Quanto vale un fan su Facebook?

Syncapse-Value_of_a_Fan_Report_2013-Average-SpendPoco, secondo un articolo pubblicato sul numero aprile/maggio 2017 di Marketing News.

La ricerca ha analizzato (qui trovate l’articolo originale, e qui la ricerca da cui è tratto) i cambiamenti del comportamento dei consumatori sia diretti (chi diventa fan di una pagina) che indiretti (gli “amici” di chi diventa fan di una pagina).

Il risultato è che non ci sono cambiamenti nel comportamento d’acquisto di chi diventa fan, mette like, ecc… Queste azioni sono semplicemente il sintomo di un preesistente rapporto/attaccamento/propensione (fondness nell’originale inglese) verso la marca.

L’idea affascinante, e se vogliamo logica, per cui avere nuovi seguaci sui social media si traduca in risultati di marketing quali aumento delle vendite e/o dei clienti e/o dell’atteggiamento nei confronti della marca della marca non trova alcun supporto concreto. Né nella ricerca in questione, né in un’altra che ha coinvolto i Direttori Marketing (CMO) delle 500 maggiori aziende USA secondo la rivista Fortune (le cosiddette Fortune 500): l’87% degli intervistati non aveva evidenza documentabile che la loro attività sui social media portasse a nuovi consumatori.

La conseguenza, secondo l’autrice dell’articolo di Marketing News (nonchè co-autrice della ricerca originaria), è che vanno riletti gli studi che collegano positivamente i comportamenti digitali con quelli di acquisto dei marchi (come ad esempio il grafico in apertura di questo post).

L’articolo cita l’esempio di uno studio di Starbucks che rilevava come i fan della pagina facebook della marca fossero dei clienti più frequenti e con una spesa media più alta rispetto ai non-fan.

Tesi sostenuta sostanzialmente anche da Martina Masullo su Ninjamarketing in base ad una ricerca condotta dalla piattaforma Sprout Social (mi permetto di segnalare che 1.000 casi NON è un campione “non molto ampio” dal punto di vista dell’errore campionario).

In queste interpretazioni dei comportamenti delle persone c’è un problema di confusione tra causa ed effetto poichè seguire una marca sui social ed esserne un consumatore fedele sono due fenomeni autocorrelati: entrambi indicano una predisposizione positiva nei confronti della marca.

La correlazione che sitrova nei dati quindi NON è espressione di un legame di dipendenza dei comportamenti di acquisto delle persone dall’essere o meno seguaci di un marca sui social.

Personalmente non saprei se il concetto è intuitivo o controintuitivo, ma direi che il grafico riportante  le ragioni per cui le persone seguono una marca sui social media riportato dal post su Ninjamarketing sembra confermare che le persone seguono marchi con cui hanno già un rapporto di familiarità/interesse.

Considerato l’ammontare degli investimenti che le marche destinando alla gestione della propria presenza sui social media (advertising, content marketing, ecc…)  la domanda cruciale è quanta CAUSALITA’ (leggete bene, mi raccomando) c’è tra seguire una marca sui social ed i comportamenti off-line delle persone?

Se questa causalità non esiste, oppure è limitata, dovrebbero essere limitate le risorse destinate ad acquisire nuovi seguaci (follower per parlare come quelli veri) perché sarebbe irrealistico pensare di migliorare le vendite attraverso questa strategia.

I social media sarebbero quindi principalmente un mezzo da utilizzare per permettere ai nostri migliori consumatori/clienti di trovarci.

Fin qui il riassunto dell’articolo.

Concordo molto con la conclusione perché sostanzialmente conferma uno dei presupposti su cui si fonda il mio concetto di marketing totale: nell’era digitale non sono più le marche che cercano le persone/clienti/consumatori, ma sono loro che trovano le marche.

Mi sorgono però alcune riflessioni.

  1. Asimmetria: guadagnare seguaci sui social non fa guadagnare (molti) clienti, però i comportamenti sui social me li fanno perdere. E’ lo stesso principio per cui uno cerca di andare a lavorare in una determinata posto per (come la percepisce) l’azienda mentre si licenzia sempre per (come lo gestisce) il suo responsabile (capo, se preferite).
  2. Il mix di comunicazione è fondamentale per la conoscenza e la percezione delle marche; difficilmente un marchio diventerà un grande marchio se si concentra su un solo mezzo ed una sola strategie (pubblicità, PR, content marketing, influencer, ecc…).
  3. Sharing is caring. Personalmente resto convinto che i marchi si preoccupano troppo poco di incentivare la condivisione dei propri contenuti, sia preoccupandosi della loro rilevanza e condivisibilità, sia offrendo incentivi diretti.
  4. Rilevanza intrinseca delle marche sui social media. Anni fa credo di aver letto che di tutto il tempo che le persone passano sui social solamente una minima parte (5%?) è dedicato ai marchi. Nello scrivere questo post ho fatto un po’ di ricerche sul web per verificare o aggiornare questo dato, ma non ho trovato niente. Parecchie informazioni su quanto tempo le persone passano sui diversi social, che tipo di contenuti producono guardano e condividono, che strumenti/servizi utilizzano di più ecc…(qui un esempio). Proprio considerata la quantità ed il dettaglio delle informazioni non credo che sia difficile misurare anche “quantità e qualità” di interazione con le marche. Quindi mi chiedo: non è che il re sia nudo, ma nessuno vuole dirlo?

Michele Serra, la satira sul vino e l’individuazione delle tendenze.

Ciao come state? Riprendo le pubblicazioni di biscomarketing con il rientro dalle ferie (mio ed immagino di molti).

Per ricominciare in modo morbido parto da un argomento di stretta attualità (rarità per biscomarketing), tendente al cazzeggio e di tema vinicolo (d’altra parte il periodo vendemmiale invita).

Sull’ultimo numero del L’Espresso, Michele Serra (di cui non ho mai avuto molta stima come si può vedere ad esempio qui e qui) ha scritto un pezzo di satira sul vino che ha portato operatori ed opinion leaders del settore a chiedersi se questo non sia un segnale che la deriva elitista / settaria / intimorente causata dal (monotematico) atteggiamento verso l’eccellenza qualitativa sempre comunque è andata troppo oltre.

Il pezzo di Michele Serra, ed alcuni interessanti commenti che consiglio di leggere, lo trovate, tra gli altri, sul blog di Luciano Pignataro, mentre la mia risposta alla domanda di cui sopra è: no, l’articolo di Michele Serra non è il segnale che il mondo del vino si prende troppo sul serio, minando la normalità e quotidianità del rapporto tra le persone (consumatori) e la categoria di prodotto. Non lo è perchè questo segnale è apparso nel 2007 (2007!!!!) con la parodia del sommelier che faceva Antonio Albanese.

Un esempio di come individuare una tendenza che credo sia utile ed interessante allargare dal particolare al generale. Dal punto di vista di marketing la differenza tra una tendenza ed una moda è che la prima si colloca ad un livello più profondo della psiche collettiva del mercato (società). Di conseguenza ha una durata più lunga, è trasversale sui diversi settori (perchè riguarda tutta, o ampie fette, della società) ed è più difficile da cogliere con le classiche tecniche attive di ricerca di mercato (questionari, interviste, focus groups).

Il bello però è che possono essere colte con quelle che io chiamo tecniche passive: osservazione ed ascolto. Da anni dico, ovviamente non sono il solo, che per un’azienda il principale vantaggio di essere presente sui social networks è la possibilità di ascoltare.

Ma ancora prima che nei social media, le tendenze si manifestano sui media (nella misura in cui i social media diventano un media ovviamente questa differenza si riduce).

Sempre restando in ambito vinicolo, nel 2008 io prevedevo che il mercato USA continuasse a crescere in modo rilevante (anche) per la crescente presenza del vino nei film e telefilm americani. Una presenza rappresentava una tendenza presente nella società ed allo stesso tempo ne favoriva la diffusione, legandola sempre a situaizoni positive e qiondi ne promuoveva l’accettabilità sociale.

Qualcosa di simile è successo all’inizio degli anni 2000 con il concetto di multisensorialità, diffusosi negli ambiti più diversi.

Secondo me i segnali della nascita e della diffusione di una tendenza si ritrovano nell’arte. Quanto più “elevato”/astratto il livello dell’arte, tanto più precoci i segnali. Per fare un esempio fin troppo banale, l’alta moda si confronta con le arti figurative ed influenza il pret a porter, giù giù fino a Zara.

I lavori di Jeff Koons sono un segnale dell’ “adolescentizzazione” della società, sta poi alle aziende capire quali effetti ha (avuto) quest tendenza sul loro settore.

Io ho sempre bene presente, con un po’ di sgomento, che Dino Buzzati, genio travestito conformista, nel 1966 aveva descritto i “teletini”, nonchè il malcostume legato al loro utilizzo indiscriminato in ogni luogo e momento.

Per questo io consiglio sempre a chi si occupa di marketing di buttare ogni tanto un occhio ai diversi campi dell’arte, o all’arte nei diversi campi se preferite.

Per questo io vedo l’articolo di Michele Serra come un segnale positivo per il vino che (forse) è tornato ad essere almeno un argomento su cui vale la pena scherzare.

L’esperienza del QUADRATO SEMIOTICO DEI WINE LOVERS fino ad oggi, ovvero il content marketing.

Vinitaly, 5 aprile 2014. Comincio questo blog come gli articoli veri con luogo e data (il Vinitaly è un luogo e comincia, almeno, il giorno prima dell’apertura della fiera), perchè anticipo di un giorno la pubblicazione del post, visto che domani sera sarò presumibilmente impegnato con fiera e dopo-fiera.

In settimana abbiamo diffuso il Quadrato Semiotico dei Wine Lovers, magari l’avete già visto in giro per la rete, comunque eccolo qui:
quadrato_semiotico_wine_lovers

L’iniziativa l’avevo annunciata con un post lo scorso 16 marzo. L’idea era di permettere/stimolare i lettori del blog a seguire lo sviluppo della strategia, come fosse una case history.

Non so cosa avete visto voi (se avete visto qualcosa), questo è il sunto da parte mia ad oggi:
- Le uscite sulle testate on-line si contano a decine.
- Le uscite sui giornali sono molte meno, ma è strutturale che si concentrino dal vinitaly in avanti (ci speriamo e ci stiamo lavorando).
- due interviste radiofoniche su emittenti nazionali (fare un’intervista radiofonica afono a causa del raffreddore e con la linea che va e viene è un esperienza che spero di non ripetere mai più).
- Le visualizzazioni lorde della pagina facebook si contano a decine di migliaia e così pure su twitter.
- Guardando alla qualità delle interazioni cito il caso che mi dato più soddisfazione: il post di Alice Feiring, anche perchè mi ha dato l’occasione di iniziare una conversazione su twitter in cui ho tirato dentro Jay McInerney, secondo me il maggior scrittore americano vivente (e se avessi tempo di pensarci bene forse potrei togliere “americano”). Devo ancora decidere se questo diventa il mio nuovo vertice professionale, che fino ad oggi era aver avuto la mia foto su “Gente” immerso a metà gamba in un tino pigiando l’uva, subito dopo la foto di Albano e prima di quella di Carol Bouquet.

L’ultimo segnale positivo c’è stato oggi mentre allestivamo lo stand, perchè ad un certo punto ho contato 6 persone ferme davanti alla luminosa 2×2 metri su cui è riprodotto il quadrato che lo fotografavano con lo smartphone. E due di loro si dicevano a vicenda “Questa è la novità più interessante del Vinitaly 2014″. E’ quello che dicevo io quando ho messo in piedi il progetto, ma loro non possono essere accusati di dirlo per megalomania.

Vediamo domani quando si aprirà la fiera.

Ora, oltre a ringraziare Squadrati, http://www.serenacomunicazione.com/, PR&PRess, lo staff aziendale e tutti quelli (sono tanti: perdonatemi, ma l’elenco diventava noioso) per il contributo eesenziale a quanto ottenuto fino ad oggi faccio una riflessione sul content marketing (mi scuso per il link a wikipedia in inglese, ma già questa descrizione non mi soddisfa del tutto, quelle che ho trovato in italiano non mi soddisfacevano per niente).

Il content marketing sembra essere la pietra filosofale della comunicazione moderna e quindi tutti a riempire il web di contenuti, dimenticando che il concetto riguarda i contenuti (basta la parola) e non il mezzo. Detto in altre parole, la (buona) pubblicità si è sempre basata sulla ricchezza di contenuti. L’attuale facilità di comunicazione ed intercomunicazione di contenuti cambia l’operatività ed il peso delle tecniche, non i concetti strategici. Come scrivevo quasi un anno fa, riprendendo un articolo del Prof. di Harvard John Deighton “siamo tutti nell’editoria nel senso che il modello di business in tutti i settori si basa(baserà) sulle capacità di creare contenuti, cercarli, selezionarli e disseminarli verso un audience, mappare il percorso dell’audience rispetto ai contenuti disseminati e, alla fine, monetizzare.” Alla definizione del Prof. Deighton però secondo me manca un aggettivo cruciale: … creare contenuti RILEVANTI …” per creare una storia di interesse.

