Pubblicità, Facebook vs. L’Internazionale: per me vince L’Internazionale.

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Lo scorso 12 dicembre ho pubblicato un post dove spiegavo le ragioni per cui avevo deciso di realizzare la campagna pubblicitaria del Prosecco DOC Spumante “Storie di Noir” che produco insieme alla cantina Bosco Levada di Ceggia, su facebook invece che su L’Internazionale.

Oggi, con un po’ di ritardo, espongo la valutazione dei risultati che mi porta a dire che sarebbe stato meglio farla su L’Internazionale. Anzi, probabilmente sarebbe stato meglio non farla per niente.

L’obiettivo principale della campagna era sostenere le vendite di Storie di Noir nel periodo natalizio, uno dei momenti di maggior consumo di prosecco, sui siti di e-commerce di vini Tannico ed Etilika (soprattutto sul primo, che è il principale e-commerce di vino italiano).

Le bottiglie vendute a chi proveniva dai link dei post su facebook sono state 25, quindi è evidente che l’obiettivo non è stato raggiunto (meno male che c’erano anche le vendite “organiche”).

Magari facendo una pagina di pubblicità su L’Internazionale (il budget di più non permetteva) ne avremmo vendute meno, ma evidentemente 25 bottiglia in più o in meno non spostano il risultato dell’anno.

Il bello di facebook è che uno può analizzare il comportamento delle persone riguardo alla campagna e capire meglio cosa non ha funzionato.

La copertura, ossia le persone che si sono trovate i vari post sponsorizzati nella loro bacheca, è stata di 269.590 utenti facebook.

Le impressions, ossia le volte in cui i post sponsorizzati sono stati visti, sono state 750.190. In pratica ogni utente facebook che ha visto i post, li ha visti 2,78 volte (frequenza). Poiché la visione di un post non è frazionabile si capisce che ci sono stati utenti che l’hanno visto 2 volte ed altri che l’hanno visto 4 (se non peggio). Evidentemente in termini di impatto della campagna non è la stessa cosa rispetto a che TUTTI gli utenti raggiunti vedano i post 3 volte.

In realtà le interazioni con i vari post pubblicati sono state in linea con gli obiettivi perché ci sono state 34.678 interazioni sui post (like, commenti, condivisioni, ecc…) di cui 5.886 click sui link che portavano alle pagine di Storie di Noir sui siti di Tannico e di Etilika (il peso della campagna è stato circa 90% Tannico e 10% Etilika).

Quindi quello che non ha funzionato è stata la conversione in acquisto da parte delle persone una volta arrivate sul sito di e-commerce. Io mi aspettavo intorno al 10%, ma mi sarei accontentato anche del 5%. Tassi di conversione abbastanza in linea con quelli realizzati in campagne simili, a quanto mi dicono.

Cosa è mancato. Sinceramente non lo so, ma provo a fare delle ipotesi.

 

La scelta del target.

Nelle mie aspettative uno dei vantaggi di facebook era la possibilità di mirare al target con precisione chirurgica, sogno di tutti gli investitori di pubblicità, ancora di più se sono del segno della Vergine come me.

Ho scoperto però che non è proprio così, perché restringendo il target in termini geografici, demografici e psicografici, l’investimento per ottenere la copertura voluta diventa molto più alto.

Non chiedetemi come mai, perché non l’ho ancora capito malgrado me lo sia fatto spiegare più di una volta. La sensazione che mi è rimasta è che a facebook interessa vendere agli investitori il maggior numero di utenti e quindi penalizza in termini di costo contatto le pianificazioni troppo ristrette. Un come quando Fininvest, ossia Canale 5, Rete 4 e Italia 1, nella pianificazione delle campagne pubblicitarie di Limoncè mi metteva i passaggi degli spot alle 2 di notte per “ottimizzare”.

Il problema non è banale perché grazie all’accesso ai dati che Tannico mette a disposizione dei propri fornitori, io dispongo di parecchie informazioni su profilo geografico e demografico di chi acquista Storie di Noir, quindi so con una buona precisione quanta comunicazione sto sprecando e dove.

Tra l’altro facebook permette di definire il target per comune o per regione, ma non per provincia.

 

La (scarsa) velocità del mezzo.

Sempre nelle mie aspettative facebook doveva essere un media molto veloce, con la possibilità di correggere in corsa la pianificazione, investendo di più sui post che mostravano i migliori risultati ed abbandonando i meno efficienti.

Questa era stata una delle ragioni per preferire facebook a L’Internazionale, prevedendo di concentrare la campagna dal 10 al 17 dicembre (l’uscita su L’Internazionale sarebbe stata sul numero dell’11 dicembre). massimo fino al 20. Oltre questa data infatti i siti di e-commerce non riescono più a garantire la consegna prima di Natale e qui dini i giochi degli acquisti di vino per le feste sono chiusi.

Nuovamente ho scoperto che le cose stanno diversamente da come credevo: i post sponsorizzati hanno bisogno almeno di qualche giorno per sviluppare i numeri di copertura e frequenza previsti. A meno di non aumentare significativamente l’investimento.

Questo riduce anche la possibilità sperimentare l’efficacia dei diversi post (learning by doing) per puntare su quelli che mostrano i migliori risultati, perché significa in un certo senso ripartire ogni volta.

Aggiungeteci poi che facebook ha sospeso il post con il link a Tannico venerdì 11 dicembre, giusto prima del cruciale fine settimana del 12-13 dicembre, perché si trattava di un vino, quindi un alcolico, e dovevano verificare che il target definito da noi non fosse in contrasto con la loro politiche aziendali. Stranamente il post con il link ad Etilika, esattamente uguale a parte il sito a cui portava, è rimasto tranquillamente on line.

 

Alla fine per raggiungere gli obiettivi di copertura e frequenza, abbiamo allargato la pianificazione a tutta l’Italia invece che solo alle regioni dove le persone avevano acquistato Storie di Noir in passato, e l’abbiamo allungata fino al 22 dicembre. Probabilmente questo ha contribuito alla bassa conversione tra click al sito e successivi acquisti.

 

In sintesi cosa ho imparato.

  • Il budget necessario per fare una campagna facebook nazionale (o almeno pluriregionale) è simile a quello per fare una campagna su “L’Internazionale” e, credo, per estensione su gran parte dei media classici vista la riduzione delle tariffe.
  • Facebook è impostato su delle logiche basate sulla quantità più che sulla qualità dell’audience. Cercare di uscire da queste regole è molto difficile o, quantomeno, molto costoso. Detto in altre parole facebook è impostato sui suoi interessi, non su quelli degli investitori. Anche qui mi ricorda tanto le logiche della televisione generalista di una volta.
  • Facebook vende agli investitori un grande mare di persone/teste/scalpi (scegliete voi il termine che preferite) su cui gettare le reti per poi fare la cernita una volta rientrati in posto. Fuor di metafora facebook è (può essere) una fonte di audience, che una volta agganciata, va “lavorata” con altri strumenti. Per questa ragione la comunicazione su facebook per essere efficace dovrebbe essere continua(tiva) e dovrebbe puntare a portare le persone in luoghi fisici, i supermercati Aldi ad esempio, o digitali, il sito aziendale, in cui fanno altri tipi di esperienze con la marca.
  • Credo che attraverso facebook si possa lavorare sulla conoscenza della marca (awareness) e sul “reclutamento” di potenziali consumatori (vedi sopra), ma non molto sul posizionamento / reputazione della marca (lo so è il contrario di quello che dicevo nel 2016, ma gli anni passano e le cose cambiano).
  • Facebook si presta poco ad operazioni spot.
  • Con piccoli budget facebook è un mezzo ideale per campagne a livello locale (comune) di attività radicate sul territorio che vendono beni o servizi, soprattutto se sono in grado di sviluppare attività di database marketing.

Col senno di poi, di cui notoriamente son piene le fosse, avrei fatto la pagina su “L’Internazionale”. Forse perché sono un boomer, però non sono il solo vista la quantità di cantine che da dicembre in avanti hanno fatto pubblicità sulla rivista.

Pubblicità: Facebook vs. L’Internazionale, il caso Storie di Noir Prosecco DOC.

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Non so se è proprio un “caso”, sicuramente è il mio caso.

Come sa già chi segue i miei blogs (questo e quello che scrivo su Vinix), a febbraio di quest’anno insieme alla cantina Bosco Levada abbiamo presentato il Prosecco DOC “Storie di Noir”. La caratteristica di questo vino è che nella cuvée, oltre alla Glera, abbiamo usato un 13-14% di Pinot Nero vinificato in bianco.

