Demographics is a bunch of crap!

bimbo che si nasconde la faccia

Ovvero basare le strategie di marketing sulle classi demografiche è una stupidaggine.

Cinque minuti di applausi per Elizabeth Schneider, autrice del podcast e del libro “Wine for normal people” per aver espresso in modo chiaro, forte ed inequivocabile un pensiero che mi frullava in testa da anni, ma che resistevo ad ammettere perché contrario alla narrazione prevalente.

Davvero non mi spiego l’involuzione nella gestione aziendale e nel marketing verificatasi durante gli ultimi 15 anni che ha portato ad un approccio sempre più semplicistico e muscolare. Poca strategia, poca visione di medio-lungo periodo, poco approfondimento; grande enfasi nell’oggi e palla lunga e pedalare.

Fino a metà degli anni 2000 l’approccio psicografico nell’analisi dei segmenti di mercato e la Grande Mappa degli stili di vita di Eurisko finiva anche sui giornali. Secondo complice anche il fascino semantico del nome dato ad alcuni segmenti, tipo i “delfini”.

L’utilizzo delle semplici variabili demografiche veniva considerato, giustamente, superato perché limitato nella comprensione dei comportamenti.

Poi questo approccio oramai consolidato si è via via affievolito fino a sparire. Cercando in google il primo risultato riporta la Grande Mappa del 2004, l’ultimo aggiornamento di Eurisko che si trova è del 2008 e nella prima schermata di risultati il documento più recente sono delle lezioni di un corso di marketing di un’università di Roma dove viene citata una versione della Grande Mappa datatissima perché riporta ancora, appunto, i “delfini”.

Probabilmente ha contribuito al crisi del 2008 con la sua accelerazione verso una visione tattica e finanziaria della gestione aziendale.

E quindi tutti di corsa a rivolgersi al target dei millennials, ancora oggi considerati la fascia giovane del mercato malgrado abbiano oggi tra i 39 ed i 24 anni.

Anche qui sospetto c’entri la semiotica sia nell’interesse suscitato da questo gruppo demografico, sia per l’immagine di eterna gioventù. Prima c’era la “generazione X” e sinceramente si fa fatica ad appassionarsi ad un gruppo demografico che si chiama così. “Millennials” invece suona bene, sa di futuro e spiega anche perché in un sacco di mezzi di comunicazione venda utilizzato per indicare i nati dopo il 2000.

Ora è evidente che impostare le proprie strategie aziendali sulla base di un gruppo demografico che copre i nati dal 1981 al 1996 (definizione dei millennials adottata dal Pew Research Center) non ha molto senso.

Ma è tutto l’approccio demografico che non ha senso per il posizionamento delle marche perché presuppone che i nati in un determinato periodo condividano gli stessi valori, attitudini, aspirazioni, desideri, idiosincrasie. Non è così dai tempi del lancio della Ford Mustang nel 1964, pensata per i neopatentati e comprata invece dai 40 enni per sentirsi giovani.

Una marca sarà tanto più forte quanto più si posizionerà su valori essenziali per le persone, che quindi non dipendono specificatamente dall’età.

Io quando affronto la segmentazione nelle mie lezioni sul marketing raccomando di segmentare il mercato sulla base dei bisogni/desideri a cui la marca può/vuole rispondere.

Quindi sto sostenendo che le caratteristiche demografiche, in cui rientrano anche la situazione famigliare, la localizzazione e dimensione del paese/città/quartiere/metropoli, ecc… in cui vivono le persone, non servono a niente?

Non proprio. Le caratteristiche demografiche non servono per definire/scegliere il posizionamento della marca, però servono per definire come raggiungere le mie audiences obiettivo soprattutto in termini di distribuzione e promo-comunicazione, ovvero rispettivamente presenza e percezione nel mio approccio di marketing totale.

Come dice il proverbio: c’è sempre una soluzione semplice ad un problema complesso, ma spesso è sbagliata.

Dal design empatico al marketing empatico il passo è brevissimo.

Oxo angles measuring cup

Continuo con la lettura degli arretrati di Marketing News e trovo un articolo sul design empatico. Man mano che leggevo mi veniva sempre più spontaneo sostituire “design” con “marketing”.

Nella stesura di questo post continuerò ad utilizzare il termine “design”, anche perchè gli esempi sono riferiti specificatamente a questo aspetto del marketing (sarebbe più giusto dire “product design”), voi però sapete che potete leggere “marketing” perché sono concetti che valgono (accipicchia se valgono) per la gestione strategica di marketing nel senso più esteso che siete capaci di immaginare.

L’articolo parte dall’esperienza dell’azienda americana di utensili ed accessori per la casa Oxo

Oxo nasce 30 anni fa con l’obiettivo di creare prodotti che possono essere utilizzati da tutti, indipendentemente dall’età, forza o abilità delle persone. Questo perché il fondatore dell’azienda aveva notato la difficoltà di sua moglie, affetta da artrite alle mani, nell’utilizzare un pela-patate.

Per rendere visibile e ricordare a tutti questo concetto negli uffici di Oxo a New York c’è una parete coperta di guanti persi: guanti da lavoro, guanti senza dita per ciclisti, manopole invernali, guanti di pelle, scamosciati, imbottiti di pelliccia, fatti a maglia, ecc…

Un promemoria che i prodotti realizzati da Oxo devono poter essere utilizzati da tutte quelle mani diverse che usano quei guanti.

Per farlo si parte da una semplice domanda nello sviluppare un concetto di prodotto: “Questo prodotto come farà sentire il consumatore?”.

Lo scrivo anche nell’originale inglese perché già solo applicare questo concetto nello sviluppo delle strategie di marketing è rivoluzionario: “How would  this make the consumer feel?

Che se vogliamo è uno stressare la base di partenza della, sempre troppo spesso dimentica, base del marketing: raggiungere i risultati aziendali soddisfacendo le esigenze/desideri dei clienti meglio dei concorrenti.

Siccome però nel corso dei decenni le esigenze aziendali, non solo di risultati, ma anche di processi funzionali ed organizzativi, hanno preso il sopravvento su desideri/esigenze dei consumatori (vecchia storia che è la ragione da cui è nato questo blog più di 10 anni fa) ben venga un concetto semplice ed efficace che aiuta a rimettere le cose a posto.

L’altra cosa che aiuta è in questo senso è ricordarsi che i consumatori sono persone e non semplicemente utilizzatori finali dei vostri prodotti (ecco perché io da anni tendo a non usare più il termine consumatori ma solo “persone”).

Ci sono studi che dimostrano come sviluppare prodotti avendo in mente come si sentiranno le persone nell’usarli invece di pensare semplicemente alle caratteristiche che dovranno avere o alle funzioni che dovranno svolgere o alle caratteristiche psico-socio demografiche del target, porta a trovare soluzioni più creative, ma comunque pratiche e praticabili.

L’approccio “come si sentirà il consumatore” aiuta anche ad uscire dai preconcetti che i diversi esperti, professionisti di marketing compresi, applicano inconsciamente nell’affrontare le questioni aziendali.

E per chi fatica a lavorare di fantasia, ci sono strumenti che aiutano a mettersi nei panni degli altri. La tuta AGNES (Age Gain Now Empathy System) permette a chi la indossa di vivere la motricità, flessibilità, destrezza, forza e vista di una persona anziana (vecchio è un termine che è sparito dal nostro vocabolario, riferito alle persone).

Il bello è che le cose fatte pensando a chi ha capacità ridotte rispetto alla norma risultano più semplici da usare per tutti. Le persone infatti hanno una innata, inconscia, capacità di compensare autonomamente per le situazioni complicate o difficili. Poi, quando qualcuno trova una soluzione diversa, più comoda, sembra l’uovo di colombo. Come i misurini inclinati di Oxo, nella foto di apertura di questo post, che permettono di vedere la quantità versata dall’alto senza doversi chinare.

C’è un vecchio detto nel marketing secondo cui se il concetto ed i processi di marketing sono applicati alla perfezione, la comunicazione diventa superflua.

La comunicazione di Oxo è estremamente concreta e si focalizza nella spiegazione di come funzionano i propri prodotti. Il principio è che se i tuoi prodotti dimostrano nei fatti che sei empatico, non è necessario DIRE che sei empatico.

Non c’è comunicazione più debole di quella che dice esplicitamente il posizionamento che la marca/prodotto dovrebbe/vorrebbe trasmettere. Come scrivevo tre anni fa analizzando la campagna pubblicitaria di lancio dell’Asti Secco “Dire di essere “glam” (qualunque cosa voglia significare) è la cosa meno “glam” del mondo.

L’altra grande lezione confermata dall’esperienza di Oxo è che l’empatia verso l’esterno nasce dall’empatia che c’è dentro l’azienda. Come sempre l’identità vera, che non sempre corrisponde a quella dichiarata, la sua cultura profonda determinano le sue azioni e quindi il suo posizionamento sul mercato.

Non pensate di poter semplicemente fare delle strategie empatiche perché le persone vi sgameranno.

Dovete abbracciare e coltivare una CULTURA dell’empatia; le strategie giuste verranno sole.

Come gestire con successo l’agenzia creativa interna.

Lo so, fa un po’ strano scrivere di marketing in questi giorni, però non fa neanche bene ragionare del minchiavirus 24 ore su 24.

E poi con il tempo a disposizione sto cercando di portarmi in pari nella lettura di “Marketing News”. Sul numero di agosto 2019 ho trovato un interessante articolo su come creare e gestire agenzie pubblicitarie/creative interne all’azienda.

Personalmente non ho mai lavorato in un’azienda che avesse un’agenzia creativa interna. Ci sono andato vicino quando ho lavorato in Stock, nel senso che l’agenzia interna era stata smantellata tre anni prima della mia assunzione, per la riorganizzazione seguita all’acquisizione da parte del gruppo tedesco Eckes nel 1997.

In Stock la creazione di un’agenzia pubblicitaria interna era stata una scelta quasi obbligata, perché nei tempi pioneristici del dopoguerra era difficile trovare una casa di produzione in grado di realizzare gli “spot” per Carosello.

L’agenzia pubblicitaria della Stock riuniva le funzioni di un’agenzia pubblicitaria, di una casa di produzione e di un centro media. C’erano quindi ufficio mezzi, art director, copywriter, grafici, ecc…

Già nel 1997, quando poi venne smantellata, si trattava di un dinosauro nel panorama delle aziende italiane (e credo anche mondiali).

Avere un’agenzia creativa interna presenta sostanzialmente due problemi:

-          È un costo fisso in termini di personale, che in momenti di minor attività di comunicazione aziendale non può essere coperto aumentando il parco clienti (problema di efficienza).

-          Rischia di essere poco creativa perché chiusa nel perimetro della marca, o marche, aziendali in termini concettuali e statica in termini di personale, quindi povera di stimoli esterni (problema di efficacia).

Specularmente ha due vantaggi:

-          Dedizione totale alle esigenze aziendali, con conseguente rapidità di intervento e massima flessibilità all’allocazione delle risorse in base alle necessità stabilite dall’azienda.

-          Miglior compenetrazione con la cultura aziendale, visto che ne è parte.

Grosso modo negli ultimi cinquant’anni le aziende hanno considerato che gli svantaggi superassero i vantaggi ed hanno gestito la propria creatività e comunicazione affidandosi ad agenzie esterne.

Se oggi si torna a valutare la creazione di agenzie creative esterne è per il cambiamento dei mezzi e dei meccanismi di comunicazione. La crescita della comunicazione attraverso il web ed i social networks implica la necessità di comunicare in maniera continuativa durante tutto l’anno, rispetto alle campagne pubblicitarie “periodiche” utilizzate nelle strategie di comunicazione “Classiche”, attraverso la creazione di contenuti più articolati rispetti a quello di uno spot TV/radio o di una pagina pubblicitaria / cartellone pubblicitario.

Da qui la cresciuta importanza che viene data alla capacità di narrare storie autentiche relative alla marca.

Ecco quindi che i vantaggi di avere un’agenzia creativa interna acquistano un peso maggiore, tale da portare a considerare la creazione di una agenzia creativa interna.

Crearla non significa automaticamente farla funzionare con efficacia ed efficienza, quindi vale la pena di individuare gli elementi critici per gestirla con successo.

Dimensione aziendale:

Per giustificare i costi di un’agenzia creativa interna è necessario che l’azienda abbia una dimensione medio-grande e/o sviluppi un volume di comunicazione elevato.

Io personalmente consiglio di avere la posizione di social media manager interna appena possibile, quindi anche in aziende relativamente piccole. Questo perché il social media manager esterno non potrà mai avere la stessa velocità di reazione ed interiorizzazione della cultura aziendale.

 

Ruolo dell’agenzia interna nell’organizzazione aziendale:

L’agenzia interna dovrebbe essere in staff alla Direzione Marketing, quindi giocare un ruolo strategico nell’organizzazione aziendale.

Dal mio punto di vista inserire l’agenzia interna nell’organigramma aziendale all’interno della Direzione Marketing invece che funzione a sé permette di “proteggerla” meglio dalle richieste tattiche e destrutturate che possono arrivare da tutte le funzioni aziendali sulle iniziative più disparate (dal folder di vendita alla carta intestata dell’Amministratore Delegato).