Viceversa il cattivo content marketing, come la cattiva pubblicità (ed ogni forma di cattiva comunicazione in generale) diventa un boomerang.

E, per restare nel vino, come diceva Elisabetta Tosi nel commentare un post di facebook di Maria Grazia Melegari “Il premio, i 3 bicchieri o le 9 bottiglie, la starlette allo stand, lo chef che ti cucina la colazione… NON SONO UNA STORIA!!! E nemmeno il nuovo vino, la nuova etichetta, il nuovo stand, ecc. ecc..” O quantomeno sono una storia di interesse circoscritto.

Se volete vedere il quadrato semiotico dei wine lovers dal vivo lo trovate al nostro stand al Vinitaly: padiglione 3, stand E6.
Se volete sentire gli approfondimenti dalla viva voce dei protagonisti venite al convegno di lunedì 7 alle 11:00 all’auditorium del Palaxpo del Vinitaly.

Al prossimo Vinitaly presentiamo il quadrato semiotico dei wine lovers!

Nel 2002 ho comprato il mio primo libro di semiotica “Marketing Moving: l’approccio semiotico”, autrice Giulia Ceriani, edizioni Franco Angeli.

Non che ne sapessi molto di semiotica, ma ero (sono) sempre curioso di trovare nuovi e più efficaci strumenti di analisi dei comportamenti delle persone.

Se non fosse che suona esagerato, direi che è stata una rivelazione. Lo strumento del quadrato semiotico aveva una forza ineguagliabile nell’aprire gli scenari competitivi con un dettaglio che permetteva di indentificare gli spazi vuoti, dove le richieste non venivano ancora soddisfatte dall’offerta esistente. Che si trattasse di lavatraci o di partiti politici, ovviamente, non c’era differenza.

L’unico problema era che mentre il concetto di contrarietà x-y era chiaro, quello di contradditorietà x-non x era sostanzialmente zen, più difficile da cogliere del “suono di una sola mano”.

Comunque da quella volta mi sono rispromesso che prima o poi avrei analizzato una situazione di mercato attraverso il quadrato semiotico.

Poi un po’ di tempo fa, poco dopo aver scritto un post sulle prime primarie del PD, mi sono imbattutto nel quadrato semiotico delle primarie del centrosinistra fatto da Squadrati.

A parte lo stupore per la capacità di scrivere con chiarezza con una bic su un tovagliolo di carta, mi hanno colpito la precisione e l’oggetività dell’analisi e la simpatia della presentazione. Solo quelli veramente bravi sono capaci di presentare il presentare il proprio lavoro con quella dose di ironia che coinvolge invece della seriosità che allontana.

Ecco quindi che quando in azienda abbiamo deciso che al Vinitaly 2014 avremmo posto all’attenzione del settore la questione del declino del consumo di vino in Italia, ho pensato subito di affidare a Squadrati la realizzazione del quadrato semiotico che identificasse gli atteggiamenti delle persone nei confronti della categoria di prodotto.

Poi, quando l’abbiamo avuto in mano, ci siamo resi conto che i risultati erano troppo interessanti per diffonderli solamente attraverso comunicati stampa e passaparola. Allora abbiamo pensato di farne anche un convegno.

Grazie ad alcune persone con cui la stima reciproca negli anni è sfociata in amicizia, sono riuscito ad arganizzarlo in breve tempo ed a coinvolgere nel convegno anche Oscar Farinetti (che ringrazio pubblicamente per la dispobilità e l’interesse).

Quindi il prossimo 7 aprile alle ore 11:00 presso l’auditorium del Palaexpo della fiera si svolgerà il convegno dal titolo “Il quadrato semiotico dei wine lovers: gli atteggiamenti di consumo del vino in Italia”.

Parteciperanno Oscar Farinetti, imprenditore e inventore di Eataly, Corrado Giacomini, Presidente di Vi.V.O. Cantine s.a.c., Elena Rocco, Docente di Marketing Internazionale – Università Ca’ Foscari, Diletta Sereni e Daniele Dodaro ricercatori di mercato della società di ricerche Squadrati, Fabio Piccoli, Direttore Responsabile di Wine Meridian ed Andrea Gori, sommelier, oste e giornalista.

Ho voluto la bicicletta e adesso devo pedalare, perchè ho un auditorium da riempire, ed è più grande di un paiolo (cit. Asterix). Conto di riuscirci ….. with a little help from my friends.

Qui sotto il comunicato stampa ufficiale. Il convegno è aperto a tutti, vi aspetto.
Comunicato stampa
A VINITALY 2014 SI STUDIANO GLI ATTEGGIAMENTI DI CONSUMO DEL VINO CON IL QUADRATO SEMIOTICO

L’analisi di scenario sugli atteggiamenti di consumo del vino, svolta dall’Istituto di ricerche di mercato Squadrati sarà presentata a Vinitaly durante il convegno ‘Il quadrato semiotico dei wine lovers’. Promotrice dell’iniziativa la Cantina veneta Bosco Viticultori.

Salgareda (Tv), marzo 2014 – Chi l’ha detto che le ricerche di mercato debbano essere sempre impersonali e retoriche? Il quadrato semiotico dei wine lovers dimostra l’esatto contrario. L’esigenza di analizzare gli atteggiamenti di consumo del vino in Italia, secondo un approccio originale e informale è nata dalla cantina veneta Bosco Viticultori, che per reagire alla contrazione dei consumi di vino in Italia (ben 4 milioni di hl in meno in soli 5 anni secondo dati IRI 2013) è partita da un’analisi semiotica delle conversazioni web e social. Lo studio, commissionato a Squadrati, società di ricerche di mercato non convenzionale, ha classificato in un quadrato semiotico le motivazioni che spingono o allontanano il consumatore verso gli acquisti di vino, aiutando le imprese a comprendere il posizionamento del marchio e quello dei loro prodotti sul mercato.

“Comprendere le motivazioni che determinano i comportamenti di consumo è fondamentale per darsi delle risposte adeguate e per affrontare la contrazione dei consumi che sta caratterizzando il vino sul mercato italiano” – commenta Lorenzo Biscontin, Direttore Generale di Bosco Viticultori – “Abbiamo voluto condividere i risultati dell’analisi semiotica su quanto dicono nel web i consumatori, nella convinzione che le soluzioni alla situazione attuale debbano coinvolgere necessariamente tutto il settore nel suo complesso. L’utilità di tale analisi è particolarmente sentita dalla nostra azienda, facente parte del gruppo cooperativo Vi.V.O. s.a.c. e che controlla tutta la filiera, dalla fase di produzione a quella della distribuzione“.

“L’analisi semiotica delle conversazioni nel web e nei social media ci ha permesso di far emergere le diverse opinioni e gli atteggiamenti dei consumatori di vino in Italia, che abbiamo sintetizzato attraverso un quadrato semiotico” – spiegano Diletta Sereni e Daniele Dodaro del team Squadrati – “Gli assi che lo orientano mostrano due opposizioni: la prima tra chi mette l’accento sul vino come prodotto della natura e chi lo intende principalmente come artefatto culturale; la seconda tra chi intende il vino come un bene da tutelare e regolamentare, e chi lo legge invece come nient’altro che un tassello della propria quotidianità o socialità”.

Il risultato dell’analisi sarà visibile presso lo stand dell’azienda Bosco Viticultori (padiglione 3, stand E6) per tutta la durata del Vinitaly e presentato al convegno che si terrà lunedì 7 aprile 2014, alle ore 11:00 presso l’Auditorium del Centro Congressi Palexpo, dal titolo “Il quadrato semiotico dei wine lovers: gli atteggiamenti di consumo del vino in Italia”, e dove parteciperanno Oscar Farinetti, imprenditore e inventore di Eataly, Corrado Giacomini, Presidente di Vi.V.O. Cantine s.a.c., Elena Rocco, Docente di Marketing Internazionale – Università Ca’ Foscari, Diletta Sereni e Daniele Dodaro ricercatori di mercato della società di ricerche Squadrati, Fabio Piccoli, Direttore Responsabile di Wine Meridian ed Andrea Gori, sommelier, oste e giornalista.

L’originalità di questo studio sta proprio nell’osservazione di come il vino sia interprete di valori fondamentali e da cui scaturiscono comportamenti e percezioni anche opposte. Il quadrato semiotico mostra come i comportamenti legati al bere vino abbiano un valore sociale e culturale. Dunque dal quadrato si possono estrapolare valori e insight che aiutano a comprendere meglio i significati associati al consumo del vino e a rendere più strategica la comunicazione del settore.

Bosco Viticultori è una cantina del Gruppo Vi.V.O. Cantine s.a.c. a cui aderiscono 2.000 soci che coltivano 4.000 ha di vigneto e conferiscono oltre 500.000 q.li di uva a 8 centri di vinificazione nelle province di Venezia e Treviso.

www.boscoviticultori.com
Facebook: Bosco Viticultori
Twitter: @Boscovit
Per commentare e seguire in diretta l’evento: #quadratowinelovers

Ufficio stampa:
Serena Comunicazione S.r.l – Serena Aversano – www.serenacomunicazione.com -
Tel. 0422.231169 ufficio.stampa@serenacomunicazione.com

“resistere restire resistere” è la visione Fiat all’ineluttabile declino dell’automobile?

Per compensare il rischio di astrattezza dei post strategici, oggi ho deciso di dedicarmi all’attualità.
Tra i temi che mi hanno più incuriosito ero indeciso se occuparmi della comunicazione con cui si sta gestendo lo scandalo del Consiglio Regionale del Lazio oppure dell’incontro FIAT vs. Governo. Alla fine ho deciso di parlare delle due cose.

Il concetto secondo cui “(per fortuna) la Polverini resiste (stoicamente)” (ho messo tra parentesi i sottointesi che implica l’uso del termine “resiste”, corroborato dagli autorevoli inviti che ha ricevuto a farlo per evitare che crolli tutto) è quanto meno curioso, visto che l’esplosione dei finanziamenti ai gruppi del consiglio regionale (14 di cui 8 composti da un solo consigliere) si è realizzata proprio da uqando lei è presidente. E che dire delle procedure per cui questi finanziamenti venivano erogati senza alcun controllo? Dovrebbe essere scontata almeno una responsabilità oggettiva del presidente e quindi un’incompetenza di fatto. Se poi ci aggiungiamo che il bubbone è scoppiato per il comportamento dei consiglieri del suo partito non mi sembra così fuori luogo rilevare anche una complicità politica, indipendetemente dagli aspetti giudiziari, ossia se siano o meno verificati degli illeciti, cosa che riguarda la magistratura e non me come cittadino-elettore (argomento di cui ho già parlato in altre occasioni su questo blog qui e qui).
Ed invece tutti i giornali, di qualsiasi orientamento titolano che la Polverini resiste. A chi e a cosa non si sa? Però vanno fatti i complimenti a chi gestisce la comunicazione del PDL che si è appropriato nell’inconscio collettivo della famosa espessione del Procuratore Borrelli (espressione che personalmente ritengo un obbrobrio da parte di un magistrato).

Riprendo un tono meno personale e più professionale sulla questione FIAT. Se ho ben capito, il nocciolo della questione secondo l’azienda è che il fortissimo ed imprevedibile crollo del mercato dell’auto in Italia ha modificato lo scenario su cui era stato sviluppatro il piano di investimento del gruppo in Italia.
Ora mi chiedo, chi sviluppa le analisi di scenario in Fiat? Il pulcino Pio? (potrebbe essere un bel nome per il prossimo modello: mi compro una Pio!).
Un po’ di dati a caso, facilmente intuibili ed ancor più facilmente confermabili con una breve ricerca sul web:
- L’italia ha il più alto tasso di motorizzazione europeo con 60 auto ogni 100 abitanti (abitanti, si badi bene, non residenti oltre i 18 anni),
- negli ultimi anni il mercato è stato sostenuto/drogato dalle campagne di incentivo alla rottamazione con contributi pubblici, che ha permesso di rinnovare il parco automobilistico italiano.
- dal 2008 in avanti si assite ad un calo delle vendite degli elettrodomestici durevoli, con la solita eccezione delle apparecchiature informatiche (vedi rapporto CECED 2012), segno che gli italiani a fronte di una diminuzione del reddito disponibile stanno rinviando gli acquisti di beni durevoli. Aggiungerei anche la minor propensione ad acquistare nuovi beni durevoli nelle, crescenti, fasce di consumatori anziani.
- la benzina ed costo dell’assicurazione sono tra le voci di spesa delle famiglie che hanno avuto i maggiori incrementi nel corso degli ultimi 3-4 anni (ben oltre il tasso medio di inflazione).

