I sogni son desideri, chiusi in fondo al cuor: #illydreamers.

Giusto l’altro giorno riflettevo che è da un po’ che non facevo un post dedicato all’attività di una marca e mi chiedevo se fosse dovuto al fatto al essere malato di troppa esperienza (né ho già viste troppo?), alla stanchezza creativa delle marche oppure perché non so più cosa succede, visto che non leggo i giornali, non guardo la TV né ascolto più la radio (grazie alla drastica riduzione delle ore passate in auto).

Poi un mio amico (e lettore di biscomarketing) mi ha chiesto cosa ne pensavo della nuova campagna illy, lanciata in grande stile su stampa, radio e web e che io non avevo visto per i motivi di cui sopra.

Allora per curiosità sono andato a cercarla su web. Ho trovato alcuni degli annunci stampa, alcuni degli spot su youtube (certi si caricavano e certi no), nessuno spot radio.

Non pensavo però di dedicarci un post, per diversi motivi. Innanzitutto mi straniava un po’ partire da uno stimolo esterno, poi perché ho già trattato di illy in numerosi post di questo blog, il più delle volte con toni (costruttivamente) critici. Volevo, e vorrei, evitare l’impressione di un accanimento specifico, magari con lo scopo di sfruttare la notorietà del marchio, tanto più nei confronti di un’azienda dove lavorano alcuni amici e di cui ho ammirato l’approccio strategico dagli anni ’90 in poi.

Per di più non mi dispiacerebbe avere anche un cliente un po’ più vicino a casa, visto che al momento sono tutti sparsi per il nord Italia, e non sono convinto che la critica, seppur costruttiva, sia il modo migliore per stimolare una eventuale collaborazione.

Poi però ho cambiato idea e quindi spero mi credano quando dico che è perché gli voglio bene.

Ho cambiato idea perché nel frattempo ho letto un paio di articoli di Marketing Insight dell’anno scorso ed ho trovato nella campagna #illydreamers una serie di spunti per riflessioni di marketing più generali.

Estraggo e traduco al volo dall’articolo “Storytelling and Marketing: The Perfect Pairing?”:

“L’arte della narrazione è vecchia come il Mondo e rappresenta forse una delle più antiche forme di comunicazione tra le persone: trasmettere dei messaggi e condividere la conoscenza e la saggezza accumulate per aiutare a gestire e spiegare il mondo intorno a noi”.

“Secondo i risultati di uno studio del 2010 realizzato da ricercatori di Harvard e presentati nell’articolo “What Sex, Food And Selfies Have To Do With Effective Social Marketing”, condividere i nostri pensieri e le nostre esperienze attiva i sistemi di gratificazione del cervello, causando la medesima scarica di dopamina che si genera in conseguenza al sesso, al cibo o all’attività fisica.”

“Secondo un articolo della società di ricerca Nielsen sulla diffusione dell’interazione degli spettatori televisivi con il programma che stanno guardando attraverso i commenti sui social, l’audience su twitter è pari a 50 volte il numero degli autori dei tweets. Ad esempio se 2.000 persone fanno un tweet su un certo programma televisivo, questi tweet saranno visti da 100.000 persone”

Estraggo e traduco al volo dall’articolo “With a purpose”:

“Quello che definisce il successo di lungo periodo di una marca, più dei semplici risultati finanziari attuali, è l’abilità di creare connessioni significative (nel senso che per essere rilevanti devono essere portatrici di un significato specifico, n.d.a.) con i consumatori (i direi meglio con le persone, n.d.a.)”

“… la nostra strategia dovrebbe essere di un coinvolgimento di scopo in tutte le nostre interazioni con i consumatori.”

“Per essere presa in considerazione una marca deve fornire al consumatore qualcosa di utile, per essere credibile ed ottenerne la fiducia deve essere autentica e coerente ai propri obiettivi ed ai propri ideali.”

“Il comportamento di una marca diventa il suo messaggio tanto quanto quello che dice (io direi DI PIU’ di quello che dice o, parafrasando Forrest Gum: marca è quello che la marca fa, n.d.a.).”

“….. è necessario definire e tenere a mente qual è il vantaggio (payoff) emotivo che il consumatore riceve dall’acquisto della marca.”