Prendere coscienza di questo aspetto è cruciale perché passare da avere “servizi creativi” a “servitori creativi” è un attimo. Questo rischio negli ultimi anni si è acuito già con le agenzie esterne, che indebolite economicamente sono sempre più deboli nel dialogo proposito con i clienti, figuriamoci quando l’agenzia è direttamente alle dipendenze dell’azienda.

 

Il lavoro di un’agenzia creativa interna equivale a quello di agenzia esterna e quindi va gestito con la stessa cura.

Secondo la ricerca condotta su 550 professionisti di marketing e creatività alla base dell’articolo di Marketing News il 72% diceva che la raccolta delle informazioni necessarie per iniziare a lavorare sui progetti creativi era l’attività che assorbiva la maggior parte del loro tempo. Il 79% affermava di non ricevere mai, o raramente, un feedback sui risultati della propria creatività.

Le agenzie creative esterne richiedono da parte dell’azienda il rispetto di una serie di processi, essenziali per poter svolgere il lavoro con efficacia (per il cliente) ed efficienza (per l’agenzia).

Questi stessi processi, o buona parte, sono necessari anche alle agenzie interne per lavorare con efficacia ed efficienza.

Sembra incredibile nel 2020 si debba ancora scrivere per sottolineare la necessità di definire un brief creativo, come base di partenza per ogni progetto creativi (ed ancora più incredibile che in 13 anni di biscomarketing non abbia mai scritto un post al riguardo!).

Altra cosa che l’articolo consiglia di fare periodicamente è la registrazione del tempo speso nelle diverse attività, in modo da evidenziare quanto tempo dell’agenzia (interna) è dedicato al lavoro non creativo.

 

Alimentare la creatività.

Forse la cosa più difficile da fare in un’agenzia interna rispetto a quella esterna.

L’agenzia interna infatti si occupa sempre grosso modo degli stessi mercati e delle stesse marche, fatica ad accedere e confrontarsi con best practices in settori diversi dal proprio, possiede meno appeal per attirare, trattenere e ruotare talenti creativi.

Si può ovviare a questi problemi adottando alcuni accorgimenti:

-          Integrare l’agenzia interna con quella esterna: ad esempio nel caso di un social media manager interno, può essere utile dotarlo del supporto di un’agenzia esterna per lo sviluppo degli aspetti più strategici e la misurazione dei risultati.

Avvalersi periodicamente di un’agenzia esterna con cui confrontarsi permette di vedere le cose da un punto di vista diverso, libero dalle distorsioni che si possono creare, ed accumulare, guardando le cose dall’interno.

 

-          Stabilire un programma strutturato per far entrare in contatto l’agenzia creativa con gli altri reparti aziendali, la rete vendita, i fornitori, i clienti ecc…

La creatività ne sarà avvantaggiata sia perché i creativi interni conosceranno meglio la cultura aziendale nel suo complesso che le problematiche ed i vincoli (anche per la realizzazione delle proposte creative) delle diverse funzioni aziendali e del mercato.

Stabilite un programma, una procedura, e siate disciplinati nel rispettarla, perché altrimenti le urgenze del quotidiano vi daranno ogni giorno delle scuse per rimandarlo e disattenderlo.

Ricordatevi sempre che le cose importanti non sono urgenti, perché proprio la loro importanza implica che vengano affrontate con la cura necessaria. Di conseguenza le cose urgenti non sono importanti. Ed ecco che, come per magia, sono sparite le urgenze.

 

-          Prevedete un budget e del tempo per la formazione, perché in questo modo i creativi possono confrontarsi con situazioni diverse.

Attenzione che queste considerazioni valgono pari pari anche per i componenti dell’ufficio marketing.

C’è poi un modo per mantenere più vivace, stimolante e trasparente l’ambiente lavorativo, così banale che quasi quasi nemmeno lo scrivevo: prendete regolarmente degli stagisti.

Coinvolgeteli veramente nel lavoro del reparto, il che significa fargli fare anche le fotocopie, ma non solo. E’ probabile che vi daranno qualche buona idea ed è sicuro che ne faranno venire a voi.

I millenials stanno invecchiando, dite ciao alla Generazione Z.

Diapositiva1

Il termine “millennials” è una dimostrazione della forza evocativa che ancora possiedono le parole.

Peccato però che in questo caso l’evocazione sia sbagliata. Infatti suggerisce che si tratti delle persone nate negli anni 2000, mentre ufficialmente indica i nati tra il 1981 ed il 1996.

Questo implica che il termine “millennials” nel parlare comune (anche di “prestigiosi” mezzi di comunicazione) sia usato a sproposito e, soprattutto, che i millennials abbiano oggi tra i 38 ed i 23 anni.

Nella fascia di età più alta quindi non proprio dei ragazzini.

Si potrebbe aggiungere che forse una persona di 38 anni ha più cose in comune con una di 43 che non con una di 23, ma questo è il brutto delle segmentazioni basate sui parametri demografici. Soprattutto nei segmenti più giovani, perché poi andando avanti con gli anni lee fasi del ciclo di vita delle persone si appiattiscono (un po’).

Questa è la ragione per cui non amo le segmentazioni demografiche, preferendo quelle sui valori e sui vantaggi (benefits) ricercati ed attesi dalle persone. Indubbiamente però le caratteristiche socio-demografiche sono necessarie per definire come raggiungere le persone, soprattutto per le politiche di percezione e di presenza (termini che nella mia teoria del marketing totali sostituiscono rispettivamente promotion e place; oramai non lo spiego più, se siete curiosi basta cercare uno dei tanti post passati in cui tratto l’argomento).

Probabilmente l’ennesimo caso di eterodossia da parte mia, visto che sostanzialmente tutti da qualche anno parlano dell’importanza dei millennials per il futuro delle marche.

Mi arrendo quindi all’ortodossia (quasi) e, siccome la vita è una ruota, sintetizzo di seguito le indicazioni fornite dalla ricerca sulla Generazione Z realizzata lo scorso giugno dal JWT Intelligence e Snapchat.

L’impressione è che la presenza di Snapchat distorga leggermente la visione rispetto all’utilizzo di altre piattaforme, ma visto che Facebook è sempre equivalente al diario del liceo (nomen omen), quindi di chi al liceo scriveva sul diario cose che andavano oltre la scuola, Instagram il posto dove pubblicano quelli più “smart” di facebook e su TikTok sono arrivate perfino Barbara D’Urso e Caterina Balivo, forse la visione distorta è la mia.

Come spesso accade nell’adozione di un termine per indicare una “generazione”, l’origine del nome (cosa di cui ci interessa poco) e l’intervallo demografico che comprende non sono definiti in modo univoco e preciso.

Il Pew Research Centre comprende i nati tra il 1997 ed il 2012. Lo studio di JWT ha preso in considerazione il segmento compreso tra i 13 e 22 anni.

Quelli che una volta si sarebbero chiamati gli adolescenti, per cui non stupisce più di tanto che nella ricerca condotta in Usa e Regno Unito a maggio di quest’anno su 1.208 adolescenti che usano lo smartphone almeno una volta al giorno, la grandissima maggioranza indicasse come lo slogan della propria generazione “sii te stesso”. Parlate con qualsiasi psicologo dell’età evolutiva e vi dirà che l’adolescenza è una fase dello sviluppo caratterizzata dalla definizione del (nuovo) sé.

Ma basta banalizzare tutto. Passo a descrivere le principali indicazioni contenute nella ricerca (il report completo di 70 pagine lo trovate qui, gratis, basta registrarsi).

 

Creatività trilingue.

Anni fa tra i 100 trend per l’anno individuati sempre da JWT c’era il “parlare per immagini” (speacking visually). Per la Generazione Z questo è la norma perché ci sono cresciuti dentro.

Se per i Millenials si parlava di nativi digitali, qui possiamo parlare di (visual) social digitali.

A questo si aggiunge la creatività per cui le immagini sono spesso manipolate con effetti speciali, musiche e testi.

Tutto questo permette alla Generazione Z di esprimere pensieri complessi in maniera molto ricca, ed allo stesso tempo di mostrare in modo molto diretto le proprie emozioni.

Per capire cosa dicono bisogna quindi sapere lo stesso linguaggio ed ancora di più per “parlarci”. Se pensate ad una comunicazione (che dovrà essere) più povera solo perché non leggono i libri e non scrivono, rischate di fare molta poca strada.

 

C’è tutto, è qui ed è adesso.

Se ci penso attentamente quello scritto sopra è un concetto che a me fa venire le vertigini (ed infatti cè una vecchia vignetta di Mafalda che mostra proprio questo), ma per la Generazione Z è la situazione normale in cui sono nati e cresciuti.

Lo smartphone mette letteralmente il mondo in mano, quindi sono abituati al fatto che le cose che trovano in partenza sono (sembrano) tutte uguali. Così non hanno preconcetti nel mescolarle per ricrearle e condividerle. Fondono i confini estetici e culturali.

Esplorano diverse identità senza apparente contraddizione, il che non poi così sorprendente trattandosi di persone il cui cervello è letteralmente ancora in via di formazione anatomicamente e fisiologicamente. Chiunque ha degli adolescenti in casa sa esattamente cosa intendo.

 

Sono autentici, anche quando si contraddicono.

Anche nelle molteplici identità che possono esplorare, il loro comportamento è sempre orientato alla verità.

Le foto pulite, filtrate, perfette come in un set sono roba da (relativamente) vecchi. Chi mette più #nofilter tra gli ashtag di Instagram?

Le manipolazioni delle immagini e dei video non sono fatte per renderle più “belle”, bensì per renderle più emotivamente autentiche. Per esprime in modo più chiaro e compiuto cosa provano veramente.

Spontaneità vs. posa.

 

I principali motivatori sono il divertimento e l’intrattenimento.

Anche questa non proprio una scoperta clamorosa se ricordiamo che stiamo parlando di adolescenti (se dico “sbarbati” c’è qualcuno che mi capisce).

Sarebbe sbagliato però scambiare questi atteggiamenti con il disimpegno. Piuttosto si tratta degli approcci usati per far arrivare il messaggio, sia lo si mandi agli amici oppure all’universo mondo (web).

 

Le questioni sociali sono importanti.

Cresciuti nell’internet dell’odio, dove tutti giudicano tutti, la Generazione Z usa sfacciatamente la propria portata social (social reach) per creare comunità in cui dialogare rispetto alla loro fluidità (nuovamente caratteristica dell’età).

Ridefiniscono le identità di genere, i canoni di bellezza, ecc… in una logica inclusiva che va oltre i tutorials ed i selfies per stabilire personalità multiforme.

 

Online ed offline hanno pari importanza.

Proprio grazie al fatto di essere cresciuti in una società in cui il web ed i social erano già maturi, La Generazione Z è assolutamente cosciente dei pro e dei contro dei social media.

Per esprimere la propria creatività possono realizzare indifferentemente attività online o offline. Poi ovviamente pubblicheranno sul web le prove del loro gruppo musicale o il proprio disegno. Facilmente integreranno analogico e digitale per creare qualcosa di ancora diverso.

Perché comunque le app social gli danno una libertà di espressione praticamente infinita.

Ultima nota importante, visto che questo rimane un blog di marketing e la maggior parte delle organizzazioni che realizzano attività di marketing sono aziende for-profit: la Generazione Z ha un potere d’acquisto superiore a quello che hanno avuto in passato i loro pari età.

Una ricerca del 2013 stimava solo negli USA una capacità di spesa di 44 miliardi di dollari. Già quella volta si trattava una delle stime più prudenziali, e sono già passati 6 anni.

Tempus fugit.

(Anche) Gucci ha scoperto il lusso inclusivo.

L’altro giorno stavo leggendo un interessante articolo de “Il Post” sul successo di Gucci da quando alla guida c’è il nuovo A.D. Marco Bizzarri.

In pratica le vendite sono raddoppiate in pochi anni e nell’articolo sono descritte per sommi capi le strategie che hanno permesso di raggiungere questi eccellenti risultati. Gli spunti sono parecchi e quindi vi consiglio di leggere il pezzo, che trovate qui.

La parte chè però mi ha fatto sobbalzare è questa (il grassetto è mio):

Bizzarri stesso ha spiegato che, scrive il sito Business of Fashion, «la grossa tendenza di oggi non è l’esclusività. Un prodotto può essere esclusivo ma l’esclusività di un marchio è qualcosa di molto diverso. Oggi è l’inclusività la carta vincente di un marchio, in tutti i suoi aspetti: nei negozi, nella pubblicità, nella comunicazione e soprattutto nelle persone. […] Le cosa assolutamente importante è che non ci rivolgiamo a una fascia d’età. Non abbiamo mai voluto rivolgerci solo ai Millennials [quelli nati dai primi anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, n.d.r.]. Abbiamo sempre cercato di rivolgerci a uno stato mentale»

Il sobbalzo è dovuto al fatto che io, oramai più di dieci anni fa, avevo provato a teorizzare il lusso inclusivo.

Ho sempre avuto la sensazione che fosse una delle idee più balzane ed interessanti (le due cose sono collegate) che abbia mai elaborato e confesso che fa piacere scoprire che un grande marchio ha pensato e realizzato strategie vincenti basate su qualcosa di simile.