E’ questi parlano di crollo imprevedibile? A questo punto mi sono ricordato della querelle tra Bill Gate e la General Motors, generata diversi anni fa e sono andato a cercarla in rete (qualcuno riesce a darmi la data? In rete non sono riuscito a travarla ma sarà stato almeno 7-8 anni fa).
Questa è una delle tante versioni che girano:
Durante una manifestazione, Bill Gates ha voluto rendere chiari a tutti i presenti i progressi fatti dall’industria informatica facendo un parallelo con l’industria automobilistica, e ha dichiarato: «Se la General Motors fosse tecnologicamente avanzata come l’industria informatica, oggi staremmo guidando macchine che costerebbero 25 dollari e farebbero 500 km con un litro di benzina!».
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La General Motors ha prontamente replicato con il seguente commento:
“Stiamo meditando sull’ipotesi di prendere Microsoft come partner. Gli unici motivi che per il momento ci trattengono dal farlo sono:
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1. Ogni volta che viene rifatta la segnaletica stradale bisognerebbe anche acquistare una macchina nuova;
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2. Occasionalmente, il motore si fermerebbe in autostrada senza alcuna ragione apparente, e bisognerebbe semplicemente accettare il fatto, riavviare il motore e ripartire dal casello da dove era iniziato il viaggio;
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3. Inaspettatamente, l’esecuzione di una manovra potrebbe fermare la macchina e bloccarla definitivamente, e per ovviare all’inconveniente sarebbe necessario reinstallare il motore;
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4. Sarebbe possibile avere solo una persona a bordo alla volta, a meno di non acquistare «Macchina 98» o «Macchina NT», con i relativi sedili addizionali;
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5. Con la Apple le cose sarebbero diverse: essa sarebbe in grado di progettare una macchina alimentata a energia solare, affidabile, cinque volte più veloce e due volte più facile da guidare, ma in grado di girare solo sul 5 per cento delle autostrade;
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6. Quest’ultimo problema potrebbe essere risolto molto facilmente, acquistando degli upgrade carissimi compatibili con le autostrade Microsoft, in grado di offrire prestazioni dimezzate rispetto a un’analoga macchina Microsoft;
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7. Le spie dell’olio, della benzina, dei freni e della batteria dovrebbero essere rimpiazzate da un unico segnale che dice «Questa macchina ha eseguito un’operazione illegale e sarà arrestata»;
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8. I nuovi sedili costringerebbero tutti ad avere la stessa misura di «sedere»;
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9. Prima di entrare in FUNZIONE, l’airbag chiederebbe «Sei sicuro di voler eseguire questa operazione?»;
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10. In caso di collisione, non sarebbe possibile avere la minima idea di che cosa sia accaduto al pilota e alla macchina, e di come ripararla”.

Pensavo di chiudere qui il post, facendo ammenda alla visione di Bill Gates, adesso che sappiamo come è finita e ricordando come tutti (io compreso) abbiamo sorriso con complicità alla replica della GM.

Invece cercando in rete la storia mi sono imbattuto in qualcosa di più interessante: un forum dove nel 2011 si citava questa “leggenda”. Leggere gli interventi di questi digital natives, tra lo stupito e l’annoiato per l’assurdità di un confronto tra l’evidentemente superiore industria informatica ed i dinosauri dell’automobile.

Delle volte la rete permette di risparmiare lunghe e costose ricerche di mercato, basta avere l’intelligenza e, soprattutto, la voglia di saperla leggere.

Intanto io domani mi farò i miei 250 km quotidiani in macchina.
non sto neanche a dire http://forum.ubuntu-it.org/viewtopic.php?p=3862823#down

La forza delle abitudini: riassunto e commento.

Come annunciato ecco le riflessioni che mi ha suscitato l’articolo “La forza delle abitudini” riportato nei due post precedenti a questo (se volete approfondire, l’autore dell’articolo ha anche scritto un libro sull’argomento).

Per compensare la lunghezza dei post 1 e 2, cercherò di essere sintetico con questo, limitandomi solo agli spunti più intensi.

X Factor. Mi ha colpito scoprire una volta di più l’importanza data dalle aziende americane alla ricerca ed all’analisi per la produzioni di informazioni rilevanti allo sviluppo dell’attività. Mi ha colpito soprattutto per il confronto con la realtà italiana, che continua ad essere pervasa da una cultura umanista basata sulla logica e sul ragionamento speculativo, dove la quantificazione riguarda quasi esclusivamente i risultati (di vendita, di reddività) e raramente i diversi aspetti che detrminano quei risultati.
Non credo che il problema sia la disponibilità dei dati, perchè oramai anche in Italia le azienda della grande distribuzione (e non solo) dispongono di carte fedeltà, programmi di fidelizzazione eccetera. Però non riescono a trasformare i dati in informazioni perchè non investono in persone come Andrew Pole, con forti competenza, ma, magari, non altrettanto forte personalità.
In genere nelle aziende italiane, a tutti i livelli, l’intraprendenza viene considerata l’X-factor sulla competenza. Secondo me invece ci sono livelli, ruoli e posizioni dove l’intraprendenza non è fondamentale, purchè le competenze siano valorizzate dall’imprenditore (o dalla figura imprenditoriale). Cosa sarebbero le imprese italiane se alla creatività, diciamo pure all’inventiva, si aggiungesse l’analisi?

Il grande fratello non abita qui. Le scelte del consumatore sono sempre soggettivamente razionali, ma quel “soggettivamente” implica che non c’è una linearità nei comportamenti delle persone e l’esempio dello sviluppo e lancio di Febreze è illuminante su questo aspetto: le persone non acquisteranno un prodotto che non gli interessa, nemmeno con una campagna pubblicitaria fatta dalla Procter and Gamble. Spesso chi fa marketing se ne dimentica, ancor più se dispone dei grandi mezzi delle multinazionali.
In realtà l’esempio di Febreze interessa anche l’annosa questione dell’eticità delle attività di marketing, perchè alla fine non ha dato consumatori quello che gli serviva (un prodotto per eliminari gli odori), bensì quello che volevano (un deodorante per la casa che lasciava un buon odore). Sembra tanto persuasione occulta.
Però mi chiedo: trattando di persone adulte chi ha il diritto di decidere se quello che vogliono non è quello che gli serve? Si tratta come minimo di paternalismo, che rischia di essere un sinonimo di dittatura.
E questa considerazione vale anche per le campagne di mailing della Target, che non stimolano richieste ma le intercettano.

Dinamite. Tanti anni fa ho letto la biografia a fumetti di Alfred Nobel, l’inventore della dinamite, mi è rimasto impresso il concetto (autoassolutorio come la mia riflessione qui sopra?) che la dinamite non è buona o cattiva di per sè, dipende dall’uso che ne fanno le persone. Allo stesso modo le tecniche di analisi del comportamento umano non sono buone o cattive di per sè dipende dall’uso che se ne fa.
Dopo tanti anni di azienda credo che sia normale chiedersi perchè non destinare tutte quelle risorse umane ed economiche a scopi più ampi di benessere pubblico.
Ecco quindi che pensare di utilizzare la “scienza delle abitudini” per determinare comportamenti di utilità sociale la mette in tutt’altra luce rispetto al suo utilizzo da parte delle imprese. Oppure ne fa il vero grande fratello?

La forza delle abitudini 2

Ecco la seconda, ed ultima, tranche dell’articolo La forza delle abitudini Charles Duhigg, The New York Times Magazine. E’ un po’ (poco) più corta della prima.

Nell’ultima puntata, le mie impressioni.

Buona lettura.

Acquisti per eventi speciali
Andrew Pole era stato assunto dalla Target per aumentare le vendite usando lo stesso tipo di studio sulle abitudini dei consumatori. Doveva analizzare tutti i cicli stimoloroutine-gratificazione e aiutare l’azienda a capire come poteva sfruttarli. Il compito del suo reparto era piuttosto semplice: trovare i clienti che avevano dei bambini per mandargli il catalogo dei giocattoli prima di Natale; cercare le persone che di solito in aprile comprano un costume da bagno per mandargli buoni per l’acquisto di creme solari a luglio e la pubblicità di libri sulle diete a dicembre. Ma il compito più importante di Pole era individuare quei momenti unici nella vita delle persone in cui le abitudini di spesa diventano particolarmente flessibili e la pubblicità o il buono sconto giusto possono spingerle a modificare le abitudini di acquisto.
Negli anni ottanta un gruppo di ricercatori guidati da un professore dell’università della California a Los Angeles di nome Alan Andreasen condusse uno studio sugli acquisti più comuni, come il sapone, il dentifricio, i sacchetti della spazzatura e la carta igienica. Scoprirono che la maggior parte delle persone non prestava quasi nessuna attenzione a quegli acquisti, erano un’abitudine che non richiedeva decisioni complicate.
Questo signiicava che, nonostante i buoni e le promozioni, era difficile convincerle la gente a cambiare.
Ma quando nella vita di qualcuno c’era un evento speciale, come una laurea, un nuovo lavoro o il trasferimento in un’altra città, le abitudini d’acquisto diventavano più flessibili e prevedibili, trasformando quei clienti in potenziali miniere d’oro per i venditori. Dallo studio emerse che quando una persona si sposa è più probabile che cambi marca di caffè. Quando una coppia si trasferisce in una nuova casa, è più disposta a cambiare tipo di cereali per la colazione.
Quando divorzia, ci sono più probabilità che cominci a comprare una marca di birra diversa. I consumatori che attraversano una fase particolare della loro vita spesso non si accorgono che le loro abitudini d’acquisto sono cambiate, ma per i rivenditori è importante.
Dal punto di vista delle aziende, il più significativo di questi eventi speciali è l’arrivo di un bambino. Quando nasce un figlio,le abitudini dei genitori sono più flessibili che in qualsiasi altro periodo della vita di un adulto. Se le aziende riescono a individuare le donne che aspettano un bambino possono guadagnare milioni.
Ma individuarle è più diicile di quanto si possa immaginare. La Target ha un registro delle baby shower, le feste in cui si portano dei regali alle future mamme, e Pole cominciò da lì. Osservò come cambiavano le abitudini d’acquisto delle donne dell’elenco via via che si avvicinavano al parto, in base ai racconti che loro stesse avevano fornito all’azienda. Condusse un test dopo l’altro, analizzò i dati e dopo un po’ cominciarono a essere evidenti alcuni schemi. Per esempio, molte persone comprano creme per il corpo, ma un suo collega aveva notato che le donne incinte comprano più creme senza profumo dopo il terzo mese di gravidanza. Un altro analista si era accorto che durante i primi cinque mesi, le donne incinte compravano più integratori alimentari a base di calcio, magnesio e zinco.
Molte persone acquistano saponi e ovatta, ma quando una donna comincia a comprare saponi senza profumo e buste giganti di batuffoli di cotone, disinfettanti per le mani e asciugamani nuovi, significa che si sta avvicinando il momento del parto.
Quando i computer ebbero elaborato i dati, Pole riuscì a individuare circa venticinque prodotti che, messi insieme, gli permettevano di attribuire a ogni donna un “punteggio gravidanza”. Ma soprattutto, poteva calcolare la data del parto con una buona approssimazione, per permettere alla Target di mandare alla futura mamma i buoni relativi alle diverse fasi della gravidanza.
Pole applicò il suo programma a tutte le clienti abituali del database nazionale dell’azienda e ben presto ebbe una lista di
decine di migliaia di donne che probabilmente aspettavano un bambino. Se riuscivano a convincere quelle donne o i loro mariti ad andare nei loro negozi e comprare prodotti per neonati, con il sistema stimoloroutine-gratiicazione potevano spingerli a comprare anche prodotti alimentari, costumi da bagno, giocattoli e vestiti. Quando Pole presentò la sua lista, gli esperti di marketing rimasero estasiati. Cominciarono a invitarlo a tutte le riunioni importanti. E alla fine gli aumentarono lo stipendio.
Ma a quel punto qualcuno si chiese: come reagiranno le donne quando capiranno quante cose sappiamo di loro?
“Se si vede arrivare un catalogo con la scritta: ‘Congratulazioni per il suo primo figlio!’ e non ci ha mai detto di essere incinta, qualcuna si insospettirà”, mi ha raccontato Pole. “Siamo molto attenti alle norme sulla privacy. Ma anche se rispetti la legge certe cose mettono in guardia le persone”.
Circa un anno dopo che Pole aveva creato il suo modello per prevedere le gravidanze, un uomo entrò in un negozio Target alla periferia di Minneapolis e chiese di vedere il direttore. Aveva in mano dei buoni che erano stati mandati a sua figlia e, secondo un impiegato che aveva assistito alla conversazione, era molto arrabbiato. “Questi sono arrivati per posta a mia figlia!”, disse. “È ancora alle superiori e le mandate buoni per comprare abbigliamento da neonato e culle? State cercando di incoraggiarla a rimanere incinta?”.
Il direttore non aveva idea di cosa fosse successo. Guardò la busta, senza dubbio era indirizzata alla figlia dell’uomo e conteneva la pubblicità di abiti premaman, mobili per la stanza dei bambini e foto di bimbi sorridenti. Si scusò e qualche giorno dopo lo richiamò per scusarsi ancora.
Ma al telefono il padre sembrava imbarazzato.
“Ho parlato con mia figlia”, disse. “Ho scoperto qualcosa di cui non ero al corrente. Partorirà in agosto. Sono io che devo
scusarmi”.
Quando mi sono rivolto alla Target per discutere il lavoro di Pole, i rappresentanti dell’azienda si sono rifiutati di parlare con me. “Il nostro obiettivo è fare dei magazzini Target la destinazione preferita dei nostri clienti garantendo loro prodotti validi, innovazione continua e un’esperienza d’acquisto eccezionale”, mi hanno scritto. “Abbiamo creato una serie di strumenti di ricerca che ci consentono di capire meglio le tendenze e le preferenze di vari segmenti demografici della popolazione”. Quando gli ho mandato una sintesi del mio articolo, la risposta è stata più lapidaria: “Quasi tutte le sue affermazioni si basano su notizie inesatte e la loro pubblicazione sarebbe fuorviante.
Non intendiamo discuterle punto per punto”. L’azienda si rifiutava di specificare quali fossero le inesattezze, ma aggiungeva che “la Target rispetta tutte le leggi statali e federali, comprese quelle sulla segretezza delle informazioni sanitarie”.
Quando mi sono offerto di andare da loro per discutere le cose che li preoccupavano, una portavoce dell’azienda mi ha
scritto un’email dicendo che nessuno mi avrebbe ricevuto. Ci sono andato lo stesso, e mi hanno comunicato che ero nella lista dei visitatori indesiderati. “Ho ricevuto l’ordine di non farla entrare e di chiederle di andarsene”, mi ha detto un gentile agente di sicurezza di nome Alex.
Poco dopo che Pole aveva perfezionato il suo modello, la Target si era resa conto che usare i dati in suo possesso per scoprire una gravidanza sarebbe stato disastroso per i suoi rapporti con il pubblico. Quindi il problema era diventato: come far arrivare le pubblicità alle donne incinte senza che si sentano spiate? Come sfruttare le abitudini di qualcuno senza fargli capire che state studiando la sua vita?

