La Brand Equity è come l’Araba Fenice: che vi sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa.

BrandTats2

Il concetto di “Brand Equity” è considerato, giustamente, uno dei più importanti in ambito aziendale perché descrive il valore il valore di una marca. La frequenza e l’enfasi con cui viene usato farebbe presupporre l’esistenza di una sua definizione chiara e, soprattutto, condivisa.

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Come migliorare l’efficacia delle proprie strategie (di comunicazione) web.

Oggi un post talmente semplice e diretto da sembrare naif.

Quante aziende conoscete che hanno un sito internet e/o un profilo facebook e/o twitter e/o pinterest e/o instagram e/o ecc…?

Quante di queste aziende analizza giornalente/settimanalmente/mensilmente i dati relativi all’interazione generata dalla sua presenza sul web?

Quante di queste aziende definisce/modifica le proprie atttività sul web (piano editoriale, contenuti, ecc..) in base al risultato dell’analisi di cui sopra?

Magari sperimentando, ossia variando intenzionalmente le proprie attività, in modo da misurare l’efficacia dei diversi approcci/comportamenti?

Magari anche confrontando i risultati ottenuti rispetto ad obiettivi definiti in precedenza (che significa aver ragionato su quello che si vuole fare)?

Anche senza tecniche e competenze specifiche, il buon vecchio metodo scientifico galileiano è la base del miglioramento dell’efficacia.

Non ci sono più scuse che mancano le informazioni, è solo questione di voglia.

Segmentazione vs. (iper)personalizzazione: strategie alternative o complementari?

Marketing Insights July/August 2015

Non c’è dubbio che il BIG DATA sia uno dei concetti più di moda nel marketing degli ultimi anni.

In estrema sintesi con BIG DATA si indica l’enorme quantità di informazioni disponibili sui comportamenti (di consumo) delle persone attraverso la raccolta delle loro “tracce digitali” e la capacità delle aziende di raccoglierle ed analizzarle per capire cosa succede oggi e prevedere cosa succederà in futuro.

E’ quindi un concetto / attività strettamente legato all’era digitale ed ha portato ad un profondo ripensamento non solo nell’impostazione dell’operatività (di marketing) delle aziende, ma anche nella nell’impostazione delle strategie. In particolar modo l’utilizzo del BIG DATA è alla base dell’evoluzione del marketing verso l’iper-personalizzazione.

Io confesso che sono stato un po’ perplesso rispetto alla centralità strategica del BIG DATA, sia per la difficoltà oggettiva di ricavare informazioni rilevanti e significative da questa enorme massa di dati disorganizzati, sia, soprattutto, perchè le informazioni ricavabili dal BIG DATA sono dettagliatissime su cosa succede adesso, ma dicono poco sul perchè e quindi su cosa succederà in futuro.

Questi dubbi li ho balbettati in un post di qualche tempo sul futuro del marketing: “Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) – 2″. Però mi è rimasta la sensazione di non aver veramente focalizzato la questione.

E’ stat quindi un piacere leggere durante le vacanze l’articolo di David Krajicek, Amministratore Delegato di GFK Consumer Experiences Nord America, sul rapporto tra il vecchio concetto di segmentazione e quello nuovo di iper-personalizzazione. L’articolo si intitola “When Opposites Attract” e lo trovate sul numero di luglio/agosto 2015 della rivista Marketing Insights, pubblicata dall’American Marketing Association.

Io qui ne riporto alcune pillole, secondo me molto utili ed illuminanti e sufficientemente leggere da leggere (potenza degli accenti occulti) visto che siamo ancora ad inizio anno e dobbiamo ri-carburare dopo la pausa festiva.

  1. La segmentazione è strategie, l’iper-personalizzazione è esecuzione. Vero che la personalizzazione è una forma estremamente sofisticata di attivazione, ma attivazione rimane. Come dico io, è solo un tecnicismo (per quanto raffinato).
  2. La segmentazione identifica i consumatori potenziali della marca, l’iper-personalizzazione si focalizza su coloro che hanno già espresso un interesse per la marca.
  3. La segmentazione si focalizza sulle motivazioni, l’iper-personalizzazione è basata sulle azioni.
  4. La segmentazione guarda al futuro, l’iper-personalizzazione vive nel presente.
  5. La segmentazione trova gli spazi liberi, l’iper-personalizzazione corre a chiudere il divario.
  6. La segmentazione è invisibile per i consumatori, l’iper-personalizzazione può essere dolorosamente evidente (e invasiva).
  7. Non tutto deve essere personalizzato: l’uso del BIG DATA porta con sè la tentazione di personalizzate e micro-targettizzare solamente perchè è tecnicamente possibile.

L’articolo conclude con questo paragrafo:

Alla fin fine non c’è un buon sostituto alla comprensione strategica dei mercati ed a dove risiedono i diversi targets. La buona gestione richiede un equilibrio tra quello che è personale e quello che è generale (“scalable” in originale N.d.T.). Abbiamo bisogno di essere più precisi nella comprensione di quelli che sono i bisogni e le motivazioni più importanti per i consumatori, non semplicimente nella conoscenza dei comportamenti che i consumatori hanno già manifestato. Segmentazione ed iper-specializzazione possono lavorare insieme per creare l’equilibrio perfetto tra micro e macro, strategia ed esecuzione.

In altre parole io direi che per far fruttare al meglio le possibilità offerte dalla iper-specializzazione l’azienda (che ha risorse di tempo, soldi e persone limitate) deve gestirle con una visione strategica costruita (anche) attraverso la segmentazione.

Bene, bello, sono d’accordo con me stesso. Però so di avere oramai una certa età e quindi mi chiedo: non sarà che questa visione è legata alle mie abitudini ed alle mie competenze?

Ho studiato abbastanza statistica multivariata per chiedermi se (l’apparente) incapacità attuale di capire le motivazioni dei comportamenti attraverso il BIG DATA non sia solo frutto della nostra incapacità nel raccogliere ed analizzare i dati. E quindi sia destinata ad essere superata in un (prossimo) futuro.

Melgio il dubbio o la certezza? Un mio amico all’Università aveva una sola certezza: meglio il dubbio.

 

Lead through ideas (therefore innovation).

Faccio un’ eccezione alla mia regola di limitare l’uso dell’inglese ai casi strettamente indispensabili con un titolo totalmente in inglese.

Il motivo è che nessuna traduzione del concetto di “lead” in questo contesto mi piaceva, perchè qui lead è un po’ guidare, un po’ condurre, un po’ dirigire, un po’ “indurre a”, un po’ coinvolgere.

Ormai per tutti (sembra) chiara la differenza tra autoritarietà ed autorevolezza, ma “lead” ha un significato più ampio e meno duro, nel senso di soft e hard skills (ancora l’inglese).

Ad ogni modo, qualunque sia il significato che volete dargli, credo che nelle organizzazioni (economiche e non) sia sottovalutata l’importanza che hanno le idee per raggiungere il risultato.

Le idee sono quello che fanno una grande azienda, anche se non è un’azienda grande, parafrasando la vecchia pubblicità dei pennelli Cinghiale secondo cui per un lavoro bene fatto non ci voleva un pennello grande, ma un ungrande pennello.

Credo sia tanto più vero, quanto più si allarga il numero e l’eterogeneità dei portatori di interessi / fornitori / partners (stakeholders) con cui l’azienda deve interegire e con i quali i rapporti sono gerarchicamente sempre più deboli e labili.

E’ vero che le cose si fanno con i soldi (risorse), ma si fanno anche con le idee. Anzi le cose (strategie) si fanno PIU’ con i soldi che con le idee.

Oramai da un po’ di tempo tendo sempre a fare esempi tratti dalla mia esperienza diretta. Forse è vanità, a me piace pensare che sia per (di)mostrare che non si tratta di concetti puramente teorici, malgrado possano sembrarlo.

Le (buone) idee creano risorse (umane e finanziarie) perchè motivano le organizzazioni e le persone. Nota: le persone si motivano sempre da sè, l’attività di chi ha la responsabilità di gestire delle persone può solo affievolire o incrementare la loro motivazione intrinseca.

Un’agenzia (di pubblicità, di PR, di gestione di social media, ecc…) lavorerà con più voglia (dedicando attenzione, tempo, cura) ad una grande idea rispetto ad un grande budget.

Una buona idea può diventare un catalizzatore per realizzare co-marketing che moltiplicano la disponibilità di risorse ed arricchiscono il concetto iniziale, moltiplicandone quindi la rilevanza.

A tutti piace essere all’avanguardia, sia per soddisfazione personale che per i risultati che porta in termini di affari. Essere portatori di idee, genera rispetto e credibilità da parte di consumatori, clienti, intermediari commerciali e reti di vendita.

Esempi vissuti in prima persona potrei farne a decine, ma non voglio dilugarmi ed annoiarvi.

Lead through ideas, in italiano potrei tradurlo diventare generatori di idee, è conseguenza di un approccio culturale, quindi è facile e difficile allo stesso.

E’ facile perchè è una questione principalmente di atteggiamento, apertura mentale, curiosità intellettuale e competenze.

E’ difficile perchè pensare in grande richiede spesso un salto culturale è sempre il coraggio di andare oltre lo status quo (su questo rimando al post “Eterodossia ed innovazione”)

Il problema si risolve quando l’innovazione permanente, ma non frenetica, diventa lo status quo.