Vi risparmio tutti i problemi commerciali legati a presentare un nuovo prosecco nel pieno della crisi da pandemia del COVID-19, perché non direi niente di nuovo.

La situazione è quel che è, lamentarsene serve a poco; meglio cercare di affrontarla come si sa e si può.

Io quello che so e può è fare marketing e del marketing fa parte la comunicazione, che comprende anche la pubblicità (nel complesso quello che io nel mio concetto di Marketing Totale chiamo la P di “Percezione”).

Non disponiamo di grandi budget, anzi in teoria di budget non ne abbiamo proprio, però quando circa un mesetto fa su “L’internazionale” ho visto una pagina di pubblicità … della pubblicità su L’Internazionale, mi si è accesa la curiosità di scoprire se per caso la crisi della pubblicità non avesse reso abbordabile l’acquisto di una pagina.

L’obiettivo non era tanto creare conoscenza e reputazione della marca ma dare una mano alle vendite di Storie di Noir sui due e-commerce dove è presente: Tannico e Wineowine.

Così ho contattato la AME- Agenzia del Marketing Editoriale, concessionaria degli spazi su L’internazionale ed ho chiesto la quotazione per una pagina nel mese di dicembre.

La quotazione, che ovviamente per correttezza non dico, mi è sembrata buona e quindi ho cominciato ragionare sulla creatività (fatta in casa per risparmiare). Confrontandomi poi con un amico mi ha detto “Perché invece la pubblicità non la fai su facebook?”

Ho approfondito e queste sono state le mie scoperte/considerazioni.

-          In termini di costo contatto tra la pagina su L’Internazionale ed una campagna decente di due settimane (stessa copertura con frequenza di almeno 3 viste del post sponsorizzato per ogni contatto) non c’erano grandi differenze.

-          L’impatto della pagina su “L’Internazionale” rispetto al post sponsorizzato su facebook secondo me è superiore. Ricordo che la formula del GRP che trovate su Marketing Management del Kotler è GRP=RxFxI, ossia il Gross Rating Point è dato dalla Copertura (“R” di reach) moltiplicata per la Frequenza, moltiplicata per l’Impatto. Quando parlate con agenzie di pubblicità e concessionarie lo calcolano solamente come RxF, perché misurare l’Impatto è complicato. Questo però non significa che non ci sia e che il suo peso non sia importante.

-          Il passaggio logico e fisico dall’Attenzione all’Azione (andare sui siti di e-commerce ed acquistare Storie di Noir), attraverso le fasi intermedie di Interesse e Desiderio (modello AIDA) è sicuramente più lungo, complesso e difficile partendo dalla pagina de L’Internazionale rispetto al post sponsorizzato di facebook.

-          Malgrado il profilo dei lettori de L’Internazionale sia molto in linea con quello dei potenziali clienti di Storie di Noir, facebook permette una pianificazione molto più mirata e quindi, in teoria, una maggior efficienza dell’investimento. Soprattutto quando si può prendere la mira sui dati demografici e geografici oggettivi delle vendite su Tannico attraverso lo strumento di intelligence che mettono a disposizione dei fornitori.

-          Nei 15 giorni (scarsi) di campagna su facebook si può correggere il tiro dei contenuti e della pianificazione in base ai risultati. La pagina de L’Internazionale lì è e lì resta.

 

Quindi alla fine mi sono deciso per fare la campagna su facebook. Questo il link alla pagina (sharing is caring): Storie di Noir – Prosecco DOC | Facebook

Ma quanto mi piacerebbe avere obiettivi strategici di costruzione della conoscenza e reputazione della marca a medio termine per poter pianificare su L’Internazionale.

Zuegg: ottima pubblicità, pessime promozioni (web).

Negli ultimi 3 mesi sto guardando più televisione del solito e quindi vedo più pubblicità.

Più ne vedo e più mi sembra inutile perché pensata secondo logiche di almeno 10 anni fa (e forse anche 20) e quindi deboli per attirare l’attenzione dell’audience obiettivo.

Forse mi sbaglio perché ho una percezione distorta dell’audience obiettivo, considerato che in questi mesi ho visto in televisione le Gemelle Kessler, Pippo Baudo, Renzo Arbore, Bruno Vespa, Celentano, Mara Venier, Marcella Bella, Ornella Vanoni (sia attualmente che in una puntata di Studio Uno del 1967/68), Loredana Bertè e perfino il mago Silvan. E questo senza aver guardato il Festival di Sanremo.

Ad ogni modo, confermato che viviamo nel 2019 e non nel 1969, la pubblicità televisiva della Zuegg mi ha colpito positivamente per la chiarezza e coerenza del messaggio, sia come concetto di base (core concept) che come rappresentazione.

Se osservate le pubblicità che ci sono in giro, vi accorgerete come predominino la ricerca delle emozioni attraverso concetti intangibile e la cura del racconto (il famoso storytelling) seguendo il paradigma che la narrativa è più efficace della saggistica per trasmette contenuti alle persone. Il problema è che la narrativa senza contenuti rimane solo forma fredda e vuota e l’intangibile senza emozioni risulta finto.

Invece di essere uno strumento attraverso cui comunicare e rafforzare gli elementi differenzianti delle marche, la pubblicità diventa una cortina fumogena per cercare di nascondere la mancanza di originalità della proposta. O per meglio dire l’incapacità di individuare l’originalità della proposta.

Zuegg invece sceglie di puntare sulla caratteristica di base che determina il servizio ricercato nel prodotto dai consumatori e dice “Io non ci metto la faccia, ci metto la frutta” – “I frutteti di Oswald Zuegg”

Back to basic. Possono dirlo anche tutti gli altri produttori di marmellata? Si e no. Dipende da quanta frutta ci mettono, da quanti frutteti possiedono e/o gestiscono, ecc … E comunque chi lo dice forte e chiaro adesso è Zuegg, che quindi in un certo si appropria del concetto.

Confesso che probabilmente quello che ha attirato la mia attenzione è anche il claim, perché spesso mi sono trovato in situazioni nelle quali, a fronte della carenza di idee, veniva fuori qualcuno che diceva “E noi ci mettiamo la faccia!” e a me spontaneamente veniva da rispondere “Ma siete così sicuri che la vostra faccia valga qualcosa?”. Poi mi mordevo la lingua, non lo dicevo e provavo a ragionare avanti.

Quindi Zuegg bene, bravi, bis ed il post finisce qui, in gloria.

Sennonchè un paio di giorni dopo Pier Luca Santoro commenta su fb la notizia riportata da Il Post che Skipper Zuegg ha lanciato un concorso per vincere un “succhino di cittadinanza” e allibisco, sia come consumatore fedelissimo di Skipper all’arancia che come esperto di marketing.

Perché trovo assolutamente giusto che una marca possa prendere posizione su questioni sociali (vedi ad esempio l’ultima campagna Nike), ma inserirsi nel dibattito partitico è tutto un altro paio di maniche. Si tratta di argomenti per definizione partigiani in generale ed in questo momento in Italia particolarmente divisivi.

Se proprio una marca ritiene di avere tra i suoi valori la militanza politica (e sottolineo il SE 44 volte) allora deve farlo seriamente, non come un giochino. Ameno che non faccia della satira politica il proprio posizionamento, ma qui stiamo uscendo dal seminato.

Per quelli che non hanno visto l’iniziativa e non hanno avuto voglia di cliccare sul link riassumo il concorso.

Andando sul sito skipperzuegg.it si può fare “richiesta” per il succhino di cittadinanza “dimostrando di essere degno di ricevere uno dei nostri preziosissimi succhi gratis” (non è che avete avete un po’ esagerato con le iperboli?) rispondendo ad una serie di quesiti e lasciando una descrizione di massimo 300 caratteri perché si merita il succhino di cittadinanza.

Questi sono i quesiti che trovate sul sito (la descrizione è mia, ma se volete potete copiarla)

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Ovviamente per partecipare al concorso vanno indicati nome, cognome ed indirizzo e-mail, con relativa autorizzazione al trattamento dei dati personali non solo ai fini del concorso ma anche all’ “Utilizzo dei dati a fini promozionali attraverso l’invio di comunicazioni commerciali o realizzazione di studi di mercato”, come recita l’informativa.

In cambio di cosa io dovrei farmi riempire la casella di posta di mail promo-pubblicitarie? In cambio della possibilità di vincere N°1 succo Skipper, gusti assortiti, da 330 ml del valore indicativo di 1,00€ iva esclusa. Il premio verrà recapitato al domicilio comunicato dal vincitore in fase di registrazione. Non è possibile in alcun modo scegliere il gusto del succo Skipper vinto. (estratto dal regolamento del concorso).