“Nell’universo digitale e sociale, la comunicazione unidirezionale della marca è rimpiazzata dalle conversazioni.”

Aggiungo a quanto letto su marketing management una considerazione mia, che ho sottolineato anche venerdì durante la mia lezione-seminario all’Università di Cà Foscari a Treviso: il rischio di cambiamenti eccessivamente frequenti nel posizionamento delle marche rispetto alla necessità di reiterazione.

E’ rischio connaturato nell’attività di marketing, che richiede di essere sempre un passo avanti al mercato, ai concorrenti e magari anche alle aspettative dei consumatori. E’ un rischio acuito dal fatto che chi si occupa del marketing e della comunicazione della marca, lo fa tutti i giorni, 365 giorni all’anno e quindi percepisce come “vecchio” un posizionamento che ha appena iniziato a sedimentare nel consumatore.

Permettetemi una considerazione grossolana: se durante l’anno la marca comunica per 1 mese, due anni del Brand Manager equivalgono a 24 anni per il consumatore.

La mission va definita come se fosse eterna e per servire allo scopo di indirizzare e far crescere la marca in una determinata direzione dovrebbe essere mantenuta almeno 5 anni. Il positioning statement (sempre che sia una cosa diversa) dovrebbe derivare dalla mission e quindi avere (almeno) la stessa durata.

Medesimo discorso per il payoff che, secondo me, deve essere l’essenza del positioning statement/mission/scopo della marca.

Modificare con troppo frequenza il payoff impedisce che questo si sedimenti nel percepito del consumatore, diventando un punto di forza e di ancoraggio della marca, anche in grado di accompagnare il consumatore nell’evoluzione del posizionamento della marca.

Queste considerazioni le ho sperimentate in prima persona sul campo con Keglevich che ha mantenuto il payoff “Keglevich la vodka ke volevich” per almeno un decennio, dalla fine degli anni ’90 alla fine degli anni 2000, con crescente successo ed attraverso 3 riposizionamenti della marca. Non credo sia stato un caso che l’unico anno in cui è stato cambiato sia stato quello con le peggiori performances.

Se questo era vero 15 anni fa, secondo me lo è ancora di più oggi, quando la frammentazione e la moltiplicazione di media, messaggi e targets rende ancora più importante il rafforzamento dell’identità della marca.

Torno a bomba, ossia alla campagna #illydreamers riportando qui sotto due annunci stampa e linkando la sezione #illydreamers nel sito dell’azienda.

HenriqueChristophe

Mi/vi pongo quindi alcune domande sulla campagna

-          Stimola la condivisione/il commento?

-          Coinvolge l’audience (consumatori/persone)?

-          Stimola la conversazione della marca con l’audience (consumatore/le persone)?

-          Qual è il payoff emotivo che si aspetta o propone all’audience (consumatore/consumatore)?

-          L’utilizzo dell’hashtag #illydreamers in contemporanea con quello #livehappilly (che è anche il payoff della campagna) rafforza la personalità della marca allargandola oppure la indebolisce confondendo? Considerando poi che da settembre 2014 a gennaio 2015 è stato utilizzato l’hashtag #buongiornoilly per il concorso relativo alla miglior colazione in casa?

-          L’utilizzo della marca negli hashtag favorisce le considivsioni oppure le frena? Ha ragione illy oppure la maggior parte delle altre marche, in tutti i settori, che utilizzano hashtag emozionali dove la marca non compare?

Concludo con due note tecniche, una positiva e una negativa (nella migliore tradizione cerchiobottista).

Della campagna stampa #illydreamers mi è piaciuto che i soggetti siano sospesi. E’ una soluzione che crea una leggera scansione rispetto alla realtà che attira l’attenzione e, soprattutto, suggerisce / sottolinea / rafforza l’aspirazione verso l’alto e verso il cielo implicita nei (grandi) sogni.

A me ha ricordato un po’ le foto che Philippe Halsam faceva alle persone famose mentre saltavano perché secondo lui “l’atto del saltare rivela la vera natura dei soggetti”. Forse sarebbe stato troppo sofisticato fare le foto delle persone veramente nell’atto di saltare, però secondo me sarebbe stato assolutamente coerente con l’autenticità e la qualità del posizionamento di illy, (e l’avrebbe quindi rafforzato) nonché con il suo legame con l’arte.