Per chiarire quello che voglio dire, o per confondervi ancora di più, concludo con tre citazioni:

“L’impresa di successo non è nè in anticipo nè in ritardo sui tempi: è giusta”; Giorgio Brunetti, professore di Economia Aziendale dell’Università Cà Foscari di Venezia durante una lezione al mio corso della Smea di Cremona. Io negli anni l’ho leggermente modificata dicendo che l’azienda di successo deve essere leggermente in anticipo sui tempi (consumatori, clienti, concorrenti).

“Excellence Pursuer, Prevail Forever”; slogan China Contruction Bank.

” A creative man is motivated by the desire to achieve, not by the desire to beat others. ”; Ayn Rand.

Being an achiever, not beater, brings you to your goals!

Il marketing totale ed il villaggio globale (più gli auguri di Natale).

Il concetto di marketing totale è figlio, inconsapevole, di quello di villaggio globale.

Ricordo che “marketing totale” è il termine che ho coniato qualche mese fa per indicare il nuovo ambiente competitivo in cui le marche sono sotto lo scrutinio del mercato sempre, ovunque e continuamente. E’ un concetto nato da riflessioni diverse (qui il primo post di febbraio a cui ne sono seguiti altri), però a posteriori mi sono reso conto della sua riconducibilità al concetto di “villaggio globale”.

Ma cos’è il concetto di “villaggio globale”? E’ un concetto esposto per la prima volta da Marshall McLuhan nel 1962, divenuto di grandissima popolarità anche grazie alla sua comprensibilità intuitiva.

Copio e incollo da Wikipedia (si, l’ho fatta la donazione):

Per villaggio globale si intende un mondo piccolo, delle dimensioni di un villaggio, all’interno del quale si annullano le distanze fisiche e culturali e dove stili di vita, tradizioni, lingue, etnie sono rese sempre più internazionali.

Il mondo nuovo apertosi nel Novecento è per McLuhan caratterizzato da una decentralizzazione, che sposta il punto primario di interesse e di osservazione (e di finalizzazione) dalla soggettiva visione nella dimensione di villaggio, alla spersonalizzata visione globale, concetto che ampliò in “War and Peace in the Global Village” (1968), segnalando come la globalizzazione del villaggio “elettrico” apportasse e stimolasse più “discontinuità, e diversità, e divisione” di quanto non accadesse nel precedente mondo meccanico.

Non è quindi un caso che quando si parla di “villaggio globale”, quasi tutti mettono l’attenzione sul “globale” e tralasciano il “villaggio”.

Dai tempi di MaLuhan però si è verificato un cambiamento importante: si è realizzata la rivoluzione digitale (per sintetizzare).

Se i mezzi di comunicazione di massa (di McLuhan) hanno creato la globalizzazione geografica, la rivoluzione digitale ha creato la “villaggizzazione” sociale. In altre parole la rivoluzione digitale permette alle persone di agire attivamente da abitanti (villici) di quel villaggio globale che prima potevano solo vedere.

Considerando che secondo il rapporto Unicef del 2012 il 50% della popolazione mondiale vive in città e che le popolazioni dell’Europa Occidentale e delle Americhe sono quasi completamente urbane, è facile dimenticare (o non aver mai saputo, nel caso dei più giovani) quali sono i meccanismi della vita di paese con il rischio di focalizzarsi sempre di più sul “globale” e dimenticarsi del “villaggio”.

Senza voler fare qui dell’antropologia d’accatto il villaggio/paese è un posto dove tutti sanno tutto di tutti, non solo riguardo al presente, ma anche al passato, che gioca un ruolo più rilevante nel definire le persone di quanto non succeda in città (“Se tu vuoi farti una vita, devi venire in città” cantava Giorgio Gaber).

“Tu di chi sei?” chiedevano ad uno scrittore spagnolo di Madrid quando tornava al paese natale dei genitori in Estremadura. Più o meno quello che mi chiedevano i vecchi quando entravo in osteria a Budoia  a chiamare il nonno.

“E tu chi sei?”

“Biscontin”

“Biscontin quale?”

“Mio nonno è Cristiano”

“Ah, Biscontin Mastela”.

Uscendo dall’anedottica, in un paese quello che abbiamo fatto in passato, continuerà in una certa misura a definirci per sempre (Aroldo per tutta la vita è rimasto quello che da bambino è salito sul motocarro dello zio, ha tolto la marcia e l’ahho tyrovato ribaltato in fondo alla discesa).

E quello che facciamo nel presente sarà sotto gli occhi e nei commenti di tutti. “Il paese è piccolo e la gente mormora” diceva Giorgio Faletti. Una battuta, ma anche un’espressione che esprime sinteticamente l’ineluttabilità del chiacchericcio dei social networks.

In sintesi nel villaggio si è sotto scrutinio (chiaccherati) da sempre, sempre e continuamente. E dal villaggio globale non si può nemmeno andare via per rifarsi una vita da un’altra parte.

Sono questi i presupposti concettuali per capire come sviluppare strategie efficaci (di successo) nell’era digitale, riscoprendo alcuni fondamentali ed abbandonandone altri.

Auguri a tutti un Natele di serenità e di speranza: chiudete gli occhi ed aprite i cuori.

Ci ritroviamo dopo l’Epifania.

Le perfomances delle prime 20 cantine italiane: corollario al post di mercoledì scorso.

Ripensando al risultato dell’analisi che ho presentato nel post di mercoledì scorso (lo so che la pubblicazione infrasettimanale è anomala, ma il periodo va così) mi sono chiesto se esistono  caratteristiche comuni delle cantine che sovraperformano in termini di EBITDA rispetto al fatturato in questo set competitivo.

Secondo me Antinori, Santa Margherita, Frescobaldi, Ruffino e Masi hanno in comune il fatto che operano sul mercato con delle politiche di MARCA.

Intendo dire che la loro proposta si basa principalmente su SISTEMI di marca forti, supportati da strategie che si rivolgono (anche) direttamente al consumatore.

Se ci sono dei tratti comuni, la domanda successiva è: si tratta di un modello replicabile?

Replicabile sì, copiabile no. Nel senso che ogni cantina deve definire una propria proposta identitaria ed differenziante.

Per farlo sono necessarie, in sequenza cronologica continua:

1) Le competenze che permettono di definire una proposta di marca FORTE, ossia RILEVANTE, AUTENTICO E COERENTE nell’allineamento degli elementi che lo compongono tra loro e tutti insieme verso il POSIZIONAMENTO definito (attenzione che tutte le parole qui hanno un significato preciso ed un alto peso specifico).

2) Le competenze per definire le linee guida strategiche da seguire nella definizione dei piani di costruzione e crescita della marca.

3) La DISCIPLINA (serenità) ed il CORAGGIO (i nervi saldi) per realizzare i piani seguendo le linee guida definite con sufficiente flessibilità per non perdere opportunità a breve e la coerenza necessaria per non cedere all’opportunismo. Nel dubbio, dovendo scegliere, meglio perdere qualche opportunità nel breve che minare la marca nel lungo periodo

4) Le RISORSE finanziarie (quelle umane riguardano i primi 3 punti) in grado di realizzare i piani previsti. Queste non devono essere necessariamente elevate, devono necessariamente essere coerenti con le attività previste. Nel caso le risorse finaziarie non siano sufficeenti per la realizzazione della strategia, questa non va per forza abbandonata nei suoi obiettivi e linee guida. Più probabilmente va riformulata nei tempi e nelle azioni. In base ad una ventennale esperienza (mi sento di dire almeno di buon successo) in diversi aziende e diversi settori possono garantire che è più difficile allineare i primi 3 punti, ossia generare un sistema di IDEE, che trovare i soldi per realizzarle. Inoltre le idee creative (e con questo non intendo solo la pubblicità) spesso permettono di risparmiare sull’investimento per ottenere lo stesso risultato. Aggiungeteci il fatto che nel mondo digitale l’accesso alla comunicazione al consumatore ed il suo coinvolgimento è diventato più economico in termini finanziari e più costoso in termini di idee e capirete perchè trovo ingiustificato abbandonare strategie corrette per una (presunta) carenza di soldi o di dimensione aziendale.

Come promemoria riporto nuovamente i 3 grafici dell’analisi del post di mercoledì scorso ed il link al post stesso che la spiega.

I commenti sono sempre benvenuti.

grafico bolle top 20 cantine italiane 2013 - fatturato

grafico bolle top 20 cantine italiane 2013 - ebitda

grafico bolle top 20 cantine italiane 2013 - fatt+ebitda

Il modello AIDA da Peratoner a Pordenone.

Del modello AIDA ho già discusso e ri-discusso (nel senso di confutarlo) in diversi posts pubblicati su questo blog:

Quale futuro per la pubblicità; 

Quale futuro per le agenzie pubblicitarie;

Ancora sul futuro delle agenzie pubblicitarie.

Ci ritorno perchè Marco mi ha mandato un interessante articolo che trovate qui sotto.

Io continuo a pensare che le tesi espresse nell’articolo sono fondamentali per l’ESECUZIONE efficace ed efficente della strategie, ma poco utili per la loro IDEAZIONE, dove invece la scansione logica, e qui vado a ritroso, per cui l’Azione deriva da un Desiderio, cresciuto per l’Interesse che nasce dall’Attenzione.

Questa analisi (il marketing è sempre analitico prima che deterministico, repetita iuvant) ha due vantaggi:

  1. mi permette di valutare a priori la bontà delle attività di marketing pianificate in base al loro scopo principale (ottenere Attenzione, stimolare Interesse, far crescere il Desiderio, condurre ad un’Azione.
  2. spinge a ricordare e considerare che ogni attività di marketing in ultima analisi condurre ad un’azione e quindi a chiedermi:  Quale azione mi aspetto di generare con questa attività (investimento)? Che contributo darà questa azione al risultato finale che voglio ottenere? L’ho già detto che il marketing “istituzionale”, quello che ha l’obiettivo di dire “esisto”, mi sta antipatico?