Neanche una fornitura per 1 mese. E non posso nemmeno scegliere il gusto, che tra l’altro sarebbe stato interessante come informazione sulle preferenze dei consumatori più coinvolti con la marca.

Allora ho pensato “Almeno sarà un modo per fare assaggiare un determinato gusto (nuovo) ai consumatori più fedeli/coinvolti” quindi il concorso sarà solo un giochino simpatico (???) e prevederà che tutti i partecipanti riceveranno il loro “preziosissimo succo”. Che volendo era anche coerente con il concetto di “succhino di cittadinanza” per tutti i cittadini di Skipper.

E invece un’altra delusione: una giuria della società che gestisce il concorso, la Advice Group S.p.A. di Torino, sceglierà a suo insindacabile giudizio i 500 vincitori.

Quindi riassumendo cara Skipper Zuegg, questione politica a parte, non solo siete dei barboni perché fate un concorso in cui si vince un premio di 1 euro, non solo siete dei doppi barboni perché vincono solamente 500 partecipanti, non solo siete dei tripli barboni perché non si vince ad estrazione, ma non avete neanche il tempo di leggere quello che io, vostro consumatore fedele, mi sono preso la briga di scrivervi.

E poi mi tocca sentire i guru che parlano di “costruire un rapporto diretto per creare legami emotivi con i consumatori”.

Da notare che le descrizioni del perché uno si merita il succhino di cittadinanza da poter usare eventualmente per attività di content marketing si possono avere ugualmente anche facendo vincere ad estrazione. Anche perché se uno partecipa al questo concorso è perché ci tiene, non certo per il preziosissimo premio da 1 euro.

La domanda che rimane alla fine è “come è possibile che la stessa azienda centri la pubblicità e “canni” così clamorosamente l’attività promozionale?”

Senza conoscere le situazioni interne aziendali di Zuegg proverò a fare delle ipotesi gestionali “generali” che, spero, magari, possano aiutare ad evitare di incappare in errori di questo tipo.

  1. Zuegg e Skipper sono due marche diverse, con identità e posizionamenti diversi. Vero, il problema però è che sulle confezioni di Skipper c’è Zuegg in bella evidenza, il sito di Skipper si chiama “skipperzuegg”, nel sito di Zuegg c’è il link al sito Skipper, ecc..

In sintesi, “Zuegg” è la marca ombrello di Skipper sin dagli inizi. E questo è il rischio con le marche ombrello che sono anche marche prodotto (se Zuegg fosse il solo il marchio istituzionale azienda, la questione sarebbe diversa, ma non apriamo troppe parentesi). Magari quando Skipper è stato lanciato nel 1988 il posizionamento tra le due marche era coerente e sicuramente l’endorsment e la notorietà di Zuegg hanno favorito la reputazione e conoscenza di Skipper.

Però è abbastanza normale che in trent’anni le due marche abbiano preso strade diverse per mantenere ed accrescere il proprio successo. Oltre al fatto che in questi anni Skipper ha costruito una sua forza di marca “autonoma”.

Io, che già di principio non sono amico dei marchi di prodotto usati come marchi ombrello (regola generale, non assoluta), in situazioni come questa io consiglio di valutare di liberare la (ex) sotto-marca dal cappello della marca madre.

Per l’azienda, che vive la storia delle marche quotidianamente e dal di dentro, sembra uno shock, ma è probabile che la maggioranza dei consumatori nemmeno se ne accorga. Qualche indagine di mercato che misuri la sovrapposizione tra gli acquirenti/consumatori delle marmellate Zuegg ed i succhi Skipper ed il percepito/importanza del marchio Zuegg per gli acquirenti/consumatori di Skipper possono aiutare a prendere una decisione più informata.

  1. Le persone/enti aziendali e le agenzie esterne coinvolte nella gestione della marca Zuegg sono diverse da quelle che gestiscono Skipper.

Direi che la cosa è abbastanza sicura, trattandosi di due marche entrambe grandi ed importanti per l’azienda. Ma questo si verifica anche in aziende più piccole, con marche di minor peso relativo.

Il rischio è quello di perdere coerenza e coesione, quindi efficienza ed efficacia, nello sviluppo e realizzazione delle strategie. Perché non dobbiamo dimenticarci che tutto quello che si fa sulla marca Zuegg avrà un effetto anche sulla percezione di Skipper e viceversa.

Per questa ragione io ho sempre organizzato i miei dipartimenti marketing per marca o, al limite, per mercato geografico.

Non l’ho mai organizzato per canale e non ho mai voluto istituire la funzione di trade marketing. Questo sia per evitare le incoerenze di cui sopra, e quindi riuscire a sviluppare strategie che integravano tutta la filiera dall’azienda al consumatore finale, sia per rendere più facile ed immediato il trasferimento di idee ed esperienze di successo tra le strategie di trade e consumer marketing, che venivano gestite dalla stessa persona.

Nella stessa logica da anni sostengo l’utilità del ritorno dell’agenzia a servizio completo, con al proprio interno le diverse competenze specialistiche. Viceversa l’offerta del mercato della creatività in comunicazione è andato verso l’iperspecializzazione per cui ci sarà un’agenzia che fa la pubblicità al consumatore, un’altra che fa quella al trade, una che si occupa del content marketing sui social network, un’altra che disegna e realizza il sito web, una per le PR e così via.

In questa situazione riuscire a mantenere una coerenza tra le diverse attività in modo che siano sinergiche rispetto alla percezione complessiva della marca da parte delle audiencies è estremamente difficile. Per farlo è necessario che l’azienda faccia un grande lavoro di coordinamento che comincia con una definizione molto chiara e forte di posizionamento ed obiettivi strategici e tattici e prosegue con una grande quantità di tempo dedicata alla gestione delle agenzie/fornitori. Tutte cose richiedono competenze ed esperienze di marketing e gestione aziendale piuttosto elevate. Tempo e competenze di cui molte aziende non dispongono.

Una volta, parlo di trent’anni fa in un mondo competitivo estremamente più semplice, le aziende sopperivano a queste, normali, carenze avvalendosi delle competenze, anche strategiche, dell’agenzia di pubblicità che seguiva (quasi) tutti gli aspetti della comunicazione e si faceva carico del coordinamento interno tra i messaggi ed i media.

Oggi agenzie di questo tipo non esistono (quasi) più e quindi le aziende o investono sulle risorse interne, con il rischio di sovrastrutturarsi, oppure si avvalgono di consulenti.

  1. Debole definizione da parte dell’azienda di mission/posizionamento/obiettivi e poca disciplina nel seguirli al momento della realizzazione strategica e tattica.

Sono cosciente che lavorare con me può essere fastidioso (non so perché, ma mi piace pensare che lo sia più per i miei superiori che per i miei collaboratori).

Una delle ragioni è che io (mi) chiedo sempre il “perché” delle cose e questo viene spesso percepito come una (inutile) rottura di scatole perché nelle aziende tende a prevalere la cultura del “come”.

Però dal “perché” deriverà il “come”, ma non viceversa.

Da questa visione deriva anche la tecnica di strutturazione gerarchica degli obiettivi partendo dalla mission per scendere, volendo, al gadget aziendale. In questo modo è più probabile che gli obiettivi rispondano allo stesso “perché” iniziale in modo coordinato e coerente.

Poi bisogna avere la disciplina di rispettarli nella realizzazione delle attività che sviluppano per raggiungerli, senza farsi sviare troppo dalle situazioni contingenti. E questo immagino spieghi il senso del motto della testata di questo blog e che guida la mia attività di consulenza

Nel caso della promozione di Skipper non so le debolezze nascano da una definizione debole, parziale e imprecisa degli obiettivi o da successive distorsioni operative. Le classiche obiezioni alle soluzioni ideali proposte in prima battuta: “costa troppo”, “ci vuole troppo tempo”, “è troppo complicato”, ecc…

Tutte obiezioni sensate, sia chiaro, che però portano a fare cose che non rispondono agli obiettivi che ci eravamo prefissati, quindi, se siamo fortunati, con risultati parziali, spesso inutili e talvolta dannose.

Lo so che il tempo stringe, il budget è risicato, ecc… ma la mia raccomandazione rimane di essere sempre e comunque onesti con se stessi, disciplinati ed ambiziosi.

Anche perchè, proprio visto che tutte le risorse sono limitate è necessario che le strategie siano anche un po’ tattiche, ossia che spingano all’azione, e le tattiche un po’ strategiche, ossia rafforzino il posizionamento/equity della marca.