Rassicura vedere che era un concetto strano, ma non così assurdo.

Se siete curiosi di leggere cosa avevo pensato, qui trovate il post del novembre 2008.

 

 

La rivoluzione del web prossima ventura è già iniziata!

Masai smartphone

Sull’Internazionale di due settimane fa la copertina era dedicata ad un interessantissimo articolo dal titolo “L’altra metà di internet” (uscito in originale sull’Economist) che chiunque si occupi di marketing dovrebbe leggere.

Per chi non ha potuto leggere l’articolo, ma anche per chi l’ha letto, provo qui a farne una sintesi organica, inframmezzando qualche spunto strategico.

Cominciamo con qualche numero, altrimenti non sarei io.

-          Nel 2018 gli utenti di internet hanno superato la metà della popolazione mondiale.

-          Nei paesi ad alto reddito gli utenti di internet sono circa l’80% della popolazione, in Cina il 58%, in India il 30% e nei paesi meno sviluppati meno del 25%.

Quindi la gran parte dei nuovi utenti di internet arriverà dai paesi meno sviluppati / più poveri, quindi persone che non parlano né l’inglese né il mandarino, anzi che in buona misura sono analfabeti e che accederanno dallo principalmente dallo smartphone.

In un post del 2011 (brividi) scrivevo che per capire il futuro del marketing era opportuno guardare cosa succedeva in Brasile, Cina, India e Russia. Adesso aggiungeteci anche l’Africa, soprattutto subshariana.

La cosa più interessante dell’articolo è l’analisi di cosa fanno le persone di questi paesi più poveri, o anche le persone più povere di questi paesi, una volta che hanno accesso ad internet.

Chattano e guardano video esattamente come le persone più ricche dei paesi più ricchi. Detto in maniera più sofisticata lo usano per stare in contatto, divertirsi ed esprimersi.

Detto in maniera meno sofisticata, cazzeggiano. Detto in maniera più neutra “passano il tempo”.

Che fossero in buona o cattiva fede, le aziende ed istituzioni occidentali parlavano soprattutto della diffusione di internet tra i poveri come strumento di sviluppo e crescita economica. Formazione a distanza, informazioni sulla salute, sulle attività professionali, ecc…

Invece i più poveri vogliono innanzitutto divertirsi, come i più ricchi. Uguale uguale.

E qui mi viene in mente un’intervista a Desmond Morris letta tanti anni fa dove diceva che le tribù di cacciatori-raccoglitori alla fine della giornata (ma probabilmente anche durante) quello che fanno è trovarsi intorno al fuoco a raccontarsi storie e spettegolare. Bisognerà che prima o poi mi decida a leggere “La scimmia nuda” ed ad inserire elementi di antropologia nelle mie lezioni di marketing.

I tre paesi con la maggior penetrazione di internet nella popolazione sono U.S.A., India e Brasile.

Come per noi nei paesi sviluppati uno smartphone collegato ad internet è un’opportunità di trasformare momenti vuoti in momenti piacevoli. Internet è l’economia del tempo libero dei più poveri del pianeta.

Ma che tipo di economia, se sono poveri? Una trentina di anni l’Africa veniva utilizzata come esempio paradigmatico per spiegare l’effettivo potenziale di mercato di un’area geografica: in Africa c’è la popolazione, ma non hanno i soldi, quindi il mercato reale è piccolo ed è quello determinato dal potere d’acquisto.

Qui è tornato in mente il mio amico messicano che frequentava con me il Corso di Specializzazione in Marketing dei Prodotti Alimentari allo IAMZ di Saragozza (Spagna, non Sicilia). Dopo le lezioni sulla distribuzione tenute da docenti e manager anglosassoni ha detto una cosa tipo: “In Messico la distribuzione funziona così: ogni incrocio ci sono 4 bancarelle, una per ogni angolo, che vendono qualcosa (tacos, verdure, ferramenta, musicassette, ecc…). Niente di quello che ci hanno spiegato ha nulla a che vedere con questo sistema. Però siamo milioni”.

Nei paesi ricchi il modello di business di internet che si è affermato prevede di vendere l’attenzione degli utenti agli inserzionisti. Detto in altri termini si tratta di vendere pubblico alle aziende. Che poi è il modello di business basato sulla pubblicità che ha portato al fallimento i giornali.

L’interesse economico per i miliardi di utenti più poveri risiede nel fargli pagare per fargli accedere ad internet e per quello che fanno sulle app/piattaforme. Che poi è un modello più sano perché si focalizza sulla vendita diretta dei propri prodotti/servizi e non su quella indiretta del proprio pubblico.

Piccole somme su ampia scala.

Per dare un’idea della scala considerate che nel 2016 i canali indiani su YouTube con oltre 1 milione di iscritti erano 20. Oggi ce ne sono oltre 600 e tra i cinquanta con più iscritti ce quello in lingua bhojpuri, una lingua parlata solo in alcuni degli stati più poveri dell’India.

I video sono la modalità preferita dagli utenti più poveri di internet. In india si stima che l’impostazione di YouTube come homepage superi quella di Google.

I video sono una forma di comunicazione più facile ed efficace, per tutto non solo per l’intrattenimento. Soprattutto considerando che i prossimi utenti di internet parleranno una molteplicità di lingue, ma magari non saprà né leggerle né scriverle. I video sono più facili da comprendere e da condividere.

Inoltre parlare è comunque più comodo di scrivere per la maggior parte delle persone, come dimostra la diffusione dell’uso dei messaggi vocali su WhatsApp e delle storie su Instagram..

Attenzione che più poveri ed analfabeti non significa più stupidi e sprovveduti.

In Angola Facebook e Wikipedia, offrono servizi a “costo zero” che danno un accesso limitato ma buono ad internet. Accesso che le persone poi usano per scaricare film illegalmente.

Molto più diffuso è l’utilizzo legale dei wi-fi pubblici per scaricarsi contenuti da guardare successivamente off-line.

Siccome poi le esperienze dei consumatori (persone) sono diffuse, le modalità di utilizzo degli strumenti si moltiplicano, al di là di come erano state pensate dalle aziende che li avevano creati (vedi il mio concetto di Marketing Totale).

In India circa 1/3 degli utenti ha problemi di insufficiente spazio di archiviazione su propri smartphone, anche perché si tratta smartphone di fascia bassa. Si è diffuso quindi l’uso dei schede di memoria esterna (sistema Android) per archiviare i propri dati.

Da qui si è passati all’acquisto di schede di memoria con caricati contenuti di intrattenimento (film e musica) da guardare ed ascoltare con un’applicazione che si chiama MX Player. Questa applicazione è installata ogni giorno su oltre 1 milione di telefoni Android, ma nel 65% dei casi non viene scaricata da Google Play Store, bensì direttamente dalle schede di memoria che contengono anche i contenuti di intrattenimento. La app poi ha creato anche al suo interno un servizio di film e musica in streaming.

Ricordiamoci poi che stiamo parlando di culture molto diverse da quelle occidentali, culture in cui avere uno smartphone significa indipendenza e privacy. In famiglie dove c’è un solo televisore, quando c’è, o una sola radio, lo smartphone collegato ad internet significa poter guardare e ascoltare quello che si vuole.

In contesti rurali o di piccoli paesi e città dove la presenza ed il controllo “sociale” di famiglie (non solo fratelli e sorelle, manche zii, cugini, ecc…), vicini e conoscenti è ampio, lo smartphone collegato ad internet crea un ambito di privacy in cui interagire per parlare o fare quello che si vuole (PornHub indica che in India il 90% del suo traffico viene da cellulari, contro il 75% degli USA, che non è un dato poi così distante).

Vantaggi che rendono la questione della cessione dei propri dati alle aziende che forniscono i servizi del web un problema minore. Come disse Indira Gandhi alla conferenza internazionale che decise la proibizione del DDT, rivolgendosi ai rappresentanti dei paesi sviluppati: “Voi volete la bistecca senza il DDT, noi ci accontenteremo della bistecca”.

Culture diverse che hanno valori diversi, ad esempio rispetto ai canoni estetici minimalisti affermatisi in occidente, anche grazie alle scelte di Apple.

Oppure rispetto alle forme di espressione. In India prima degli smartphone e dei social molte persone avevano una suoneria per cui chi chiamava un cellulare sentiva una canzone scelta dall’utente e non il solito segnale acustico. I pagamenti per questo servizio avevano fruttato agli operatori indiani 82 miliardi di rupie tra il 2009 ed il 2012 (considerate che oggi il reddito medio pro-capite indiano è di 427.000 rupie all’anno, e la media non è una statistica molto veritiera della distribuzione del reddito in India).

Oggi l’azienda Times Internet sta studiando di far pagare 1 rupia per aggiungere una canzone ad un messaggio personale oppure per personalizzare l’aspetto di una app sul proprio telefono.

E il lavoro? Arriva, dopo ma arriva. L’esempio è quello di un taxista analfabeta di Mumbai che lavorare con Uber usa un’applicazione che trascrive il parlato e poi copia questo testo e lo invia come messaggio scritto agli utenti in attesa, sperando che sia sensato, come spesso succede.

Sicuro però che passa più tempo a guardare video ed ascoltare musica per ingannare il tempo tra una corsa e l’altra.

E quello descritto qui sopra è solo quello che si osserva con un approccio basato principalmente sulla fruizione di contenuti. Ma siamo nell’epoca dei Contenuti Generati dagli Utenti.

Una ricerca di Snapchat dice che attualmente sulla sua piattaforma ci sono 400.000 Lenses, quei “trucchi” non saprei come altro definirli, che vi cambiano la faccia, fanno zampillare stelle dalle mani, ecc … create dagli utenti.

Immaginate cosa succederà man mano che l’altra metà della popolazione mondiale entrerà in internet.

Ma questa è un’altra storia, che racconterò alla prossima occasione.

The excellence pursuer succeds forever.

Achieving-Excellence-in-Care-Services

Alcune settimane fa mi sono trovato a commentare un post relativamente ai concetti di qualità ed eccellenza nel settore del vino.

Alla richiesta di approfondimenti sul mio breve commento da parte dell’autore del post (per la cronaca si trattava di Alessandro Satin, che a sua volta condivideva un articolo pubblicato da Fabio Piccoli su Wine Meridian) rimandavo a questo blog, convinto che in tutti questi anni ci fosse almeno un post dedicato all’argomento. Anche perché mi ricordavo di aver scritto la frase del titolo di questo post.

Mi ricordavo bene, però in quel vecchio post oltre alla frase c’era poco altro.

Faccio quindi ammenda approfondendo oggi le questioni della qualità e dell’eccellenza, che nei loro aspetti fondamentali ovviamente sono comuni a tutti i settori, si tratti di vino, salumi, computer, motoscafi, abiti o prodotti di bellezza.

Vado subito al punto: la differenza tra qualità ed eccellenza è che la prima è (sostanzialmente) sempre relativa mentre la seconda è (sostanzialmente) sempre assoluta.

Le definizioni del dizionario di google chiariscono il concetto meglio di quanto non farei io con più giri di parole (Nota: ho guadato le definizioni anche di altri dizionari, ma queste mi sono sembrate le più chiare).

Eccellenza: qualità di sommo pregio o gradimento, unicità, perfezione.

Qualità: nozione alla quale sono ricondotti gli aspetti della realtà suscettibili di classificazione o di giudizio: buona, cattiva q.; frutta di q. scadente; assol., pregio, merito, dote: è un ragazzo pieno di q.; spesso contrapposto a quantità.

La qualità quindi si definisce rispetto a qualcos’altro: il prezzo, i prodotti/servizi concorrenti, gli altri prodotti/servizi dell’azienda nel tempo e nello spazio (geografico), le richieste del mercato, ecc….

Anche quando si parla di qualità totale e/o di certificazione della qualità ci si riferisce ad un livello qualitativo pianificato, che può essere basso, medio o alto, che sarà garantito costante grazie ai processi adottati dall’azienda. L’obiettivo è realizzare la qualità prevista in modo continuo e costante nel tempo e nello spazio (geografico).

L’eccellenza invece punta a produrre la miglior esperienza di consumo, o meglio di fruizione, possibile. Richiede quindi una visione autonoma, indipendente, da parte dell’azienda su cosa sia l’eccellenza della propria proposta e su cosa si basi. L’obiettivo è realizzare sempre la miglior proposta possibile, indipendentemente dal fatto che lo scarto qualitativo tra “migliore” e “medio” sia grande o piccolo.

Di conseguenza l’eccellenza è sempre una ricerca dell’eccellenza, ossia di come migliorarsi.

Si potrebbe dire che l’eccellenza è un’attitudine. Che non è né automatico né facile adottare. Cerco di spiegarne i principi con degli esempi per renderli più chiari.

 

Il prezzo, e quindi il costo, è un fattore marginale.

Questo non significa che nella logica dell’eccellenza sono ammessi sprechi o inefficienze. Significa che nel determinare le scelte aziendali il mantenimento/incremento dell’eccellenza viene prima delle valutazioni sulla convenienza o meno. Nota: “convenienza” è una parola che non dovrebbe esistere in un’azienda che punta all’eccellenza.

