La fidelizzazione del cliente (persone), impegno quotidiano …..

…. oppure, volendo parafrasare Forrst Gump, fedele è chi fedele fa.

Sto leggendo un bel po’ di numeri arretrati delle riviste dell’American Marketing Association (“Marketing News” e “Marketing Insight”) con il risultato che ho una marea di concetti chiave ed esempi illuminanti che mi vagano per la testa. Se me ne ricordassi il 10%, aumenterei il mio sapere di marketing del 50%.

L’unico modo che conosco per gestire questa massa di informazioni è lasciarla frullare ed aspettare di vedere cosa sedimenta, sperando che siano le cose effettivamente più rilevanti e non quelle più curiose (la cultura è quello che resta dopo che uno si è dimenticato tutte le nozioni).

Uno dei concetti che è “precipitato” è quello che che nell’era digitale le marche devono cambiare approccio e focalizzarsi più sull’acquisizione di nuovi clienti che sulla fidelizzazione e mantenimento degli attuali. NON LO CONDIVIDO, come NON CONDIVIDO il principio che la rivoluzione digitale ha cambiato i presupposti di base del comportamente delle persone (clienti) rispetto all’era analogica.

Comincio l’analisi da questo ultimo punto. C’è stata una rivoluzione digitale della società? Assolutamente si. come forse ho già raccontato su questo blog, nel 1987 avevo già pensato che il titolo del mio primo libro di racconti si sarebbe intitolato “MODEM: Modulatore – Rimodulatore” a significare che l’utilizzo delle tecnologie digitale implica per l’uomo l’adattamento a nuovi e diversi schemi mentali, così come l’utilizzo dei macchinari alla base della rivoluzione industriale avevano implicano che l’uomo si adattasse a nuovi e diversi schemi fisico-gestuali (poi non sono andato oltre al terzo racconto e quindi il libro non ha neanche potuto mai essere nemmeno rifiutato da un editore, ma questa è tutta un’altra storia).

Quello che però l’avvento del MODEM sostanzialmente non modifica sono gli schemi emotivi delle persone, schemi che risiedono nel sistema limbico, la parte pù primitiva del cervello  .

Questo significa che i consumatori di ieri erano tanto infedeli quanto quelli di oggi, solo che nella società digitale i movimenti delle scelte delle persone sono più evidenti.

Non che prima non si sapesse, ma, sembra, che buona parte del marketing strategico (U.S.A.), fosse basato sul principio “occhio non vede, cuore non duole”.

Già alla fine degli anni ’80 le ricerche avevano dimostrato che un consumatore insoddisfatto condivideva la sua esperienza negativa mediamente con altre 8 persone, mentro quello soddisfatto condivideva la sua esperienza positiva mediamente con altre 3 (o erano 2?).

Con un approccio ancora più empirico, è evidente che lo spostamento di quote di mercato, l’affermarsi di nuove marche e la scomparsa di altre è conseguenza di cambiamenti nei comportamenti d’acquisto delle persone (in altre parole della loro fedeltà alle marche che acquistavano prima).

Questo si rifletteva anche sulla visione accademico/teorica che definiva le attività di comunicazione come strumenti che hanno principalmente la funzione di costruire e rafforzare la fidelizzazione dei propri consumatori e le attività promozionali come strumenti che hanno principalmente la funzione di rompere ed indebolire la fedeltà dei consumatori alle marche (concorrenti). Poi lo so che ci sono le campagne di comunicazione che hanno l’obiettivo di reclutare nuovi consumatori e quelle promozionali (raccolte punti, carte fedeltà, ecc…) che hanno l’obiettivo di trattenere i clienti, ma qui sto parlando di strategie e non di tattiche e poi se approfondisco ogni punto, non finiamo mai (se volete andate a vedervi la presentazione sul “Marketing Totale” del post della settimana scorsa, dove esprimo il concetto che oggi le strategie devono essere (anche) tattiche e la tattiche devono essere (anche) strategiche).

Quindi se in passato il marketing aziendale basava le proprie strategie sul presupposto che i consumatori erano automaticamente fedeli, sulla semplice scorta dell’esperienza di consumo della marca, sbagliava sapendo di sbagliare.

L’approccio “customer exclusive” non ha senso oggi come non l’aveva ieri, e se non ce ne eravamo accorti è solo perchè ci cullavamo nell’ignoranza, beandoci di Net Promoter Score resi inutili dalla mancanza di approfondimenti motivazionali (al di là della distorsione culturale nella lettura delle scala dovuta ai diversi sitemi di valutazione scolastica, dove nel del sistema educativo nordamericano i punteggi vicino al 100 esistono, mentre da noi sono un’eccezione).

Come sempre nel marketing l’unico approccio corretto è quello che parte dal consumatore, ed il consumatore è sempre stato “brand inclusive”, quindi le strategie delle marche di successo erano, sono e saranno quelle “customer inclusive”.

Nessun consumatore (persona) ha deciso di dedicare la propria fedeltà ad una marca, a priori, per tutta la vita. La fedeltà viene decisa ogni volta che si presenta la situazione di consumo per quella marca/prodotto sulla base della valutazione netta delle proprie esperienze dirette ed indirette con la marca.

Il moltiplicarsi delle possibili esperienze, soprattutto quelle indirette legate al passaparola che sfuggono al controllo del proprietario della marca, e l’aumento dei prodotti / marche alternative aumentano l’intensità competitiva, ma non cambiano il principio.

Non cambia nemmeno il fatto che sarà sempre più economico in termini di risorse organizzative e finanziarie lavorare per  confermare nella scelta chi ci conosce già (e che anche noi azienda dovremmo conoscere), rispetto ad un “estraneo”.

Il che non significa che aziendalmente possiamo mettere le corna ai nostri consumatori impunemente, come spiegavo qui.

 

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