P.S. Io comunque continuerò a bere Skipper all’arancia, perché è il miglior succo non fresco sul mercato ed a me interessa innanzitutto il gusto, ossia la frutta che c’è dentro.

P.P.S. Un “bravi” al marketing della Skipper per aver tolto dal tetrapack l’indicazione che era fatto con arance del Brasile perché si trattava di un messaggio era un po’ distonico con l’altra indicazione “Prodotto con amore in Italia – tutti i nostri prodotti sono fatti in Italia, la terra delle cose buone e fatte bene”.

P.P.P.S. Mi rendo conto che in questo post ci sono un sacco di concetti di marketing e di gestione (gestione di marketing) non spiegati. E’ che mi sembrava già lungo a sufficienza e si tratta di concetti che ho affrontato e spiegato in passato. Qualsiasi curiosità di approfondimento di venga, inserite una parola o una frase nell’apposita casella di ricerca in alto a destra e vedrete che, con dieci anni di post, qualcosa (di interessante) viene fuori.

Bravi, ma basta: perché le marche continuano ad utilizzare il content marketing come fosse pubblicità?

Come in qualsiasi altra cosa anche nella gestione aziendale e nel marketing ci sono le mode e oggi vige quella del “content marketing”.

Basta pubblicità ma contenuti comunicati direttamente dalle marche ai propri pubblici di riferimento (chiamateli audiences, targets o come più vi piace) attraverso i propri profili sui social networks.

Il problema è che è il messaggio che fa il messaggio non (più) il mezzo.

Quindi i profili social della stragrande maggioranza delle marche sono pieni di contenuti “pubblicitari” (quando non sono “morti”, lasciati mesi interi senza aggiornamenti).

La foto dei titolari davanti alla nuova sede o quella del nuovo prodotto sono contenuti “pubblicitari”

Il post del venerdì con scritto “Finalmente è arrivato il week-end, ci beviamo un bicchiere del nostro XYZ. E voi con cosa brindate?” è un contenuto pubblicitario. E nemmeno tanto originale. Neanche a Pasqua, Natale, Hallowen, ecc..

Il risultato è che l’engagement dell’attività di content marketing si riduce ad amici e parenti.

E’ un problema? Dipende dalla dimensione della marca e dai costi (di risorse e di tempo) che dedicate alla comunicazione sui social, ma in linea di massima sì perché amici e parenti la marca la conoscono e la preferiscono comunque.

Da quando esistono gli sms gli esperti di marketing e comunicazione si interrogano periodicamente su cosa bisogna fare perché un contenuto abbia maggiori probabilità per diventare virale. Qui trovate un mio post del 2013 che spiega l’approccio STEPPS.

Oggi la faccio ancora più facile per i colleghi che si occupano a vario titolo di marketing e comunicazione. Basta che pensiate a cosa hanno in comune le marche che seguite sui social, esclusi concorrenti, amici, parenti e conoscenti, o cos’hanno i contenuti che condividete.

Nella grandissima maggioranza dei casi si tratta del fatto che non parlano della marca, prodotto ecc…, ma parlano di cose che riguardano le persone. Detto ancora più in sintesi, le persone non condividono i contenuti che parlano di voi, ma quelli che parlano di loro.

Gli affezionati lettori di biscomarketing e chi partecipa alle lezioni che tengo ai vari corsi in cui hanno la bontà di chiamarmi sa che non solo concordo sul fatto che oggi siamo tutti nel business dell’editoria, intesi come creazione di contenuti, ma anche che sostengo che lo siamo sempre stati.

Con questo intendo dire che anche ai tempi della comunicazione monodirezionale (che poi era un’illusione perché le persone tra di loro parlavano anche prima ed il passaparola poteva determinare il successo o il fallimento di una marca, solo che le aziende non potevano sentirlo come lo sentono oggi) la pubblicità più efficace nel posizionare una marca nel periodo medio lungo era quella che comunicava contenuti.

Per una volta invece di tediarvi con lunghe disquisizioni, mi spiego con alcuni esempi.

Il primo è la campagna pubblicitaria che Aldi ha fatto sui social per l’apertura dei suoi punti vendita in Italia. E’ stata una campagna pubblicitaria di successo perché il messaggio parla una cosa che interessa alle persone: una nuova opportunità per risparmiare sulla spesa.

La campagna si è articolata in due fasi: prima con degli spot con protagonisti italiani che vivono all’estero e poi con protagonisti famiglie italiane di cognome Aldi che provavano i prodotti della catena. Una modalità interessante, quindi metto i due esempi:

Il secondo esempio è un video, non so se si può definire una campagna pubblicitaria ma spero che a questo punto abbiate capito che la differenza ha (secondo me) poca importanza, realizzato dalla compagnia aerea scandinava SAS.

Il terzo esempio è il video dell’esperimento fatto dalla catena di supermercati tedesca Edeka che ha tolto dagli scaffali di uno dei suoi supermercati tutti prodotti non tedeschi per mostrare gli effetti tangibili della visione nazionalista di chiusura verso gli altri (paesi).

Prima che vi lamentiate perché sono troppo teorico ed astratto, concludo linkando il post di Pier Luca Santoro su Data Media Hub sui “12+1 errori da NON fare sui social” (no, non ho cointeressenze; solo stima).

In pubblicità il tempismo è tutto!

Vero. E infatti avevo in programma un approfondito post sull’argomento.

Però poi mi sono trovato in aeroporto a Trieste a partire per Valencia e nell’area degli imbarchi mi sono imbattuto in questa pubblicità dell’Ente per il Turismo della Regione Friuli Venezia Giulia.

Un’immagine vale più di mille parole. Quindi  con tre foto affronto sia il tempo che lo spazio, ossia la coincidenza il momento ed il luogo (niente a che vedere con Einsten).

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La domanda è: “che senso ha?”

Che senso ha una pubblicità basata sul concetto di “convincere a non partire” un pubblico che si trova nella sala imbarchi dell’aeroporto, ha già comprato il biglietto, spedito il bagaglio, passato i controlli di sicurezza, eccetera.

E non ditemi che si gioca sul controsenso del “non partire” per convincerli a ritornare.

L’engagement dei post su facebook è superiore a quello della pubblicità classica? Non credo proprio.

Mercoledì scorso il sempre interessantissimo sito DataMediaHub ha analizzato i dati sull’utilizzo dei social in Italiapubblicati nel rapporto annuale di Hootsuite e We Are Social Quelli mi hanno colpito di più sono quelli relativi al coinvolgimento (engagement) generato dai post di facebook che vedete riportati nell’infografica qui sotto.

