Le ricerche bisogna saperle scrivere 1

Premessa n.A: confessa la mia preoccupazione nello scrivere questo post perchè vedo elevatissimo il rischio di spiegarmi male/essere frainteso. Anche perchè tra le discipline legate al marketing, quella della ricerca di marketing è probabilmente la più svilita e la meno conosciuta già dagli operatori del marketing, figuriamoci dai loro interlocutori. Questo implica che l’interpretazione dei risultati di una ricerca sulla base di qeulla che è la propria esperienza/convinzione personale è all’ordine del giorno in aziende di tutti i livelli (ricordo una decina di anni fa l’amministratore delegato della filiale italiana di uno dei principali produttori di automobili mondiali che si convinse della bontà di pianificare la campagna pubblicitaria durante le partite di calcio trasmesse da Sky solo il giorno che il suo autista gli fece i complimenti per la scelta).
Premessa n.B: il ridursi della capacità delle ricerche di marketing di fornire indicazioni rilevanti a fronte della crescente complessità dei comportamenti di acquisto delle persone è una delle principali cause della difficoltà del marketing a definire delle strategie credibili e di successo, che a sua volta causa la marginalizzazione della funzione marketing all’interno della maggior parte delle aziende attuali.
Premessa n.C: il valore massimo di una ricerca di marketing è pari al costo della decisione sbagliata. L’affermazione può sembrare totalmente astratta o perfino tautologica, ma, basta pensarci con attenzione, è la più chiara, precisa e completa che si possa formulare. E’ importante far notare la sua implicazione diretta: se non ci sono opzioni tra cui scegliere, fare una ricerca di marketing è inutile. Anche questa può sembrare un’affermazione astratta, ma chi ha lavorato in azienda, soprattutto in realtà medio piccole, magari padronali, come sono la maggior parte di quelle italiane, sa quanto spesso le decisioni che si prendono siano conseguenza di convinzioni della direzione basate su esperienza, situazioni interne all’pazienda o reazioni ai cambiamenti dello scenario competitivo. Ci sono comunque anche le situazioni fisiologiche: a me è successo di gestire modifiche di prodotto (packaging e/o ricette) che implicavano risparmi tali per cui la perdita di volumi adottando la nuova modifica che andava sotto al breack-even rispetto alla situazione precedente era talmente elevata da poterla tranquillamente considerare impossibile e quindi da rendere inutile la ricerca.
Premessa n. D: ogni volta che si fa una ricerca inutile, o che diventa tale perchè non viene valorizzata per l’orientamento che porta allo sviluppo e realilzzazione di strategie e tattiche, si mina la credibilità delle ricerche tout-court. Continuo a rimenere stupito della resistenza che hanno le aziende a spendere 5.000 per una ricerca post test che permetta di capire quali sono stati gli effetti di una campagna pubblicitaria (tanto per dirne una) da 500.000 euro.
Premessa n.E (e qui il rischio di fraintedimento schizza alle stelle): il dato nudo e crudo non esiste. un dato è sempre figlio della sua modalità di rilevazione, che a sua volta è (dovrebbe essere) determinato dagli obiettivi della ricerca. Attenzione: anche se la ricerca non ha un obiettivo specifico (premessa comunque di una pessima ricerca), il dato comunque è stato raccolto/creato in un determinato modo e questo modo lo caratterizza in un senso piuttosto che un’altro. Esempio banalissimo indagine telefonica rispetto ad indagine via web (se volete divertirvi inserite pure la variabile telefono fisso/mobile). Per cercare di fare chiarezza è importante sottolineare che questa dipendenza del dato, e quindi dell’informazione che se ne può ottenere, dalla metodologia di ricerca non riguarda solo le ricerche di marketing, bensì la ricerca tout-court. Quando facevo lo scienzato economista agrario mi colpiva sempre la differente struttura degli articoli scientifici italiani e quelli del mondo anglosassone. I nostri tipicamente prevedevano circa 3-4 pagine di introduzione, altre 4-5 di analisi dei dati e metodologia, 5-6 di analisi dei risultati ed altrettante (almeno) di conclusioni. Quelli anglosassoni erano fatti di (massimo) 2 pagine di introduzione 6-7 di analisi dei dati e metodologia, 2-3 di analisi dei risultati ed 1 di conclusioni. Questo perchè il lavoro di ricerca consisteva (consiste) nell’ipotesi che stanno alla base della scelta dei dati e della metodologia utilizzata per analizzarli (che non può essere arbitraria, ma deve essere coerente con gli obiettivi della ricerca). Dopodichè i risultati di conferma o meno della tesi di partenza o di evidenziazione di qualcosa di assolutamente diverso ed inaspettato, sono una conseguenza diretta, e non interpretabile, della fase precedente e quindi anche le conclusioni sono assolutamente lineari, quasi automatiche. In altre parole la discussione scientifica sta poco nei risultati e per niente nelle conclusioni, bensì nella definizione dell’analisi. In altre parole ancora la verità non è mai pura e raramente è semplice.

Con quest’ultima premessa siamo arrivati al nocciolo della questione, però è già tardi e continuerò domani (prometto).

Sempre la solita storia.

Dopo aver inutilmente pagato il doveroso dazio al teatrino dei gattopardi della politica (proverbio spagnolo: de noche todos los gatos son pardos), torno ad oocuparmi di cose serie, ossia teoria e strategia di marketing.
Durante le ferie ho approfittato per studiare un po’ ed ho trovato un interessantissimo articolo sull’analisi narrativa per ls creazione di storie persuasive che permettano di connettersi a livello emotivo con la propria audience. Dico da subito che tralascerò completamente qualsiasi commento riguardante la questione della persuasione occulta.
La cosa interessante è che le ricerche basate sull’analisi dei testi hanno identificato meccanismi e strutture che si ripetono attraverso la storia e le culture.
I livelli di comprensione della storia sono sempre tre. Dal più superficiale al più profondo: il messaggio, a livello razionale, il significato, a livello di sentimenti e convinzioni, il mito, a livello del nostro inconscio universale ed eterno.
Quindi comunicare alle persone attraverso miti universali, permette di parlargli al più profondo livello emotivo. Il bello è che anche il mito, sfumature a parte, si può ricondurre sempre ad alcuni modelli fondamentali:
- il mito dell’eroe: una persona normale viene chiamata a fare cose eccesionali, supera prove difficili, combatte i propri demoni esterni ed interni che lo spingono a mollare ed alla fine, guidato da un mentore, raggiunge il suo obiettivo. Marca? Nike “Just do it”.
- il mito del ciclo della vita: il continuo fluire delle generazioni in cui il vecchio passa la propria saggezza al giovane in un ciclo di ottimismo e speranza dove non c’è fine, ma solo nuovi inizi. Marca? Ford Mustang con lo spot del 2005 che resuscitava Steve McQueen.
- il mito della creazione: qui non serve nemmeno spiegarla. Marca? L’immagine di Jobs e Wozniak che montano il primo Apple nascosti nel loro garage.
- Il mito della creazione dalla distruzione: scegliete quello che vi piace di più tra Noè e l’Araba Fenice. Marca? Coca Cola Classics resuscitata dalla ceneri della New Coke.
- il mito della lotta tra il bene e il male: la battaglia tra il caos e l’ordine si trova già nella cultura sumerica. Marca? Vespa vs. Lambretta, Apple vs. Microsoft, ecc…

E la vostra marca di che mito è?