Potrei citare decine di esempi di scelte di eccellenza vs. convenienza che ho visto adottare nel salumificio Levoni quando ci lavoravo, oramai più di vent’anni fa. Scelgo questa: la salamoia per l’aromatizzazione di alcuni prosciutti cotti prevedeva la presenza di una piccola percentuale di marsala ed il marsala che si usava era Florio, il più celebre produttore di marsala.

Si sarebbe potuto utilizzare un marsala anonimo più economico? Certo.

Il sapore dei prosciutti sarebbe stato lo stesso? No per definizione.

La differenza sarebbe stata così rilevante da essere notata dai consumatori? Chissà.

E’ che in un’ottica di eccellenza l’ultima domanda non si pone, perché se voglio fare il prosciutto migliore uso i migliori ingredienti. Punto.

 

Il prezzo dei prodotti eccellenti non è in proporzione al livello di performances confrontato con i concorrenti: è più alto.

Innanzitutto per chi lavora nell’ambito dell’eccellenza la regola base per cui il prezzo del prodotto/servizio deve essere legato al valore della proposta e non al costo diventa un dogma.

Quello però che intendo con il titolo di questo paragrafo è che se il prodotto eccellente manifesta performances del 10% superiori rispetto al miglior concorrente (quello che lavora sull’alta qualità) il prezzo del prodotto eccellente non sarà del 10% più alto, ma più caro.

Questo perché l’eccellenza si stacca dal confronto competitivo, non è il 10% più buono: è il migliore. E chi ricerca l’eccellenza è (deve) essere disposto a pagare un prezzo slegato a quello dei concorrenti.

Quanto più alto sarà il prezzo? Dipende dalla fascia della capacità di spesa dei consumatori che si vuole coinvolgere, ricordando che l’eccellenza sarà tendenzialmente sempre una nicchia, più o meno grande del mercato.

Attenzione che non si tratta necessariamente di utilizzare un prezzo alto come segnale di esclusività e qualità. L’eccellenza è una cosa diversa dal lusso, soprattutto inteso come ostentazione, con cui può coincidere o meno.

Il posizionamento di prezzo elevato è necessario anche per fornire all’azienda le risorse che le permettono di perseguire la ricerca dell’eccellenza senza continui adeguamenti di listino.

La proposta di VERALAB si basa sull’eccellenza, senza per questo essere lussuosa (nemmeno nei prezzi).

 

L’azienda eccellente non deve fare tutto, ma tutto quello che fa deve essere eccellente.

All’inizio di questo post ho parlato di eccellenza di fruizione nell’esperienza con la marca/prodotto/servizio. Con questo intendevo che è sbagliato riferire l’eccellenza solamente alle caratteristiche fisiche di un prodotto.

Giova infatti ricordare che le persone non utilizzano mai prodotti, ma sempre servizi. O servizi come tali (tipo andare dal dentista) oppure quelli inglobati nelle caratteristiche fisiche dei prodotti. Gli aspetti legati alla fruizione di tutti questi servizi sono parte integrante dell’esperienza di marca e quindi come tali devono essere allo stesso livello di eccellenza della proposta di base. Non solo: possono (devono) essere oggetto di quella continua ricerca di eccellenza che costituisce uno degli elementi fondanti dell’eccellenza stessa.

Questo significa che se produco un vino eccellente devo mettermi a fare anche i bicchieri? No, però significa che quando faccio una degustazione i bicchieri che uso dovranno essere eccellenti.

Mettersi a fare i bicchieri potrebbe essere un’ottima idea per far crescere la nostra eccellenza (scusate l’ossimoro). L’ideale sarebbe farlo insieme ad un eccellente produttore, o, meglio ancora, artigiano, che ha le competenze eccellenti nella manifattura, disegnati da un eccellente architetto che ha le competenze eccellenti nella progettazione su indicazioni della cantina che ha le competenze eccellenti riguardo al vino. Qualcuno direbbe che si potrebbe farlo disegnare da un eccellente degustatore/sommelier, però secondo me in questo modo indeboliamo l’eccellenza della nostra proposta perché deleghiamo ad altri la sua interpretazione.

Non ho mai avuto modo di verificarlo personalmente, ma mi è rimasto impresso un articolo letto anni fa sull’alta moda scritto da un non esperto in cui l’autore sottolineava coma la cosa più stupefacente dei capi di alta moda era la cura e la qualità delle parti interne, quelle che non si vedono indossandolo, equivalente a quella delle parti visibili.

 

L’eccellenza è innanzitutto un’attitudine, però poi ci vogliono le competenze e gli strumenti/tecnologie.

Avere la visione non basta se poi non si è capaci di realizzarla. Non è necessario essere in grado di fare tutto personalmente, ma bisogna conoscere la materia per trovare, allevare e gestire i talenti ed acquisire, o addirittura creare, gli strumenti/tecnologie.

Non è che Steve Jobs abbia tecnicamente sviluppato tutti i componenti di tutti i prodotti Apple, ma indubbiamente aveva le competenze per capire di cosa si parlava.

Domanda: Apple è ancora un’azienda eccellente oppure è solo di alta qualità?

 

Per fare eccellenza ci vuole una cultura aziendale rivolta all’eccellenza.

Anni fa mi capitò che un cliente si lamentasse per un lotto di bottiglie su cui l’etichetta era leggermente storta.

Verificata la cosa con la produzione si arrivò alla conclusione che per avere la certezza che tutte le bottiglie uscissero dalla linea con le etichette perfettamente dritte sarebbe stato necessario rallentare la velocità della linea di imbottigliamento.

Misurati i costi di produzione aggiuntivi e stimata l’entità del problema sul mercato, si decise che NON VALEVA LA PENA modificare i processi in atto.

Giustamente, perché quell’azienda non funzionava su un approccio di eccellenza (e comunque funzionava bene in termini di risultati).

Il Gruppo Ferretti è un gruppo industriale proprietario di diversi cantieri/marchi che producono imbarcazioni di lusso. Tra le diverse azienda del gruppo c’è anche la Riva di Sarnico sul lago d’Iseo, con una storia che risale alla prima metà dell’800 e, soprattutto, produttore di motoscafi fin dagli anni ’20 del novecento. Un’azienda con una visione ed una cultura di eccellenza che negli anni ’60 ha prodotto il mitico motoscafo Acquarama.

Un paio di anni fa ho visto un programma televisivo dedicato alla fabbrica di motoscafi Riva in cui un top manager del Gruppo Ferretti (credo fosse l’Amministratore Delegato), diceva qualcosa del tipo “Se io vado in una delle altre aziende del gruppo e dicessi, ad esempio, di ridurre gli scarti nella selezione delle pelli per i sedili ubbidirebbero perché è una richiesta della direzione. Qui alla Riva invece gli operai si rifiuterebbero perché andrebbe contro la loro cultura di eccellenza”.

Credo che sia un esempio illuminante (e quando ci penso mi chiedo sempre se lo stipendio degli operai della Riva sia adeguato alle loro competenze ed alla loro visione).

 

Per fare eccellenza ci vuole capacità finanziaria.

Non sempre si trovano i segmenti di mercato interessati all’eccellenza, o almeno non subito.

I costi però corrono da subito e corrono tutto l’anno.

Ecco perché ci vuole una capacità finanziaria in grado di sopportare i periodi di nulla o scarsa redditività e di creare le basi per i (grandi) profitti futuri.

Come diceva (più o meno) la baronessa Rothschild “Quello del vino è un business interessante, passate le difficoltà dei primi ottant’anni”.

Magari se riuscite a capire dove sta la vostra eccellenza e sapete proporla all’audience giusta, magari ci mettete meno (però anche per fare questo la capacità finanziaria fa comodo).

Esempio Ducati.

Una ventina di anni fa Ducati era un’azienda in crisi: dopo diversi passaggi di proprietà le sue moto venivano generalmente considerate superate, difficili da guidare e difficili da manutenere.

La ricetta più ovvia ed efficace per non sparire poteva sembrare quella di fare evolvere il prodotto nella direzione delle grandi marche giapponesi che stavano prendendo il mercato.

Però, per fortuna, il management invece puntò sull’eccellenza riconosciuta dell’azienda (riconosciuta sia dai motociclisti che dai produttori concorrenti): il motore desmodromico. Una tecnologia unica (unicità ed eccellenza spesso sono legate), che permette di raggiungere performances superiori, motoristicamente parlando.

Anche perché si rese conto che c’era una comunità spontanea di appassionati ducatisti che amavano le Ducati proprio perché erano potenti e difficili. Come mi racconto un manager dell’azienda a suo tempo “il tipo di persone contente di fare la gita la domenica su strade piene di curve e passare poi il resto della settimana a sistemare la moto”.

Così piuttosto che cercare di rendere le moto più docili, più neutre, snaturandole, il rilancio della Ducati è stato realizzando coltivando proprio quelle caratteristiche che sembravano negative.

L’eccellenza non è per tutti, né come consumatori né come aziende. A volte però i giusti targeting, positioning e marketing mix riescono a tirar fuori le eccellenze inespresse.

Non c’è crisi nei vini del Nordest.

Summer school 2019

Lo scorso 26 luglio alla Fondazione Campus di Portogruaro si è tenuta una tavola rotonda sulle prospettive dei vini del Triveneto.

Era anche la “lezione” conclusiva della Summer School “Marketing e Distribuzione dei Vini del Nordest”, organizzata dalla business school MIB di Trieste sotto la direzione di Pierpaolo Penco in collaborazione con la fondazione Campus. (disclaimer: ho partecipato al corso come docente della parte di marketing strategico)

Una tavola rotonda di altissimo livello a cominciare dal Direttore del Corriere Vinicolo Giulio Somma nel ruolo di moderatore e che prevedeva la presenza di:

  • Valerio Fuson, Vice Presidente del Consorzio Prosecco Conegliano Valdobbiadene.
  • Ettore Nicoletto, Presidente del Consorzio del Lugana.
  • Pietro Biscontin, Vice Presidente del Consorzio delle DOC del Friuli Venezia Giulia.
  • Stefano Zanette, Presidente del Consorzio del Prosecco DOC.
  • Albino Armani, Presidente del Consorzio del Pinot Grigio delle Venezie DOC.

Purtroppo all’ultimo momento Armani non è riuscito ad arrivare, comunque anche così al tavolo della Biblioteca Storica erano rappresentate poco meno di 1 miliardo di bottiglie.

La ragione per cui ci fossero solo una decina di persone tra il pubblico, allievi, docenti ed organizzatori del corso a parte, per me rimane un mistero, considerando la densità di operatori ed aziende viti-vinicole in zona.

Per quelli che avrebbero voluto esserci, ma non hanno potuto ecco la mia sintesi delle cose più salienti che sono emerse da una discussione che non è stata per nulla “politica”, ma fattiva, aperta e concreta.

Prima però un doveroso ringraziamento a Raffaele Foglia, che per primo ha fortemente voluto questo corso a Portogruaro e poi ha lavorato sodo perché si potesse realizzare.

 

I vini triveneti vanno bene e quindi è necessario gestirne il successo.

Il primo stimolo dato da Somma è stata l’analisi delle misure di controllo della produzione che tutti i Consorzi veneti hanno adottato nelle ultime settimane.

Tutti i presenti hanno smentito che si tratti di misure necessarie per affrontare una crisi di mercato.

Il Conegliano Valdobbiadene negli ultimi due anni ha rallentato sui mercati esteri, ma ha recuperato su quello nazionale.

Il Lugana continua a crescere a due cifre ed ha un prezzo a scaffale che supera gli 8 euro (oltre il doppio della media dei vini bianchi)

Il Friuli Venezia Giulia non ha adottato nessuna misura limitativa della produzione per le sue DOC storiche, mentre ovviamente è coinvolto in quelle del Prosecco DOC e del Pinot Grigio Delle Venezie per i vigneti che ricadono in queste denominazioni.

Il Prosecco DOC sta crescendo anche quest’anno del 6% e l’accantonamento del 16% della produzione (quindi meno del 20% che si accantonava solo pochi anni fa quando è nata la denominazione) risponde ad un approccio prudenziale legato alle turbolenze geopolitiche che si annunciano sullo scenario economico mondiale (leggi Brexit e dazi USA).

E comunque anche se il prezzo del vino sfuso andasse ad 1,50 euro/litro, anche con la resa ridotta a 112,5 hl/ha, si ottiene una Produzione Lorda Vendibile di 16.875 euro/ha, un valore che mi pare tutt’altro che critico (N.d.A.).

Gli interventi di controllo della produzione (accantonamento di parte della vendemmia e blocco degli impianti di nuovi vigneti) da parte dei Consorzi rispondono quindi alla necessità di gestire questo successo.

Il rischio che si vuole evitare è che un aumento incontrollato della produzione di questi vini che attualmente permettono ai produttori una redditività maggiore rispetto agli altri, per non parlare di attività agricole diverse dalla viticoltura, porti ad un eccesso di offerta, con conseguente calo dei prezzi.

Io condivido la diagnosi, ma la vedo in molto diverso riguardo alla terapia. Chi volesse approfondire può leggere il mio post uscito su Vinix la scorsa settimana.