Tutto questo l’ho visto oggi da Peratoner a Pordenone, e ve lo mostro:

ATTENTION

ATTENTION

INTEREST

INTEREST

 

DESIRE

DESIRE

 

ACTION

ACTION

Di seguito l’articolo che confuta il modello AIDA (o lo descrive con altre parole?).

Leggetelo che vale la pena, anche con calma perchè per un po’ il blog resterà zitto.

Why the action, desire, interest, awareness model needs to be replaced to reflect our modern marketing world

We frequently read about companies that are failing fast as a result of trying to create the most innovative brand campaigns. It is almost as if company leaders are seeking to fail for the sake of being disruptive. Personally, I don’t seek to fail but I understand it can be part of a healthy innovation process that enables success.

Since we live in a Millennial-inspired participation economy, old schemas are often less predictive of future success. As a result, those (successfully) disruptive brands are becoming the most loved and the most sought after among millennials.

New Theory

We believe the AIDA model is less useful and actionable today than it was in an era when brand awareness – largely achieved through traditional advertising to a target audience — seemed to connect increases in awareness to improvement in financial performance.

This model needs to be replaced by one that is more reflective of a marketing world where consumer co-creators are a lot less like a target audience and a lot more like a consumer partner. In tomorrow-land, brands that create meaning, intrigue and offer an experience will consistently outperform brands that use more tried and true traditional marketing models.

brand atom

New Models For Innovation

Many successful, mature companies tend to have a lot of equity in old schemas. That is a significant piece of why companies often fail when engaging a Millennial Mindset consumer. We’ve seen titans like Kodak disappear and companies like Gillette get caught off guard by start-ups like Dollar Shave Club (after a good long head start Gillette has introduced their own subscription of direct-to-consumer razor blades).

We think there are two key questions that must be asked and answered when it comes to innovation:

1) Is this idea within your brand authority? It is important to note that we are not asking, “Should this idea part of your product portfolio?” You have more reach within your brand authority than you expect. For example, I should be wearing a FitBit from my healthcare company but they failed to understand their brand authority so Nike stepped up to the plate.

2) Can you afford to make this bet? A percentage of your investment should be on “Blue Ocean” ideas – those ideas that do not have a predictable outcome that can either be widely successful or fall short. However, you cannot use traditional ROI metrics when measuring the success of these ideas. You must adapt a bifurcated view of metrics where traditional metrics are applied to core and emerging opportunities and new and different metrics are applied to “Blue Ocean” opportunities.

blue ocean

Your brand must allocate a percent of time and money to each category in order to maximize your innovation pipeline. If your brand is more conservative in your approach, you have the option to allocate a smaller amount of resources to Blue Ocean ideas. However, having no Blue Ocean ideas invites other more disruptivebrands to take over your market.

New Schemas for Communication – Take A Brand Stand

talking

The most successful brands have embraced a fundamental shift in their communication strategies. There is now a greater proliferation of consumer channels compared the traditional model that focused on shot gunning an idea through one very targeted channel. We often talk about a Brand Stand as being a single uniting theme spread across the entire ecosystem of your brand. Now, that Brand Stand must be communicated through a web of channels that includes both internal and external partners and online and offline environments.

The key is that this new communication model implies both telling and listening. The most engaging brands are the ones that successfully listen to their consumer partners in order to answer questions like, what can we learn, what can we share what can we solve for and, most importantly, how will we respond. They are then using what they are hearing to create insightful and actionable communication engagement.

listening

Leah Swartz, a Millennial Account Coordinator and Greg Vodicka, a Millennial Consultant at FutureCast, contributed to this post,

A cosa serve il marketing (?)

L’altro giorno mi sono incontrato con il Direttore Commerciale di un’azienda per conoscerci e vedere se ci possono essere degli ambiti di collaborazione. Specifico che non si tratta di una cantina; specifico anche che sono bravi perchè hanno il fatturato in crescita ed i conti in ordine.

Io, come sempre, mi propongo innanzitutto come consulente di marketing, le aziende invece (non solo questa) sono interessate prevalentemente alle mie esperienze ed ai miei contatti di vendita.

La cosa può sembrare ovvia, ma per me è sorprendente perchè buona parte dei miei risultati di vendita sono conseguenza anche di una focalizzazione della proposta che partica da un’analisi ed un approccio di marketing.

Detto in altre parole dal rispondere alla domanda che ogni cliente attuale o potenziale di pone rispetto ad un fornitore “perchè devo acquistare i prodotti di questa azienda?” Che è poi la domanda che ha sempre creato più imbarazzo quando l’ho posta all’interno delle aziende, indifferentemente che agissi da dipendente, formatore o consulente.

E nuovamente è sorprendente perchè so è difficile rispondere alla domanda “Perchè un cliente dovrebbe comprare i nostri prodotti”, ma mi sembra ben più evidente che se nemmeno noi stessi non siamo in grado di articolare il nostro vantaggio competitivo, difficilmente potremmo trasmetterlo con successo al mercato. Evitare di porsi le domande chiave solo per paura di non trovare la risposta è un approccio un po’ suicida.

Ma torniamo all’azienda di cui sopra. Il Direttore Commerciale mi mostra i folders con l’assortimento e propone di aggiornarci ad inizio 2015 per valutare una collaborazione commerciale su alcuni mercati.

Io dico “Va benissimo, però se vuole nel frattempo potrei proporle un progetto per rinfrescare alcune etichette che sono un po’ datate, come ad esempio questa.”

Lui “No guardi non serve. So benissimo che questa etichetta è vecchia e che l’immagine dovrebbe essere come questa qui (indica un’altra etichetta, n.d.a.) però ho dei vincoli tecnici nella linea di produzione per cui questo supporto sull’altro prodotto non lo posso utilizzare.”

Io “Il mio lavoro come consulente di marketing è proprio gestire il designer in modo da fare un’etichetta che, con tutti i vincoli tecnici possibili e immaginabili, trasmetta la stessa immagine.”

Morale: le aziende continuano ad avere bisogno delle competenze di marketing, ma è talmente tanto tempo che il marketing si è / è stato ridotto a mera attività tattica a supporto delle strategie di vendita che non sanno più quello che il marketing può (dovrebbe saper) fare.

P.S.: anche se gli ho citato l’esempio del cambio di packaging della Keglevich, quando siamo passati dalla bottiglia in vetro sabbiato alla bottiglia con lo sleeve cambiando totalmente la grafica per mantenere (anzi rafforzare) l’immagine della marca, non credo che mi abbia creduto.

keg vecchia  keg nuova

 

Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 5: le politiche di PRESENZA (già distribuzione).

Ok il post di oggi è facile perchè il futuro delle distribuzione l’ho già presagito quando ho cambiato 2 delle 4 P del marketing, ribattezzando la “distribuzione” in “presenza” (qui il link al post del 19 maggio 2013, tempus fugit).

La distribuzione del futuro sarà quindi basata sulla presenza dei prodotti/servizi nei luoghi fisici e/o virtuali dove sono presenti i (potenziali) consumatori.

Gli esempi di scaffale virtuale parlano al presente (avanzato per carità) più che al futuro, visto che le esperienze di Tesco nelle stazioni della metropolitana in Sud Corea e Peapod a nelle stazioni del trasporto pubblico di Chicago sono rispettivamente del 2011 e del 2012.

Più che di ispirazione, siamo oramai nella fase di valutazione dei risultati ed adattamento della tecnologia per la sua diffusione, come spiega questo articolo sul cammino fatto da Tesco su questa strada.

La rivoluzionarietà del concetto è sintetizzata nella dichiarazione di Mike McNamara, group CIO di Tesco: “Il merchandising virtuale ci permette di caricare scaffali virtuali con prodotti virtuali semplicemente premendo un bottone. Non dovendo più fare il laborioso processo di allestire fisicamente nuovi assortimenti, adesso possiamo provare INFINITAMENTE più combinazioni di assortimenti e formati. Per i nostri clienti questo significa che possiamo adattare gli assortimenti dei nostri negozi alle richieste locali ed allo stesso tempo mantenere un’ottima gestione del planogramma, necessaria per avere un’operatività efficiente.

Visto  che ultimamente ho letto da più parti che l’evoluzione verso la società digitale sta indebolendo il concetto di “marca”, mi sembra utile sottolineare come la riconoscibilità ed il significato valoriale della marca siano cruciali in una situazione di scaffale virtuale. Bisogna però essere marca, come scrivevo lo scorso 24 agosto , perchè solo a chiacchere e distintivo non si va molto lontano.

Bene: sono in giro per i fatti miei, trovo uno scaffale virtuale, ho 5 minuti per fare la spesa, guardo i prodotti che mi interessanoe confermo l’acquisto facendo l’occhiolino. Poi come faccio ad averli fisicamente?

Ho già detto che non sono così convinto sul proliferare dei droni. E’ più una cosa di pelle, ma se devo cercare di razionalizzare forse è perchè il drone funziona se il cliente è in uno spazio preciso e facilmente accessibile (poi è sicuro che da qui al 2024 i droni saranno in grado di aprire le porte “digitando” la password a distanza).