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Considerato che Facebook, insieme a Google, è diventato uno dei principali medium su cui le aziende investono in comunicazione grazie alla sua (presunta) efficacia, la domanda che mi sono fatto è: davvero la pubblicità classica (stampa, affissioni, radio e anche TV, che è probabilmente il medium più freddo) ha dei livelli coinvolgimento inferiori?
Visti i bassi numeri di facebook mi sento di credere che il coinvolgimento creato dai media classici sia almeno equivalente, se non superiore. Soprattutto considerando che nell’audience raggiunta da facebook c’è un certo di numero di persone che appartiene alla base dei fan della pagina, e quindi ha già una certa relazione con la marca, e che la targetizzazione dell’audience a cui rivolgersi su facebook può essere mirata con molta maggior precisione, rivolgendosi così a persone che potenzialmente hanno un maggior livello di affinate e di interesse nei confronti del messaggio.
Purtroppo non ho una risposta certa, perché sui media classici non ci sono strumenti per misurare il coinvolgimento delle audiences raggiunte dal messaggio con la stessa precisione che esiste per i social media.
Nella definizione della pianificazione pubblicitaria la possibilità o meno di misurarne l’attenzione e/o il coinvolgimento da parte delle persone esposte al messaggio non è secondaria, perché si andranno a preferire i medium di cui è possibile controllare meglio le performances.
Il problema esisteva già con i media classici, per cui le agenzie di pubblicità ed i centri media tendevano ad essere restii a pianificare l’affissione (cartelloni pubblicitari fissi, totem, cartelloni pubblicitari sugli autobus, ecc…) in quanto gli indicatori di perfomances della campagna erano meno precisi rispetto, ad esempio, a quelli della TV (non starò qui a fare un’analisi critica dell’auditel come strumento di misurazione delle perfomances della pubblicità).
Detto in altre parole se il contro media deve pianificare una campagna che raggiunga una determinata percentuale delle persone che appartengono all’audience obiettivo (reach) con una certa frequenza (frequency), quindi un determinato livello dei cosiddetti GRP (Gross Rating Point = Reach x Frequency; Kotler in realtà ci aggiunge anche l’Impatto, e non è un’aggiunti da poco, ma non è il caso di parlarne qui), preferirà utilizzare radio, stampa e TV perché di questi riesce a misurare i GRP con maggiore affidabilità.
Il punto però è che i fenomeni si verificano indipendentemente dalla nostra capacità di misurarli. Voglio dire che anche se non riesco a misurare con precisione i GRP dell’affissione, questa pubblicità avrà comunque un effetto sulla percezione della marca da parte delle persone che la vedono.
E se l’efficacia dell’affissione è maggiore, ad esempio, di quella della TV in realtà sto pianificando peggio la mia campagna.
Ma come faccio a saperlo?
E’ necessario fare una riflessione sulle metriche che si utilizzano per misurare l’efficacia delle campagne pubblicitarie.
Dall’avvento dei social networks spesso si distingue tra metriche di vanità (vanity metrics) e metriche di risultato (performances metrics), dove nelle prime si considerano il numero di followers, fan, ecc… e nelle seconde il numero di likes (che però qualcuno considera “vanità”) i commenti, le condivisioni, i click ai links, ecc…
Questa distinzione si faceva, pur con meno indicatori, anche per i media classici, ma in realtà la differenza tra metriche di vanità e di risultato non è qualitativa come invece considerano in molti.
Dal seguire una pagina a cliccare sul link di un post per entrare in un sito c’è un continuum lungo il quale il livello di coinvolgimento aumenta, e chi condivide un post di facebook deve essere prima un fan della pagina. Vero che i percorsi non sono sempre così lineari oppure i passaggi possono essere più accelerati, ma questo si verifica soprattutto per l’effetto della comunicazione che la marca fa sugli altri media (vedi il mio post “Quanto vale un fan di facebook?”).
Quello per cui facebook è sicuramente più efficace rispetto alla pubblicità classica è, ovviamente, nel generare direttamente delle vendite facendo arrivare le persone alle pagine di vendita dei negozi on-line (indifferente se di proprietà della marca o meno).
Ma questa è un’altra storia, di cui parlerò la prossima settimana.

Nuova campagna dell’Asti Secco Docg: potrebbe anche funzionare, magari.

Ho pubblicato oggi un post su Vinix che analizza la strategia di marketing e la campagna pubblicitaria per il lancio dell’ Asti Secco Docg.

Al di là di riportare sul mio blog originario quello che scrivo è un post più di marketing che di vino. Mentre lo scrivevo a me sembrava buono, lo trovate qui.

Torno regolare tra due giorni parlando di shopping bots.

Per la frutta secca Ventura la best selling proposition siamo noi.

Dal testo della nuova campagna “BBMIX” della frutta secca Ventura:“E’ il mix delle cose più buone che ci rende quello che siamo: unici come la bontà e il benessere BBMIX Ventura, solo la frutta più buona”

Dal mio post “Unique Selling Proposition vs. Best Selling Proposition” del 2 marzo 2008 (quasi dieci anni fa, aiuto!):
“Propongo quindi il concetto di BEST SELLING PROPOSITION, inteso come quello che la marca sa fare meglio (degli altri), in alternativa a quello di USP.
Ho messo degli altri tra parentesi perchè la forza e l’utilità del concetto di BSP nel definire la promessa della marca sta proprio nella multidimensionalità del suo rapporto diretto con le competenze dell’azienda, rispetto alsilver bullet che sottostà alla USP (ed in buona misura anche all’esempio del Chillit Bang).
Voglio dire che nel definire la base per un posizionamento può essere più efficace ricercare quali sono le cose che sappiamo fare meglio perchè questo permette comunque di definire un mix di eccellenza, mentre se non trovo quell’unica USP rimango a mani vuote.”

Non voglio assolutamente dire che i signori dell’agenzia di pubblicità The Optimist leggano biscomarketing, meno che meno che lo “copino” (anche perché i post sono pubblici).
A me quello che ha fa piacere è vedere il mio concetto di best selling proposition declinato pari pari come concetto della campagna TV Ventura.

Perché non è vero che la teoria manca di concretezza.

Il ruolo del positioning nel fondamentale equilibrio tra awareness e reputazione.

equilibrio balla

Nel mio posto del giugno 2016 “Sul web si crea la reputazione, non la conoscenza di marca” , ho pubblicato questa matrice, che sviluppai nel lontano 1993 quando mi dedicavo all’inquadramento teorico del marketing dei prodotti tipici a denominazione d’origine, senza spiegarla.

Credo però che meriti un approfondimento per l’utilità che ha il suo utilizzo nell’analisi della situazione della marca e nella definizione delle relative strategie.

Come esempio concreto prendo la recente campagna pubblicitaria del Buondì Motta, approfittando del fatto che la grande attenzione ricevuta rende i ragionamenti che seguono più facilmente comprensibili.

La campagna Buondì aveva l’obiettivo dichiarato di rilanciare una marca/prodotto un po’ appannata ed ha generato grande aumento della sua awareness (sicuramente a breve termine, sul medio è da vedere).

Però era proprio l’awareness il punto debole su cui bisognava intervenire? Dipende.

Se la marca si trovava nel quadrante buono, e quindi l’appannamento dipendeva dalla bassa awareness in presenza di una buona reputazione, evidentemente la strategia della campagna era quella giusta.

Se però l’appannamento della marca dipendeva da un basso livello sia di awareness che di reputazione, quadrante potenziale, investire sull’aumento di awareness sposta la marca nel quadrante pessimo (affossandola definitivamente).

Ovviamente la rappresentazione di confini netti tra i vari quadranti della matrice è una semplificazione per esprimere il concetto con maggior chiarezza. Nella realtà operativa lo spostamento delle marche sugli assi è un continuum.

Altrettanto è evidentemente che l’aumento di reputazione implica sempre un certo aumento di awareness, se non altro per il passaparola.

Attenzione però che non è vero il contrario, ossia ci può essere aumento di awareness senza aumento di reputazione. Oppure, ed è il caso peggiore, ci può essere un aumento di awareness innescato da un calo di reputazione, come nel caso di Carpisa di questi giorni.

Dal punto di vista delle strategie aziendali, quello che lega awareness e reputazione è il positioning, inteso come la definizione da parte dell’azienda di cosa la marca vuole rappresentare per la sua audience e le successive azioni messe in atto per realizzare questa rappresentazione sul mercato.

In altre parole dal punto di vista aziendale il positioning è l’insieme della definizione della reputazione che dovrebbe avere la marca della marca e le strategie realizzate per trasferirla sul mercato. Attenzione che il trasferimento del positioning non riguarda solamente la politiche di comunicazione (che non a caso io definisco di “percezione” nella mia visione del Marketing Totale), ma anche quelle di prodotto, prezzo e distribuzione (che io definisco “presenza” nella mia visione del Marketing Totale)

Nella matrice invece l’asse della reputazione rappresenta la reputazione effettiva della marca sul mercato.

Le due reputazioni, quella pianificata dall’azienda e quella percepita dal mercato, non corrispondono quasi mai per le distorsioni che il messaggio subisce nel processo di comunicazione tra l’emittente ed il ricevente. Anche se non siete degli esperti di teoria della comunicazione, semiotica, ecc.., basta che da bambini abbiate giocato una volta al telefono senza fili per sapere cosa intendo.

Più il positioning aziendale è chiaro, forte, preciso e dettagliato e meno distorsioni subirà nel trasferimento al mercato.

Qual’era la posizione della marca Buondì sulla matrice awareness-comunicazione prima della campagna pubblicitaria? Qual’ è il positioning che vuole comunicare? E’ definito chiaramente? E’ quello che viene trasmesso/recepito dalla campagna?

Vista tutta la discussione che ha generato nei media analogici, digitali e social credo che sarebbe una bella azione di content marketing se Buondì rendesse pubblici i risultati della campagna pubblicitaria in termini di variazione dell’awarness, reputazione e vendite.

Il marketing della controversia.

beach_body

Tipicamente e storicamente le marche evitano le controversie. Anche quando prendono posizioni su temi sociali lo fanno in termini positivi, PER qualcosa e non CONTRO qualcosa.

Più che pusillanimità è una questione di rispetto: chi sono io marca per giudicare i comportamenti delle persone?

Anche portando avanti i miei valori di marca, credo sia giusto lasciare a chiunque il diritto di scegliermi, ossia comprarmi (escluso ovviamente l’utilizzo illegale dei prodotti).

In sintesi è il concetto de “il cliente ha sempre ragione”, in parte anche quando non ce l’ha perché un po’ se la compra pagando il prezzo del prodotto/servizio.