Decifrare la sequenza
Prima di incontrare Andrew Pole, prima ancora di decidere di scrivere un libro sulla teoria della formazione delle abitudini, avevo un altro obiettivo: volevo perdere peso. Avevo preso la brutta abitudine di andare ogni pomeriggio alla caffetteria del giornale e di mangiare un dolce al cioccolato, così avevo preso qualche chilo. Quattro, per essere precisi. Avevo incollato un foglietto sul mio computer con scritto: “Niente più dolci”. Ma tutti i pomeriggi riuscivo in qualche modo a ignorarlo, entravo nella caffetteria e mangiavo un dolce parlando con i colleghi. Domani, mi dicevo sempre, troverò la forza di resistere.
E il giorno dopo ne mangiavo un altro.
Quando ho cominciato a intervistare gli esperti di formazione delle abitudini, concludevo ogni intervista chiedendo cosa dovevo fare. La prima cosa, mi dicevano, era capire come funziona la sequenza. La routine era semplice: tutti i pomeriggi entravo nella caffetteria, compravo un dolce e lo mangiavo chiacchierando con gli amici. Poi sono arrivate le domande meno ovvie. Qual’era lo stimolo: la fame, la noia, un calo della glicemia? E qual era la gratificazione: il sapore del dolce, la distrazione dal lavoro, la possibilità di socializzare con i colleghi? Le gratificazioni sono importanti perché soddisfano sempre un nostro desiderio, ma spesso non sappiamo qual è il bisogno che dà origine a un’abitudine. Perciò un giorno, quando ho sentito il desiderio del dolce, ho deciso invece di andare a fare una passeggiata. Il giorno dopo sono andato alla caffetteria e ho preso un caffè. Quello successivo ho comprato una mela e l’ho mangiata parlando con gli amici. È chiaro, no? Volevo verificare qual era la gratificazione che cercavo. Se avevo fame, la mela avrebbe dovuto funzionare. Avevo bisogno di una carica di energia? Allora bastava il cafè. Oppure, come avrei scoperto alla fine, dopo tante ore di concentrazione sul lavoro volevo socializzare, essere aggiornato sugli ultimi pettegolezzi dell’ufficio, e il dolce era solo una scusa. Mi bastava avvicinarmi alla scrivania di un collega e fare due chiacchiere con lui per non sentire più il bisogno del dolce. Ora dovevo capire qual era lo stimolo. Ma decifrare gli stimoli è molto difficile.
Spesso nella nostra vita ci sono troppe informazioni per permetterci di capire cosa scatena un particolare comportamento.
Facciamo colazione a una certa ora perché abbiamo fame? O perché è cominciato il tg della mattina? O perché mangiano i nostri figli? Alcuni esperimenti hanno dimostrato che quasi tutti gli stimoli rientrano in cinque categorie: luogo, tempo, stato emotivo, presenza di altre persone o azioni immediatamente precedenti. Quindi per capire cosa scatenava il mio desiderio di dolce, nel momento in cui ne sentivo il bisogno ho cominciato a rispondere a queste cinque domande.
Dove sei? (Seduto alla mia scrivania).
Che ore sono? (Le 15.36).
Qual è il tuo stato emotivo? (Sono annoiato).
Chi c’è con te? (Nessuno).
Cosa hai fatto prima? (Ho risposto a un’email).
Il giorno dopo l’ho fatto di nuovo. E anche quello successivo. Dopo un po’ ho capito qual era lo stimolo: sentivo sempre il bisogno di mangiare qualcosa intorno alle tre e mezzo del pomeriggio. Una volta individuata la sequenza, sembrava piuttosto facile cambiare abitudine.
Ma gli psicologi e i neuroscienziati mi hanno avvertito che per modificare il mio comportamento dovevo basarmi sullo stesso principio che aveva permesso alla Procter & Gamble di vendere Febreze. Per cambiare la routine – cioè socializzare invece che mangiare un dolce – dovevo sfruttare un’abitudine già esistente. Perciò ora, tutti i giorni intorno alle tre e mezza, mi alzo, mi guardo intorno per vedere se in redazione c’è qualcuno con cui chiacchierare, passo una decina di minuti a scambiare pettegolezzi e poi torno alla mia scrivania. Lo stimolo e la gratificazione sono rimasti gli stessi. È cambiata solo la routine. Non mi sembrava di aver preso una decisione più di quanto i topi dell’Mit avessero deciso di correre attraverso il loro labirinto. È diventata un’abitudine, e da allora ho perso dieci chili (metà dei quali eliminando il rituale del dolce).

Tosaerba e pannolini
Dopo che Andrew Pole aveva perfezionato il suo modello e individuato migliaia di donne che probabilmente aspettavano un bambino, dopo che qualcuno aveva pensato che forse alcune di quelle donne sarebbero rimaste turbate ricevendo una pubblicità dalla quale si capiva chiaramente che la Target spiava il loro comportamento riproduttivo, tutti decisero di allentare la pressione.
Il reparto marketing condusse alcuni test scegliendo un piccolo campione a caso di donne dalla lista di Pole e mandando loro varie combinazioni di pubblicità per vedere come reagivano. “Siamo in grado di mandare a ogni cliente un opuscolo pubblicitario studiato specificamente per lui o per lei che dice: ‘Queste sono le cose che ha comprato la settimana scorsa e un buono per ricomprarle’”, mi ha spiegato uno dei dirigenti dell’azienda. “Per i prodotti alimentari lo facciamo sempre”. Ma con le donne in attesa, l’obiettivo della Target era vendere prodotti per neonati dei quali non sapevano ancora di aver bisogno.
“Con i prodotti per la gravidanza, però, abbiamo scoperto che alcune donne reagiscono veramente male”, ha continuato il dirigente. “Perciò abbiamo cominciato ad aggiungere la pubblicità di prodotti che una donna incinta non comprerebbe mai per far sembrare casuale la nostra scelta. Mettevamo la pubblicità di un tosaerba accanto a quella dei pannolini. Quella di un vino accanto a quella dell’abbigliamento per neonati. Così sembrava che tutti i prodotti fossero stati scelti a caso. E abbiamo scoperto che se una donna incinta non pensa di essere spiata, alla fine usa i buoni. Immagina semplicemente che tutti nel suo palazzo abbiano ricevuto lo stesso opuscolo, così non si spaventa e il sistema funziona”.
In altre parole, sfruttando le abitudini già esistenti – gli stessi stimoli e le stesse gratificazioni che già spingevano i clienti a comprare detersivi o calzini – la Target poteva creare una nuova routine e spingerli a omprare prodotti per neonati. Lo stimolo è “Guarda, un buono per una cosa che mi serve!”, la routine è “Compra, compra, compra” e la gratificazione è “Così posso risparmiare”. Poi, una volta che la persona entra nel negozio, trova altri stimoli e gratificazioni che la spingono a mettere nel carrello tutto quello che normalmente compra altrove. Quando la Target riuscì a dare l’impressione che tutto rientrasse nella norma, la sua pubblicità funzionò.
Poco dopo l’inizio della nuova campagna, le vendite di prodotti per neonati salirono alle stelle. L’azienda non rende note le cifre relative a settori specifici, ma tra il 2002 – anno in cui assunse Pole – e il 2010, i suoi incassi sono passati da 44 a 67 miliardi.
Nel 2005 il presidente della Target, GreggSteinhafel, si è vantato con gli investitori della “maggiore attenzione della sua azienda per i prodotti che interessano particolari categorie di consumatori come le mamme e i bambini”.
Pole è stato promosso e invitato a parlare ai convegni. “Non avrei mai pensato che diventasse una cosa così importante”, mi ha detto l’ultima volta che gli ho parlato.
Qualche settimana prima che questo articolo venisse pubblicato, sono andato a Minneapolis per cercare di parlarne con lui ancora una volta. Era più di un anno che non ci sentivamo. Quando eravamo ancora amici gli avevo detto che mia moglie era incinta di sette mesi. Anche lei fa la spesa alla Target, gli avevo detto, e gli avevo lasciato il nostro indirizzo per ricevere i buoni. Man mano che la gravidanza di mia moglie procedeva, avevo notato un leggero aumento delle pubblicità di pannolini e abbigliamento per neonati che arrivavano a casa.
Quando sono arrivato a Minneapolis, Pole non ha risposto né alle mie email né alle mie telefonate. Sono andato a casa sua, in un bel quartiere, ma nessuno mi ha aperto. Mentre tornavo in albergo, mi sono fermato in un grande magazzino Target perché mi serviva un deodorante e ho comprato anche una maglietta e un gel per i capelli. Poi mi è venuto in mente di aggiungerci qualche ciuccio per vedere come reagivano i computer. Ormai nostro figlio ha nove mesi
e i ciucci non bastano mai.
Quando sono andato a pagare, con mia grande delusione, non mi hanno offerto nessun buono per i pannolini o il latte in
polvere. D’altra parte era comprensibile, ero in una città dove non ero mai stato prima, alle dieci di sera di un giorno feriale e avevo comprato tutte cose diverse. Stavo usando una carta di credito aziendale e, a parte i ciucci, non avevo comprato nulla di quello che di solito serve a chi ha un bambino.
I computer avevano capito benissimo che ero in viaggio di lavoro. Il calcolatore di Pole mi aveva dato un’occhiata e aveva deciso di aspettare un momento più opportuno.
Una volta tornato a casa, le offerte sarebbero arrivate. Come mi aveva detto Pole l’ultima volta: “Aspetta. E vedrai che ti manderemo i buoni per le cose che vuoi prima ancora che tu sappia di volerle”.

La forza delle abitudini 1

Interessantissimo articolo del New York Time Magazine pubblicato sull’Internazionale. Lo pubblico a puntate perchè (purtoppo) è veramente troppo lungo per il web; limiti del digitale (come quelli che mi dicono “L’i-pad è troppo comodo per leggere il giornale la mattina”, però con l’i-pad non leggi il giornale, lo guardi e non è la stessa cosa).

Forse sto facendo una violazione del copyright, ma se Zuckerberg dice (probabilmente a ragione) che la privacy è un concetto superato, spero che citare la fonte basti a farmi perdonare.

Poi finite le puntate probabilmente farò un post sulle riflessioni stimolate da questo articolo, nel frattempo se volete mandare le vostre ….. Mettetivi comodi e cominciate

La forza delle abitudini
Charles Duhigg, The New York Times Magazine,Stati Uniti.

Condizionano la nostra vita ogni giorno, da quando ci laviamo i denti a quando guidiamo la macchina. Da vent’anni gli scienziati cercano di capire come nascono le abitudini. Ora le loro ricerche hanno un nuovo campo di applicazione: il marketing.

