Viribus unitis – ancora sul sistema del vino italiano

Lo so che avevo promesso un post sul futuro delle agenzia pubblicitarie, ma inderogabili impegni di lavoro mi impediscono di svilupparlo adeguatamente (il post scorso è sembratoa qualcuno incompleto).

In più la rivista Il Mio vino ha anticipato i contenuti del prossimo numero dell’inserto professional e voglio mantenere la pubblicazione in contemporanea sul blog, per rspetto ai lettori di biscomarketing. L’articolo in realtà riprende molti dei concetti dei miei due post gentilmente ospitati dal blog “Vino al vino” di Franco Ziliani poche settimane fa.

Posticipo quindi il post sulle agenzie pubblicitarie e pubblico di seguito l’articolo che uscirà su Il Mio Vino.

La riduzione della produzione che ha caratterizzato le vendemmie 2011 e 2012 pone la questione del ridimensionamento del sistema del vino italiano.
Malgrado gli effetti congiunturali della siccità di quest’anno (ma siamo proprio sicuri che questo clima non sia la nuova normalità), il calo della produzione di uva da vino in Italia deriva in larga misura dalla riduzione del vigneto italiano. Secondo i dati presentati dall’esperto Maurizio Gily al convegno che ho organizzato al Vinitaly di quest’anno, negli ultimi 5 anni si sono persi 60.000 ha di vigneto (più della superficie a vigneto dell’intera Toscana) , con una perdita del potenziale produttivo in hl stimabile tra il 10 ed il 14%.
Considerando che le estirpazioni a premio finanziate dalla PAC hanno riguardato solo la metà circa degli ettari persi, si può prevedere che questa tendenza all’abbandono dei vigneti continuerà anche in futuro, seppur a ritmi più ridotti a causa del ridotto ricambio generazionale.
Al’’interno del sistema del vino italiano c’è una corrente di pensiero che vedono positivamente questa riduzione perché riequilibria il rapporto domanda-offerta, che negli ultimi anni è stato caratterizzato da un eccesso di produzione a fronte del declino dei consumi nazionali, permettendo di tornare ad una remunerazione delle uve che rende economicamente interessante la viticoltura.
Una personalità autorevole come Angelo Gaja da due anni sprona il sistema vinicolo italiano ad approfittare dell’aumento del costo della materia prima per valorizzare meglio il prodotto, sostenendo che non è un problema il rallentamento dell’export del vino italiano perché determinato dal calo dello sfuso, svenduto a prezzi non remunerativi.
Si tratta di un’analisi che non condivido, innanzitutto perché non trova riscontro nella realtà dei fatti.
I dati relativi alle esportazioni del 1° semestre 2012dei principali Paesi produttori sono i seguenti (Fonte: elaborazione dell’autore su dati Corriere Vinicolo):
Export totale 1° semestre 2012
Paese Euro/litro Litri % vs. 1° sem. 2011 Indice litri (Italia=100)
FRANCIA 5,09 700.700.000 6% 72%
USA 2,30 104.065.000 -9% 11%
ITALIA 2,14 973.482.317 -11% 100%
AUSTRALIA 2,00 337.816.607 4% 35%
CILE 1,90 343.114.261 17% 35%
ARGENTINA 1,80 228.854.341 30% 24%
SPAGNA 1,06 1.073.467.721 3% 110%
SUD AFRICA 181.500.118 10% 19%

Nota: per la Francia il dato riguarda solamente il vino in bottiglia e per il Sud Africa è disponibile il prezzi medio solo per il vino sfuso. Si è preferito quindi omettere il dato.