 

Il Prosecco è diventato un grande marchio mondiale ed il comparto ne sta prendendo consapevolezza.

Spesso ci si rende conto del proprio valore attraverso la valutazione che gli altri fanno di noi.

Zanette raccontava che gli è successo due volte nel corso degli ultimi mesi.

La prima volta nell’incontro con la Dorna, la società spagnola che gestisce i diritti del MotoGP, in occasione della firma del contratto di sponsorizzazione che legherà il Prosecco DOC al MotoGP nel triennio 2019-2021.

Andare a trattare un accordo con chi gestisce uno dei grandi eventi dello sport mondiale metteva un po’ di soggezione, salvo poi scoprire come i dirigenti della Dorna considerassero già il Prosecco come un marchio di pari, sinergico a quello del moto GP (l’omissione della specifica “DOC” dopo “Prosecco” è voluta)

La seconda volta ad una cena (se ho capito bene) in cui partecipava il Presidente del Syndacat General de Vignerons de La Champagne Vignerons, quando chiaccherando è venuto fuori che la percezione complessiva del Prosecco era superiore a quella dello Champagne in tutti i mercati (meno uno) in cui avevano realizzato una ricerca che analizzava l’atteggiamento del consumatore.

La cosa può sembrare strana gurdata da un punto di vista enologico-produttivo, ma è assolutamente comprensibile, e perfino logica, se si ragiona in termini di servizi offerti (benefits) per il consumatore.

In tutte le ricerche che ho fatto o che mi è capitato di vedere risultava chiaramente come il Prosecco sia più “simpatico” dello Champagne (per dirlo in estremissima sintesi) e che per questo non si trovava sotto, ma di fianco. Mentre gli altri spumanti metodo classico si trovano nell’ambito dello Champagne, però al di sotto (anche perché consciamente o inconsciamente si posizionano sempre riferendosi allo Champagne), il Prosecco è una cosa diversa, che vive e si muove in un territorio proprio.

La relativa scelta del Syndacat General de Vignerons de La Champagne di lanciare in Francia nel 2018 una campagna pubblicitaria da 12 milioni di euro in tre anni per svecchiare e democratizzare lo spirito dello champagne, mi lascia personalmente abbastanza perplesso. Mi stupisce ancora di più il fatto che i Vignerons possano fare una campagna che cita lo champagne tout-court, e quindi incide sul posizionamento di tutta la denominazione, senza l’accordo delle altre componenti del sistema, come le grandi Maisons. Ma questi sono problemi dei francesi e possiamo tranquillamente lasciarli a loro.

Noi godiamoci la notizia della presa di coscienza da parte del comparto che il Prosecco (DOC) del valore raggiunto dal marchio, perché questa è la condizione necessaria perché tutti si convincano della necessità di gestirlo come il grande marchio mondiale che è.

L’altro bella notizia portata da Zanette è che gli Stati Uniti sono diventati il primo mercato a valore del Prosecco DOC, superando il Regno Unito. E speriamo che la minaccia dei dazi di Trump sia meno pericolosa del Brexit duro portato avanti da Johnson (cosa dite, saranno i capelli?).

 

Quale rapporto tra marchio consortile e marche aziendale?

La domanda di Somma è stata per me di grande interessa, poichè avevo specificatamente affronatato questo argomento durante la mia lezione.

Ettore Nicoletto ha aperto il giro di tavolo, esprimendo la propria convinzione di come la presenza di forti marche aziendali sia fondamentale per lo sviluppo di un marchio consortile.

Stefano Zanette ha auspicato maggiore impegno da parte delle cantine nel promuovere le proprie marche, così da non lasciare al solo Consorzio l’onere di diffondere e difendere la notorietà del Prosecco (DOC). Allo stesso tempo ha segnalato come marche aziendali troppo forti possano portare a strategie che le separano dal marchio della denominazione.

Una situazione che si osserva ad esempio in Friuli Venezia Giulia ed anche per questo Pietro Biscontin si è detto sempre più convinto della necessità che la DOC del Friuli Venezia Giulia debba intensificare le proprie azioni per affermarsi sui mercati. Magari sfruttando la popolarità di cui sta godendo negli ultimi anni la Ribolla Gialla facendolo diventare il vino emblematico della regione, capitalizzando il lavoro svolto da pionieri come Collavini o Gravner.

Aspetti sintetizzati dalla diapositiva tratta dalla mia presentazione dove sono messe a confronto tre diverse bottiglie di Pinot Grigio.

MIB Summer School vino del nordest 2019

Nella prima a sinistra si evidenzia solamente il marchio consortile. E’ il Pinot Grigio venduto nei punti vendita di ALDI. Non c’è bisogno nemmeno di un marchio di fantasia, che andrebbe inutilmente ad indebolire la forza comunicativa della DOC. Esigenze di differenziarsi dalla concorrenza non ce ne sono, perché la catena tiene in assortimento solamente i vini che fa produrre per sé. Il marchio dell’insegna guida la scelta del punto vendita, l’assortimento in termini di varietà, qualità intrinseca dei prodotti e prezzo determina la soddisfazione dei consumatori.

Quella al centro è il Pinot Grigio Valdadige DOC di Santa Margherita. Qui la marca aziendale prevale sul vitigno e sulla denominazione. Quest’ultima però rimane bene evidente e crea una sinergia per cui i tre elementi marca aziendale-vitigno-denominazione si rafforzano a vicenda.

L’ultima a destra è il Pinot Grigio di Livio Felluga. E’ un Colli Orientali DOC, ma questa indicazione viene riportata solamente in retro-etichetta. Su quella frontale, la principale per la comunicazione al consumatore si vedono solo la marca aziendale ed il vitigno. La marca aziendale prevale talmente tanto sulla denominazione, da farla sparire.

 

Due questioni irrisolte: le strategie di valorizzazione ed i livelli di prezzo dei vini sfusi.

In realtà la prima più che irrisolta, è una questione che non è stata affrontata. A parte ricordare come la maggior parte dei Consorzi dispongano di un budget limitato per questo tipo di attività.

Eppure è una questione cruciale nel momento in cui si adottano misure di limitazione della produzione. Se una cantina viene a trovarsi in una situazione in cui la produzione superano le vendite (o anche solo prevede che possa succedere) la prima cosa che fa è intensificare le proprie azioni per trovare nuovi sbocchi sul mercato.

Ricordo la dialettica che si instaurava sempre durante la preparazione del budget per l’anno successivo tra direzione generale, amministrazione, marketing e vendite in tutte le aziende dove ho lavorato . Le dinamiche aziendali portano le diverse funzioni a sviluppare il budget in contemporanea, ma i colleghi delle vendite chiedevano, giustamente, di conoscere prima gli investimenti e le strategie di marketing per poter fare delle previsioni accurate.

Quella del livello dei prezzi dei vini sfusi è stata invece affrontata in seguito ad una mia domanda che, confesso sinceramente, non volevo fare (ma poi non ho resistito).

Non volevo farla sia per evitare di fare la solita figura del rompi…scatole, sia perché immaginavo già la risposta che puntualmente è arrivata rendendo inutile la domanda.

La risposta unanime è stata che l’attuale regolamentazione sulla concorrenza impedisce ai Consorzi di dichiarare un obiettivo di prezzo, finanche un intervallo, del vino sfuso DOC.

Io per fortuna non faccio il Presidente di Consorzio e posso dire questa normativa mi sembra una grandiosa stupidaggine nel momento in cui si autorizzano i Consorzi ad adottare misure di controllo della produzione, che sono quanto di più limitante alla libera concorrenza si possa immaginare.

Attenzione: non sto discutendo la facoltà dei Consorzi di gestire l’offerta della Denominazione. Sto dicendo che farlo senza permettergli di indicare il prezzo del vino sfuso DOC a cui puntano con queste iniziative è nascondersi dietro un dito.

Evidentemente i Consorzi questo prezzo obiettivo ce l’hanno. Non poterlo indicare rende meno efficace la loro azione e più difficile il lavoro degli operatori coinvolti nella filiera. Dal viticoltore fino allo scaffale passando per imbottigliatori, agenti, grossisti, buyers della GDO, ristoratori, enotecari, ecc.

 

… e il Pinot Grigio DOC delle Venezie?

Vista purtroppo l’assenza di Albino Armani, il contributo di discussione relativo a questa Denominazione lo prendiamo dal lavoro svolto dagli allievi della Summer School.

Il corso infatti prevedeva una parte teorica ed una parte pratica, con la realizzazione di una strategie di sviluppo dei marchi su determinati mercati esteri.

I marchi scelti sono stati il Prosecco (con libertà ai partecipanti di scegliere se focalizzarsi su una specifica denominazione oppure sul “sistema della marca Prosecco”), la Ribolla Gialla, l’Amarone ed il Pinot Grigio.

La prima esercitazione pratica ha riguardato la definizione della personalità della marca, punto di partenza irrinunciabile per sviluppare strategie efficaci ed efficienti.

Per farlo gli allievi hanno utilizzato il modello che utilizzo per le mie consulenze (la struttura di base l’ho presa dallo studio Minale di Londra, un bravissimo designer con cui ho spesso lavorato in passato, affinandola poi in dieci anni di lavoro in azienda).

Questo è stato il risultato:

Personalità PG Venezie Summer School 2019

Un’ eccellente base di partenza per il successivo sviluppo delle strategie operative sui mercati realizzato sotto la guida di Andrea Carpi

Quali sono state? Non è che posso raccontarvi proprio tutto tutto …

L’importanza del vantaggio del pioniere.

Con il termine “vantaggio del pioniere” in economia aziendale si intende quel vantaggio competitivo intrinseco a quei prodotti/marche che sono stati i primi portatori di una innovazione, capaci nei casi più eclatanti di dare origine ad una nuova categoria di prodotto.
Ne ho accennato brevemente in un mio post del 2015 che riguardava Melegatti, ma credo valga la pena di riprendere, approfondendolo, il concetto per i vantaggi che porta all’azienda “pioneristica” e quindi come fare a valorizzarlo e mantenerlo.

Il vantaggio del pioniere è potenzialmente più diffuso di quanto non si pensi, perché può collegarsi ad innovazioni anche (apparentemente) non radicali dal punto di vista industriale, ma significative per il consumatore. Come sempre parlando di marketing il riferimento è il vantaggio percepito dalle persone (consumatori).
Questo permette quindi di anche ad aziende già esistenti ed operanti in mercati consolidati, se non maturi, di creare prodotti (servizi) in grado di ottenere un “vantaggio del pioniere”. Evidentemente per farlo è necessario comunicare alle audiencies la propria innovazione.
Restando nel campo che conosco meglio, quello degli alimenti e bevande, un esempio di questo tipo può essere il salame Golfetta, creato pochi decenni fa dall’azienda Golfera (interessante il loro positioning statement “I nuovi salumi dal sapore antico”).

Il vantaggio del pioniere può essere sfruttato per ottenere grandi volumi, come ha fatto la Coca Cola, oppure un prezzo di vendita superiore, come Nescafè, oppure entrambi, come Nutella.
C’è un continuum che va dai volumi di vendite al prezzo esclusivo che dipende dalle strategie della marca, ma anche dalla portata dell’innovazione pioneristica.

L’altra cosa interessante è che il plus di immagine che deriva dall’essere (considerati) pionieri per un determinato prodotto conferisce un affetto alone alla marca di cui possono beneficiarsi altri prodotti nella stessa categoria e persino prodotti e marche dell’azienda in categorie diverse.

Vista l’importanza del vantaggio del pioniere è sorprendente la frequenza con cui le aziende lo lasciano indebolirsi fino a svanire. Indipendentemente da quello che possono fare i concorrenti, la responsabilità della perdita del vantaggio del pioniere ricade innanzitutto sull’azienda che lo detiene.
Essenzialmente il vantaggio del pioniere infatti si perde sempre perché si smette di coltivarlo. E si smette di coltivarlo perché in azienda si smette di crederci. E si smette di crederci perché nelle aziende le persone cambiano o (forse più spesso) si stufano.
Ricordo che in una delle aziende in cui ho lavorato, all’inizio i miei sforzi maggiori si sono rivolti a rifocalizzare l’azienda sul proprio vantaggio del pioniere. Mentre definivamo e sviluppavamo la strategia un collaboratore mi ha chiesto “Ancora? Ma fino a quando potremmo andare avanti a dire che siamo stati i primi?” e io ho risposto “Per sempre.”

Essere il pioniere di un determinato tipo di prodotto / categoria non scade mai, è per sempre.

Purtroppo però questo in azienda viene scambiato come la necessità/possibilità di ripetere semplicemente e meccanicamente il fatto, come si trattasse di un compleanno.

Con il passare del tempo, e con l’intensificarsi della concorrenza da parte di followers e/o imitatori il pionerismo va coltivato alimentandolo di idee. Tanto di più quanto più il nostro prodotto ha un successo tale da diventare il nome generico della categoria per la maggioranza delle persone, come ad esempio nel caso delle Sottilette Kraft.
Il pionerismo quindi dovrà essere citato in tutti gli ambiti e le occasioni, sia perché non venga dimenticato dal mercato sommerso e confuso dai concorrenti, sia perché è la base del nostro valore superiore.
Allo stesso tempo però dovrà essere confermato da una continua innovazione che andrà ad arricchire il prodotto/marca in tutti i suoi aspetti. Detto in altre parole bisognerà continuare ad essere pionieri e dimostrare di vivere alla frontiera del settore, con la capacità e curiosità di spostarla sempre un po’ più (avanti, di lato, sopra, sotto).