Nel 2002 Andrew Pole era appena entrato a lavorare come esperto di statistica alla catena di grandi magazzini Target, quando due colleghi del reparto marketing si fermarono accanto alla sua scrivania per fargli una strana domanda: “Siamo in grado di scoprire se una cliente è incinta, anche se lei non vuole farcelo sapere?”. Pole ha un master in statistica e uno in economia e si è occupato per tutta la vita dell’incrocio tra i dati e il comportamento umano. I suoi genitori insegnavano nel North Dakota, e mentre gli altri ragazzi andavano in campeggio, Pole studiava algebra e scriveva programmi per computer. “Lo stereotipo del nerd della matematica non è un mito”, mi ha detto quando ho parlato con lui l’anno scorso. “Mi piace andare in giro a diffondere il vangelo dell’analisi”. Come gli spiegarono gli esperti di marketing – e come lui stesso ha spiegato a me prima che la Target gli proibisse di parlarmi – le persone che hanno appena avuto un figlio sono una miniera d’oro. La maggior parte della gente non compra in un unico posto tutto quello che le serve. Fa la spesa nei negozi di alimentari, compra i giocattoli nei negozi di giocattoli e va alla Target solo quando ha bisogno di certe cose che
associa ai grandi magazzini, come i detersivi, i calzini o la carta igienica. Ma la Target vende di tutto, dal latte agli orsacchiotti di peluche, dai mobili da giardino all’elettronica, perciò uno dei suoi obiettivi principali è convincere i clienti che l’unico negozio di cui hanno bisogno è il suo. Ma questo è un messaggio difficile da trasmettere, anche con le campagne pubblicitarie più ingegnose, perché non è facile far cambiare abitudini alla gente. Tuttavia, ci sono alcuni periodi della vita in cui una persona è costretta a modificare la sua routine e le abitudini d’acquisto sono più fluide. Uno di questi momenti, anzi il principale, è quando nasce un bambino, perché i genitori sono esausti e soprafatti dal nuovo impegno e più disposti a cambiare abitudini d’acquisto. Ma come spiegarono a Pole i colleghi del marketing, il tempismo è fondamentale. Dato che i registri delle nascite sono pubblici, quando una coppia ha un figlio viene immediatamente tempestata di offerte e pubblicità da aziende di ogni tipo. Perciò è decisivo riuscire a conquistare quella famiglia prima che chiunque altro scopra che è in arrivo un bambino. In particolare, i colleghi di Pole volevano mandare pubblicità mirate alle donne che avevano superato i primi tre mesi di gravidanza, perché quello è il periodo in cui la maggior parte delle mamme in attesa comincia a comprare cose come le vitamine e l’abbigliamento premaman. “Sapevamo che se fossimo riusciti a conquistare le future mamme in quel periodo, sarebbero rimaste nostre clienti per anni”, mi ha spiegato Pole. “Se cominciano a comprare i pannolini da noi, poi comprano anche tutto il resto”. Naturalmente, questo desiderio di
raccogliere informazioni sui clienti non è una novità né per la Target né per le altre catene di distribuzione. Sono decenni che la Target accumula dati sulle persone che entrano regolarmente nei suoi negozi. Quando è possibile, assegna a ognuna di loro un codice, che chiama numero di identificazione del cliente, grazie al quale controlla tutto quello che compra. “Se qualcuno usa la carta di credito o un buono sconto, risponde a un questionario, chiede un rimborso, chiama il nostro servizio clienti, apre l’email che gli abbiamo mandato o visita il nostro sito, noi registriamo l’operazione e la colleghiamo al codice”, spiega Pole. “Vogliamo più informazioni possibile”. Collegate al numero di identificazione del cliente sono anche tutte le informazioni di tipo demografico: l’età, se una persona è sposata, se ha figli, in quale zona della città vive, quanto tempo ci mette a raggiungere il negozio, approssimativamente quanto guadagna, se ha cambiato casa di recente, che carte di credito ha e quali siti visita. La Target può comprare anche i dati sull’origine etnica, sui lavori che una persona ha fatto, su quali riviste legge, se ha mai dichiarato fallimento o ha divorziato, in che anno ha comprato (o perso) la casa, se è andata all’università, di cosa parla online, se preferisce una certa marca di caffè, di tovaglioli di carta, di cereali o di succo di mela, qual è il suo orientamento politico e il suo genere letterario preferito, se fa donazioni e quante auto possiede. Tutte queste informazioni però sono inutili se non c’è qualcuno che le analizza e gli dà un senso. Era proprio questo il compito di Andrew Pole e dei suoi colleghi dell’ufficio Guest marketing analytics Quasi tutti i grandi rivenditori, dalle catene di prodotti alimentari alle banche di investimento, hanno un reparto “analisi predittive” che si occupa di scoprire non solo le abitudini d’acquisto dei consumatori, ma anche le abitudini personali, per poter arrivare a loro più facilmente. “La Target è sempre stata una delle migliori in questo campo”, dice Eric Siegel, un consulente che presiede una conferenza del settore chiamata Predictive analytics world. “Siamo nell’epoca d’oro della ricerca sui comportamenti. È incredibile quante cose possiamo sapere oggi su cosa pensano le persone”. Il motivo per cui la Target può ficcare il naso nelle nostre abitudini d’acquisto è che, negli ultimi vent’anni, la scienza della formazione delle abitudini è diventata uno dei maggiori campi di ricerca degli istituti di neurologia e di psicologia di centinaia di centri medici e di università, per non parlare dei ricchi laboratori delle aziende. “Accaparrarsi gli statistici più in gamba ormai è una specie di corsa agli armamenti”, dice Andreas Weigend, l’ex capo scienziato di Amazon. “I matematici sono improvvisamente diventati molto ricercati”. L’analisi dei dati è sempre più sofisticata, e il desiderio di capire come le abitudini quotidiane influiscono sulle nostre decisioni è uno dei temi più appassionanti della ricerca, anche se la maggior parte di noi non si rende conto di essere schiava di certi schemi. Secondo uno studio condotto dalla Duke university, sono le abitudini più che le decisioni coscienti a condizionare il 45 per cento delle scelte che facciamo ogni giorno. Le ultime scoperte stanno cambiando completamente il modo di vedere molte cose, da come concepiamo una dieta a come
i medici stabiliscono le cure per l’ansia, la depressione e le dipendenze. I ricercatori hanno scoperto come impedire a qualcuno di mangiare troppo o di rosicchiarsi le unghie. Sono in grado di spiegare perché alcuni di noi ogni mattina vanno a correre e sono più efficienti nel loro lavoro, mentre altri non riescono ad alzarsi dal letto e perdono tempo. A quanto sembra, esiste una formula per controllare i nostri desideri inconsci. Il processo grazie al quale il cervello trasforma una sequenza di azioni in una routine automatica è chiamato chunking. Ogni giorno ripetiamo decine, se non centinaia, di comportamenti di questo tipo. Alcuni sono semplici, per esempio mettere il dentifricio sullo spazzolino prima di spazzolare i denti. Altri, come preparare il pranzo per i figli, sono un po’ più complicati. Altri ancora sono così complessi che il fatto che siano diventati abitudini ci sembra incredibile. Prendiamo, per esempio, uscire dal garage di casa a marcia indietro. Quando abbiamo imparato a guidare, questa manovra richiedeva, giustamente, una buona dose di concentrazione, perché bisogna guardare nello specchietto retrovisore e in quelli laterali per vedere se ci sono ostacoli, spingere con un piede il pedale della frizione, ingranare la retromarcia, togliere il piede dalla frizione, calcolare la distanza tra il garage e la strada, mantenere dritte le ruote, calcolare come le immagini che vediamo negli specchietti si traducono in distanze reali, e regolare la pressione sull’acceleratore e sul freno. Ora facciamo tutte queste cose ogni volta che usciamo, senza pensarci troppo. Il nostro cervello ha trasformato in routine una buona parte di questi gesti. Se lo lasciamo fare, il cervello cerca di trasformare tutti i comportamenti ripetuti in abitudini, perché così si sforza di meno. Ma questa tendenza a conservare l’energia mentale può essere pericolosa, perché se il nostro cervello va in automatico nel momento sbagliato, potremmo non accorgerci di qualcosa di importante, come un bambino che attraversa la strada in bici o una macchina che arriva a tutta velocità. Perciò abbiamo inventato un sistema per decidere quando possiamo agire automaticamente. È qualcosa che scatta all’inizio e alla fine di un segmento di comportamento, e ci aiuta a capire perché, anche con le migliori intenzioni, è così difficile cambiare un’abitudine.

Cambiare si può
Il processo di formazione delle abitudini è formato da tre fasi. Prima di tutto c’è uno stimolo che dice al nostro cervello che può andare in automatico e quale sequenza deve usare. Poi c’è la routine, che può essere fisica, mentale o emotiva. Infine c’è la gratificazione, che aiuta il cervello a capire se vale la pena di ricordare quella sequenza in futuro. Nel corso del tempo, questo ciclo – stimolo, routine, gratificazione, stimolo, routine, gratificazione – diventa sempre più automatico. Livello neurologico, lo stimolo e la gratificazione si legano strettamente tra loro fino a quando non si instaura il desiderio. L’aspetto particolare di questo meccanismo è che gli stimoli e le gratificazioni possono essere molto sottili. Alcuni studi neurologici hanno dimostrato che certi stimoli durano solo qualche millesimo di secondo. E le gratificazioni possono andare dalle più ovvie (come l’innalzamento del livello glicemico provocato dalla ciambella che mangiamo al mattino) alle più insignificanti (come il senso di sollievo impercettibile, ma misurabile, che proviamo quando usciamo dal garage). Nella maggior parte dei casi tutto succede così rapidamente che non ce ne rendiamo conto. Ma il nostro sistema neurale se ne accorge e usa queste sequenze per costruire comportamenti automatici. Le abitudini non sono immutabili. Possono essere ignorate, modificate o sostituite. Ma quando abbiamo issato una sequenza e acquisito un’abitudine, il cervello smette di intervenire nelle decisioni. Perciò, a meno che non decidiamo di combattere quell’abitudine, cioè di trovare una nuova sequenza, la vecchia si ripeterà automaticamente. “Abbiamo condotto alcuni esperimenti con i ratti, addestrandoli a percorrere un labirinto fino a quando per loro non è diventata un’abitudine. Poi abbiamo modificato l’abitudine spostando la ricompensa finale”, racconta Ann Graybel, una neuro scienziata del Massachusetts institute of technology. “Un giorno abbiamo rimesso il premio dov’era prima e la vecchia abitudine, incredibilmente, è riemersa. Le abitudini non scompaiono mai del tutto”. Fortunatamente, capire come funzionano le abitudini le rende più facili da controllare. Prendiamo per esempio una serie di studi condotti qualche anno fa alla Columbia university e all’università di Alberta. I ricercatori volevano capire come si instaura l’abitudine di fare esercizio fisico. Il programma prevedeva che 256 persone con un’assicurazione sulla salute frequentassero un corso in cui si dava molta importanza all’esercizio fisico. Metà dei partecipanti assisteva a una lezione in più su come si formano le abitudini e in seguito doveva individuare gli stimoli e le gratificazioni che avrebbe potuto usare per prendere abitudini più sane. Il risultato fu sorprendente. Nel corso dei quattro mesi successivi, le persone che avevano imparato a individuare la sequenza facevano il doppio dell’attività fisica di quelle che non avevano imparato a farlo. Altri studi hanno prodotto risultati simili. Secondo un recente studio, se vogliamo cominciare a correre tutte le mattine, è essenziale scegliere uno stimolo semplice (come mettere sempre le scarpe da ginnastica prima di colazione o preparare la tuta vicino al letto) e una gratificazione chiara (come un dolcetto a mezzogiorno o la soddisfazione che dà registrare i chilometri percorsi in un diario). Dopo un po’ di tempo il cervello comincia ad aspettarsi la gratificazione – a desiderare il dolce o quel senso di soddisfazione – e produrrà un impulso neurologico a infilarci le scarpe da ginnastica ogni mattina. Il nostro rapporto con la posta elettronica funziona nello stesso modo. Quando il computer o il cellulare segnalano che c’è un nuovo messaggio, il cervello comincia ad anticipare il “piacere” che (anche se non lo riconosce) gli provoca cliccarci sopra e leggerlo. Se non viene soddisfatta, questa aspettativa può crescere fino a farci impazzire all’idea che c’è un messaggio non letto, anche se a livello razionale sappiamo che probabilmente non è niente di importante. Se rimuoviamo lo stimolo togliendo la vibrazione al telefono o il volume al computer, il desiderio non si scatena, e riusciamo a lavorare tranquillamente senza controllare di continuo la posta in arrivo.