Il futuro della società invece secondo me vedrà un aumento di mobilità. Questo apre l’opportunità ad intercettare il cliente nei sui percorsi che fa per i suoi scopi personali. Tesco, ancora loro, l’hanno capito e sono stati i primi ad organizzare un e-commerce su larga scala che prevede la possibilità di ritirare l’ordine in un punto vendita a scelta. Non sono costretto a stare a casa ad aspettare la consegna, sulla strada di casa passo a raccogliere l’ordine che ho fatto virtualmente. Le ricerche prima, ed i risultati poi dimostrano che circa il 50% delle persone preferisce questa formula a quella della consegna a domicilio.

Si sfruttano di più gli spazi fisici del negozio, dove la funzione di “deposito” diventa preminente su quella di esposizione della merce e si utilizza il personale, meno impegnato nella gestione degli scaffali. Come fossero tanti Amazon aperti al pubblico.

Per tutto quello acquistabile e fruibile on-line il concetto è il medesimo: non sarà il cliente ad andare nel negozio, ma il negozio ad andare dal cliente. In questo caso senza neanche i problemi di logistica per la consegna.

L’autentica realizzazione del regno del consumatore, liberato dalla schiavitù di dover ANDARE a fare la spesa.

 

 

 

 

 

 

Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 4: le politiche di prezzo.

In questi giorni mentre pensavo a questo post (Daniele mi ha messo pressione) la domanda che mi è venuta spontanea è stata: nel 2024 esisterà ancora il prezzo?

Non è stato il frutto di nessun raginamento razionale, è stata semplicemente la mia reazione istintiva, di pancia se volete, a cercare di immaginare come saranno le politiche di prezzo nel 2024.

Forse nasce dal fatto che il prezzo è la funzione di marketing messa più sotto pressione dall’avvento della società digitale. Non bastavano i discount, gli outlet, i category killer, le offerte last minute e le aste on line: adesso ci si sono messi anche i siti comparatori.

Da ricerche di un anno e mezzo fa (un’eternità al giorno d’oggi) risultava che il 50% delle persone intenzionate a fare un acquisto via internet cominciava la ricerca da un sito comparatore di prezzo. Da lì poi approfondiva le caratteristiche dei prodotti che riteneve più interessanti. Un esempio che tutti conosciamo sono i siti per la ricerca di biglietti aerei, ma con la crescita del e-commerce sono sorti un po’ in tutte le categorie merceologiche.

La combinazione di crescente commoditizzazione e crescente capacità di calcolo (che permette la rapidità e semplicità di raccolta e trasmissione delle informazioni) sta facendo diventare il prezzo l’ekemento di partenza nelle scelte d’acquisto delle persone (non fatevi ingannare dalla crisi economica che ha solo accellerato un processo già in atto e riscontrabile anche i paesi con economia in crescita).

Nel marketing del 2024 sarà sostanzialmente impossibile tenere separati i mercati con prezzi diversi. Sia che si tratti di mercati diversi dal punto di vista geografico, sia che si tratti di segmenti di mercato diversi nello stesso territorio.

Dubito che la strategia di prevedere prezzi diversi per prodotti con minime differenze, talvolta solo di packaging, avrà ancora diritto di cittadinanza nel mercato del 2024.

Le aziende produttrici quindi dovranno essere estremamente disciplinate nella gestione del prezzi applicati ai loro clienti perchè eventuali discriminazioni si paleseranno rapidamente, con i conseguenti problemi di confusione di coerenza delle strategie e dell’immagine in generale e dei rapporti con i clienti in particolare.

Questo significa che prezzi all’origine diversi saranno ammessi solamente se legati a situazioni effettivamente diverse in termini di condizioni di consegna, di quantitativo acquistato, di momento dell’acquisto, ecc ….

Un concetto di uniformità che sviluppato all’estremo porta ad un risultato apparentemente opposto: ogni transazione sarà oggeto di una specifica trattativa. Forse è questa la scomparsa del prezzo come riferimento stabile che conosciamo che ho immaginato all’inizio del post?

L’unica alternativa è avere contemporaneamente una marca/prodotto così da forte/innovativa da avere pochi o nessun sostituto ed un controllo diretto dei canali distributivi.

So che citare la Apple è banale, ma non posso farci niente. Come sanno quelli che sono andati negli USA, un prodotto Apple che in Europa viene venduto a 100 euro, in USA viene venduto a 100 dollari. Di fatto la Apple ha un suo tasso di cambio interno dollaro/euro di 1 a 1, quindi in Europa vende circa il 30% più caro. Pur con tutta la forza della marca, come ci riescano per me rimane comunque un mistero e sarò curioso di vedere se e come ci riusciranno in futuro.

Magari seguendo la strategia delle griffe della moda che oramai si stanno sviluppando ad un modello di distribuzione basato esclusivamente sui negozi monomarca e/o proprio e-commerce.

L’altra tendenza futura delle politiche di prezzo sarà quella del prezzo all’uso, collegata allo spostamento dal possesso all’uso dei prodotti. Bisognerà però che i prezzi d’uso diventino più concorrenziali nella percezione dei consumatori. Per fare questo si può operare riducendo i prezzo oppure aumentando il valore percepito, magari aumentando la tangibilità dei vantaggi derivanti dall’uso in confronto con il possesso.

10 euro al mese per avere Microsoft Office sono un prezzo giusto? E 69 euro all’anno? Qual’è il valore rispetto al pacchetto gratuito Open Office?

Perchè poi alla base di ogni previsione sul futuro del prezzo non si può prescindere dalla sostanziale gratutità di internet.

Allora chiudo come ho iniziato: nel 2024 esisterà ancora il prezzo?

 

Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 3: le politiche di prodotto.

Continuo ad ipotizzare il futuro del marketing secondo me e mantengo l’approccio kotleriano classico delle 4 P, cominciando dal Prodotto.

La prima considerazione è che sempre di piu’ nel futuro non ci sara’ spazio per i prodotti le cui performances non mantengono la loro promessa base.

Diventa quindi cruciale identificare qual’e’ il servizio che i clienti ricercano nell’utilizzo del prodotto. Ricordo, visto che il post dove lo spiegavo è sparito dal blog, che quello che acquistano i consumatori sono i benefici, ossia i servizi, che derivano dall’utilizzo delle caratteristiche di un prodotto e non le caratteristiche in sè e per sè. In sintesi nessuno compra mai prodotti, tutti comprano sempre servizi, incorporati o meno all’interno di un prodotto fisico.

Questo concetto è fondamentale perchè è quello che permette di identificare i nuovi potenziali concorrenti che possono arrivare da settori produttivi diversi da quello in cui si opera, fornendo soluzioni agli stessi problemi del consumatore con un prodotto (tecnologia) diversa.

E’ il concetto per cui se un marito/compagno vuole fare un regalo importante alla moglie/compagna (o viceversa: bisocmarketing promuove la parità tra i generi) le crociere sono in concorrenza con i gioielli.

Il concetto è particolarmente utile guardando al futuro poichè nel lungo periodo possono sorgere più facilmente nuove tecnologie per la fornitura degli stessi servizi.

La diffusione globale del progresso tecnologico, che migliora le performances del prodotto anche nei paesi con basso costo di manodopera, renderà possibile accontentare le aspettative crescenti dei consumatori. Il risultato sarà che per un prodotto, saper svolgere adeguatamente, anche in termini di durata, la funzione per cui e’ stato pensato sara’ un must, non piu’ un vantaggio competitivo.

I PLUS competitivi secondo me saranno altri e saranno legati principalmente all’evoluzione della societa’ in senso individuale (se anche individualista, lo lascio dire a voi).

1) Personalizzazione in serie: se volete un altro modo di esprimere il concetto del prodotto su misura per ogni cliente. Pero’ con efficenza industriale per ridurre i costi rispetto al processo artigianale.

E’ la strada gia’ intrapresa dall’industria dell’automobile con il moltiplicarsi delle opzioni tra cui poter scegliere (poi pero’ i tempi di attesa sono lunghi) e che diventera’ un vantaggio competitivo in tutti i settori.

Basta pensare al potenziale delle stampanti 3D, anche in settori di largo consumo come l’alimentare.

2) Estetica: dubito che le persone siano e saranno disposte a pagare di piu’ per un prodotto dalle performances equivalenti, solo piu’ bello.

Sicuramente pero’ tra due prodotti si performances equivalenti e prezzo uguale, sceglieranno quello piu’ bello.

L’estetica, intesa anche come comunicazione visuale, sara’ poi sempre piu’ anche un sottolineatore e rafforzatore della qualita’ intrinseca del prodotto.

Il narcisismo e’ figlio dell’individualismo.

3) Semplicita’ d’uso: un po’ per naturale pigrizia, un po’ per la crescente incompetenza, la capacita’ di un prodotto di semplificarci la vita sara’ sempre piu’ apprezzata.

Che sia la macchina che si parcheggia da sola, il telefonino che si sblocca con l’impronta digitale (massimo dell’individualita’) oppure la bottiglia di vino con il tappo a vite, l’estensione dei servizi offerti dal prodotto ne aumenta il valore.

Nota bene che la crescente incompentenza non e’ un giudizio di merito, e’ un dato di fatto generato dal continuo e rapido progresso tecnologico (che tra l’altro riduce/impedisce il trasferimento di competenze tra le generazioni).

4) Assistenza: è la medesima logica del punto precedento.

Quanto piu’ la vita si fa individuale e tanto piu’ si apprezzera’/pretendera’ l’aiuto da parte delle marche a cui abbiamo dato la nostra preferenza ed i nostri soldi.

5) Utilizzo vs. possesso: lo so che il concetto non è nuovo, ma fino ad oggi si è trattato soprattutto di episodi amplificati dai media.