Non dovrebbe essere difficile perché in quanto pionieri, oltre ad una maggiore credibilità intrinseca in quello che facciamo nei confronti delle audiencies, abbiamo un vantaggio di partenza nelle curve di esperienza, sia che si tratti di sviluppo di prodotto che di processo.
A meno che, come dicevo, non ci annoiamo/rilassiamo oppure ci distraiamo. Capita infatti che il successo dell’innovazione pioneristica sia tale da creare risorse che ci portano ad entrare in settori totalmente distanti rispetto a quello in cui siamo nati e cresciuti. Magari anche potenzialmente più redditizi. Ecco quindi che il nostro prodotto pioneristico con il tempo perde di importanza fino a diventare marginale.
Il problema è che nel momento in cui il nostro business originario va in crisi, rischia di entrare in crisi tutta l’azienda, settori nuovi compresi.

Mi rendo conto che (come al solito?) queste riflessioni possono sembrare pure speculazioni teoriche, ma vi assicuro che non è così. Pensate a Nokia (noia/rilassamento) oppure a Benetton (distrazione).

Sicuro che se vi concentrate un attimo vi vengono in mente altri esempi relativi al vostro settore. Fatelo e cercate di imparare dagli errori altrui, che costa meno di imparare dai propri.

Zuegg: ottima pubblicità, pessime promozioni (web).

Negli ultimi 3 mesi sto guardando più televisione del solito e quindi vedo più pubblicità.

Più ne vedo e più mi sembra inutile perché pensata secondo logiche di almeno 10 anni fa (e forse anche 20) e quindi deboli per attirare l’attenzione dell’audience obiettivo.

Forse mi sbaglio perché ho una percezione distorta dell’audience obiettivo, considerato che in questi mesi ho visto in televisione le Gemelle Kessler, Pippo Baudo, Renzo Arbore, Bruno Vespa, Celentano, Mara Venier, Marcella Bella, Ornella Vanoni (sia attualmente che in una puntata di Studio Uno del 1967/68), Loredana Bertè e perfino il mago Silvan. E questo senza aver guardato il Festival di Sanremo.

Ad ogni modo, confermato che viviamo nel 2019 e non nel 1969, la pubblicità televisiva della Zuegg mi ha colpito positivamente per la chiarezza e coerenza del messaggio, sia come concetto di base (core concept) che come rappresentazione.

Se osservate le pubblicità che ci sono in giro, vi accorgerete come predominino la ricerca delle emozioni attraverso concetti intangibile e la cura del racconto (il famoso storytelling) seguendo il paradigma che la narrativa è più efficace della saggistica per trasmette contenuti alle persone. Il problema è che la narrativa senza contenuti rimane solo forma fredda e vuota e l’intangibile senza emozioni risulta finto.

Invece di essere uno strumento attraverso cui comunicare e rafforzare gli elementi differenzianti delle marche, la pubblicità diventa una cortina fumogena per cercare di nascondere la mancanza di originalità della proposta. O per meglio dire l’incapacità di individuare l’originalità della proposta.

Zuegg invece sceglie di puntare sulla caratteristica di base che determina il servizio ricercato nel prodotto dai consumatori e dice “Io non ci metto la faccia, ci metto la frutta” – “I frutteti di Oswald Zuegg”

Back to basic. Possono dirlo anche tutti gli altri produttori di marmellata? Si e no. Dipende da quanta frutta ci mettono, da quanti frutteti possiedono e/o gestiscono, ecc … E comunque chi lo dice forte e chiaro adesso è Zuegg, che quindi in un certo si appropria del concetto.

Confesso che probabilmente quello che ha attirato la mia attenzione è anche il claim, perché spesso mi sono trovato in situazioni nelle quali, a fronte della carenza di idee, veniva fuori qualcuno che diceva “E noi ci mettiamo la faccia!” e a me spontaneamente veniva da rispondere “Ma siete così sicuri che la vostra faccia valga qualcosa?”. Poi mi mordevo la lingua, non lo dicevo e provavo a ragionare avanti.

Quindi Zuegg bene, bravi, bis ed il post finisce qui, in gloria.

Sennonchè un paio di giorni dopo Pier Luca Santoro commenta su fb la notizia riportata da Il Post che Skipper Zuegg ha lanciato un concorso per vincere un “succhino di cittadinanza” e allibisco, sia come consumatore fedelissimo di Skipper all’arancia che come esperto di marketing.

Perché trovo assolutamente giusto che una marca possa prendere posizione su questioni sociali (vedi ad esempio l’ultima campagna Nike), ma inserirsi nel dibattito partitico è tutto un altro paio di maniche. Si tratta di argomenti per definizione partigiani in generale ed in questo momento in Italia particolarmente divisivi.

Se proprio una marca ritiene di avere tra i suoi valori la militanza politica (e sottolineo il SE 44 volte) allora deve farlo seriamente, non come un giochino. Ameno che non faccia della satira politica il proprio posizionamento, ma qui stiamo uscendo dal seminato.

Per quelli che non hanno visto l’iniziativa e non hanno avuto voglia di cliccare sul link riassumo il concorso.

Andando sul sito skipperzuegg.it si può fare “richiesta” per il succhino di cittadinanza “dimostrando di essere degno di ricevere uno dei nostri preziosissimi succhi gratis” (non è che avete avete un po’ esagerato con le iperboli?) rispondendo ad una serie di quesiti e lasciando una descrizione di massimo 300 caratteri perché si merita il succhino di cittadinanza.

Questi sono i quesiti che trovate sul sito (la descrizione è mia, ma se volete potete copiarla)

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Ovviamente per partecipare al concorso vanno indicati nome, cognome ed indirizzo e-mail, con relativa autorizzazione al trattamento dei dati personali non solo ai fini del concorso ma anche all’ “Utilizzo dei dati a fini promozionali attraverso l’invio di comunicazioni commerciali o realizzazione di studi di mercato”, come recita l’informativa.

In cambio di cosa io dovrei farmi riempire la casella di posta di mail promo-pubblicitarie? In cambio della possibilità di vincere N°1 succo Skipper, gusti assortiti, da 330 ml del valore indicativo di 1,00€ iva esclusa. Il premio verrà recapitato al domicilio comunicato dal vincitore in fase di registrazione. Non è possibile in alcun modo scegliere il gusto del succo Skipper vinto. (estratto dal regolamento del concorso).

Neanche una fornitura per 1 mese. E non posso nemmeno scegliere il gusto, che tra l’altro sarebbe stato interessante come informazione sulle preferenze dei consumatori più coinvolti con la marca.

Allora ho pensato “Almeno sarà un modo per fare assaggiare un determinato gusto (nuovo) ai consumatori più fedeli/coinvolti” quindi il concorso sarà solo un giochino simpatico (???) e prevederà che tutti i partecipanti riceveranno il loro “preziosissimo succo”. Che volendo era anche coerente con il concetto di “succhino di cittadinanza” per tutti i cittadini di Skipper.

E invece un’altra delusione: una giuria della società che gestisce il concorso, la Advice Group S.p.A. di Torino, sceglierà a suo insindacabile giudizio i 500 vincitori.

Quindi riassumendo cara Skipper Zuegg, questione politica a parte, non solo siete dei barboni perché fate un concorso in cui si vince un premio di 1 euro, non solo siete dei doppi barboni perché vincono solamente 500 partecipanti, non solo siete dei tripli barboni perché non si vince ad estrazione, ma non avete neanche il tempo di leggere quello che io, vostro consumatore fedele, mi sono preso la briga di scrivervi.

E poi mi tocca sentire i guru che parlano di “costruire un rapporto diretto per creare legami emotivi con i consumatori”.

Da notare che le descrizioni del perché uno si merita il succhino di cittadinanza da poter usare eventualmente per attività di content marketing si possono avere ugualmente anche facendo vincere ad estrazione. Anche perché se uno partecipa al questo concorso è perché ci tiene, non certo per il preziosissimo premio da 1 euro.

La domanda che rimane alla fine è “come è possibile che la stessa azienda centri la pubblicità e “canni” così clamorosamente l’attività promozionale?”

Senza conoscere le situazioni interne aziendali di Zuegg proverò a fare delle ipotesi gestionali “generali” che, spero, magari, possano aiutare ad evitare di incappare in errori di questo tipo.

  1. Zuegg e Skipper sono due marche diverse, con identità e posizionamenti diversi. Vero, il problema però è che sulle confezioni di Skipper c’è Zuegg in bella evidenza, il sito di Skipper si chiama “skipperzuegg”, nel sito di Zuegg c’è il link al sito Skipper, ecc..

In sintesi, “Zuegg” è la marca ombrello di Skipper sin dagli inizi. E questo è il rischio con le marche ombrello che sono anche marche prodotto (se Zuegg fosse il solo il marchio istituzionale azienda, la questione sarebbe diversa, ma non apriamo troppe parentesi). Magari quando Skipper è stato lanciato nel 1988 il posizionamento tra le due marche era coerente e sicuramente l’endorsment e la notorietà di Zuegg hanno favorito la reputazione e conoscenza di Skipper.

Però è abbastanza normale che in trent’anni le due marche abbiano preso strade diverse per mantenere ed accrescere il proprio successo. Oltre al fatto che in questi anni Skipper ha costruito una sua forza di marca “autonoma”.

Io, che già di principio non sono amico dei marchi di prodotto usati come marchi ombrello (regola generale, non assoluta), in situazioni come questa io consiglio di valutare di liberare la (ex) sotto-marca dal cappello della marca madre.

Per l’azienda, che vive la storia delle marche quotidianamente e dal di dentro, sembra uno shock, ma è probabile che la maggioranza dei consumatori nemmeno se ne accorga. Qualche indagine di mercato che misuri la sovrapposizione tra gli acquirenti/consumatori delle marmellate Zuegg ed i succhi Skipper ed il percepito/importanza del marchio Zuegg per gli acquirenti/consumatori di Skipper possono aiutare a prendere una decisione più informata.

  1. Le persone/enti aziendali e le agenzie esterne coinvolte nella gestione della marca Zuegg sono diverse da quelle che gestiscono Skipper.

Direi che la cosa è abbastanza sicura, trattandosi di due marche entrambe grandi ed importanti per l’azienda. Ma questo si verifica anche in aziende più piccole, con marche di minor peso relativo.

Il rischio è quello di perdere coerenza e coesione, quindi efficienza ed efficacia, nello sviluppo e realizzazione delle strategie. Perché non dobbiamo dimenticarci che tutto quello che si fa sulla marca Zuegg avrà un effetto anche sulla percezione di Skipper e viceversa.

Per questa ragione io ho sempre organizzato i miei dipartimenti marketing per marca o, al limite, per mercato geografico.

Non l’ho mai organizzato per canale e non ho mai voluto istituire la funzione di trade marketing. Questo sia per evitare le incoerenze di cui sopra, e quindi riuscire a sviluppare strategie che integravano tutta la filiera dall’azienda al consumatore finale, sia per rendere più facile ed immediato il trasferimento di idee ed esperienze di successo tra le strategie di trade e consumer marketing, che venivano gestite dalla stessa persona.

Nella stessa logica da anni sostengo l’utilità del ritorno dell’agenzia a servizio completo, con al proprio interno le diverse competenze specialistiche. Viceversa l’offerta del mercato della creatività in comunicazione è andato verso l’iperspecializzazione per cui ci sarà un’agenzia che fa la pubblicità al consumatore, un’altra che fa quella al trade, una che si occupa del content marketing sui social network, un’altra che disegna e realizza il sito web, una per le PR e così via.

In questa situazione riuscire a mantenere una coerenza tra le diverse attività in modo che siano sinergiche rispetto alla percezione complessiva della marca da parte delle audiencies è estremamente difficile. Per farlo è necessario che l’azienda faccia un grande lavoro di coordinamento che comincia con una definizione molto chiara e forte di posizionamento ed obiettivi strategici e tattici e prosegue con una grande quantità di tempo dedicata alla gestione delle agenzie/fornitori. Tutte cose richiedono competenze ed esperienze di marketing e gestione aziendale piuttosto elevate. Tempo e competenze di cui molte aziende non dispongono.

Una volta, parlo di trent’anni fa in un mondo competitivo estremamente più semplice, le aziende sopperivano a queste, normali, carenze avvalendosi delle competenze, anche strategiche, dell’agenzia di pubblicità che seguiva (quasi) tutti gli aspetti della comunicazione e si faceva carico del coordinamento interno tra i messaggi ed i media.

Oggi agenzie di questo tipo non esistono (quasi) più e quindi le aziende o investono sulle risorse interne, con il rischio di sovrastrutturarsi, oppure si avvalgono di consulenti.

  1. Debole definizione da parte dell’azienda di mission/posizionamento/obiettivi e poca disciplina nel seguirli al momento della realizzazione strategica e tattica.