Piccoli riti
In questo campo, alcuni degli esperimenti più ambiziosi sono stati condotti dalle aziende private. Per capire perché i manager sono così affascinati da questa scienza, pensate che una delle più grandi aziende del mondo, la Procter & Gamble, ha usato la teoria delle abitudini per trasformare un flop in uno dei suoi prodotti più venduti. Questo colosso produce una gamma vastissima di articoli, dagli ammorbidenti per il bucato agli asciugamani di carta, dalle batterie a decine di prodotti per la casa. A metà degli anni novanta i manager della Procter & Gamble avviarono un progetto segreto per la creazione di un nuovo prodotto in grado di eliminare i cattivi odori. L’azienda spese milioni di dollari per creare un liquido incolore e poco costoso che si poteva spruzzare su una camicetta impregnata di fumo, su un divano puzzolente, su una vecchia giacca o sulla tappezzeria macchiata di un’automobile e far sparire ogni odore. Per lanciare sul mercato il prodotto, che si chiamava Febreze, la società creò una squadra formata da un ex matematico di Wall street di nome Drake Stimson e da alcuni studiosi della teoria delle abitudini. Il loro compito era garantire che gli spot televisivi, trasmessi in via sperimentale a Phoenix, Salt Lake City e Boise, nell’Idaho, sottolineassero nel modo giusto gli stimoli e le gratificazioni del prodotto. Nel primo spot c’era una donna che si lamentava della zona fumatori di un ristorante. Ogni volta che mangiava lì, diceva, la sua giacca si impregnava di fumo. Un’amica le faceva notare che con Febreze avrebbe potuto eliminare quell’odore. Lo stimolo era chiaro: l’odore acre del fumo di sigaretta. E anche la gratificazione: la scomparsa di quell’odore dai vestiti. Nel secondo spot c’era una donna preoccupata per il fatto che la sua cagnetta Sophie saliva sempre sul divano. “Sophie avrà sempre il suo odore”, diceva, ma con Febreze, “non ce l’hanno più i miei mobili”. Gli spot furono mandati in onda a rotazione e i pubblicitari cominciarono a pregustare i loro premi. Passò una settimana. Un mese. Due mesi. Le vendite erano sempre più basse. Febreze era un lop. In preda al panico, la squadra di esperti condusse una serie di interviste approfondite tra i consumatori per capire cosa non andava. Il primo sospetto lo ebbero quando andarono a intervistare una donna alla periferia di Phoenix. La sua casa era pulita e ben organizzata. Lei stessa si definiva una maniaca della pulizia. Ma quando i ricercatori della Procter & Gamble entrarono nel salotto, dove i suoi nove gatti passavano la maggior parte del tempo, l’odore era così forte che uno di loro ebbe un conato di vomito. Stimson ricorda che un suo collega chiese alla donna: “Cosa fa per l’odore dei gatti?”. “Di solito non è un problema”, disse lei. “Non lo sente?”. “No”, rispose la donna. “Non è meraviglioso? Non puzzano affatto!”. La stessa scena si ripeté in decine di altre case. Il motivo per cui Febreze non vendeva era che la gente non sentiva i cattivi odori. Se vivi con nove gatti, non ti accorgi più che puzzano. Se fumi, dopo un po’ non senti più l’odore di fumo. Quando l’esposizione è costante, non sentiamo più neanche gli odori più forti. Lo stimolo che avrebbe dovuto far scattare il bisogno di usare Febreze tutti i giorni non veniva recepito. E la gratiicazione, una casa senza odori, non aveva senso per chi non li sentiva. La Procter & Gamble chiese a un professore della Harvard business school di analizzare la campagna di marketing del prodotto. I ricercatori raccolsero ore e ore di filmati di persone che pulivano la casa per cercare qualche indizio che potesse aiutarli a collegare Febreze alle abitudini quotidiane delle persone. Non scoprirono nulla e decisero di fare altre interviste. La svolta avvenne quando andarono a trovare una donna sulla quarantina con quattro figli che viveva alla periferia di Scottsdale, in Arizona. La casa era pulita, anche se non perfettamente ordinata, e non sembrava avere alcun odore, non c’erano animali né fumatori. Con grande sorpresa di tutti, lei adorava Febreze.
“Lo uso tutti i giorni”, disse. “Quali odori cerca di eliminare?”, le chiese un ricercatore. “Non devo eliminare nessun odore specifico”, disse la donna. “Lo uso durante le pulizie, un paio di spruzzi quando ho finito una stanza”. I ricercatori la seguirono mentre riordinava la casa. In camera da letto, rifaceva il letto, tirava bene le lenzuola e poi spruzzava Febreze sulla trapunta. In soggiorno, passava l’aspirapolvere, raccoglieva le scarpe dei bambini, rimetteva a posto il tavolino e poi
spruzzava Febreze sul tappeto appena pulito.
“È piacevole, no?”, disse. “È un piccolo rito per concludere la pulizia di una stanza”. A quel ritmo, calcolarono i ricercatori, avrebbe finito un flacone in due settimane. Quando tornarono nel loro ufficio, gli esperti riguardarono i filmati. Ora sapevano cosa cercare e videro gli errori scena dopo scena. Chi pulisce ha già delle abitudini.
In uno dei video, una donna entrava in una stanza sporca (stimolo), cominciava a spazzare e a raccogliere giocattoli (routine), poi riguardava la stanza e sorrideva (gratificazione).
In un altro, una donna guardava il letto disfatto (stimolo), aggiustava le lenzuola e le coperte (routine) e poi sospirava mentre passava la mano sui cuscini appena sbattuti (gratificazione). Con Febreze la Procter & Gamble aveva cercato di creare una nuova abitudine, ma la mossa vincente era sfruttare quelle già esistenti. Doveva presentare il prodotto come il momento conclusivo del rituale delle pulizie, come una gratificazione piuttosto che come una nuova routine.
L’azienda preparò nuovi cartelloni pubblicitari in cui si vedevano finestre aperte dalle quali entrava aria fresca. Venne aggiunto più profumo a Febreze, così invece di eliminare gli odori lo spray ne aveva uno tutto suo. Nei nuovi spot televisivi le donne, dopo aver finito di pulire, lo spruzzavano sui letti appena fatti e sulla biancheria fresca di bucato. Le pubblicità si basavano su abitudini già esistenti: quando vedi una stanza appena pulita (stimolo), tira fuori Febreze (routine) e goditi il profumo che ti conferma di aver fatto un buon lavoro (gratificazione).
Quando inisci di rifare il letto (stimolo), spruzza Febreze e tira un sospiro di soddisfazione (gratificazione). Febreze, lasciavano intendere gli annunci, era un piacere in più, non un modo per ricordarti che la tua casa puzza.
E così un prodotto che in origine era stato concepito come un sistema rivoluzionario per eliminare gli odori diventò un deodorante per la casa che si usava dopo aver pulito. Tutto questo successe nell’estate del 1998. Nel giro di due mesi, le vendite raddoppiarono. Un anno dopo, Febreze fece incassare all’azienda 230 milioni di dollari. Da allora è nata tutta una serie di prodotti collaterali – deodoranti, candele e detersivi per il bucato – le cui vendite hanno raggiunto un miliardo di dollari l’anno. In seguito la Procter & Gamble ha cominciato a dire ai suoi clienti che, oltre ad avere un buon profumo, Febreze eliminava anche i cattivi odori. Oggi è uno dei prodotti più venduti nel mondo.

Aria fritta

Alcune settimane fa Marisa di Radio DJ ha detto in onda una cosa del tipo “Ieri mi sono fatta una frittura, così, come se non ci fosse un domani.”

La frase mi ha colpito perchè la mia idea (le mie fantasie) di fare qualcosa senza pensare alle conseguenze è legata a cose un po’ più definitive che non un po’ di odore di fritto.

Ma mi ha colpito anche perchè mi ha ricordato tutti gli amici e conoscenti, direi la maggioranza, che non fanno mai una frittura perchè “la casa si impregna di odore”, non perchè non gli piaccia.

Sarà perchè ho (voluto) che la cucina fosse una stanza a parte, e quindi basta chiudere una porta e l’odore di fritto se ne va per la porta finestra, ma mi è sempre sembrato un modo artificiale di vivere la casa. Ci si sta sempre meno, ma si ha anche molto meno tempo da dedicarci e allora la si tiene in ordine “usandola” il meno possibile. Non so neanche bene perchè la si voglia così perfetta, visto che nel concetto di usarla il minimo indispensabile rientra probabilmente anche il fatto di ricevere sempre meno visite.

Il mio stupore poi sta anche nella temporaneità, e quindi limitatezza del problema, rispetto al grande vantaggio di mangiarsi una bella frittura di pesce (doppia puzza).

Al di là delle mie gratuite e superficiali valutazioni, resta la grande influenza che l’approccio nei confronti della casa (comprese le mode ddi dislocazione delle stanze e/o arredamento) ha sui consumi alimentari. Non ho, ovviamente, dei dati ma posso azzardare che il consumo di cavolo negli ultimi vent’anni sia crollato; questione di gusto o di odore?

Che ruolo ha giocato nel calo dei consumi di liquori e distillati la sparizione del mobile bar, “obbligatorio” in tutte le case degli anni ’70?

Procter & Gamble realizza già da anni studi antropologici sull’utilizzo dei suoi prodotti e delle categorie a cui appartengono, credo però che analizzare le tendenze dell’arredamento e dell’architettura domestica potrebbe permettere di anticipare alcune tendenze di fondo dei consumi alimentari.

L’anno prossimo vado al Salone del Mobile. Oggi intanto mi sono una frittura di alici e totani che era uno spettacolo!

Esci da quel corpo!

Dal giuramento di Ippocrate ” …di prestare la mia opera con diligenza, perizia, e prudenza secondo scienza e coscienza ….”

E come diceva il mio professore di Igiene Veterinaria (un veterinario, quindi un medico) con tono serio ed un po’: “se la scienza si coltiva di giorno, la coscienza si interroga di notte”.

Se a scienza e coscienza aggiungete l’esperienza, il risultato che ottenete è la competenza. Volendo si potrebbe inserire anche l’allenamento, ma, oltre a non finire per -enza, in realtà è un misto di scienza ed esperienza. Quello dell’allenamento è però un concetto interessante che mi mi frulla nella testa da un po’ e magari ci torno sopra in uno dei prossimi post.

Quanta consapevolezza c’è nella competenza? Credo che sia da militare che ho sentito definire la cultura come quello che rimane dopo che ci siamo dimenticati tutte le nozioni.

In modo un po’ vago e raccogliticcio queste cose mi sono tornate alla mente quando l’altro giorno sull’ultimo numero dell’Internazionale ho letto l’articolo “La mente in stato di grazia”, sottotitolo “Per ottenere grandi prestazioni, serve un alto livello di calma e concentrazione, che si raggiunge dopo anni di esercizio (ecco l’allenamento N.d.A.). Alcuni ricercatori cercano di capire come arrivarci più rapidamente”.

In sintesi si è osservato che quando le persone realizzano prestazioni eccezzionali nei diversi campi hanno in comune uno stato rilassatezza, calma e concentrazione deifinito empiricamente (e vagamente) come flusso. Gli studi hanno identificato 4 caratterisctiche fondamentali del flusso:
- una concentrazione totale che fa perdere il senso del tempo (faccio notare che è un concetto contrario al multitasking così elogiato oggigiorno).
- l’autotelicità, ossia la sensazione che l’attività in cui siamo impegnati sia gratificante in sé.
- la sicurezza che le nostre capacità sono perfettamente adeguate
al compito e quindi non proviamo né frustrazione né noia.
- infine, quello che caratterizza più di tutto il flusso è l’automaticità, per esempio la sensazione che il pianoforte stia “suonando da solo”.
Dal punto di vista della fisiologia cerebrale (credo si possa dire così) nello stato di flusso si rileva una minore attività nella corteccia prefrontale, di solito associata a
processi cognitivi superiori come la memoria di lavoro e l’espressione verbale. Può
sembrare controintuitivo, ma mettendo a tacere l’autocritica forse si lascia più spazio ai processi automatici, che a loro volta producono la sensazione di naturalezza del flusso. A me ricorda un po’ anche il concetto di serendipity.
Osservando gli atleti (l’allenamento torna fuori ogni due per tre) si è osservato che si può facilitare lo stato di flusso concentrando l’attenzione su un punto esterno al proprio corpo (che è poi una delle tecniche per la meditazione).
Per completezza, ma è la parte in un certo senso per me meno interessante, si stanno sviluppando tecniche di accellerazione all’apprendimento (e quindi raggiungimento dello stato di flusso) tramite la stimolazione elettrica transcranica stimolando con degli elettrodi determinate zone del cervello.

Al di là di essere un argomento affascinante in sè, mi è piaciuto trovare conferme scentifiche alla mia percezione empirica che le persone lavorano meglio quando si sentono serene. Una volta alla domanda “Quale deve essere la principale caratteristica di un leader?” ho risposto “Dare serenità alle persone che dipendono da lui.”

L’altra cosa apparentemente ovvia, perchè tutti l’abbiamo provata prima o poi, ma in realtà estremamente curiosa, è la sensazione di automatismo.
E’ curiosa perchè altri studi basati sulla risonanza magnetica cerebrale (o forse qualche altra nuova tecnica) letti recentemente da qualche altra parte (credo su “TTL” della Stampa) hanno dimostrato che l’attivazione dell’ area deputata al movimento della mano avviene prima (tempo infinitesimale, ma prima) dell’attivazione dell’area deputata alla decisione di muovere la mano.

Un filone che potrebbe mettere in dubbio gli studi sui meccanismi motivazionali, basati fino ad oggi su osservazioni empiriche del tipo azione-reazione (e quindi vere di per se stesse) perchè pone un punto di domanda su cosa ci fa fare una determinata azione.
In realtà a pensarci bene, se l’impulso di muovere la mano parte prima della decisione di farlo, la domanda non è tanto cosa ci fa faare una certa azione, ma CHI ce la fa fare.