Nel futuro, man mano che la proprietà degli oggetti diventerà più “faticosa” ed inefficente in termini finanziari, logistici, ecc…, la capacità di offrire un utilizzo pratico (ossia flessibile nel tempo e nello spazio) costituirà un vantaggio competitivo.

6) Parsimonia: in realtà non so se questa tendenza durerà fino al 2024 o si esaurirà prima. Quello che è certo è che c’è ancora troppo spreco in molti prodotti per caratteristiche che non aggiungono valore rispetto ai servizi ricercati, o utilizzati, dai consumatori.

La competizione che spinge a contenere i costi e l’attenzione alla eco-compatibilità da parte delle persone, premierà le aziende che sapranno operare con parsimonia.

 

La logica di fondo è sempre quella: pensare a come migliorare la vita delle persone.

Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) – 2

Rinvigorito dalla pausa estiva, riprendendo il filo dell’argomento del marketing del futuro che avevo iniziato lo scorso giugno.

Concludevo la critica alla visione degli esperti interpellati dalla American Marketing Association nel post 1 giugno dicendo che il marketing del futuro dovrà essere basato più sull’ESSERE che sull’apparire ed il tema centrale di quello dell’8 era l’ipotesi dell’evoluzione che avrà la società digitale. Attenzione che l’avvento della “società digitale” riguarda tutta la società e non solamente quelle parti o quegli aspetti direttamente legati alle tecnologie digitali. E’ la stessa logica per cui in seguito alla rivoluzione industriale la società agricola è evoluta nella società industriale in cui anche l’agricoltura (ad esempio) ha caratteristiche diverse.

Ora, credo ci siano pochi dubbi sul fatto che da qui a dieci anni le persone avranno un maggior potere nel definire le proprie scelte di acquisto. Anche se la disponibilità di informazioni non dovesse aumentare, e possiamo star certi che aumenterà, il livello attuale ha già fatto le sue vittime tra le marche che non offrivano un reale valore aggiunto.

Basta pensare solamente al dato che il 50% delle persone che fanno un acquisto on line cominciano la ricerca da un sito comparatore di prezzi per capire come la rivoluzione digitale ha spostato il potere sul contesto competitivo dalle aziende ai consumatori.

Detto in sintesi, da qui a 10 anni saranno sempre di più le persone a sciegliere le marche/prodotti che non le marche/prodotti a proporsi.

In questo contesto secondo me la risposta efficace NON può essere il tentativo di recuperare/mantenere il potere di infleunzare le scelte attraverso il perfezionamento della targetizzazione e personalizzazione grazie all’uso sempre più raffinato del “big data“. Le persone si aspettano, consciamente o inconsciamente, più libertà dalle aziende non meno. Per usare una terminologia forse desueta, le persone vogliono essere soggetto e non oggetto del marketing aziendale. Per l’azienda pianificare di far arrivare la propria proposta alle persone precisamente nel momento e nel luogo in cui stanno “pensando” ad acquistare/consumare quel tipo di prodotto è in realtà un’approccio di commoditizzazione, che prospetta di per sè delle scelte basate solamente sulla contingenza del momento.

Viceversa l’azienda/marca/prodotto dovrà concentrarsi sugli aspetti che rimangono intrinsecamente sotto il suo controllo.

Uno dei principali, se non il principale, è la propria IDENTITA’.

Che è una cosa diversa dal posizionamento perchè ne è il prodromo (per chi non l’avesso fatto, consiglio di leggere questo mio vecchio post “Cos’è (e a cosa serve) il posizionamento”).

Interrogarsi su chi si è come organizzazione/azienda/marca/prodotto porta a definire perchè si è, quindi quali sono (devono essere) i nostri comportamenti.

Un’identità chiara è la base per costruire un posizionamento forte e differenziante. Un posizionamento forte e differenziante aumenterà le probabilità di farci trovare dalle persone e/o di stimolare il loro interesse anche quando non stanno cercando una specifica soluzione di consumo.

Dite che nel crescente marasma dell’informazione/comunicazione sarà sempre più difficile farsi notare/trovare? A parte che dall’identità derivano i tempi, modi e contenuti della comunicazione dell’organizzazione/marca/prodotto, io vedo che in un modo o nell’altro (sono convinto che c’è una spiegazione scientifica) le cose per me interessanti si mettono in evidenza nel mare magnum delle timelines, articoli, ecc… Ecco, se un’organizzazione/marca/prodotto ha dei reali contenuti sono convinto che si realizzi un meccanismo simile.

Se invece la vostra marca è solo chiacchere e distintivo, preparatevi a lavorare sull’efficenza produttiva perchè sarete misurati solo sul prezzo.

Ready for the GET-UP-AND-GO generation? Il marketing totale di easyJet.

Oggi ultimo post prima della pausa estiva. Lo so che sembra un po’ presto, ma ho l’impressione che parecchia gente sia già in vacanza o sia sul punto di partire.

Quindi un post in qualche modo legato ai viaggi.

Credo non ci siano dubbi che i voli low cost sono una delle cose che ha plasmato (sta plasmando) la società nel terzo millennio ed è evidente fin dal nome della categoria di prodotto che il principale criterio di scelta di una compagnia piuttosto di un’altra da parte del consumatore è il costo del biglietto.

Però è altrettanto evidente che con il proliferare delle compagnie low cost che servono le medesime tratte si viene a creare una competizione dove il prezzo riduce di molto, o perde del tutto, la sua forza di vantaggio competitivo differenziante. Dato il basso costo del biglietto come MUST, serve quindi una proposta di marca più articolata come PLUS.

Visto nell’arco di poco di un anno mi sono trovato due volte a fotografare pagine della loro rivista di bordo, direi che easyJet lo sta facendo ed anche piuttosto bene.

Questa è la copertina del numero di giungo di “Traveller” fotografata da me in volo, qui se volete trovate l’edizione on-line sfogliabile.
Traveller June 2014
Permettetemi di sottolineare alcune cose:
- La qualità della grafica non dice “rivista di bordo”, dice “rivista pubblicata da easyJet”. Intendo dire che l’impressione è di una rivista che ha una scopo “per sè”, indipendentemente dal fatto di essere distribuita su un aereo. Non siamo tutti nel business dei contenuti (ossia dell’editoria)? . In sintesi quando prendete in mano la vostra copia di “Traveller” il messaggio che ne ricevete è di un livello superiore rispetto alle altre compagnie aeree (non solo low cost, direi).
- La rivista (e quindi per estensione la compagnia aerea) ha un posizionamento riportato chiaro e forte sopra la testata: “A MAGAZINE FOR THE GET-UP-AND-GO GENERATION”. Le due passeggere anglo-mitteleuropee che avevo di fianco hanno sorriso sarcastiche nel leggerlo, forse perchè è una dichiarazione troppo esplicita, troppo autocelebrativa, perchè alle persone non piace la sensazione di essere oggetto di marketing (la miglior traduzione che mi è venuta dell’espressione inglese “to be marketd to” o semplicemente perchè non appartengono alla get-up-and-go generation.
Però , indipendentemente dall’esplicitarlo o meno, la definizione del posizionamento è la precondizione per dare una linea editoriale chiara e coerente alla rivista in termini di contenuti e di art direction. In sintesi è la guida che permette di dare personalità propria alla rivista. Personalità che dà significato e valore alla dichiarazione, più che un invito, “free to take home”. Nuovamente valore superiore.

Per avere successo però le promesse (di copertina) vanno almeno mantenute. Sfogliando Traveller, secondo i migliori principi del buon marketing, le aspettative del consumatore vengono superate.

Questo è l’indice:
Traveller indice.

Ora mi domando: quanti editori che piangono sulla perdita di lettori sono stati capaci di rinnovare il modo di presentare il contenuto delle loro riviste interpretando i nuovi/attuali meccanismi di fruizione delle informazioni?

La faccio breve: “Traveller” è un prodotto editoriale di avanguardia e di elevata qualità in termini di grafica e di contenuti.

Che sia un caso o il risultato di una precisa scelta strategica, easyJet ha colto l’importanza della rivista di bordo come elemento della complessiva esperienza di volo del cliente e ne sta sfruttando al massimo il potenziale per il proprio posizionamento competitivo.

Scoperta dell’acqua calda direte voi, considerando che è evidente che (quasi) tutti i passeggeri durante il volo sfogliano la rivista di bordo.

Vero, rispondo io. Però è anche vero che le riviste di bordo delle compagnie aeree sono tutte uguali come impostazione grafica e contenuti, indistinguibili se non dal logo di copertina. E tutte con articoli tendenzialmente banali. E tutte che dedicano troppo spazio alla compagnia aerea che le pubblica, per essere davvero un valore aggiunto (lo so che è un concetto contro-intuitivo, ma lo lascio così).

Dal positioning deriva il targeting. Ecco a pagina 11 la rubrica dell’Amministratore Delegato di easyJet Carolyn McCall (mentre l’editoriale del direttore di Traveller è in apertura di giornale a pagina 3, coerentemente l’autonomia della rivista)
Carolyn MacCall.