Sono cosciente che lavorare con me può essere fastidioso (non so perché, ma mi piace pensare che lo sia più per i miei superiori che per i miei collaboratori).

Una delle ragioni è che io (mi) chiedo sempre il “perché” delle cose e questo viene spesso percepito come una (inutile) rottura di scatole perché nelle aziende tende a prevalere la cultura del “come”.

Però dal “perché” deriverà il “come”, ma non viceversa.

Da questa visione deriva anche la tecnica di strutturazione gerarchica degli obiettivi partendo dalla mission per scendere, volendo, al gadget aziendale. In questo modo è più probabile che gli obiettivi rispondano allo stesso “perché” iniziale in modo coordinato e coerente.

Poi bisogna avere la disciplina di rispettarli nella realizzazione delle attività che sviluppano per raggiungerli, senza farsi sviare troppo dalle situazioni contingenti. E questo immagino spieghi il senso del motto della testata di questo blog e che guida la mia attività di consulenza

Nel caso della promozione di Skipper non so le debolezze nascano da una definizione debole, parziale e imprecisa degli obiettivi o da successive distorsioni operative. Le classiche obiezioni alle soluzioni ideali proposte in prima battuta: “costa troppo”, “ci vuole troppo tempo”, “è troppo complicato”, ecc…

Tutte obiezioni sensate, sia chiaro, che però portano a fare cose che non rispondono agli obiettivi che ci eravamo prefissati, quindi, se siamo fortunati, con risultati parziali, spesso inutili e talvolta dannose.

Lo so che il tempo stringe, il budget è risicato, ecc… ma la mia raccomandazione rimane di essere sempre e comunque onesti con se stessi, disciplinati ed ambiziosi.

Anche perchè, proprio visto che tutte le risorse sono limitate è necessario che le strategie siano anche un po’ tattiche, ossia che spingano all’azione, e le tattiche un po’ strategiche, ossia rafforzino il posizionamento/equity della marca.

P.S. Io comunque continuerò a bere Skipper all’arancia, perché è il miglior succo non fresco sul mercato ed a me interessa innanzitutto il gusto, ossia la frutta che c’è dentro.

P.P.S. Un “bravi” al marketing della Skipper per aver tolto dal tetrapack l’indicazione che era fatto con arance del Brasile perché si trattava di un messaggio era un po’ distonico con l’altra indicazione “Prodotto con amore in Italia – tutti i nostri prodotti sono fatti in Italia, la terra delle cose buone e fatte bene”.

P.P.P.S. Mi rendo conto che in questo post ci sono un sacco di concetti di marketing e di gestione (gestione di marketing) non spiegati. E’ che mi sembrava già lungo a sufficienza e si tratta di concetti che ho affrontato e spiegato in passato. Qualsiasi curiosità di approfondimento di venga, inserite una parola o una frase nell’apposita casella di ricerca in alto a destra e vedrete che, con dieci anni di post, qualcosa (di interessante) viene fuori.

Finalmente ho capito perché la Grande Distribuzione Organizzata fatica a creare valore (differenziante) per i propri clienti.

Io la GDO (Grande Distribuzione Organizzata) la frequento, ovviamente, da cliente/consumatore e l’ho frequentata da fornitore. Ho avuto colleghi e collaboratori che avevano lavorato come buyers per catene di livello nazionale, ma personalmente non sono mai stato “dall’altra parte della scrivania”.

Da esperto di marketing mi è sempre sembrato che le strategie della GDO del largo consumo (super ed iper mercati per capirsi), fossero sempre piuttosto nel targettizare, differenziare e qualificare la proposta rispetto alle insegne concorrenti.

Quando assistevo o conducevo trattative come fornitore rimanevo sempre un po’ stupito dalla comune impostazione tipo suk (senza però la gentilezza dei mercanti arabi) perché mi è sempre sembrata una logica che IMPEDISCE di lavorare per migliorare il business, tanto del fornitore come dell’insegna cliente.

Ovviamente secondo il mio connaturato approccio di marketing il miglioramento del business si ottiene attraverso la creazione di valore per le persone (consumatori).

Non è caso che il periodo in cui rapportarsi con la GDO mi è sembrato più proficuo, e sicuramente più divertente, è stato quando negli uffici acquisti delle catene ai category manager è stato dato maggior peso rispetto ai buyers nelle trattative con i fornitori.

Si è trattato però di un periodo di breve durata, 2 o 3 anni al massimo, dopodichè si è tornati a discutere solo di listini, sconti promozionali, premi di fine anno, listing e tutti i vari giochi delle tre carte ancora in uso nelle trattative di vendita.

Immagino che sia stato perché l’approccio di trattativa più o meno dura risultava più redditizio in termini di conto economico.

Di quegli anni mi ricordo una frase dettami da un buyer “Biscontin, io ho il dovere professionale di spremerla il più possibile perché in questo modo raggiungo due obiettivi: ottengo le migliori condizioni di acquisto possibili per me e riduco la sua capacità di dare le stesse condizioni (se non migliori) ai miei concorrenti.”

Non faceva una piega, come non la faceva il mio dovere professionale di trattare tutti i clienti allo stesso modo (che significa anche offrire condizioni migliori sulla base dei volumi di acquisto) non solo per una questione etica, ma anche per il concreto rischio che il cliente che scopre di essere stato trattato peggio decida di cambiare fornitore.

Poi l’altro giorno ho avuto un’illuminazione quando ho sentito per caso un vecchio amico che ha lavorato molti anni per insegne della GDO, enunciare un principio fondamentale della gestione delle insegne distributive:

“Con gli acquisti fai il margine, con le vendite fai il fatturato”

Immediatamente ho pensato “Dov’è il valore per clienti del supermercato in questa equazione?”.

E’ un mese che ci penso, ma non lo trovo.

Se parlassimo di un’azienda manifatturiera sarebbe come operare secondo il concetto di produzione. Traduco dalla mia edizione (canadese) di Marketing Management di Kotler:

“Il concetto di produzione sostiene che i consumatori favoriranno quei prodotti che sono ampiamente disponibili e di basso costo. I managers delle aziende orientate alla produzione si concentrano nel raggiungere alta efficienza produttiva ed ampia copertura distributiva.”

Da notare che nello sviluppo dei concetti di orientamento dell’impresa al mercato, quello di produzione è quello “primordiale”, a cui sono seguiti poi quello di prodotto, quello di vendita e quello di marketing, man mano che il concetto precedente entrava in crisi. Ossia non era più in grado di creare vantaggi competitivi per l’azienda .

Attenzione non significa che il concetto di successivo sostituisca il precedente (ad esempio quello di prodotto sostituisca quello di produzione), ma che il successivo si AGGIUNGE al precedente. Per cui in seguito all’attività delle aziende concorrenti le strategie legate al concetto di produzione da PLUS diventano un MUST (o conditio sine qua non, se preferite continuare con il latino), mentre quelle legate al concetto di prodotto sono il nuovo PLUS. E così via.

Visto con gli occhi degli economisti aziendali, il concetto di produzione del Kotler, somiglia al concetto di leadership dei costi sviluppato da Michael Porter.

Il punto però è che per un’insegna della GDO la leadership dei costi non si ottiene tanto con le trattative di acquisto dei prodotti in vendita, visto che i fornitori cercheranno di mantenere condizioni equivalenti per i vari clienti, quanto piuttosto lavorando sui costi della struttura e del funzionamento dell’organizzazione.

Che è esattamente quello che permette alle catene di discount di marginare bene, pur vendendo a prezzi più bassi rispetto a super ed ipermercati (non ho visto dati recenti, ma qualche anno fa la reddività per metro quadrato dei punti vendita Eurospin era seconda solo a quella di Esselunga).

D’altra parte operare con il concetto “gli acquisti fanno il margine, le vendite fanno il fatturato” implica non targettizzare e non innovare in termini di assortimenti, layout, arredi, promozioni, ecc…

Non voglio dilungarmi in considerazioni operative su un settore che conosco di riflesso e quindi lascio a voi le considerazioni implicite nel concetto, magari partendo da questo esempio: le catene della GDO disponevano dei dati relativi ai comportamenti d’acquisto dei titolari delle loro carte fedeltà molto prima che esistesse Amazon, ma invece di realizzare comunicazioni e promozioni mirate hanno continuato (e continuano) a riempire le cassette della posta di tutti indistintamente con gli stessi volantini (e quindi parlano TUTTE sostanzialmente solo di prezzo).

Di piani industriali e piani marketing.

Corto Maltese piano industriale

L’altro giorno con un amico si ragionava di alcune aziende e relative strategie.

Nel corso della discussione mi invitava a tener conto della differenza tra piano marketing, fantasioso / filosofico / teoretico, e piano industriale, concreto nella sua definizione dei risultati economico-finanziari attesi e per questo il documento di riferimento per gli analisti, le banche, ecc…

Il problema è che per me il piano marketing comincia con la mission e finisce con il conto economico di previsione, passando per la definizione degli assortimenti (quindi dei prodotti e delle loro caratteristiche), delle vendite (prezzi, canali distributivi, struttura della rete, ecc…), ossia la PRESENZA secondo il mio approccio del marketing totale, e della comunicazione, ossia la PERCEZIONE secondo il mio approccio del marketing totale.

Per questioni organizzative quando sono stato direttore marketing, il piano marketing che preparavo era solamente una parte del piano strategico industriale, ma non è un caso che i colleghi delle vendite chiedessero di conoscere le strategie di marketing per poter fare le loro previsioni e quindi, a loro volta, i colleghi della produzione chiedessero di conoscere le previsioni di vendita per definire la programmazione degli investimenti produttivi e relativi costi. Investimenti che, insieme a quelli di marketing e vendite, servivano ai colleghi dell’amministrazione e controllo per prevedere i fabbisogni finanziari.

Quando ho fatto il direttore generale / amministratore ho scritto i piani industriali come fossero piani marketing. O per meglio dire ho scritto il piano aziendale, che è uno solo e, per me, deve nascere da un approccio di marketing (quale sia per me l’approccio di marketing non lo scrivo per l’ennesima volta, lo trovate citato e descritto più volte in questo blog, cercate “marketing totale” e troverete).

Lo scopo di questo però non è fare della, sterile, semantica sulla terminologia aziendale né ragionare delle logiche organizzative. E’ riflettere sui rischi di considerare il piano industriale ed il piano marketing come due cose separate.

Sono rischi che derivano soprattutto dalla definizione degli obiettivi, per le conseguenze che questi hanno poi nel guidare lo sviluppo e realizzazione delle strategie.

Quindi chiamate il vostro piano come volete, però cercate di tenere conto di questo principio controintuitivo e apparentemente contradditorio:

 

Il fatturato non è un obiettivo utile per definire e sviluppare le strategie che vi permetteranno di raggiungerlo.

 

La visione che separa piano industriale e piano marketing porta facilmente anche a distinguere tra gli obiettivi industriali, hard, da quelli di marketing, soft (talvolta implicitamente anche percepiti come st…z.te).

Il problema è che il fatturato è un obiettivo inutile per definire le strategie, ossia cosa l’azienda può / deve fare, come e, soprattutto perché.

Il motivo è presto detto: (quasi) tutte le aziende vogliono aumentare il fatturato, quindi dire “dobbiamo crescere dell’X%” non può essere differenziante rispetto alla concorrenza.

Peggio, definire l’incremento di fatturato come proprio obiettivo principale è pericoloso perché rischia di innescare rincorse alle vendite fini a se stesse, che nel medio-lungo periodo erodono sia la marginalità aziendale che il posizionamento / percezione delle marche, diminuendo così tanto la redditività quanto il valore patrimoniale dell’azienda.

“Fatturato” infatti non significa “profitto”.

Inoltre, sostenere e mantenere la crescita dimensionale, sia per sviluppo interno che con acquisizioni, aumenta i fabbisogni finanziari dell’azienda e sposta la struttura dei costi verso i costi fissi, diminuendo la flessibilità dell’azienda rispetto ad oscillazioni produttive e di vendita. Flessibilità che si riduce ulteriormente nel momento in cui il ricorso al credito aumenta la leva finanziaria

Se vi sembrano discorsi teorici, provate a pensare alle aziende che conoscete che andavano bene e poi sono finite male per rincorrere una crescita dimensionale senza uno scopo bene preciso se non la crescita in sè.

Partire da un obiettivo di profitto, restando sempre nell’ambito delle metriche hard, è già meglio perché, come diceva il mio professore di marketing in Canada, siamo in affari per far soldi e non chili/litri/pezzi.

Però anche il profitto serve a poco per guidare un’azienda. Come raggiungere il profitto voluto? Aumentando la marginalità media? Aumentando le vendite? Aumentando i prezzi? Cambiando il mix di vendita? Riducendo i costi? Con che mix delle varie possibilità?

Inoltre anche il profitto, come il fatturato, è un obiettivo condiviso da tutti i concorrenti e quindi non differenziante.

L’unico obiettivo che permette di guidare strategicamente un’azienda è la mission (io non uso il termine visione non faccio distinzione tra i due e anzi tendo a preferire il termine èposizionamento), ossia la ragion d’essere dell’azienda/organizzazione, da cui discendono gerarchicamente tutti gli altri obiettivi economici, finanziari ed operativi.