Nell’era digitale però il rapporto tra marche e persone passa da essere un rapporto asimmetrico ad uno rapporto tra pari (personificazione delle marche e brandizzazione delle persone), creando uno spazio per l’utilizzo della controversia come strumento di marketing.

Un esempio eclatante è quello della campagna “Are you beach body ready” realizzata nel 2015 dall’azienda inglese Protein World.

La campagna ha scatenato a suo tempo una reazione di sdegno sia nel Regno unito che negli Stati Uniti, accusata di promuovere un’immagine falsa della bellezza femminile, un’immagine che colpevolizzava la normalità del fisico delle donne.

Praticamente l’opposto della campagna “Real buty” di Dove (mi tolgo il cappello davanti al copy che ha scritto il claim “Every body is beautiful”).

A fronte di questa polemica, che ha data alla campagna una visibilità amplissima, Protein World invece di ridimensionare la polemica, l’ha rilanciata definendo i critici come “pigri e deboli”, affermando che “(il Regno Unito) è una nazione che simpatizza per i grassi” e lanciando due ashtag: “#fitshaming” in contrapposizione a quello “#bodyshaming” lanciato dai suoi critici e “#GrowUpHarriet” in risposta ad una donna che aveva chiesto pubblicamente se poteva essere ammessa in spiaggia.

La cosa interessante è che la presa di posizione dell’azienda ha attivato la discussione tra chi si sentiva discriminato dal messaggio e chi invece condivideva l’esortazione ad avere un fisico più in forma (e quindi più sano?).

Attraverso la publicity generata dalla campagna, la marca ha quindi aumentato la sua conoscenza e guadagnato simpatizzanti, migliorando il proprio posizionamento nel target fitness/salutista.

La contrapposizione dei due concetti “fitshaming” vs. “bodyshaming”, al di là dei toni, era una discussione focalizzata, strutturata e costruttiva.

Giocare con il fuoco però è pericoloso per definizione e Protein World ha cominciato a bruciarsi quando tra i propri supporter nella discussione sono entrati il Daily Mail e Breitbart ed altri opinion leaders conservatori (per usare un eufemismo), che hanno spostato il focus dal “fitness” al “politicamente corretto” e coinvolto i propri seguaci nella discussione.

Dopo una settimana nella discussione si è arrivati alle minacce di violenza sessuale e Protein World ha lasciato cadere l’ashtag “#GrowUpHarriet”.

A completamento della storia va ricordato che al termine delle 3 settimane di affissione nella metropolitana di Londra, la campagna è stata proibita dall’autodisciplina della pubblicità inglese perché potenzialmente ingannevole rispetto al messaggio di perdita di peso grazie all’utilizzo dei prodotti Protein World.

Se adesso andate sul sito della Protein World o sui suoi profili twitter ed Instagram, non trovate nessun riferimento a “Are you beach body ready”, ma su twitter ci sono ancora oggi post relativi alla campagna ed è un riferimento, negativo quando si discute degli stereotipi di genere nella pubblicità, ma anche positivo in ambito fitness.

Un esempio ancor più interessante, perché ruspante, di gestione attiva delle critiche viene dalla responsabile della pensione “La Ferroviaria” di Saragozza (Spagna), che offre stanze a 15-20 euro a persona a notte.

Milagros Aguirre, la signora responsabile della pensione, risponde a tutti i commenti relativi alla pensione su booking perché ritiene che tutti i clienti meritino una risposta.

Di seguito quelle che si è meritato qualcuno:

Commento: “positivo il parking gratuito; negativo: dormire da solo”

Risposta: “Ok, la prossima volta invitiamo a quelli di “Apriti Sesamo” così non ti senti solo o meglio ancora andiamo allo stadio ed annunciamo per il megafono che ti senti solo, sicuro che ti cantano qualche coro degli ultras. Bye.”

Commento: “positivo: il personale; negativo: le pareti sono troppo sottili”.

Risposta: “Caro Tizio, lamentarsi per lamentarsi non ha senso, per il resto una pensione non ha l’obbligo di insonorizzare niente, la prossima volta il convento delle Carmelitane Scalze ti darà la pace necessaria, amen. Grazie”

Commento: “positivo: ottima posizione; negativo: il personale è sgradevole e maleducato. Non hanno voluto darmi un altro asciugamano per il viso malgrado la doccia sia separata dal bagno.”

Risposta: “Mi aspettavo questo commento. Se per 25 eurini vuoi portarti il tuo amichetto, meglio che lo lasci a casa tua e lo tieni nascosto. Se per non poter fare quello che vuoi siamo maleducati e sgradevoli. In più enti ed esageri, ma noi continuiamo ad essere affabili”

Qui mi fermo, ma nell’articolo de “El Pais” ne trovate molti altri

Da notare che la signora Aguirre risponde anche a molti commenti su tripadvisor, ma non a tutti perché qui può mettere i commenti anche chi non è stato alla pensione e la cosa le sembra veramente orribile (concordo).

Sicuramente con questi commenti La Ferroviaria ha perso alcuni clienti (immagino con piacere) ma probabilmente ne ha guadagnati altri (ha molti fan su twitter pur non avendo un account). Soprattutto ha trattato tutti i clienti con coerenza e soprattutto ha comunicato/chiarito/difeso quella che è la sua proposta/promessa.

Come sempre nell’era digitale sono l’autenticità e l’onestà che fanno la differenza.

“Brad is single”, meglio !

Negli ultimi due giorni è diventata virale una pubblicità di una linea aerea che riportava semplicemente la scritta “Brad is single” nelle varie lingue, con il prezzo della tratta tra un aeroporto del paese e Los Angeles.

brad-is-single

E’ una campagna molto buona per diversi motivi, ma in sintesi perché posiziona la compagnia aerea come un’azienda dinamica, attenta, sveglia che vive in pieno il proprio tempo. Al di là dell’eventuale effetto tattico promozionale di vendere voli da e per Los Angeles, l’effetto più interessante di questa campagna è quello strategico sulla percezione della marca/azienda.

Come spesso (sempre) succede in comunicazione i messaggi indiretti sono più forti e profondi di quelli espliciti, quando arrivano. In questo caso sicuramente è arrivato ad ampie fasce di consumatori, anche grazie alla viralità ed all’eco che ha ricevuto da parte di tutti i media tradizionali e non (che senso abbia che i quotidiani parlino di un argomento solo perché è un argomento popolare, clickbaiting a parte è un argomento di cui magari parliamo un’altra volta).

Faccio però una domanda a tutti voi che avete visto l’immagine della campagna da qualche parte: qual è la compagnia aerea che l’ha fatta?

Se anche il 100% di voi ha risposto giusto, per le ragioni esposte sopra e per il corollario che descriverò a breve, io credo che con un leggero cambiamento la campagna sarebbe stata ancora più efficace: mettendo il logo della “norwegian” sotto al prezzo del volo ci sarebbe stata (maggiore) certezza che le persone esposte alla campagna lo vedessero e la forza elegante del messaggio sarebbe stata comunque tale da dare il medesimo contributo alla percezione della marca (brand equity).

E’ il concetto di “make the money work harder” e va perseguito sempre per quanto possibile per l’etica dell’efficienza (che porta alla massimizzazione dell’efficacia).

Il corollario che ha probabilmente contribuito alla diffusione della conoscenza della norwegian è stata la risposta di “Alitalia”. Dal punto di vista di Alitalia secondo me è stata una pessima mossa perché:

-          Posiziona Alitalia come follower.

-          Posiziona Alitalia come guascone / parassita.

-          Rischia di posizionare Alitalia come compagnia aerea non conveniente nel caso in cui il costo del volo sia superiore a quello di norwegian.

-          Diventa un megafono che amplifica la campagna (originaria e originale) di norwegian.

Lo so che mi direte che comunque è stata un’azione di social media marketing che ha dato visibilità ad Alitalia, ma ormai dovrebbero saperlo anche i sassi che le vanity metrics non portano a niente (nel migliore dei casi) e spesso portano alla perdizione (delle marche).

Aggiungo io un corollario per i massmediologi: com’è che a nessuno è venuto in mente che anche Angelina is single?

L’importanza della focalizzazione per costruire e consolidare marchi di successo: l’esempio di Campari.

adv campari 2016

Questa è la pubblicità di Campari che si trova sulla rivista Millemiglia di Alitalia. volendo ci sarebbe molto da scrivere in termini di comunicazione.

A me però quello che ha colpito di più è una cosa che deriva (suppongo) da una scelta strategica più a monte: l’indicazione tra gli ingredienti del Negroni di un generico “Red Vermouth”.