La situazione mi pare talmente evidente da non richiedere ulteriori commenti. Siccome però le medie spesso e volentieri ingannano, se analizzano i soli vini da tavola esportati in bottiglia il prezzo medio per l’Italia è di 1,37 €/litro, contro lo 0,89 della Spagna e l’1,01 della Francia.
C’è però un altro motivo, strategico, per cui non condivido la valutazione positiva di una riduzione della produzione di vino nelle fasce di prezzo più basse ed è la struttura a sistema del vino italiano. Senza voler qui entrare in discussioni dottrinali sulla teoria economica aziendale dei distretti/reti/cluster, il fatto che il vino italiano sia un sistema significa che i diversi elementi che lo compongono sono connessi funzionalmente ed organicamente a formare un tutto unitario. Quanto meglio connessi in termini organici e funzionali, ma anche quanto competitivamente più forti i singoli elementi, e tanto più solido l’intero sistema.
Spesso riferendosi al settore del vino italiano in termini qualitativi si fa riferimento al modello della piramide. Adottando questo modello per raffigurare il sistema del vino italiano, dove gli strati inferiori sono anche i più grandi in termini quantitativi, potremmo dire che una riduzione della base d’appoggio porterà, nel medio termine, ad una maggior instabilità anche agli strati superiori, su su fino al vertice.
Il rischio di indebolimento dell’intero sistema è dovuto a fattori operativi che riguardano sia la domanda (estera) che l’offerta.
Dal lato della domanda dobbiamo ricordare che il valore attribuito da un consumatore ad un vino è scarsamente legato ai sui costi di produzione. Conseguentemente un’impennata del costi del vino da tavola come quella che si sta verificando con la vendemmia 2012, a fronte di una qualità del prodotto sostanzialmente equivalente, rischia di far uscire i vini italiani dal paniere di scelte della fasce di consumatori che l’hanno acquistato fino ad oggi. D’altra parte la domanda di vini con quel livello di prezzo e di qualità continuerà ad esistere, indipendentemente dalla nostra riduzione di disponibilità e conseguente aumento dei prezzi all’origine, e, in nostra assenza, sarà soddisfatta dai nostri concorrenti internazionali.
Inoltre la capacità di un offerta che copra le diverse fasce di mercato è un importante fattore competitivo nei rapporti con importatori e distributori, sia per iniziare che per sviluppare i rapporti commerciali. Detto in parole povere se comincio a servire un importatore cinese con un container di vino da tavola, poi potrò mandargli anche una campionatura di vino IGT e/o DOC. Se non sono competitivo con il vino da tavola, ed il container lo manda una cantina spagnola, ecco che la campionatura successiva sarà di Tempranillo. Sempre che la fornitura non si sia persa in partenza perché il cliente cinese voleva da subito sia il vino da tavola che quello di livello superiore.
L’alternativa che rimane alle cantine per non perdere le posizioni conquistate e continuare a sviluppare nuovi affari in grado di compensare il calo sul (colpevolmente trascurato) mercato nazionale, è quella di ridurre i margini (come sembra confermare un’analisi di Baccaglio sul suo blog “I numeri del Vino”). Alla il valore aggiunto del sistema vitivinicolo rischia di rimanere invariato nel breve periodo, con un rischio di indebolimento competitivo nel periodo medio-lungo.
Il calo della produzione vitivinicola italiana implica degli svantaggi competitivi anche sul fronte dell’offerta, perché riduce le economie di scala e le curve di apprendimento dell’intero settore.
E’ evidente che ad una minore produzione consegue un minor sfruttamento degli impianti e quindi un minore ammortamento degli investimenti.
Meno ovvio, ma altrettanto vero, che una riduzione della dimensione del sistema rischi di rendere meno competitivi in termini di costi e produttività tutti i servizi, nel senso ampio del termine, utilizzati nelle diverse fasi della filiera. Dalle professionalità a tutti i livelli, dagli operai in vendemmia, agli agronomi, agli enologi, ecc.., ai macchinari ed i prodotti per l’enologia e l’imbottigliamento si tratta di comparti in cui l’Italia è ai massimi livelli mondiali e che quindi giocano un ruolo chiave per la competitività delle nostre aziende. Tanto per le grandi come per le piccole, per quelle di eccellenza e per quelle di massa.
Che l’aumento del costo delle uve determini una miglior valorizzazione globale del vino italiano è un’ipotesi con deboli fondamenti analitici e tutta da dimostrare nella realtà. Ma se anche fosse, perseguire un aumento del valore unitario delle esportazioni attraverso una riduzione della produzione quando lo scenario mondiale è di crescita dei consumi di vino, significa, in un’ottica di sistema, pianificare il proprio declino.
La valorizzazione del vino italiano va perseguita invece attraverso la definizione e l’affermazione di un suo posizionamento chiaro, specifico e differenziante, che faccia da ombrello alla pluralità dell’enologia italiana.

4 thoughts on “Viribus unitis – ancora sul sistema del vino italiano

  1. Quello che si comincia a vedere fino da ora è un impennata dei prezzi all’origine, alla quale NON corrisponde un aumento della qualità del prodottp. In questa fase molti sono indaffarati a comprare a caro prezzo dei vini che non lo valgono, solo per non perdere quote di mercato nei rispettivi mercati. L’ostacolo principale sarà far accettare un aumento di prezzo ai distributori, ma sopratutto ai consumatori, a fronte semplicemente della ragione che si è prodotto poco. Piuttosto scontata la reazione del consumatore, specialmente estero, che molto probabilmente alzerà le spalle e passerà allo scaffale successivo, magari quello del vino sudafricano o australiano (spesso molto piu’ fornito dei nostri già in partenza).
    Il fatto più grave è che questa diminuzione di produzione, al netto degli eventi climatici, non è frutto di scelta libera da condizionamenti che non siano puramente di natura imprenditoriale, ma è stata incentivata fortemente dalle autorità pubbliche a livello italiano ed europeo, sostenuta da lobbies agricole e gruppi di pressione di varia natura e, soprendentemente, ma anche molto astrattamente in attesa di vedere i prezzi salire, anche dai consumatori italiani.
    Male, molto male. Non si vuole slegare la vitivinicultura da questi legacci, non la si vuole impresa adulta e responsabile in una economia globale.
    Se si vogliono migliorare i margini, non lo si può (più) fare con la diminuzione dell’offerta, in un mercato che può attingere dal mondo, ma solo dal miglioramento della qualità (qualunque cosa si intenda per essa) e dalla sua promozione. Si lo so, è più difficile, ma altre strade sono illusioni.