E siamo tornati alla (in)coscienza del giuramento di Ippocrate.

Concludo con un collegamento con un altro concetto, che forse non alcun merito a parte quello di sembrare elegante: osservando la cosa da una prospettiva diversa, il DNA è un parassita e l’organismo non è altro che l’ospite di cui si serve per riprodursi e perpetuarsi.

So che è di moda un approccio olistico, new age ed antiscientifico (che in buona parte mi appartiene), però le scoperte sul funzionamento del cervello che si stanno facendo grazie alle nuove tecniche mi fanno venir voglia di cambiare mestiere.

O sarebbe forse solo un cambio di specializzazione?

Quale futuro per il prosecco negli USA?

Recenetemente in Bosco Viticoltori ho realizzato una ricerca sull’atteggiamento del consumatore USA nei confronti del Prosecco.

Credo che possa essere non solo di interesse, ma anche di utilità generale e quindi l’ho pubblicata su slideshare. Questo è il link

Di seguito il comunicato stampa che l’accompagna:
Comunicato stampa

L’ATTEGGIAMENTO DEI CONSUMATORI U.S.A. NEI CONFRONTI DEL PROSECCO: UN’INDAGINE DI BOSCO VITICOLTORI E DOXA ADVICE.

Quale sarà il futuro del Prosecco?

La crescita dei consumi continuerà ai ritmi che ne hanno decretato il successo nell’ultimo decennio?

Che effetto avrà sul mercato l’entrata in produzione dei nuovi vigneti piantati durante gli ultimi tre anni?

E’ proprio nelle fasi favorevoli del mercato che le aziende più attente pianificano lo sviluppo.

Per questo la Bosco Viticoltori ha commissionato a Doxa Advice una ricerca sugli atteggiamenti e comportamenti di consumo di Prosecco da parte del consumatore statunitense.

“Negli U.S.A. il consumo di Prosecco sta crescendo a ritmi vertiginosi” secondo Lorenzo Biscontin, direttore Generale della cantina di Salgareda (TV) “il punto è capire in che misura questo trend continuerà anche nei prossimi anni ed i risultati della nostra ricerca sono molto promettenti.”

Dall’indagine risulta infatti che solo il 50% dei consumatori statunitensi di vino conosce oggi il prosecco, ma oltre la metà di quelli che conoscono il prodotto ne sono anche consumatori.

Da sottolineare poi che a fronte di un 61% di consumatori che dichiara un consumo costante, ben il 36% dichiara di aver aumentato il consumo di prosecco negli ultimi 6 mesi.

A confermare le prospettive positive per il Prosecco negli U.S.A. anche la penetrazione superiore alla media che si riscontro nei segmenti giovani e con i più alti livelli di reddito ed istruzione.
“Il Prosecco negli U.S.A.” commenta Massimo Sumberesi, Direttore Generale di Doxa Advice, “appare come una scelta di stile guidata dai consumatori più moderni ed evoluti e non un’alternativa economica a vini spumanti più prestigiosi. La sua crescita quindi sarà determinata dalla diffusione della sua immagine di convivialità ed informalità piuttosto che da strategie di prezzo, che rischierebbero anzi di banalizzarne il percepito qualitativo.”

Le ricerche bisogna saperle scrivere 5

Lo so che sono un po’ in ritardo con questo post, ma, come mi ha detto qualcuno tempo fa, è un periodo di cambiamenti e di conseguenza un po’ complesso.
Stavolta prometto che concludo l’argomento ricerche di mercato.
I punti che mi sono rimasti nella penna (tastiera) l’altro giorno sono sostanzialmente due.

I database generati dalle ricerche contengono molte più informazioni delle semplici dati, basta saperli organizzare.
Tempo fa ho commissionato una (tipica) analisi nuovi-persi-stabili basata sui dati scanner delle carte fedeltà riferiti ad uno specifico prodotto (singolo codice EAN). Mi sono arrivati tutti gli indicatori demografici ed i panieri dei relativi gruppi. Cose sicuramente utili, alle quali però io ho aggiunto un’informazione che ritengo particolarmente interessante per la definizione delle strategie: le sovrapposizioni e le NON sovrapposzioni dei panieri di acquisto dei diversi gruppi. In altre parole, partendo dal database grezzo, ho evidenziato quali prodotti sono esclusivi di ogni singolo gruppo, quali sono comuni a tutti e tre, quali sono comuni solo a nuovi+persi, quali a persi+stabili e quali a nuovi+stabili. Ho aggiunto anche il peso sul valore totale del paniere acquistato dei prodotti comuni e di quelli esclusivi,l nonchè il prezzo medio unitario del paniere. Il tutto con le relative variazioni rispetto all’anno precedente.
Tutto questo per dire che nei dati di una ricerca ci sono risposte a più domande di quelle di partenza, risposte che nascono dall’associazione tra risposte a diverse domande, secondo ipotesi di comportamento dell’universo analizzato che siano rilevanti per la definizione dell strategie. Con questo intendo che ipotizzato un certo processo comportamentale, verificare o meno la significatività dell’associazione tra risposte diverse permette di ottenere informazioni importanti, senza che ci sia la necessità di chiederle esplicitamente, e così di allungare il questionario inutilmente.
Anche in questo caso un esempio chiarisce le cose: confrontando la frequenza di acquisto di una categoria di prodotto con il prezzo medio pagato (o con lacquisto o meno di una certa marca) posso individuare eventualio comportamenti diversi delle diverse cluster (gruppi) definiti dalla frequenza di acquisto rispetto alla distribuzione media del campione. Questo senza necessità di domandare il prezzo medio ad ogni singola cluster di frequenza d’acquisto. Sto parlando dei classici indici di concentrazione che vanno a dinviduare se la combinazione di due variabili è diversa dalla distribuzione normale in modo statisticamente significativo. Anche in questo caso non si tratta di fisica nucleare ba di un normalissimo test del Chi quadrato per misurare la distribuzione di frequenza delle risposte del campione incrociando due variabili (domande).
La raccomandazione quindi è: prima di ampliare i vostro progetto di ricerca o, peggio ancora, allungare e complicare il questionario, assicuratevi di aver strizzato tutte le informazioni disponibili nel database sulla base delle vostre ipotesi strategice. Anche perchè le ipotesi strategiche sono quelle sulla base delle quali avreste dovuto già disegnare il questionario e quindi sono quelle che organizzano i dati in informazioni. Se vi mancano le ipotesi strategiche, aumentare la quantità di dati disponibili vi porterà solamente ad una maggior confusione.

La scienza statistica dispone di tutto un ventaglio di strumenti di analisi:usateli!
Avendo passato un po’ di anni in università ad occuparmi di analisi statistica, rimango sempre stupito della distanza tra la raffinatezza e capacità interpretativo/informativa degli strumenti disponibili (e mi limito a quelli consolidati, tralasciando la frontiera della ricerca, che oramai non conosco più) e la pochezza di quelli effettivamente utilizzati nelle ricerche di marketing realizzate da e per conto delle aziende. Succede ancora che la media, l’indicatore dei poveretti, non sia uno dei parametri di partenza per individuare gli scostamenti (le veri informazioni strategiche), ma l’indicatore di arrivo.
Non voglio fare qui un trattato di statistica multivariata, anche perchè è pieno di persone molto più qualificate di me al riguardo, però almeno ricordare che ci sono tecniche quantitative che permettono di circostanziare/predire il comportamento dei consumatori, quello sì. E’ vero che per essere applicate queste analisi richiedono di partire da un datbase con determinate cratteristiche, e quindi da questionari strutturati in un certo modo, ma non è che questo sia antitetico rispetto all’amalisi monovariata e, soprattutto, i vantaggi che ne derivano compensano ampiamente il, pivvolo, sfrozo.
Io personalmente sono sempre stato un fan dell’analisi fattoriale, perchè i fattori si generano in ordine decrescente di varianza spiegata e quindi permettono di costruire matrici bidimensionali “pesate”. Altra tecnica che mi è sempre piaciuta, ma che ho utilizzato solamente un paio di volte, è la conjoint analysis per il potenziale informativo che offre riguardo alle scelte del consumatore.
Qui mi fermo, perchè lo scopo di un post su questi temi non può essere evidentemente essere quello di approfondire/esaurire la materia, ma solamente di dare degli stimoli per spingere chi realizza ed utilizza le ricerche di mercato di andare oltre il solito. Se le cose appaiono troppo complesse non spaventatevi, ma sforzatevi invece di andarci dentro per comprenderle. Poi non è detto che sia possibile semplificarle, ma le vostre strategie saranno comunque migliori di quelle basate su analisi semplicistiche.
Concludo con una frase che ho trovato recentemente in un articolo su Marketing Management del dicembre 2008: Marketers must learn to lead with imagination driven by consumer insight and not rely on marketing research for predictions.
Cominciando oggi si è indietro solo di due anni e mezzo (ma mi sto mettendo in pari). E qui chiudo per davvero la serie dei post sulle ricerche di marketing.

Le ricerche bisogna saperle scrivere 4

Come annunciato concludo questa serie di post sulle ricerche di marketing con alcune riflessioni su come queste vanno lette, o meglio analizzate.

Se avete dei dubbi sui risultati di una ricerca, approfondite.
Con questo non voglio dire di non credere alle ricerche solo perchè i risultati che forniscono sembrano andare contro alle nostre aspettative, però l’esperienza e la conoscenza che viene dalla frequentazione continua del settore in cui si opera devono essere dei parametri per far suonare campanelli d’allarme di fronte ad indicazioni che appaiono anomale. In questi casi è doveroso approfondire le modalità di esecuzione della ricerca e di analisi dei dati, per confermare che i risultati siano effettivamente affidabili. Ricordiamoci che quasi sempre la consocenza delle dinamiche del settore che ha l’istituto di ricerca è sporadica rispetto alla nostra; se da una parte questo porta il vantaggio di una visione libera da pregiudizi, dall’altro noi commitenti abbiamo il compito di rilevare eventuali cantonate, sempre in aggiuato. Ancora una volta sottolineo che non parlo di teoria astratta, bensì di (a volte dura) realtà. Qualche anno fa sono stato coinvolto in una ricerca pan-eropea relativamente ai livelli di conoscenza , acquisto e fedeltà di una marca che distribuivamo in Italia. L’istituto che seguiva tutto il progetto quindi era straniero e si era appoggiato ad una istituto italiano solamente per la realizzaizone delle interviste (ora non ricordo se telefoniche oppure on-line, ma poco importa). I risultati per l’Italia mostravano un’elevata conoscenza (awareness) ed una positiva percezione della marca con livelli invece molto bassi di acquisto e praticamente inesistenti di fedeltà. Il proprietario della marca quindi ci stimolava ad individuare delle strategie che riuscissero a convertire questo elevato numero di potenziali consumatori in consumatori effettivi. Questi dati però contrastavano sia con la percezione che avevamo in azienda del mercato, sia con i risultati di una ricerca che avevamo svolto noi circa un anno prima. Analizzando il database ottenuto dalle interviste (che, dopo qualche insistenza, sono riuscito ad avere) ho notato che nell’analisi delle risposte la lista delle marche a volte era in ordine alfabetico mentre altre volte era in ordine decrescente di conoscenza. Analizzando le due liste per me era chiaro che c’era stata un’inversione e che ai dati di conoscenza in ordine descrescente fosse poi stata associata la lista delle marche in ordine alfabetico, in considerazione anche del fatto che il risultato di conoscenza che sembrava incredibile per la nostra marca, si adattava invece benissimo alla marca a cui avrebbe corrisposto nel caso dell’inversione delle liste durante le analisi. Mi ci sono volute parecchie telefonate ed un incontro di persona con il Direttore Marketing internazionale della marca in questione ed i responsabili del progetto di ricerca per convincerli a fare questa verifica. Alla fine si è scoperto che avevo ragione io, ovviamente l’Istituto non sapeva spiegarsi come aveva potuto accadere, invece, come dicono gli americani, shit happens e non c’è nessun problema. Solamente quando si sente la puzza sarebbe meglio guardare sotto la suola invece di far di niente per non voler vedere che le nostre belle scarpe si sono sporcate. Approfitto per sottolineare come informazioni informazioni sbagliate portino a decisioni dannose; nel nostro caso l’impostazione di una strategia opposta a quella necessaria (spinta all’acquisto vs. costruzione di awarness).