Il Campari è (ri)diventato un prodotto iconico grazie alle campagne di comunicazione dei primi anni 2000.

E’ sostanzialmente un prodotto-marchio, nel senso che il marchio si identifica sostanzialmente al 100% con l’apertivo Campari riprodotto nella pubblicità, ed è l’unico prodotto-marchio tra gli ingredienti originale ufficiali del cocktail Negroni.

Intendo dire che il manuale dei cocktails a e long drinks classici IBA (International Bartenders Association) nella ricetta del Negroni riporta proprio il Campari e non un “aperitivo italiano” generico. Di conseguenza tutte le volte che trovate descritta la ricetta del Negroni, in qualsiasi pubblicazione off line oppure on-line troverete indicato il Campari e chiunque stia dietro il bancone di un bar sa che il Negroni si fa con il Campari.

Quindi se mettiamo insieme l’immagine della marca con la sua imprenscindibilità per la realizzazione di uno dei cocktail più famosi e di moda, ne viene fuori una posizione piuttosto forte.

Perchè allora non sfruttarla ed indicare tra gli ingredienti del Negroni nella proprio pagina pubblicitaria il Vermouth Cinzano, di proprità del Gruppo Campari?

In fin dei conti Cinzano è comunque un marchio importante ed è il secondo vermouth più venduto a livello mondiale (a dirla tutta Campari ha anche un gin, il Bankes London Dry Gin).

Si creerebbe una sinergia sia in termini economici di ottimizzazione del budget pubblicitario che di traino del Vermouth Cinzano (e volendo anche dal Bankes Londo Dry Gin) da parte del Campari.

Però io concordo (per quello che vale) con la scelta dei signori di Campari Group di non inquinare l’immagine, pur forte, del Campari Aperitivo.

Per mantenere ed incrementare la forza di un marchio la sua imamgine va concentrata, non diluita.

Io però voglio credere che dietro a questa strategia ci sia una considerazione più sottile: il rispetto per il bartender come primo cliente e testimonial del Campari.

Evitando di suggerire ai consumatori i propri marchi per gli altri ingredienti, Campari rispetta la professionalità e lo stile di ogni singolo bartender e li tratta come pari.

Illusioni di marketing? Forse, però la stessa strategia è adottata anche nella comunicazione dell’Aperol spritz (altro marchio del Gruppo Campari) dove viene citato il “prosecco” generico e non il Prosecco Cinzano.

 

 

E’ la strategia che fa il messaggio, non il mezzo: l’esempio di #EcorNaturasì su L’@Internazionale.

Quota post ha una base fattuale inusualmente imprecisa.

Ma non importa, perchè anche se quello su cui si basano i ragionamenti non fosse vero (e lo è), sarebbe comunque reale. E questo rende i ragionamenti comunque validi ed interessanti. Diciamo che è un post di ispirazione Malapartiana, intesa come Curzio

Questa premessa solo perchè dal servizio abbonati del L’Internazionale non mi hanno risposto su come recuperare i pdf dei vecchi numeri e quindi non ho potuto verificare se, come ricordo, in un numero di due/tre mesi fa tutte (o quasi) le pagine pubblicitarie avevano annunci di Ecor Naturasì.

Visto che il mio ricordo è piuttosto chiaro, prendiamolo per buono perchè nell’era digitale in cui viviamo, fornisce un ottimo esempio di utilizzo strategico di un mezzo analogico nella comunicazione di un marchio emergente.

Il mio ricordo è piuttosto chiaro anche perchè quando ho letto quel numero de L’Internazionale mi è tornato in mente che nel 1990 in Canada avevo visto il caso della strategie applicata da (forse) IBM o Pepsi Cola che avevano coperto tutta la pubblicità del numero di Time (o era Newsweek?) uscito in occasione dell’elezione di George Bush (o era il secondo mandato Reagan?).

Dettagli a parte è una strategia che da quella volta mi èsempre rimasta nel fondo della memoria perchè prima o poi avrei voluto utilizzarla anch’io. E ad oggi purtroppo non ci sono ancora riuscito.

Quindi quando l’ho trovata realizzata da Ecor Naturasì su L’Internazionale, mi è sembrata una mossa particolarmente intelligente.

Per chi non lo sapesse Ecor Naturasì è la più grande catena italiana di negozi e supermercati di prodotti biologici e biodinamici.

Il settore è in crescita ed Ecor Naturasì è in una fase di espansione della rete dei negozi, che sta portando il marchio in zone nuove (la catena è originaria del Veneto) e quindi a toccare nuovi potenziali consumatori.

L’acquisto di tutta la pubblicità del L’Internazionale mi è sembrata una mossa particolarmente intelligente perchè:;

- garantisce che il marchio sarà visto dai i lettori perchè la sua ripetizione pagina dopo pagina rende impossibile non notarlo prima della fine del giornale.

- permette di comunicare l’ampiezza dell’assortimento biologico e biodinamico dei negozi Ecor Naturasì. Per la strategia di comunicazione questo implica vantaggi tattici e strategici.

Tatticamente mostra a quelli che sono già consumatori di prodotti biologici che attualmente acquistano in piccoli negozi la comodità rappresentata dai supermercati Ecor Naturasì. Inoltre può intercettare consumatori potenziali, inclini ad acquistare prodotti biologici, ma non ancora acquirenti (o acquirenti sporadici) grazie all’interesse suscitato da una specifica categoria merceologica di cui sono forti consumatori (o a cui sono particolarmente interessati). Se pensate, come succedeva a me, che i prodotti biologici coprano solo alcune categorie merceologiche vi sbagliate. In un supermercato biologico ci sono esattamente le stesse che trovate un un supermercato tradizionale, dai soft drinks alle merendine.

Strategicamente poter presentare l’assortimento permette allo stesso tempo di evitare la “monotonia comunicative” e di ribadire marchio e posizionamento. La varietà del contenuto deriva dalla presentazioen di prodotti diversi, che però si inseriscono in una grafica costante e coerente che veicola il marchio ed il posizionamento.

- fornisce rilevanza e credibilità al marchio. Indipendentemente dall’efficacia delle pagine pubblicitarie realizzate, l’acquisto di tutta la pubblicità di un numero di una rivista comunica e posiziona di per sè la marca come forte, credibile e rilevante.

Aggiungeteci che il target dei lettori de L’Internazionale è probabilmente perfettamente allineato (io i dati di readership non li ho, ma Ecor Naturasì, sì) con clienti attualie potenziali di Ecor Naturasì e l’operazione appare ancora più … perfetta.

Aggiungeteci ancora che il numero tutto Ecor Naturasì è stato precedeto e seguito da alcuni numeri dove counque la presenza pubblicitaria della marca era piuttosto massiccia, quindi aumentando e prolungando l’effetto dl numero “evento” e … ho finito gli aggettivi.

A me quello che ha colpito è soprattutto che dimostra come degli obiettivi ed una strategia chiara, realizzata bene permettano di fare dell’ottimo marketing al di fuori delle pianificazioni classiche (la “paginetta” pubblicitaria su un certo numero di riviste per due/ tre mesi, magari ripetendo la campagna due volte all’anno) o delle mode di chi pensa che oggi si possa/debba pianificare solo sul web.

Invece le regole classiche della pubblicità valgono ancora ed una di queste insegna che la pubblicità efficace va pensata e realizzata in modo da sfruttare pienamente il mezzo, qualunque esso sia.

Magari se ne ricordassero tutti quelli che pianificano comunicazione sul web in un approccio di push.

 

 

L’ANTIMARKETING: bloccare gli ad blockers.

university-of-guelph

Uno dei temi di analisi e discussione più caldi nella comunità dei professionisti marcom (marketing e communication) negli U.S.A. oggi è quello degli ad blockers.

In sintesi gli adblocker sono sostanzialmente dei programmi (chiedo scusa ai nerds) che evitano il caricamento delle diverse forme di pubblicità durante la navigazione su pc, tablet e smartphone. L’utilizzo di adblockers da parte delle persone secondo Wikipedia è in forte crescita e tra il 2014 e 2015 è cresciuto del 41% a livello mondiale e del 48% negli USA. Si stima che nel 2015 circa 45 milioni di cittadini USA utilizzasero ad blockers.

In realtà concettualmente gli ad blockers non sono niente di nuovo, visto che i primi televisori con un sistema di videoregistrazione incorporato che permettevano di saltare la pubblicità risalgono al 1999. Praticamente il televisore registra i programmi eliminando automaticamente la pubblicità che quindi non appare quando poi i programmi vengono visti dall’utente. Il sistema più diffuso, esistente ancora oggi, è TiVo.

