Le conseguenze della crisi economica: occupazione e disoccupazione in Italia – 2

Per varie ragioni riesco solo oggi a scrivere la seconda parte dell’ultimo post dedicato alle conseguenze della crisi economica ed all’occupazione/disoccupazione in Italia (la serie è cominciata lo scorso 3 marzo con il post sulla crisi economica e il ritorno del lusso).

In realtà non potevo essere più tempestivo visto che capito pochi giorni dopo il vertice UE dedicato principalmente ai problemi occupazionali. Un po’ fortuna (ci vuole anche quella) e un po’ scelta fatta in base alla convinzione che lo scorso 28 aprile, quando ho scritto la prima parte di queste considerazioni, la presa di consapevolezza del problema occupazionale da parte delle istituzioni fosse appena iniziata. Una interessante dimostrazione di come la rapidità che domina il pensiero e l’operatività delle aziende (italiane) sia un falso mito che rischia di portare ad affrontare le cose in maniera affrettata. Come diceva Galbraith l’azienda di successo è quella che non è nè troppo in anticipo, nè in ritardo: è giusta. Io condiviso sostanzialmente, ma credo che l’azienda di successo sia quella che è leggermente in anticipo ed è cosciente di esserlo, però questo è un’altro post.

Tornando all’argomento occupazione, dopo aver letto la prima parte, un amico e lettore del blog mi ha consigliato di ridurre/evitare derive su argomenti dove non ho la stessa autorevolezza di quando parlo di marketing perchè rischio di fare chiacchere da bar (questo non l’ha detto lui, ma lo sintetizzo io). Probabilmente c’è del vero e quindi questo post non sarà sostenuto da regionamenti raffinati e dati quantitativi come spesso succede in questo blog, quanto piuttosto si baserà su pensieri che nascono da anni di pratica osservazione della situazione economica in posizioni di responsabilità in aziende medie e grandi. Però questo post lo scrivo comunque, sia perchè non mi piace lasciare le cose a metà, sia perchè gli anni di pratica di cui sopra una qualche esperienza sull’argomento me l’hanno data.

Terminate le premesse comincio da dove ho finito la prima puntata.

La Fornero ha ragione quando dice che non si possono proteggere i posti di lavoro, però è necessario e doveroso difendere le persone che lavorano (non uso il termine “lavoratori” per lo stesso motivo che non uso il termine “consumatori”: sono parole che riducono le persone ad una singola funzione e quindi concettualmente limitanti, oltre che ideologicizzate). Mi spiego con un esempio: è inutile difendere il lavoro del postino quando nella società si diffonde la comunicazione digitale (parlate con i diciottenni, scoprirete che praticamente non usano le e-mail perchè per loro è un mezzo antiquato), è necessario e doveroso difendere i postini (sul come ci arrivo tra un po’).

Ha ragione Casaleggio a dire che la vita non è (dovrebbe essere) andare/lavorare in ufficio 40 ore alla settimana per 45 anni, però rischia di essere un po’ un discorso da benestanti che se lo possono permettere perchè non ne hanno bisogno (viene in mente il gesto dell’ombrello + pernacchia ai “Lavoratoooori?” di Alberto Sordi ne “I vitelloni” di Fellini). Soprattutto vale la pena di riflettere che vivere in una società di cacciatori-raccoglitori non è lo stesso nei climi temperati o ai climi tropicali e che, se ne hanno la possibilità, anche a chi vive nelle società basate sull’autoconsumo piace guardare la televisione.

Aggiungo un elemento personale: mia papà ha sempre lavorato nella pubblica amministrazione, da maestro a dirigente regionale, ed è sempre stato cosciente che il suo lavoro (servizi) era reso possibile dal valore aggiunto creato da chi produceva reale valore aggiunto. Questo non significa che i servizi siano inutili o, peggio ancora, non valgano niente.
Anche qui meglio chiarire il concetto di valore aggiunto con un esempio semplificato prima che si crei confusione.
Se io semino un campo di grano utilizzando 1.000 chicchi ed in un anno per avere l’energia per lavorare quel campo consumo 18.250 chicchi, avrò del valore aggiunto a partire da un raccolto di 18.250 + 1.000 = 19.250 chicchi. L’eventuale surplus è quello che potrò scambiare sulla base della soggettività del concetto di utilità per ottenere/sostenere i servizi. Voi potete aggiungerci tutti i meccanismi di scambio, dal baratto ai derivati, ma in nuce la sostanza è questa e le crisi economiche si verificano quando si verifica un (eccessivo) disallineamento tra il costo dei servizi ed valore aggiunto reale creato.
Non è il caso di approfondie oltre questo tema, però è importante tenere a mente il concetto di valore aggiunto e di servizio.

A questo punto ho una notizia per il premier Letta: c’è un calo strutturale dei consumi primari (agricoltura) e secondari (industria) dovuto sia agli andamenti demografici che alla riduzione delle risorse naturali (quanto questa riduzione nasca dall’eccessivo sfruttamento o quanto da una diversa consapevolezza delle persone nei confronti dell’ambiente poco importa). Questo significa che c’è un calo del valore aggiunto reale attraverso cui finaziare la domanda crescente di servizi. Detto in altri termini: il lavoro non si crea dal nulla come un’opera d’arte.

