Il 2011 è stato l’anno in cui il settore del vino italiano si è posto la questione del calo del mercato interno (non userò il terribile anglicismo di mercato domestico, anche perchè in italiano ha un significato precise e diverso: indica i consumi realizzati in casa rispetto a quelli fuori casa o alla mescita. Di questo passo chiameremo le biblioteche librerie).
La cosa probabilmente ha raggiunto una dimensione tale da non poter più essere ignorata, se poco più di un mese ad una cena durante l’European Wine Blogging Conference un blogger americano mi chiedeva cosa si stava facebdo in Italia per affrontare il problema.
Visto che non è che si faccia molto, ma di questo parlerò tra poco, vediamo di inquadrare la dimensione del fenomeno. Normalmente si cita il confronto con il passato, diciamo i 100 litri pro-capite consumati 30-35 anni fa rispetto ai 43 litri di oggi. Si tratta di un dato sicuramente eclatante, ma che ritengo poco efficace per trasmettere l’urgenza di attivare azioni di contrasto alla tendenza in corso.
Preferisco quindi provare a fare delle previsioni e farle a lungo termine visto che il tempo del vigneto e de vino spesso non coincidono con il tempo dell’uomo (citazione da Alberto Ugolini).
Incrociando molto spannometricamente i dati dell’ultima ricerca sul consumo di alcolici realizzata da Doxa per l’Osservatorio Permanente sui Giovani e l’Alcol del Censis con una proiezione della distribuzione della popolazione per classi di età da qui a 25 anni (preso come il tempo medio di vita produttiva di un vigneto) ho calcolato che nel 2024 il consumo di vino in Italia sarà di circa 2,3 milioni di hl INFERIORE a quello attuale. Per dare un parametro di riferimento si tratta di una quantità superiore di oltre 13 volte al vino italiano esportato in Cina (la grande speranza dei mercati mondiali) nel prima semestre del 2011.
Personalmente la ritengo una stima per difetto, ma potrei sbagliarmi anche di molto visto che l’ho calcolata nei ritagli di tempo e con una limitata disponibilità di dati. Commissionando ad un Istituto una ricerca del costo di 3.000-4.000 euro si può facilmente avere una previsione molto più solida. Se uno dei tanti organismi pubblici e/o collettivi che operano nel marcato del vino ritiene che si tratti di una cifra abbordabile (direi di sì) e di soldi ben spesi (direi doppiamente di sì), io sono disponibile a dare il brief all’istituto ed impostare l’analisi.
Tornando al numero, credo sia tale da giustificare una preoccupazione per il settore viti-vinicolo e mi è sembrata meritevole l’iniziativa del Vinitaly che quest’anno nell’immininenza della Fiera ha stimolato un dibattito sull’argomento, coinvolgendo operatori appartenenti a tutte le diverse categorie che operano nel sistema vino in Italia (in realtà i viticoltori erano poco o nulla rappresentati. La cosa secondo me è significativa e peculiare, ma questo è un altro discorso)
Sul sito del Vinitaly trovate tutte le brevi interviste (anche la mia). Al di là dei diversi spunti, nei fatti le aziende continuona ad operare soprattutto in un logica sintetizzata nella sua dichiarazione dal dottor Piero Antinori: “Quello della crisi dei consumi interni di vino è un falso problema, preoccupiamoci piuttosto di vendere bene nel resto del mondo. Il vino di qualità e’ il prodotto più globale in assoluto, non vedo perchè ci si debba focalizzare su una nicchia di 60 milioni di abitanti quando fuori c’è un mercato di 6 miliardi di persone da conquistare. Per una volta il nostro Paese dovrebbe pensare a crescere, non a conservare”. Così il presidente dell’Istituto del vino italiano di qualità Grandi Marchi, Piero Antinori, è intervenuto nel recente dibattito sulla crisi dei consumi interni di vino. “Allarmarsi per un calo fisiologico dei consumi interni è come guardare la pagliuzza per non vedere la trave. Negli ultimi 10 anni gli Stati Uniti hanno visto raddoppiare i consumi interni, per non parlare dei Paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina), dove 3 miliardi di persone e centinaia di milioni di nuovi ricchi si ‘occidentalizzano’ attraverso i nostri status symbol, vino di qualità in primis. In Cina – che è già un mercato potenziale da un miliardo di bottiglie l’anno – ogni 100 litri di vino provenienti dall’estero solo 5 portano l’etichetta italiana. E ancora, a Hong Kong, hub principale per la distribuzione del vino in Asia, il vino italiano si colloca in settima posizione, con una quota di penetrazione del 2,3%, contro il 33% della Gran Bretagna – che distribuisce per lo più vino francese – o il 31% della Francia. Sono questi – ha aggiunto il presidente Antinori – i veri problemi del nostro vino, non tanto quelli legati ai consumi interni. I consumatori italiani sono senz’altro tra i piu’ maturi e consapevoli al mondo: qui, negli anni, il vino si è trasformato da alimento a piacere, da abitudine a scelta culturale. Certo – ha concluso Antinori -non giovano le campagne sempre più aggressive contro il consumo di alcoolici. Campagne dove il vino è sul banco degli imputati e dove si rischia di fare di un’erba un fascio”.
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E qui entra in gioco la microeconomia, perchè questo approccio segue il principio di massimizzazione della produttività (e reddività) marginale della teoria dell’impresa. Detto in altre parole oggi la redditività di 1 euro investito in determinati mercati esteri è (con ogni probabilità) superiore a quella dello stesso euro investito sul mercato nazionale.
La teoria microeconomica dell’impresa si basa però su alcuni assiomi che non sempre trovano riscontro nella realtà, soprattutto nel periodo medio lungo, a cui bisogna guardare se si vuole vivere e non solo sopravvivere. Se così non fosse non si spiegherebbe, ad esempio, il successo di un denominazione come la Franciacorta, le cui vendite si rivolgono in larghissima prevalenza al mercato italiano.
Quindi le domande poste da Vinitaly vanno circostanziate con maggior dettaglio e precisione:
- quali saranno gli affetti di un calo di 2,5 milioni di hl del consumo interno di vino nei prossimi 25 anni?
- quali sono i fattori alla base di questa tendenza (le previsioni basate sui trend demografici hanno il grande vantaggio di basarsi in buona parte su cose già successe)?
- questi fattori possono essere affrontati in modo da correggere il trend? Se sì, come?
- le strategie di contrasto oltre ad essere efficaci possono essere efficenti, ossia economicamente giustificate a livello di settore e/o di azienda?
Io qualche ipotesi di risposta ce l’ho, però questo post è già andato oltre ogni logica e sensata lunghezza. Mi prendo quindi del tempo per la seconda puntata, sperando magari di raccoglierne altre dai commenti che sono sempre benenuti.