L’errore campionario è una cosa seria
Detto in sintesi e con tutte le inesattezze di un non-statistico come me, l’errore campionario in una ricerca di mercato è la percentuale di probabilità che un determinato numero sia effettivamente quello con un determinato intervallo di confidenza (solitamente il 95%). Detto in termini più chiari e più pratici una ricerca svolta su un campione di 1.000 persone ha un errore campionario del +/- 3,16%. Questo significa che in un questionario con domande a risposta multipla, se una domanda ha ricevuto il 15% di risposte, questo 15% è in realtà compreso tra 11,84% e 18,16%.
Si tratta di un’informazione cruciale nel leggere i risultati di una ricerca di mercato, perchè permette di sapere quali numeri sono effettivamente diversi (ad essere più precisi diversi in misura statisticamente significativa) e quali invece appaiono diversi a causa dell’errore campionario, mentre sono in realtà, statisticamente parlando, lo stesso numero. Sempre andando sul concreto e mantenendo l’esempio precedente, 15% ed 11% sono, statisticamente parlando, lo stesso numero in quanto i loro intervalli si sovrappongono: 11%+3,16%= 14,16%, 15%-3,16%= 11,84%.
Attenzione 1: spesso nel corso di un’intervista alcune domande vengono sottoposte solamente ad una parte selezionata del campione iniziale, ad esempio solo ai consumatori che hanno visto la pubblicità della marca. In questo caso la base campionaria si riduce e l’errore aumenta in modo esponenziale (per la precisione al quadrato).
Attenzione 2: nel corso degli anni ho sentito Istituti e ricercatori, anche autorevoli, parlare dell’importanza di cogliere i segnali deboli dati da piccole differenze anche su campioni limitati. Non discuto dell’utilità di cogliere i segnali deboli, non sono però d’accordo all’interpretazione dei dati delle ricerche quantitative come se le leggi matematiche dell’inferenza statistica non esistessero.
Attenzione 3: tutte quello che ho detto sopra NON vale per ricerche che vanno a misurare parametri metrici, pesi e misure, a meno che questi non vengano ricondotti ad intervalli chiusi in domande a risposta multipla. Si tratta comunque di tipologie di indagine estremamente rare nell’ambito delle ricerche di mercato (per chi fosse comunque interessato, il link di wikipedia all’inizio del paragrafo può essere un punto di partenza per approfondimenti).
Concludo il paragrafo svelando la (semplice) formula per calcolare l’errore campionario di una ricerca: E= 1/√n*100, dove n è la numerosità del campione. Tornando all’esempio concreto di cui sopra: E= radice quadrata di 1/1.000.

Qui mi fermo, anche se ci sono ancora un paio di aspetti che volevo affrontare, perchè mi sembra che il post sia già molto denso.
Quindi mi smentisco una volta di più e rimando la conclusione alla quinta e, davvero, ultima puntata.

Le ricerche bisogna saperle scrivere 3

Visto che il titolo di questa serie di posts è “Le ricerche bisogna saperle scrivere”, ho pensato che forse sarebbe stato opportuno spendere due parole su come scrivere le ricerche di marketing. Niente di particolarmente approfondito su un tema dalla bibliografia sterminata; semplicemente alcune dritte che nascono dall’esperienza di ricercatore prima e committente di ricerche poi, che possono aiutare ad evitare gli errori più marchiani. Esprimerò i concetti in modo volutamente manicheo, perché poi tanto ci pensa la pressione dell’operatività quotidiana a portarci nelle zone grige delle eccezioni alle regole e dei compromessi.
Le metodiche qualitative servono per aprire le domande, quelle quantitative per chiudere le risposte.
Alcuni anni fa seguii 4 focus groups negli USA che avevano come oggetto principale il cambio di packaging di un prodotto già esistente. Alla fine dell’ultimo focus group il responsabile del progetto mi disse sconsolato che era più confuso di prima riguardo all’implementazione del nuovo pack, per la ridotta convergenza riscontrata su questo argomento nelle discussioni dei gruppi. In quel momento ho capito che veramente speravano di ottenere una risposta definitiva dai consumatori attraverso i focus groups, ottenendo il doppio risultato di esplorare le motivazioni e gli atteggiamenti nei confronti della categoria e la validazione della nuova ipotesi, risparmiando quindi sui costi di ricerca. Potete stare certi che queste giocate non riescono neanche ai più bravi tra i migliori. Tra l’altro che validazione ci può essere nelle risposte di 32 persone. Io sono sempre stato d’accordo con Feargall Queen che diceva che i focus group sono quello strumento che ti permette di ascoltare l’opinione/l’idea/il suggerimento di quell’unico partecipante che ha ragione. Che poi riconoscerne la ragione sia conseguenza di una validazione tramite una ricerca quantitativa o di una valutazione del management è tutto un altro discorso.
Parallelamente pensare di scoprire opinioni/motivazioni/atteggiamenti inattesi attraverso ricerche quantitative è altrettanto illusorio.
I questionari, quanto più brevi, meglio.
Il mio professore di Research in Consumer Studies in Canada esortava a costruire questionari che comprendessero tutto il need to know (necessario) e niente nice to know (utile). Che sia una disciplina difficile da seguire lo esprimono già le parole, perché tutti vorremmo raccogliere le informazioni utili oltre a quelle necessarie. I vantaggi di limitarsi solo al necessario sono però molti e superano quelli che possono provenire dall’utile.
1) Aiuta a definire con maggior precisione gli obiettivi della ricerca (vedi post precedente).
2) Aiuta a mantenere breve e focalizzato il questionario che risulterà quindi più facile per l’intervistato.
3) La chiarezza degli obiettivi dell’indagine, unita alla chiarezza delle risposte da parte degli intervistati, porta ad una maggior chiarezza dei risultati.
4) Sottoporre un questionario a qualcuno significa comunque disturbarlo; questionari brevi e chiari riducono il disturbo e quindi rendono le persone più disponibili a partecipare ad altre ricerche in futuro e meno critiche al sistema delle ricerche di marketing in generale.
Il rischio principale dei questionari lunghi e faticosi (serie infinite di scale di valutazione/accordo-disaccordo delle affermazioni più disparate) è l’inaffidabilità delle risposte. Una volta che una persona è coinvolta in un questionario, sarà improbabile che lo tronchi a metà (soprattutto se l’intervistatore cercherà di convincerlo che manca poco per poter completare la rilevazione. A questo punto le persone cominciano a rispondere a caso, sia inconsciamente per la perdita di attenzione che scientemente per “vendicarsi” del disturbo. Il questionario sarà sì completo, ma dannoso per la distorsione occulta che introduce nella rilevazione complessiva.
Può sembrare che queste raccomandazioni fossero valide più in passato, quando le ricerche si basavano su interviste personali o telefoniche, che non per le ricerche eseguite on-line su liste di persone che hanno dato la loro disponibilità a partecipare ad indagini di mercato, che predominano oggi.
Pur convivendo il fatto che rispondere ai questionari on-line sia intrinsecamente più facile (le persone scelgono il momento in cui rispondono, è possibile inserire immagini, ecc…), io resto convinto che sforzarsi a costruire un questionario essenziale nei contenuti e logico nella struttura dia maggiori garanzie di ottenere risposte a quello che realmente si voleva chiedere.
L’interpretazione univoca delle domande da parte degli intervistati non va dta per scontata, ma va conquistata.
Quello che per noi sembra automatico ed ovvio, per l’intervistato non lo è. Detta così sembra una banalità, ma recentemente ho assistito alla presentazione di una ricerca sulla forze delle marche di diversi settori ed in quello alimentare alla domanda “Quali marche negli ultimi tempi hanno particolarmente attirato il suo interesse” al primo posto appariva Parmalat. Scusate lo scetticismo, ma dubito che questo risultato fosse indipendente dalla presenza continua sui media di notizie riguardanti il tentativo di acquisizione di Lactalis. Non ho invece alcun dubbio che l’interesse manifestato a seguito di questa domanda non fornisce alcuna indicazione sulla valutazione positivi, negativa o neutra che gli intervistati danno alle marche citate.
Questo mi sembra un eccellente esempio di indeterminatezza dovuta alla cattiva scrittura del questionario, che permette quindi di leggerne i risultati come si vuole.
Per evitare situazioni simili è indispensabile scrivere le domande in modo che la loro interpretazione da parte degli intervistati sia univoca in modo che quello che capiscono sia effettivamente quello che volevamo chiedere e che le possibili risposte siano altrettanto chiare, in modo che noi altrettanto univocamente capiamo quello che loro volevano effettivamente rispondere.
Il classico consiglio che si dà in questi casi è di mettersi nei panni dell’intervistato, ma quando si sta portando avanti un progetto di ricerca ci si immersi fino al collo e tirarsene fuori diventa difficile e faticoso. Io preferisco chiedere a qualche collega di altre funzioni (il più possibile distanti dal marketing) di rispondere alla bozza del questionario. E’ un sistema molto più veloce ed efficace per individuare i punti controversi.

Concludo il post ricordando quali sono le informazioni essenziali che dovrebbe fornire una ricerca di marketing:
- chi, cosa, dove, come quando e perché compra.
- chi, cosa, dove, come quando e perché consuma.

Non concludo invece la serie, perchè mi riservo un ultimo post dove, ad apparente smentita di quanto ho scritto finora e della mia naturale razionalità mercuriale, affronterò il tema di come leggere le ricerche di marketing. Così tanto per smentire una volta di più gli oroscopi e perchè è un periodo di cambiamenti e quindi … all my life I have been good, but now I am thinking what the hell!

Le ricerche bisogna saperle scrivere 2

Con mezza giornata di ritardo, mantengo la promessa di proseguire il post dell’altro ieri (il link neanche lo metto, andate sul sito e lo trovate sotto a questo).
La voglia di affrontare questo argomento mi è venuta perchè fin dalla prima azienda in cui ho lavorato, più di una volta mi è capitato di sentire la frase “le ricerche bisogna saperle leggere”. Addirittura mi è capitato di veder scegliere un’istituto sulla base della loro capacità di interpretare (non analizzare, che è ben altra cosa) i dati. E’un concetto che contesto con forza, e questo immagino si fosse capito, perchè inserisce una componente di soggettività che svuota di significato il disegno della ricerca ed i risultati ottenuti, rischiando di raggiungere l’unico scopo di supportare le proprie aspettative/convizioni pregresse su una base (pseudo)scientifica. Questo non significa che l’opinione/visione/esperienza di esperti di un settore o di una materia, piuttosto che del management dell’azienda, non abbia validità; semplicemente che con se questa sarà la base delle decisioni è meglio risparmiare il tempo ed i soldi necessari per fare una ricerca.
Purtroppo mi anche capitato di vedere istituti di ricerca che vendevano più la loro esperienza e consocenza di una detrminata tematica piuttosto che le proprie competenze nello sviluppare un progetto di ricerca solido rispetto agli obiettivi di conoscenza del cliente. Raccomando quindi attenzione nel valutare l’istituto con cui lavorare; soprattutto nel caso in cui le vostre competenze specifiche di ricerche di marcato fossero limitate (tecniche di campionato, struttura del questionario e verbalizzazione delle domande, strumenti di analisi statistica, ecc..) il mio consiglio è di analizzare la solidità e coerenza intrinseca tra le modalità di ricerca proposte ed i vostri obiettivi informativi. Per totale chiarezza sottolineo la differenza tra dato ed informazione, dove la questa deriva dal significato che assumono i primi, organizzati secondo le logiche e necessità di conoscenza con cui è stata sviluppata la ricerca. E qui ricordo una volta di più che queste logiche sono in gran parte contenute nell’importazione della ricerca a priori, più che nell’analisi a posteriori.
In altre parole, per ridurre il rischio di prendere la decisione sbagliata non servono dati, ma servono informazioni. attenzione quindi, soprattutto nella aziende medio piccole, ai progetti di ricerca standard perchè mi è capitato di vedere anche istituti di ricerca che proponevano il loro specifico modello di analisi (di cui avevano persino il copyright). Ripeto una volta di più che il marketing è una disciplina analitica, non deterministica.
Tornando al nocciolo della questione, le ricerche bisogna saperle scrivere, perchè quanto più saranno scritte bene e quanto più i risultati saranno chiari, univoci e solidi, indipentemente di chi li andrà a leggere (con l’ovvio presupposto che chi li legge sappia come è stata scritta). Questo significa che i comportamenti e/o le opinioni identificate dalla ricerca sono effettivamente quelli che riscontrano sul mercato e non sono il frutto di distorsioni implicite nella realizzazione della ricerca o, peggio ancora, nella sua “interpretazione”. Le situazioni in cui la ricerca indica situazioni di indeterminatezza sono quelle in cui la garanzia di solidità dell’indigine è particolamente importante, perchè sono quelle in cui si è più portati ad inclinarsi in una direzione secondo le proprie aspettative/convinzioni oppure a mettere in dubbio la validità di tutta l’indagine sul presupposto della sua incapacità di individuare i fenomeni con precisione. Solo la serenità sulla convinzione della solidità dell’indagine permette di accettare che su quella questione il mercato non ha ancora sviluppato una posizione/opinione, informazione oltremodo preziosa nello sviluppo delle strategie.
Mi rendo conto che l’argomento è più corposo e complesso di quello che mi aspettavo, oltrettutto scrivere al mattino è per me un’esperienza nuva che mi sembra mi porta ad essere più arzigogolato con poco vantaggio per la chiarezza (sarà perchè sono troppo riposato). Per adesso quindi mi fermo qui, annunciando già una prossima puntata (o anche due).