e quelli che sanno fare bene i conti.

Il concetto di Lidl è simile, ma leggermente un po’ più ibrido verso il soft discount: ambiente meno spartano nei punti vendita, presenza di qualche prodotto di marca (Coca Cola ad esempio), promozioni settimanali e maggior importanza del non food nell’assortimento.

Soprattutto Lidl fa, almeno in Italia, campagne pubblicitarie per far conoscere e posizionare il marchio. Campagne però sempre basate sulle promozioni in atto.

Eurospin invece secondo fa qualcosa di diverso unendo alla gestione operativa classica dell’hard discount una comunicazione di posizionamento della marca/insegna slegata dalla singola promozione, più propria della GDO classica.

Quest’anno ad esempio Eurospin ha sponsorizzato la maglia bianca al Giro d’Italia e le frequenti campagne radio sono centrate sulla comunicazione del generale concetto di “spesa intelligente”, non nel comunicare gli specifici punti prezzo dei prodotti in promozione.

In sintesi mi sembra che Eurospin stia sviluppando un nuovo modello che trascende dalle classificazioni dei formati distributivi partendo da una precisa identità della proposta ed utilizzando coerentemente tutti gli strumenti, pubblicità compresa, per costruire, diffondere e rafforzare il proprio posizionamento.

In altre parole sta parlando ai consumatori come persone per portarle nei propri punti vendita e una volta che sono dentro, tratta le persone come consumatori in termini di varietà e qualità dei prodotti e dei prezzi di vendita.

Semplice, niente di più e niente di meno che la realizzazione della propria mission:

Offrire al consumatore un assortimento limitato di prodotti alimentari e non alimentari di elevata qualità, di sicura freschezza a prezzi davvero convenienti tutti i giorni dell’anno. Vogliamo soddisfare i nostri clienti con cortesia e disponibilità, diffondendo fiducia nell’insegna e nei nostri marchi.

L’importanza della gestione del prezzo dei prodotti “loss leader” della distribuzione da parte dei produttori.

Loss Leaders TagQuesto post si prospetta particolarmente tecnico, anche per gli standard di biscomarketing.

Quindi cercherò di essere particolarmente chiaro, in modo da renderlo comprensibile anche a quei lettori che non sono dei professionisti del marketing (so che ce ne sono, bontà loro).

Innanzitutto cos’è un prodotto “loss leader“.

Si definiscono “loss leader” quei prodotti che le catene della Grande Distribuzione Organizzata (super e ipermercati per capirsi) vendono a prezzi particolarmente bassi, riducendo o annullando il proprio margine di profitto.

L’estremo della strategia “loss leader” è la vendita sottocosto, quando il supermercato vende il prodotto ad un prezzo inferiore di quello a cui l’ha acquistato dal fornitore. In Italia, come in molti altri Paesi, la vendita sottocosto è regolamentata, quindi va dichiarata sul punto vendita e deve essere limitata ad un determinato periodo di tempo e/o determinato numero di pezzi.

I prodotti “loss leader” quindi non sono venduti a prezzi bassi perchè hanno un basso prezzo all’origine, ma per una decisione autonoma ed indipendente del negoziante (una catena di supermercati in essenza è un negoziante) che rinuncia in tutto o in parte al suo guadagno (se vende sottocosto sostiene addirittura una perdita).

Perchè una catena di supermercati decide di adottare questa strategia? Per attirare clienti. L’ipotesi di base infatti è che l’aumento di vendite complessive generato dal maggior numero di clienti generi un margine aggiuntivo superiore a quello perso sui singoli prodotti loss leader.

Quindi la catena di supermercati aumenta le proprie vendite e guadagni ed il produttore del prodotto loss leader pure, per cui tutti contenti. Non proprio.

Ci sono almeno 3 ragioni per cui un produttore deve preoccuparsi della gestione del prezzo a scaffale dei suoi prodotti che i supermercati usano come loss leader:

1. il posizionamento di prezzo influenza l’immagine (di qualità) percepita del prodotto. I prodotti scelti come loss leader sono normalmente prodotti di immagine medio alta all’interno della loro categoria merceologica perchè è proprio questa immagine superiore che crea “l’affare” per il consumatore. Trovare spesso il prodotto/marca ad un prezzo (più) basso sullo scaffale può indebolirne l’immagine nel medio lungo periodo.

2. il posizionamento di prezzo a scaffale come loss leader genera un aumento di vendite “anomalo”. Il rischio è che l’azienda si strutturi per produrre volumi di vendita “fragili” perchè basati sulla scelta dei supermercati di vendere ad un prezzo incoerente con il valore del prodotto (e con il suo costo di acquisto).

3. nel caso in cui a consuntivo la catena di supermercati abbia una marginalità inferiore a quella prevista, chiederà ai produttori di coprire (almeno in parte) i mancati guadagni. Le dinamiche commerciali sono fatte (anche) di rapporti di forza, quindi non mi metto neanche a discutere se la cosa sia giusta o meno: è un dato di fatto.

Ricordo il mio stupore quando per la prima volta in Stock ho visto i miei colleghi delle vendite calcolare la marginalità lorda che i vari clienti della GDO ottenevano ai diversi livelli di prezzo a scaffale del Limoncè (ai tempi tipico prodotto loss leader natalizio). Calcoli che poi condividevano con i loro interlocutori delle catene di supermercati. Per me era una questione che riguardava i buyers e category manager, in cui mi sembrava improprio ingerire.

In realtà però la cultura aziendale della distribuzione è spesso focalizzata sul fatturato, di cui la marginalità è conseguenza. Regola valida in termini generali, ma che può subire importanti eccezzioni quando il fatturato viene generato da prodotti loss leader.

Tutto questo mi è tornato in mente l’altro giorno, quando ho scritto su Vinix.it un post sulle vendite di Prosecco nel Regno Unito. In quel post segnalavo che il Prosecco DOC spumante in UK oggi è utilizzato come loss leader da quasi tutte le catene inglesi. Nei commenti c’è stato chi ha detto “…. che problema c’è se i supermercati vendono a prezzi bassi, se tanto il prezzo all’origine (in cantina) continua a crescere?”. Beh il problema è che la frenata potrebbe essere molto brusca. Tenete le cinture ben allacciate.