Il target dichiarato è …. tutti, grazie ad una promessa inclusiva: rendere viaggiare più facile. Mi ricorda l’intervento di Farinetti al nostro convegno sul quadrato semiotico dei wine lovers al Vinitaly 2014 .
Nel concreto lo scorso giugno questa promessa si realizzava con il lancio delle applicazioni che permettono ai passeggeri easyJet di ricevere le informazioni rilevanti relative al loro viaggio (nuovamente la visione complessiva dell’esperienza del prodotto, ossia il volo) e del programma “Family Promise” con servizi dedicati a facilitare chi viaggia con bambini. Questo mi ha colpito particolarmente perchè noto come i bambini vengano di fatto considerati un disturbo in un numero sempre più ampio di situazioni. Si è perso, o fortemente affievolito, il (ovvio?) sentimento di attenzione che portava comunque a naturalmente a trattare benevolmente i bambini e non si sono diffuse procedure/strutture che tengano conto delle loro esigenze.
Il risultato è che, anche con l’attuale invecchiamento della popolazione, l’offerta di servizi specifici per i bambini ed i loro genitori diventa un vantaggio competitivo fortissimo.

Prima di concludere il mio escursus sul numero di giugno 2014 di “Traveller” con la foto di questa pubblicità di servizi finanziari preentati quasi come un’agenzia di incontri. Non so se significa qualcosa, ma mi è sembrato curioso.
Puck3r up

Per finire, se proprio non sapete cosa leggere nel prossimo mese, questi sono gli ultimi libri che ho letto/sto leggendo:
- Acemoglu e Robinson: Perchè le nazioni falliscono, il Saggiatore.
- Alberta Basaglia: Le nuvole di Picasso, Feltrinelli.
- I.J. Singer: Yoshe Kalb, Adelphi.
- Paul Dirac: La bellezza come metodo, Indiana.

Passate una buona estate.

Pubblicato il decreto n.34 del 19 giugno 2014 della Regione Veneto che svincola 100.000 hl di Prosecco DOC.

Per una volta biscomarketing è sulla notizia.

Ieri pomeriggio ho pubblicato la mia analisi dalla quale risulta che mancano almeno altri 100.000 hl di Prosecco DOC vendemmia 2013 per soddisfare la domanda ed oggi arriva la pubblicazione del decreto della Regione Veneto relativo allo svincolo dei primi 100.000 hl richiesto lo scorso 12/06/14 dal CdA del consorzio di tutela.

Per precisione e completezza, il decreto della Regione modifica leggermente lo scenario che ho delineato ieri, in quanto il prodotto non svincolato viene declassato a vino IGP senza varietale e non a vino bianco da tavola.

Prendendo il prezzo medio al litro di 0,45 euro/litro per il vino bianco IGT Veneto quotato alla borsa merci di Treviso lo scorso 17-06-14, la perdita netta di valore per il comparto conseguente al declassamento si riduce a 16.870.000 euro ed il prezzo medio annuo a cui si sarebbe dovuta vendere tutta la produzione disponibile di Prosecco DOC annata 2013 (quindi compreso quello stoccato) perche il comparto ottenesse lo stesso incasso complessivo è di 1,07 euro/litro, pari al 6,9% in meno rispetto al prezzo medio di 1,15 euro/litro che la borsa merci di Treviso ha quotato dall’inizio dell’anno fino ad oggi.

Tutte le altre considerazioni, calcoli e previsioni rimangono inalterate

Confesso la mia amarezza nel constatare come il decreto della Regione renda di fatto inutile la mia analisi per (quantomeno) valutare la validità delle scelte.

In questo comparto ci vivo e quindi spero di avere torto, ma temo di avere ragione.

Per soddisfare la domanda mancano almeno altri 100.000 hl di Prosecco DOC vendemmia 2013!

Sembra un destino che io mi ritrovi a scrivere di Prosecco ogni volta che smetto di lavorare per una cantina.
E’successo nel 2011 quando ho lasciato Santa Margherita e mi sono occupato (principalmente) del Prosecco Superiore DOCG Conegliano-Valdobbiane con questo post.

Succede oggi che sto per lasciare Bosco Viticultori e trattero (principalmente) del Prosecco DOC.
Quindi questo sarà un post totalmente enologico, ma con concetti che riguardano la gestione delle Denominazioni d’Origine in generale, sia quelle degli altri vini che quelle di altre categorie di prodotto.

Sarà anche un post veramente lungo (… e se lo dico io), però anche veramente interessante (fidatevi).

Per permettere a tutti i lettori di capire e seguire l’analisi e le considerazioni che seguono è necessario una minima descrizione dell’antefatto, se però sieta già dentro alle dinamiche del comparto potete passare direttamente al fatto. Buona lettura.

Nel 2010 viene istituita la DOC del Prosecco che copre le province di Treviso, Venezia, Vicenza, Padova e Belluno in Veneto e quelle di Pordenone, Udine, Gorizia e Trieste in Friuli Venezia Giulia. in questo modo la parola “Prosecco” non identifica più un’uva ma un territorio originato dal paese di Prosecco in provincia di Trieste. A chi non si occupa di vino o di prodotti DOC può sembrare una piccola cosa, che tra l’altro crea confusione, ma è un passaggio fondamentale che impedisce a chiunque produca vino utilizzando uve “glera” (nuovo nome dato alle uve utilizzate per produrre Prosecco DOC) ovunque nel mondo di chiamare il suo vino “Prosecco”. Detto in altri termini, protegge il consumatore che quando compra “Prosecco” si aspetta un vino con determinate caratteristiche di trovare proprio quelle caratteristiche e non altre.

Nel 2011, a fronte del forte incremento di nuovi impianti di vigenti di glera nell’area della DOC, le Regioni Veneto e Friuli Venezia Giulia, su richiesta del Consorzio di Tutela, decretano il blocco di ulteriori nuovi vigneti, fissando il limite di 20.000 ettari complessivi piantati a glera (16.500 Ha in Veneto e 3.500 Ha in Friuli Venezia Giulia).
Sottolineo, per l’importanza che avrà nell’analisi successiva, che questa misura rende fissa l’offerta di Prosecco DOC non solo per ogni anno di vendemmia, ma anche per gli anni futuri. Di conseguenza il prezzo di mercato sarà determinato unicamente dalla domanda.

A fine agosto 2012, sempre giustamente su richiesta del Consorzio di Tutela, la Regione Veneto di concerto con la Regione Friuli Venezia Giulia, dispone lo stoccaggio del 10% del Prosecco dell’imminente vendemmia 2012, in modo da “tener sotto controllo la gestione dei volumi di prodotto messi in commercio, mantenendo un livello dei prezzi accettabile e stabilizzando così il funzionamento del mercato dei vini rispetto ad un prodotto che ha dimostrato di essere abbondantemente apprezzato in Italia e all’estero.” (il virgolettato riporta la dichiarazione dell’assessore veneto all’agricoltura Franco Manzato indicata nel comunicato stampa n.1461 emesso dalla Regione Veneto il 27-08-2012). Non entrerò nell’interessante tema dell’impostazione sostanzialmente da commodity ottocentesca per la gestione di mercato (marketing non è proprio un sinonimo) di un grande marchio collettivo di diffusione mondiale, perchè sarebbe una parentesi troppo lunga e complessa (però mi piacerebbe molto).

A febbraio 2013 l’andamento positivo delle vendite di Prosecco DOC portano allo sblocco del 10% di Prosecco DOC precedentemente stoccato. Un precedente interessante nell’ottica dell’analisi che seguirà.

A fine agosto 2013, sempre giustamente su richiesta del Consorzio di Tutela, la Regione Veneto di concerto con la Regione Friuli Venezia Giulia, dispone lo stoccaggio del 20% del Prosecco dell’imminente vendemmia 2013, con l’esclusione dei vigneti a conduzione biolgica.

A gennaio 2014 la Regione Veneto comunica i dati consuntivi della vendemmia 2013 che indicano per il Prosecco DOC una produzione di 2.591.831,68 q.li, pari ad un incremento del 14,43% rispetto alla vendemmia 2012. Al netto del prodotto stoccato la disponibilità di Prosecco DOC della vendemmia 2013 è quindi sostanzialmente la stessa di quella dell’anno precedente (lo so che è spannometrico, ma non preoccupatevi poi arrivano i numeri precisi).

Ad aprile 2014 Valoritalia, l’ente incaricato di certificare la produzione e gli imbottigliamenti di numerosi vini DOC, tra cui il Prosecco, pubblica sul suo sito che gli imbottigliamenti del primo trimestre del 2014 sono del 22% superiori a quelli dello stesso periodo del 2013. Anche qui a spanne si può intuire che, se questa tendenza si dovesse mantenere anche nei mesi successivi, per soddisfare la domanda bisognerà sbloccare TUTTO il Prosecco stoccato (come si è già verificato nel 2013).

Il 7-05-2014 diverse testate pubblicano la notizia che durante la prossima assemblea generale dei soci del Consorzio del Prosecco DOC, il Consiglio di Amministrazione proporrà di estendere il blocco degli impianti di nuovi vigneti fino almeno al 2017 e di stoccare il 20% della produzione della vendemmia 2014 (ricordo che il 20% è la quantità massima stoccabile secondo l’attuale legislazione). Negli articoli si aggiungeva che non sivedeva necessità di calmierare il mercato sbloccando parte del Prosecco 2013 stoccato e che l’attuale aumento del 30% delle richieste di certificazione dimostrava la bontà della strategia adottata dal consorzio per stabilizzare i prezzi.

Il 9-05-14 durante l’assemblea generale dei soci del consorzio del Prosecco DOC vengono presentati i dati a sostegno della richiesta di mantenimento del blocco di tutti i 341.000 hl di prodotto stoccato. Sostanzialmente si considera che il Prosecco della vendemmia 2014 potrà essere già disponibile per l’imbottigliamento a partire dal 1 ottobre 2014 (mentre nel 2013 gli imbottigliamenti della nuova annata sono iniziati a novembre) quindi, prevedendo i volumi necessari da aprile a settembre 2014 sulla base della media dei 12 mesi da aprile 2013 a a marzo 2014 (quindi facendo previsioni basate sui dati consolidati del passato e non sulla tendenza in atto), l’attuale disponibilità di 1.800.000 hl totali di Prosecco DOC vendemmia 2013 viene ritenuta sufficiente.