Ho anche un’altra notizia a Letta che dice che dice che le aziende non hanno più alibi con i nuovi incentivi che defiscalizzano le assunzioni OVVIAMENTE a tempo INDETERMINATO. Le aziende, complice il generale clima di incertezza a cui la politica non è estranea, non stanno pianificando a tempo indeterminato, bensì a breve o brevissimo. Le aziende stanno puntando a migliorare la propria flessibilità, in modo da poter adattarsi agli andamenti incerti ed oscillanti dei mercati. il personale assunto a tempo indeterminato aumenta i costi fissi strutturali (poco importa se per un periodo l’aumento è contenuto dagli incentivi)

Gli incentivi che riducono il costo delle assunzioni porteranno principalmente ad un risparmio su assunzioni che le aziende avrebbero comunque fatto. Quanto e come questo risparmio verrà re-investita nel rafforzamento delle aziende è un’altra storia.

Ricordo un mio ex Consigliere Delegato dire che se ci fosse stata una norma che permetteva ogni anno di licenziare (con i dovuti preavvisi ed indenizzi) l’1% della forza lavoro, avrebbe assunto di più. Questo perchè una norma di questo tipo avrebbe messo l’azienda al riparo dai problemi causati da dipendenti che per un dito rotto (fuori dal lavoro) con varie scuse stavano a casa 6 mesi (situazioni reali, vissute in prima persona). (Può sembrare) cinico se visto all’interno degli attuali sistemi e paradigmi, però alle aziende generalmente non interessa licenziare qualcuno che fa normalmente bene il proprio lavoro perchè comunque ha già fatto tutto quel percorso di adattamento/inserimento in azienda attraverso cui un nuovo assunto dovrebbe giocoforza passare.

Mi sento di dire che l’incentivo ad assumere per le aziende in crescita (ci sono anche quelle per fortuna) verrà più da una maggiore FLESSIBILITA’ del lavoro che dalla sua defiscalizzazione.

Come evitare però il rischio di abusi e l’equivalenza flessibilita’=precarietà?

Cambiando il paradigma. C’è stato un momento all’inizio dell’attuale crisi economica, in cui (sembrava) si è discusso seriamente sulla necessità di cambiare i paradigmi politico-economici delle società basate sulla libera economia di mercato. Adesso quel momento è passato, senza che sia cambiato molto (direi niente, a parte l’iniezione di denaro pubblico nel sistema bancario).

Allora io, nel mio piccolo, lancio un’idea provocatoria che il problema non sta tanto nel tasso di disoccupazione quanto nella distribuzione del valore aggiunto (reddito).

Io vedo come un fattore di progresso i caselli autostradali ad elevata automazione che hanno eliminato un lavoro noioso come quello del casellante, ma ovviamente non lo è se l’ex casellante diventa povero perchè tolto quel lavoro non gli rimane niente (e sono stati buono, non ho preso come esempio il lavoro in miniera).

Ecco quindi che rientra il concetto Fornero di protezione delle persone (che lavorano). Concetto che si può collegare al reddito di cittadinanza propugnato in campagna elettorale (e nel suo programma) dal Movimento 5 Stelle.

Utopia? Illusione? L’anno scorso in un articolo di non mi ricordo che giornale straniero pubblicato sull’Internazionale, l’autore prevedeva che tra un po’ di anni (5? 10? 20?) il reddito di cittadinanza sembrerà una cosa normale come lo sono oggi le 40 ore settimanali, che i pionieri della rivoluzione industriale vedevano come un’assurdità.

Affrontare il problema dal punto di vista della distribuzione del valore aggiunto permette anche di rispondere alla domanda di tipologie di lavoro di cui ha bisogno la società. E’ facile prevedere (l’ho anche letto da qualche parte, ma non ricordo dove) che le maggiori richieste di occupazione nei prossimi anni verranno dai settori dell’innovazione (soprattutto digitale) e dell’assistenza alla persona. Ossia in gran parte dai servizi, posti di lavoro che devono essere sostenuti (finanziati) redistribuendo in modo diverso da oggi il valore aggiunto reale.

Questo risponde al problema flessibilità=precarietà, e per gli abusi da parte delle imprese e delle persone?

Qui torno a rivolgermi a Letta (non che mi aspetti che mi ascolti) perchè ci vuole un’Amministrazione Pubblica efficace ed efficiente in grado di effettuare controllo reali, continui e costanti per applicare con equità sanzioni severe a chi si approfitta delle politiche di solidarietà. Confesso che questo mi sembra il punto più difficile.

Utopia? Illusione?

Vi lascio con 3 link: qui e qui trovate approfondimenti sulla questione dell’occupazione a livello europeo, mentre qui trovate 1:42 minuti di speranza (è in spagnolo, ma credo si capisca).