Ossia: i professionisti di marketing, comunicazione e pubblicità hanno la conferma del “sospetto” che le persone se possono preferiscono evitare la pubblicità da oltre 15 anni.

Eppure non hanno modificato di una virgola il loro approccio strategico basato sul rincorerre (perseguitare) le persone in ogni momento possibile. Invece di cambiare strategia di comunicazione (contenuti e media) nel 2002 i principali network televisivi americani per proteggere i propri investitori (e quindi i propri profitti) hanno fatto causa a Replay TV (concorrente di TIVO poi fallito) sulla considerazione che saltare la pubblicità viola i diritti di copyright.

Allucinante. Allucinante perchè più che “miopia di marketing” è un comportamento da “autismo di marketing” che non vuole accettare la realtà. E la realtà è che le persone non guardano la pubblicità, se gli togliete TIVO, si alzeranno e andranno a fare altro durante gli spot oppure semplicemente non gli daranno attenzione.

Il parametro classico che si è utilizzato per misurare l’efficacia della pubblicità nei media classici (televisione, giornali, radio, ecc…) è il GRP o Gross Rating Point. Io l’ho studiato per la prima volta nel 1989 durante il mio corso di Marketing Management all’università di Guelph in Canada. Sul testo di Philip Kotler il GRP viene definito come Reach x Frequency x Attention, ossia il numero di persone che sono raggiunte dal messaggio x il numero di volte che lo vedono x per l’attenzione che gli danno. Perfetto.

Peccato che poi quando sono entrato in azienda ed ho cominciato a lavorare con le agenzie di pubblicità e con le concessionarie che vendevano spazi pubblicitari (grandi quotidiani e riviste, RAI, Canale 5, Rete 4, Italia 1, grandi emittenti radio nazionali), di fatto il GRP veniva misurato solo come Reach (spesso in % sul totale del mercato obiettivo) x Frequenza. Io chiedevo lumi riguardo alla componente di “Attenzione” e loro mi guardavano come un alieno che crede di sapere come va il mondo solo perchè a letto un libro. Non è che non considerassero il parametro l’Attenzione per partito preso, è che si tratta di un parametro difficile da determinare e poi non era così importante partendo dal presupposto che tanto le persone si “bevono” tutto quello che i media gli propinano.

Questa stessa logica di spinta (push) è stata applicata all’attuale realtà di proliferazione e frammentazione dei media, con la crescita dei media digitali e dei social network.

Ecco quindi l’uso del big data così da (per)seguire il consumatore sempre più da vicino grazie a strumenti come il re-marketing (la tecnica di cui tutti siamo stati vittime grazie alla quale se cerco on line informazioni su una polizza auto, continuerò a ricevere pop up pubblicitari delle diverse compagnie assicurative fino alla morte; se volete provare qualche brivido guardate la spiegazione che ne dà la guida di adwords di Google)

Con un atteggiamento dello struzzo che mette la testa sotto la sabbia, l’industria della pubblicità ha fatto finta di non sapere che questo modo di operare infastidiva le persone, tanto da creare un’attenzione negativa che danneggia la percezione dei marchi troppo invadenti.

Come se la rivoluzione digitale fosse solo tecnologica e non culturale.

Con l’uso degli adblockers le persone stanno dando un’informazione importantissima ai professioni del marketing e della comunicazione: il modo in cui vi rivolgete a noi non ci piace nè ci interessa.

Incapaci di adattarsi alla nuova realtà, la  risposta dell’industria della comunicazione è: “ed io trovo il modo di mostrarti comunque la mia pubblicità”. Anche ammesso che ci riesca (cosa di cui dubito) questo non renderà la pubblicità più piacevole ed interessante per le persone. E quindi sarà fatica sprecata.

Il motto dell’Università di Guelph riportato sul logo che apre questo post dice “Rerum Cognosere Causas”, ossia conoscere la ragione delle cose.

Resto sconcertato vedendo come professionisti seri e preparati a fronte della scoperta di cose sgradevoli che li riguardano direttamente rispondano facendo semplicemente finta di niente.

Forse sono troppo abituati a (credere di) essere loro quelli che le determinano. La realtà vi seppellirà.

Colonna sonora per questo post: “Nessuno mi può giudicare” di Caterina Caselli.

Fino a quando continuerà ad esistere la pubblicità nell’era del marketing totale?

white noise

L’altra domenica Pier Luca Santoro nel suo gruppo pubblico di facebook “I giornali del futuro il futuro dei giornali” ha inserito il collegamento all’articolo di Luca De Biase “La partita della pubblicità è tecnologica” dove l’autore sostiene la tesi che “l’editoria ha biso­gno di ridi­ven­tare un busi­ness fon­da­men­tal­mente tec­no­lo­gico. Inno­va­ti­va­mente tecnologico.”, chiedendo al gruppo cosa ne pensava.

Confesso che normalmente non non entro in questo tipo di discussioni su fb, perchè non mi sembra una piattaforma adatta a confrontarsi in modo articolato. Però questa volta, un po’ per la stima nei confronti di Pier Luca, un po’ per l’interessante del tema (le due cose sono collegate), ho commentato andando un po’ oltre al tema dell’articolo e della domanda, chiedendomi (e chiedendo) se la pubblicità continuerà ad esistere strutturalmente, indipendentemente dalle soluzioni di media e/o di tecnologia che si possono inventare.

Non ho approfondito il concetto perchè sono partiti alcuni commenti (semi-ideologici) sull’ineluttabilità della pubblicità, sulla pubblicità buona e quella cattiva (non esiste pubblicità cattiva, esiste solo pubblicità indisposta, come ci ha insegnato la pubblicità della Dolce Euchessina.

L’argomento però continuava a ronzarmi nella testa ed è stato di nuovo Pier Luca a riportarlo in superfice ieri con questa considerazione su adbloking e dintorni: “È una que­stione di lin­guaggi, di modo di por­gere e di rispetto nei con­fronti delle per­sone, in anti­tesi all’attuale inva­si­vità anche della pub­bli­cità online. O, come dicevo, l’advertising ces­serà di essere ciò che inter­rompe gli inte­ressi della gente per diven­tare il più pos­si­bile quel che gli inte­ressa oppure le imprese ricer­che­ranno auto­no­ma­mente, come già avviene con il brand jour­na­lism, nuove forme, nuovi for­mat di comu­ni­ca­zione e di rela­zione con i pro­pri pub­blici di rife­ri­mento. Non c’è scelta.“.

Condivido “O l’advertising cesserà di essere ciò che interrompe gli interessi delle persone per diventare quello che gli interessa oppure non sarà.“, quindi sostengo che “non sarà”.

Attenzione, non ne faccio una questione ideologica (da professionista del marketing ci mancherebbe altro) e voglio sottolineare che la comunicazione delle aziende e/o dei marchi è cosa ben diversa dalla pubblicità.

Dico che la pubblicità, intesa come “ogni forma di presentazione e/o promozione non personale di idee, beni o servizi realizzata a pagamento da uno sponsor chiaramente identificabile.” (mia traduzione dal Kotler, Marketing Management) è strutturalmente destinata ad interrompere gli interessi delle persone. Non c’è tecnologia o contenuto che tenga.

Già nel 2008 scrivevo come la pubblicità fosse già il rumore di fondo della nostra vita e quindi fatalmente destinata all’irrilevanza. Credo che ci siamo arrivati molto vicini.

Mi guardo intorno e mi sembra evidente che le persone hanno sviluppato una sorta di “adblocking mentale” per cui nè vedono nè sentono la pubblicità, meno che meno le marche che la realizzano. Le persone non hanno più interesse nel ricevere (questo tipo) di informazioni non richieste perchè si sono abituate che le informazioni le cercano e le trovano autonomamente quando gli servono ed interessano.

Forse in questo scenario l’unica pubblicità che si salva è l’affissione, perchè spesso non interrompe nessun interesse specifico delle persone che la vedono, e la comunicazione di promozione/offerte speciali, meglio se fatte al momento e nel posto giusto sul cellulare tramite la geolocalizzazione.

Nell’ottobre 2012 mi chiedevo quale sarebbe stato il futuro della pubblicità in termini di modalità. Oggi ho l’impressione (convinzione?) che la pubblicità manchi di un futuro tout court.

Sarà per questo che fino dall’inizio della mia carriera in azienda nel 1994 ho sempre considerato le Pubbliche Relazioni e la pubblicità specializzata B2B come le componenti minime ed irrinunciabili del mio budget di comunicazione?