Nel settore cominciano a manifestarsi situazioni paradossali di aziende vitivinicole, che svolgono l’intero ciclo produzione del vino sfuso-spumantizzazione-imbottigliamento, pur disponendo di prodotto stoccato non possono utlizzarlo e sono costrette a comprarlo sul mercato, con difficoltà a reperirlo (senza contare dell’aggravio dei costi per lo stoccaggio, l’acquisto del prodotto da terzi e l’impossibilità di garantire la medesima qualità rispetto al vino prodotto dai propri vigneti). Direi un chiaro segnale di carenza di Prosecco DOC rispetto alla domanda.

Dal 20-05 al 10-06, per quattro sedute consecutive, la borsa merci di Treviso non ha quotato il prezzo del Prosecco DOC. Segno inequivocabile della carenza di Prosecco DOC e del blocco del mercato causato dalle decisioni del Consorzio.

Il 12-06-2014 il Consorzio di Tutela pressato ha richiesto alle regioni competenti lo sblocco di oltre 100.000 hl di Prosecco DOC precedentemente stoccati. Dal comunicato stampa emesso in seguito: “Parte oggi dal Consorzio di tutela Prosecco doc la richiesta ufficiale di destoccaggio diretta alle Regioni del Veneto e del Friuli Venezia Giulia sulla scorta della decisione assunta lo scorso giovedì 12 giugno dal proprio Consiglio di Amministrazione che ha deliberato lo svincolo di oltre 100.000 ettolitri di vino atto a divenire Prosecco DOC. La quota così liberata, pari al 5,1 % della produzione totale, in parte prudenzialmente stoccata con la vendemmia 2013, va a soddisfare la crescente domanda di prodotto e consentirà ai produttori di immetterla nel mercato come Prosecco doc con miglior remunerazione”.
Il presidente Stefano Zanette commenta così: “Si tratta di un’ulteriore conferma del trend positivo di vendita del Prosecco doc che spicca in un contesto di contrazione generalizzata dei consumi. Alla vigilia della vendemmia 2013 il pronostico più ottimistico auspicava l’assorbimento, da parte del mercato, dell’intera nuova produzione, tenendo conto che si prevedeva aumentasse nella misura di almeno il 10% rispetto all’annata precedente. Oggi possiamo dire che non solo l’obiettivo è stato raggiunto ma addirittura superato. Quindi circa un terzo (29,3%) del prodotto stoccato nella logica di gestire il delicato equilibrio tra domanda e offerta che determina il valore dei beni, viene svincolato a significare che le politiche di governance attuate dal Consorzio vanno nella giusta direzione”.

. Ora vorrei sottolineare come sia lo stesso Direttore del Consorzio ad indicare come la domanda di Prosecco DOC stia aumentando oltre il 10%, intuitivamente quindi sorgono già dei dubbi su come possa essere soddisfatta liberando solo il 5% (a meno che non entrino in gioco le scorte, ma, come già detto, tra un po’ metto in fila tutti i numeri).

Il 19-06-14 durante un convegno dedicato al comparto del Prosecco (DOC e DOCG) nell’am ito della manifestazione “Enovitis” a Ca’ Tron” viene presentato il dato tendenziale di +27% degli imbottigliamenti di Prosecco DOC nel 2014 rispetto al 2013.

FINE DELL’ANTEFATTO ED INIZIO DEL FATTO
Il fatto, dimostrato dai numeri, è molto semplice: sul mercato c’è carenza di Prosecco DOC rispetto alla domanda, quindi mantenre lo stoccaggio (di parte) del Prosecco DOC della vendemmia 2013 è una misura, inutilmente costosa, distorsiva del mercato e strategicamente rischiosa per l’affermazione e lo sviluppo del prodotto sui mercati.

Ecco il calcolo della disponibilità e dei fabbisogni di Prosecco DOC a partire da novembre 2013 (inizio degli imbottigliamenti con la nuova annata) fatto sulla base dei numeri forniti dal Consorzio di Tutela:

DISPONIBILITA’ PROSECCO DOC A NOVEMBRE 2013 (dati in hl)
giacenza Prosecco DOC vendemmia 2012 al 31-10-2013 (dati Consorzio) 85.000
produzione vino atto a prosecco DOC vendemmia 2013 (dati Consorzio) 2.141.000
vino stoccato decreto Regione Veneto n.35 del 22-08-2013 (dati Consorzio) -341.000
vino liberato con decisione Consorzio del 12-06-14 100.000
disponibilità vino atto a prosecco DOC vendemmia 2013 1.900.000
TOTALE DISPONIBILITA’ PROSECCO DOC A NOVEMBRE 2013 1.985.000

PREVISIONE FABBISOGNI PROSECCO DOC IMBOTTIGLIAMENTI NOVEMBRE 2013 – SETTEMBRE 2014 (dati in hl)
imbottigliamenti novembre 2013 -marzo 2014 (dati Consorzio) 801.000
tendenza imbottigliamenti 2014 su 2013 (convegno Enovitis 19/06/14) 27%
imbottigliamenti aprile-settembre 2013 (dato Valoritalia) 933.560
stima imbottigliamenti aprile-settembre 2014 1.185.621
TOTALE PREVISIONE FABBISOGNI FINO A SETTEMBRE 2014 1.986.621

DIFFERENZA DISPONIBILITA’ – FABBISOGNI FINO A SETTEMBRE 2014 (dati in hl) -1.621

I conteggi non sono niente di sofisticato (aritmetica elementare: “+”,”-”, “/”, “x” e “%”). L’unica differenza rispetto all’analisi fatta dal Consorzio è che i fabbisogni aprile-settembre 2014 sono stati calcolati secondo un approccio da “aspettative razionali”, incrementando il dato dello stesso periodo del 2013 in base alla tendenza attuale e non applicando in modo lineare la media del passato.

A prima vista il risultato dell’analisi può dare l’impressione che il comparto sia in sostanziale equilibrio, come l’ha data a me la settimana scorsa. Ma effettivamente una disponibilità di 1.621 hl inferiore alla domanda (sempre che questa non accelleri ulteriormente durante l’estate) in un comparto come quello del Prosecco DOC significa una grandissima tensione sul mercato. Nessuno penserebbe di portare la propria cantina a scorta zero; immaginare di portarci l’intero comparto è … impensabile.

Innazitutto bisogna considerare che non stiamo parlando di mercato di prodotti finanziari ma di un prodotto fisico, quindi per incontrare domanda ed offerta bisogna che effettivamente tutto il vino disponibile nelle oltre 1.000 cantine vinificatrici si sposti nelle oltre 300 cantine di frizzantatura/spumantizzazione.

Questo non succederà perchè i 100.000 hl liberati sono frammentati nella varie cantine vinificatrici nell’ordine del 5,1% della loro produzione 2013. Considerato che un’autocisterna trasporta 300 hl, non sarà nè tecnicamente possibile nè economicamente conveniente ritirare i 10, 15, 20 hl che si sono liberati. Inoltre le cantine che realizzano entrambe le fasi potranno decidere di non vendere il vino sfuso eccedente ai loro immediati fabbisogni per evitare il rischio di non poter fronteggiare un aumento della domanda da parte dei loro specifici clienti oppure per sfruttare il vantaggio competitivo, artificiosamente creato, di poter disporre del prodotto.

Ma anche se succedesse, chi vorrà essere la cantina che dovrà dire ai propri clienti che gli mancano 1.621 hl (ossia 216.000 bottiglie). Nessuno. Ecco quindi che il prezzo del Prosecco DOC sfuso crescerà man mano che ci si avvicinerà al 30 settembre, o all’esaurimento della disponibilità di prodotto (si tratta di una modifica dell’utilità marginale del prodotto per il produttore, ma non voglio diventare troppo teorico).

Se lo scenario descritto fin qui vi sembra abbastanza fosco, io vedo un rischio ancora maggiore: è tecnicamente impossibile imbottigliare Prosecco DOC spumante annata 2014 a partire dal 1 ottobre 2014!

La vendemmia del prosecco è prevista per fine agosto, per produrre un prosecco spumante sono necessarie almeno 4 settimane a cui ne va aggiunta un’altra per le procedure di certificazione. Di conseguenza, anche facendo partire la spumantizzazione da mosto (su questo punto torno tra un attimo) non si potrà avere il prodotto pronto per l’imbottigliamento prima del 6 di ottobre. Tenuto conto che una cantina organizzata efficentemente programma gli imbottigliamenti con un certo anticipo, quindi dei vini che è sicura di poter imbottigliare, quest’anno le cantine di spumantizzazione dovranno decidere se trovarsi senza Prosecco per due settimane oppure programmare l’imbottigliamento “alla cieca” con l’eventualità di trovarsi senza vino da imbottigliare se la fermentazione o la certificazione richiedono qualche giorno in più del previsto.