La nota negativa è che nella pagina web del sito aziendale con la storia di Christophe Locatelli c’è un errore di ortografia. Per un testo che comincia con “Amo le sfumature, ho sempre sognato di distinguermi per i dettagli” non è che sia il massimo.

Come sta scritto nell’intestazione della mia carta intestata ed in calce alla mia firma sulle e-mail:

Il marketing di successo è fatto di strategie nate dall’immaginazione più sfrenata, realizzate con disciplina maniacale.

Lovemarks vs. users: i rischi dell’amore platonico (per le marche).

Lo scorso 3 marzo il Guardian ha pubblicato l’intervista a Kevin Roberts,  Presidente Esecutivo di Saatchi & Saatchi U.K. (una delle più famose agenzie pubblicitarie al mondo).

Il titolo e la prima riga dell’articolo erano: “Il marketing è morto, la strategie è morta, la gestione (aziendale) è morta.”. Stranamente la stringa che identifica il pezzo su internet è invece “advertising is dead”, a dimostrazione che non ci libereremo mai dell’equivico tra marketing e pubblicità.

L’articolo è stato poi rilanciato da molti sui social networks.

Qualche giorno prima la rivista on line della Mc Kinsey & Company, una delle più grandi aziende mondiali di consulenza aziendale, aveva pubblicato un articolo dal titolo “L’alba della nuova età dell’oro del marketing”.

A dimostrazione che le notizie negative ricevono più visibilità di quello positive, il pezzo della Mc Kinsey ha avuto molta meno visibilità (io l’ho visto segnalato da Pier Luca Santoro).

Io però sono molto più d’accordo con McKinsey piuttosto che con Kevin Roberts. Basta capirsi sui termini.

Che il marketing tattico, quello che ha dominato l’operatività aziendale negli ultimi vent’anni è le agenzie negli ultimi 10, stesse morendo era abbastanza noto. il 28 febbraio 2010 avevo pubblicato un post dal titolo “(Quando) imploderà il marketing”

Quello che non vedo proprio all’orizzonte è la mort della strategie e della gestione.

Anzi il motivo per cui concordo con il sorgere della (potenziale) nuova età dell’oro del marketing (se ci saranno professionisti capaci di coglierla) è proprio perchè tutti i fattori che stanno uccidendo il marketing tattico sono alla base della resurrezione del marketing strategico.

In sintesi nel momento in cui, come adesso, non sono più le marche a trovare le persone (consumatori), ma viceversa, il posizionamento strategico e l’identità diventano fondamentali per competere sul mercato. In un certo senso è uno dei (se non IL) ragionamenti alla base del concetto di marketing totale.

C’è poi un’altro motivo per cui sono scettico nei confronti delle tesi di Roberts ed è che non condivido il concetto di “lovemarks”, sul quale d’altra parte Saatchi & Saatchi ha costruito parte del suo successo mondiale. Non lo convido nella sua applicabbilità su larga scala perchè le persone non possono avere forti coinvolgimenti emotivi con un numero elevato di marchi. D’altra parte possono benissimo essere fedeli a marchi che conoscono e rispettano.

Nello scontrino della mia spesa di sabato sono presenti 26 referenze: alla maggior parte sono fedele, ma se le amassi tutte morirei di batticuore ogni volta che vado al supermercato.

E’ un concetto che ho già spiegato con più chiarezza e basandomi su dati più scientifici nel post del 30 settembre 2012, intitolato “Amici, nemici e semplici conoscenti”.

Non avevo però considerato il rischio dell’amore platonico, tanto più reale quanto più i legami tra le persone e le marche si rafforzano e si basano sulle emozioni intangibili.

Me l’ha fatto scoprire Don E. Shultz, professore emerito di Integrated Marketing Communication alla Northwestern University di Evanston, Illinois, che in un suo articolo pubblicato su una rivista dell’American Marketing Association raccontava che durante una lezione in Austria aveva trovato un studentessa che era una vera lover del marchio Red Bull. E come lei la maggior parte dei suoi amici: seguivano la marca sui social, partecipavano agli eventi organizzati dalla marca, ecc…. Però nessuno beveva Red Bull, semplicemente perchè non erano interessati agli energy drinks. E trovavano la cosa assolutamente normale.