Lo scorso 3 marzo il Guardian ha pubblicato l’intervista a Kevin Roberts, Presidente Esecutivo di Saatchi & Saatchi U.K. (una delle più famose agenzie pubblicitarie al mondo).
Il titolo e la prima riga dell’articolo erano: “Il marketing è morto, la strategie è morta, la gestione (aziendale) è morta.”. Stranamente la stringa che identifica il pezzo su internet è invece “advertising is dead”, a dimostrazione che non ci libereremo mai dell’equivico tra marketing e pubblicità.
L’articolo è stato poi rilanciato da molti sui social networks.
Qualche giorno prima la rivista on line della Mc Kinsey & Company, una delle più grandi aziende mondiali di consulenza aziendale, aveva pubblicato un articolo dal titolo “L’alba della nuova età dell’oro del marketing”.
A dimostrazione che le notizie negative ricevono più visibilità di quello positive, il pezzo della Mc Kinsey ha avuto molta meno visibilità (io l’ho visto segnalato da Pier Luca Santoro).
Io però sono molto più d’accordo con McKinsey piuttosto che con Kevin Roberts. Basta capirsi sui termini.
Che il marketing tattico, quello che ha dominato l’operatività aziendale negli ultimi vent’anni è le agenzie negli ultimi 10, stesse morendo era abbastanza noto. il 28 febbraio 2010 avevo pubblicato un post dal titolo “(Quando) imploderà il marketing”
Quello che non vedo proprio all’orizzonte è la mort della strategie e della gestione.
Anzi il motivo per cui concordo con il sorgere della (potenziale) nuova età dell’oro del marketing (se ci saranno professionisti capaci di coglierla) è proprio perchè tutti i fattori che stanno uccidendo il marketing tattico sono alla base della resurrezione del marketing strategico.
In sintesi nel momento in cui, come adesso, non sono più le marche a trovare le persone (consumatori), ma viceversa, il posizionamento strategico e l’identità diventano fondamentali per competere sul mercato. In un certo senso è uno dei (se non IL) ragionamenti alla base del concetto di marketing totale.
C’è poi un’altro motivo per cui sono scettico nei confronti delle tesi di Roberts ed è che non condivido il concetto di “lovemarks”, sul quale d’altra parte Saatchi & Saatchi ha costruito parte del suo successo mondiale. Non lo convido nella sua applicabbilità su larga scala perchè le persone non possono avere forti coinvolgimenti emotivi con un numero elevato di marchi. D’altra parte possono benissimo essere fedeli a marchi che conoscono e rispettano.
Nello scontrino della mia spesa di sabato sono presenti 26 referenze: alla maggior parte sono fedele, ma se le amassi tutte morirei di batticuore ogni volta che vado al supermercato.
E’ un concetto che ho già spiegato con più chiarezza e basandomi su dati più scientifici nel post del 30 settembre 2012, intitolato “Amici, nemici e semplici conoscenti”.
Non avevo però considerato il rischio dell’amore platonico, tanto più reale quanto più i legami tra le persone e le marche si rafforzano e si basano sulle emozioni intangibili.
Me l’ha fatto scoprire Don E. Shultz, professore emerito di Integrated Marketing Communication alla Northwestern University di Evanston, Illinois, che in un suo articolo pubblicato su una rivista dell’American Marketing Association raccontava che durante una lezione in Austria aveva trovato un studentessa che era una vera lover del marchio Red Bull. E come lei la maggior parte dei suoi amici: seguivano la marca sui social, partecipavano agli eventi organizzati dalla marca, ecc…. Però nessuno beveva Red Bull, semplicemente perchè non erano interessati agli energy drinks. E trovavano la cosa assolutamente normale.
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