“… anche facendo partire la spumantizzazione da mosto”: frizzantare o spumantizzare Prosecco DOC da mosto anzichè da vino è previsto dal disciplinare di produzione, ma è l’eccezione piuttosto che la norma tra le cantine produttrici. Di conseguenza le politiche di stoccaggio adottato dal Consorzio stanno forzando le cantine ad adottare una pratica non tradizionale, su cui possono avere esperienza e competenza limitate. Meno male che in Italia vige l’economia di mercato basata sulla libera concorrenza, perchè nei fatti a me questa situazione ricorda tanto il dirigismo dei piani quinquiennali sovietici. E non voglio nemmeno considerare la teorica forzatura ad accorciare i tempi di spumantizzazione, con relativo impatto sulla qualità del prodotto finito, perchè mi fido della serietà delle cantine produttrici.

Aggiungo che tutti questi ragionamenti, i miei come quelli del Consorzio, sono fatti partendo dal presupposto di anticipare il cambio annata di un mese rispetto a quanto avvenuto nel 2013. Questo anticipo non è giustificato da un anticipo della venedemmia, che sarà realizzata sostanzialmente nello stesso periodo dell’anno scorso, e crea una carenza di Prosecco DOC nel periodo più critico dell’anno. Nel 2013 settembre ed ottobre sono stati i mesi con i maggiori volumi di imbottigliamento dopo luglio, quando le cantine imbottigliano le scorte per le spedizioni del mese di agosto, con circa oltre 180.000 hl al mese. Oltre al rientro dalle vacanze, per il mese di settembre, questo è dovuto al fatto che sono i mesi in cui si realizzano le spedizioni sui mercati esteri per le vendite di fine anno (ricordo che il Giorno del Ringraziamento quest’anno cade il 13 ottobre in Canada ed il 27 novembre negli U.S.A.).

Canada, USA, Cina o Regno Unito non sono mercati dove si possa operare con la stessa flessibilità logistica dell’Italia.

Invito a riflettere sulle conseguenze nell’affermazione del Prosecco l’effetto che può avere costringere una catena di supermercati americana a cancellare la promozione del Prosecco prevista per il Giorno del Ringraziamento (non voglio nemmeno considerare la pazzia di pianificare la promozione e poi non avere il prodotto sugli scaffali) o un importatore cinese a non avere il prodotto disponibile per fine anno.

Segnalo che stimando un volume di imbottigliamento di Prosecco DOC in ottobre 2013 di 185.000 hl e applicando l’attuale trend di +27% si può prevedere un volume di imbottigliamento per ottobre 2014 di circa 235.000 hl, pari al 97,5% dell’attuale stock di Prosecco DOC annata 2013. La mia stima dell’imbottigliamento complessivo di Prosecco DOC da novembre 2013 ad ottobre 2014, periodo fisilogicamente corretto di imbottigliemento dell’annata, sarebbe quindi di 2.200.000 hl.

Dalle voci di mercato pare la decisione di anticipare il cambio annata risponda all’obiettivo di “consumare” una quota maggiore di Prosecco vendemmia 2014 nell’anno in corso, in modo da equilibrare la maggior produzione prevista quest’anno. Anno in cui anche i vigneti piantati per ultimi raggiungeranno il massimo produttivo consentito dal disciplinare.

Vediamo quindi quant’è la produzione MASSIMA 2014 prevista dal Consorzio, utilizzando sempre i dati presentati durante l’assemblea generale dei soci dello scorso 9 maggio:

Totale Prosecco DOC: ettari: 20.000 ettolitri: 2.720.000

Veneto+ superi DOCG: ettari: 16.500 ettolitri: 2.088.000 produzione media per ettaro: 126,5 hl

Friuli Venezia Giulia: ettari: 3.500 ettolitri: 466.000 produzione media per ettaro: 133,1 hl

Complementari: ettari: 1.400 ettolitri: 166.000

Ora, tralasciando il fatto che non mi spiego la differenza di produzione media/ettaro tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, applicando alla produzione MASSIMA prevista per il 2014 lo stoccaggio del 20% già deciso si ottiene una disponibilità di Prosecco DOC pari a 2.176.000 hl.

Si tratta di una quantità inferiore alla mia previsione di 2.200.000 hl imbottigliati tra novembre 2013 ed ottobre 2014 spiegata in precedenza. Ecco quindi che un semplice MANTENIMENTO degli attuali volumi di vendita sarebbe sufficiente ad assorbire tutta la produzione 2014, al netto dello stoccaggio.

Ricordo che la produzione massima rimane per definizione un valore teorico che non può mai essere effettivamente raggiunto, quantomeno per le fallanze di piante in vigneto e per la superfice coltivata a biologico che non raggiunge i livelli produttivi massimi previsti dal disciplinare.

Se poi qualcuno mi spiega i motivi della differenza di resa per ettaro tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, mi toglie un tarlo che da qualche parte in tutta la mia analisi ci sia una falla che non riesco a vedere.

Basta? No non basta, perchè quando si adottano misure così drastiche e distorsive della concorrenza come lo stoccaggio del prodotto bisogna misurarne anche i costi e gli svantaggi.

Il declassamento a vino bianco da tavola dei 214.000 hl di Prosecco DOC 2013 ancora stoccati implica un costo per il comparto di oltre 19.000.000 di euro. Ecco il conteggio:

Prezzo medio 2014 euro/litro Prosecco DOC Borsa Merci Treviso: 1,15
Stima prezzo euro/litro vino bianco da tavola: 0,35
Perdita euro/litro vendita vino atto Prosecco DOC come bianco tavola: -0,80
Hl vino atto Prosecco DOC 2013 stoccati: 241.000
Perdita complessiva vendita vino atto Prosecco DOC 2013 come bianco tavola (euro):-19.280.000

Con i dati a disposizione si può anche calcolare qual’è il prezzo medio a cui si sarebbe dovuta vendere tutta la produzione della vendemmia 2013 per ottenere lo stesso incasso totale per il comparto. Per brevità vi risparmio il conteggio: il prezzo medio è di 1,06 euro/litro, ossia il 7,8% in meno rispetto al prezzo che siè verificato durante il 2014 (ho anche calcolato il valore di elasticità del prezzo all’offerta che porta al verifivarsi di questo prezzo, ma questo lo spiego solo se me lo chiedete).

Oltre alla perdita netta, il declassamento a vino bianco da tavola di 241.000 hl di vino atto a Prosecco DOC ha un’altra importante implicazione strategica: crea la base produttiva per 32.133.333 bottiglie di vino spumante/frizzante con un costo di produzione inferiore di circa il 35% rispetto al Prosecco DOC, ma con le stesse caratteristiche organolettiche.

Si tratta di un volume pari al 12,6% del Prosecco DOC 2013 totale che qualche turbativa di prezzo in qualche mercato la creeranno sicuramente.

QUINDI, CHE FARE?
Non sarebbe serio avervi tenuto tutto questo tempo a seguire un’analisi critica delle strategie di governo del comparto del Prosecco DOC senza proporre SINTETICAMENTE delle soluzioni.

Secondo me bisogna:

1) liberare subito almeno altri 100.000 hl di vino atto a Prosecco DOC per calmierare effettivamente il mercato (io personalmente libererei tutto per dimostrare la forza del comparto). Fino ad oggi il Consorzio si è preoccupato che il prezzo del vino sfuso non scendesse troppo, ma adesso c’è il rischio che salga rapidamente. Consideriamo anche il ritardo di 3/4 settimane con cui il mercato recepisce le variazioni di disponibilità del prodotto e rischiamo di trovarci a ridosso della vendemmia con prezzi elevati. Ricordo che nel 2011 prezzi intorno ad 1,40 – 1,50 eruo/litro hanno portato il prezzo a scaffale del Prosecco DOC frizzante nei discount tedeschi oltre il prezzo psicologico di 1,99 euro/bottiglia, causando un crollo delle rotazioni perchè i consumatori, oltre un certo differenziale di prezzo, hanno sostituito il Prosecco DOC con vini frizzanti generici/IGT.

2) realizzare delle ricerche che determinino il comportamento e gli atteggaimenti dei consumatori nei confronti del Prosecco DOC nei principali mercati di sbocco. Nell’ottobre 2011 ho pubblicato un post con il link alla ricerca svolta da Bosco Viticultori sull’atteggiamento del consumatore USA nei confronti del Prosecco DOC. Ad oggi è l’unica ricerca quantitativa sul consumatore riguardante il Prosecco DOC che abbia mai visto (il che non è positivo). Tra le indicazioni più significative risultava che oltre il 50% dei consumatori che conosceva il Prosecco anche solo per nome lo consumava. E’ una % elevatissima rispetto ad altri vini che conferma il grande appeal del prodotto. Risultava anche che solo il 50% dei cosnumatori di vino americani conosceva, anche solo per nome, il Prosecco, prefigurando un grande potenziale per le attività di comunicazione.

3) sulla base delle ricerche del precedente punto 2, concentrare le risorse consortili in un piano di comunicazione al consumatore in uno o pochi mercati obiettivo alla volta, per creare le basi che permettano di collocare l’intera produzione degli anni a venire e ne rafforzino il posizionamento d’immagine, sia per slegarne la percezione dall’eventuale basso prezzo di vendita che per ridurne la sostituibilità con prodotti concorrenti. Grazie ai fondi europei 700.000 euro negli USA diventano 1.400.000 ed è già una cifra che permette di fare un sacco di cose.

4) prevedere di valutare lo sblocco di una parte, anche solo il 2-3%, del prodotto stoccato nel primo trimestre del 2015 in modo da poter valutare le valutazioni sulla reazione del mercato ed intervenire in modo più graduale.

Questo in due parole il cosa, per il come io non ho più forse e, credo, neanche voi. Però dal 1 di settembre io sono disponibile come consulente.

Grazie, davvero, dell’attenzione.