E nella gerarchia il profitto viene sempre prima del fatturato.

Sarà la mission ad indicare la misura, il perché, il cosa ed il come l’azienda dovrà fare per raggiungere il profitto richiesto dalla proprietà e non viceversa. Altrimenti c’è il forte rischio di snaturare l’azienda e la sua proposta, che è diverso dal farle evolvere.

Detto in sintesi né il profitto né il fatturato possono essere la mission, palese o, soprattutto, occulta, di un’azienda.

Visto il tono tranchant della conclusione, ricordo che questo è un blog dove commenti e smentite sono sempre benvenuti.

Il mondo alla rovescia: l’infedeltà delle marche ai clienti. Sky per esempio.

Ad inizio ottobre ho disdetto l’abbonamento a Sky perchè oramai guardavo solamente “Chi cerca trova”, “Il fuoco di spade”, qualcosa di Sky Arte e poco altro. Niente che giustificasse il costo dell’abbonamento (che a sua volta rende ingiustificata la quantità di pubblicità in mezzo ai programmi).

Man mano che si sta avvicinando l’effettivo termine dell’abbonamento (30-11-18) Sky mi ha chiamato – messaggiato – mailizzato per propormi offerte con sconto sempre più convenienti, così da convincermi a mantenere l’abbonamento.

Solo a me sembra ovvio che ogni nuova offerta mi convinceva sempre di più sulla correttezza della scelta di disdire l’abbonamento?

Talmente ovvio che mi sembra perfino superfluo spiegarlo, anche perchè ne ho già scritto nel 2008 (A chi il vitello grasso?) e nel 2012 (“L’infedeltà delle marche: i due esempi a caso di Alitalia e Vodafone), ma le aziende continuano con le stesse (vecchie) logiche.

Le tecniche di vendita (digitale) stanno uccidendo il marketing (e le marche)?

Tanti anni fa da qualche parte ho sentito qualcuno che diceva più o meno che il marketing perfetto non ha bisogno né di forza vendita né di pubblicità. Se si propone al proprio mercato obiettivo il prodotto/servizio per lui ideale ed al giusto prezzo rispetto al valore percepito saranno i consumatori a cercarlo ed a promuoverlo con il passaparola.

E’ un concetto con cui ero sostanzialmente d’accordo quella volta ed ancora di più oggi visto che l’era digitale con i social networks ha aumentato ancora di più l’importanza e la portata del passaparola nella comunicazione delle marche rispetto alle varie forme di comunicazione controllate dalle aziende (pubblicità in primis) e con le vendite on line ha smaterializzato la distribuzione di moltissime categorie merceologiche.

Non a caso uno dei concetti alla base della mia visione del marketing totale (che son quasi 4 anni) è che le marche devono preoccuparsi di rendersi facili da trovare per i consumatori invece di preoccuparsi di cercarli.

La pratica però sembra andare in una direzione molto diversa rispetto a questa teoria e sempre più spesso viviamo esempi di tecnologie digitali utilizzati per spingere le vendite, in modo più o meno mirato (la mia impressione è che quando il “push” supera certi livelli di invasività anche una proposta in linea con le mie esigenze/desideri/interessi diventa fastidiosa).

Ne scrivevo lo scorso febbraio e ne scrivo oggi perché l’altro giorno dovevo fare un acquisto on line sul sito di Decathlon ed ho intenzionalmente cliccato sul primo risultato apparso nel motore di ricerca.

Normalmente evito i risultati sponsorizzati perchè so che spesso e volentieri portano in luoghi pericolosi, ma questa volta l’ho fatto intenzionalmente proprio a scopi investigativi. Un po’ come i  chimici, medici e biologi che nel XIX e XX secolo che sperimentavano su se stessi i risultati delle proprie teorie e ricerche, ma con molto meno rischio.

Inoltre mi aveva incuriosito il fatto che, benché fosse sponsorizzata, il link apparisse come Decathlon, esattamente come quello “organico” che c’era sotto.

Quindi si è aperta l’home page di Decathlon con sopra un banner che offriva la possibilità di vincere buoni sconto Decathlon a fronte della compilazione di un breve questionario. Sito Decathlon, buoni sconto Decathlon per avere i miei dati, ci sta. Tanto più che io da Decathlon faccio già acquisti 2/3 volte all’anno.

Ho risposto a poche domande sul mio “profilo” sportivo e poi per poter partecipare all’estrazione dovevo fornire i miei dati. Ci sta. Come mail ho dato la solita mail a rischio “spazzatura” che poi non guardo mai, però era richiesto anche il cellulare. La cosa un po’ mi ha insospettito, ma neanche tanto perché pensavo di esser in territorio Decathlon, e poi comunque ero lì per vedere cosa succedeva.

Non ho vinto, ma mi subito mi è arrivata un’offerta, da un altro URL. Lì ho capito che NON ero da Decathlon, ma in una imboscata di vendita.

Visto che ero in ballo ho continuato a ballare per un po’, dando qualche risposta a caso e dopo un po’ ho chiuso tutto perché avevo altro da fare e l’esperimento era durato abbastanza.

Tutto tranquillo per una decina di giorni e poi ieri, sabato, alle 13:04 mentre pranzavo mi chiama sul cellulare uno dalla Sardegna per propormi un’offerta di EON Energia, dicendo che avevo espresso il mio interesse e dato il mio consenso.

Probabile che sia anche vero, però comunque il sabato mentre sto pranzando non è proprio il momento in cui ho più voglia di ragionare di quanto sto pagando adesso la luce e valutare proposte alternative.

Detto in altre parole, mi state disturbando e non era nemmeno tanto difficile da prevedere.

Tra l’altro vi potrei forse capire se mi aveste chiamato al telefono fisso (sabato a pranzo è effettivamente uno dei momenti in cui è più probabile trovarmi a casa), ma visto che avete il cellulare perché non avete chiamato in un momento più consono?

Il bello è che potrei essere anche interessato a cambiare fornitore, perché ho la sensazione che quello attuale sia un po’ caro, però a questo punto EON energia lo escludo per fastidioso.

Non so se io sono particolarmente rompiscatole, però sicuramente questo non è un esempio isolato (ho già scritto un post al riguardo), e temo che le cose siano destinate a peggiorare visto che l’altro giorno è sentito un esperto di marketing sostenere che l’acronimo WIIFM – What’s is it For Me? (Qual è il mio vantaggio?) non esprimerebbe la domanda che le persone si fanno di fronte ad una qualsiasi proposta (di marca) come credevo io, ma la domanda che noi (l’azienda) deve farsi ogni volta che viene a contatto con qualcuno.

Ossia quali e quanti vantaggi posso trarre io dalla relazione.

Non credo si essere l’unico ad avere crisi di rigetto sempre più frequenti.

Costruire, rafforzare e mantenere marche iconiche.

Piramide marca iconica

L’altro giorno sul solito Marketing News dell’American Marketing Association ho letto un’intervista a Soon Yu, autore del libro Iconic Advantage .

La tentazione è di fare un copia-incolla totale, vista la quantità di cose che ho detto, pensato e (cercato di fare) nella mia attività professionale che ci ho trovato dentro.

Resisto alla tentazione e cerco di farne una sintesi ragionata, ricordando un concetto che ripeto in tutti i miei interventi formativi: le marche crescono, si rafforzano e prosperano nella misura in cui vengono alimentate di idee (significati).

Vedasi anche il mio concetto di “supermarca”.

Ma andiamo ad incominciare.

 

Come si crea una marca iconica?

Va innanzitutto definito il proprio punto di differenziazione unicità (vedasi il mio concetto di “Best Selling Proposition”) e quali sono gli elementi che lo rendono percepibile dal mercato (signature element).

Il punto di differenziazione non è MAI rappresentato dalle caratteristiche del prodotto, ma SEMPRE dalla rilevanza che i sui vantaggi (benefits) significano per la vita dei consumatori.

Per trovare il proprio punto di differenziazione può aiutare la piramide della marca iconica del Sig. Yu. Io uso un modello di ragionamento a matrice un (bel) po’ diverso, ma lo riservo per i clienti o per chi partecipa ai miei corsi di formazione

Bella comunque la metafora di Yu quando dice che la trappola per topi più efficace non è quella più grande o più veloce, ma quella con il formaggio dall’odore più forte.

Spesso le marche iconiche cominciano dalla leadership di una nicchia di mercato (“owning a market niche” rende forse meglio l’idea), perché questo implica una rilevanza distintiva. Per diventare iconici bisogna aggiungere la longevità alla distintività: una marca che mantiene rilevanza distintiva per un lungo periodo di tempo diventa iconica.

 

Come si mantiene una marca iconica?

Ci sono quattro elementi che costituiscono la cornice in cui si crea la rilevanza senza tempo di una marca iconica:

  1. Proteggere l’elemento che rappresenta la marca (brand signature element) per creare familiarità.
  2. Evolvere il racconto della propria eredità/retaggio/origini per alimentare la marca di significato.
  3. Innovare il vantaggio (benefit) per le persone in modo da rinnovare l’interesse (excitement).
  4. Re-immaginare il design per mantenerlo fresco ed attuale.

In realtà gli ultimi tre sono le leve da usare per realizzare la protezione dell’elemento che rappresenta la marca, che è il punto chiave.

 

Perché le marche iconiche si perdono?

Le marche iconiche si perdono per ignoranza interna, per eccessiva voglia di novità o per eccessivo immobilismo.

Ignoranza interna:

se l’azienda non sa cos’è che rende la propria marca iconica in termini di vantaggio distintivo per il mercato ed elemento rappresentativo non potrà proteggerlo. La marca continuerà a rimanere iconica “per caso”, fino a quando gli elementi della sua iconicità verranno cambiati (altrettanto per caso).

 

Eccessiva voglia di novità:

questo secondo è il motivo principale per cui le marche iconiche si perdono. Si verifica quando chi gestisce la marca smette di cercarne il vero significato ed elimina quello che la rendeva iconica per cercarne di completamente nuovi.

Invece di aggiornare gli elementi iconici, evolvendoli, si abbandonano per cercare di creare un significato totalmente nuovo.

Questo può avvenire:

-          per un cambio del management, per cui il nuovo management non conosce chiaramente quali sono gli elementi che rendono la marca iconica (l’ignoranza interna di cui sopra) e/o vuole portare il proprio contributo alla marca.

-          Per una “naturale” noia del management, che dopo anni di gestione della marca vuole fare qualcosa di nuovo e diverso.

-          Per la presunzione di onnipotenza del management, che crede che l’iconicità della marca sia così forte e diffusa da prescindere dagli elementi che l’hanno generata e su cui si basa.

 

Eccessivo immobilismo:

E’ la trappola della coerenza, che resta comunque la base fondamentale di qualsiasi strategia di marketing di successo nel medio-lungo periodo.

Il management decide che per proteggere l’iconicità raggiunta dalla marca non si può né deve toccare niente fino alla morte. Quindi muoiono.

Coerenza vuole dire rimanere fedeli alla propria storia, ai propri valori, alla propria personalità. Questo permette di far evolvere la marca in modo equilibrato infondendo il giusto grado di novità per mantenere rilevanza ed interesse, senza perdere in familiarità.

 

Tutti i concetti precedenti sono sintetizzati in un esempio che fa il Signor Yu di una marca iconica e che riporto letteralmente parola per parola.

C’è Nike Air Max e il suo elemento distintivo che rappresenta la marca (signature element) è la bolla d’aria nella suola. Questo incapsula il loro punto di differenziazione della linea Air Max: rimbalzabilità (buoyance) e prestazioni. La maggior parte della scarpe da ginnastica perdono fino al 40% di sostegno durante la vita della scarpa, ma una bolla d’aria non perderà mai la sua rimbalzabilità. Nike fa tutto il possibile per evidenziare e celebrare questa differenza.

Il passo successivo da fare per proteggere la marca è infondere l’elemento distintivo con constante innovazione.

Quando Nike lanciò Air Max nel 1987 la bolla d’aria era nella parte posteriore del tallone. Col passare degli anni ha coperto l’intero tallone, poi anche la punta della scarpa ed infine l’intera suola. Successivamente sono state inserite “power pocket” di aria nei punti strategici della suola.

In trent’anni Nike ha continuato ad innovare il concetto della “bolla d’aria”, non è mai rimasto statico.

Hanno continuato a raccontare la storia della scarpa, come è stata creata, le nuove celebrità che la usavano, le nuove categorie sportive in cui la scarpa veniva introdotta e come queste introduzioni rivoluzionassero gli sport in cui entrava, fosse il golf oppure il tennis.

Nike ha continuato a far evolvere la storia, le storie creano significati e le persone amano i significati.

Se si guarda ai trent’anni di storia di questa scarpa si vede che hanno continuato a giocare con il design per mantenerla attuale con lo spirito del tempo e le tendenze della moda del momento/periodo.

Hanno protetto l’elemento distintivo che rappresenta la marca infondendolo di innovazione e creando storie al riguardo, circondandolo di rinnovato design, senza violarne la storia e famigliarità.