  2. Caro Gianpaolo, sottoscrivo ogni parola e ringrazio per la sintesi con cui hai espresso un concetto cruciale.

  3. Buonasera, buona analisi, complimenti all’autore. Volevo aggiungere un paio di considerazioni, una contingente, copio qui i dati dell’ultimo trimestre cinese http://www.uiv.it/corriere/cina-italia-scavalcata-da-spagna-e-cile, visto che era citato nell’articolo, cosache puntualmente si sta verificando. Mi piacerebbe conoscere l’opinione dell’autore sul comportamento tenuto dalla cooperazione in queste settimane frnetiche di listini al rialzo, con annessa tentazione di cannibalizzazione della parte privata: mi pare ci siain giro molta volglia di vendere sfuso a prezzo dell’oro e poi svendere sulle bottiglie. Con queste operazioni, diventa un po’complicato per chi compra e rivende in bottiglia stare al passo coi mercati.
    Terzo, legato a questo ultimo tema: ieri ero a roma all’assemblea della cooperazione, sono rimasto uno impresionato dalla potenza di fuoco delle idee e della determninazione a pesare sempre di piu a tutti i livelli, non solo quello dei numeri produttivi. A colloquio con luppi, presidente di legacooop, mi ha fatto una ottima disamina di come il sistema agroalimentare dovrebbe essere supportato a livello politico: non piu ragionare per “agricoltura” in generale, ma per filiere, ovvero ogni filiera ha delle specificita che necessitano misure su misura, perdonate il gioco di parole.quindi, se l’obietivo della filiera vino ė competere meglio sui mercati, siattivino strategie tarate su questo, che a cascata porterebbero beneficioa tutti, fino al viticoltore. Tutto condivisibile, ma alla luce di quanto detto poc’anzi, mi pare che nella componente cooperativa oggi piu che il concetto di filiera stia prevalendo quello di rivalsa su quanto patito negli anni delle eccedenze produttive.
    Scusate gli errori, ma sui tasti dell ipad faccio ancora una fatica boia.

  4. Caro Flamini, grazie dei complimenti. Il motivo per cui quando mi occupo di vino mi limito ad analisi generali del settore è per evitare il tipo di domande che mi pone. Sono domande a cui mi viene scomodo rispondere per rispetto ai colleghi/concorrenti ed alla riservatezza necessaria nei confronti della mia azienda. Inoltre non ho certo i titoli per rappresentare il mondo cooperativo.
    Non voglio comunque filarmela all’inglese e quindi ecco come la personalmente.
    Non vivo questa contrapposizione cooperazione-aziende private. Sarò un ingenuo o solamente un’ignorante, ma non so se esiste e se esiste non mi interessa saperlo perchè è sicuro che va superata per lavorare meglio tutti. Se entro in argomento viene fuori un nuovo post. Mi limito a rimandare al convegno che organizzai nel 2011 in Santa Margherita insieme a Vinitaly sulla co-opetizione.
    Sempre personalmente, tanti anni fa, quando ancora facevo il ricercatore di economia agro-alimentare, agli imprenditori privati che si lamentavano dei vantaggi di cui godeva la cooperazione mi veniva da dire che potevano averli anche loro se erano disposti a stare in un’azienda dove non contava lo stesso il socio con 1 azione e quello con 1.000. Ai cooperatori che si lamentavano di non poter perseguire le strategie di sviluppo desiderate per i limiti di capitalizzaizone mi veniva da dire che se uno vuole fare il capitalista deve avere, per definizione, il capitale.
    Ma ero solo un giovane ricercatore e me ne stavo zitto e buono (quasi).
    Per quanto riguarda il discorso dei prezzi, già da prima di lavorarci, sapevo che nel settore del vino ci sono tutti i prezzi e, come diceva un mio AD e proprietario di salumificio, ogni giorno ci sarà qualcuno che vende a meno di te. Tralasciando le truffe, che devono essere provate altrimenti è più serio tacere, si tratta di una dinamica legata alla frammentazione del settoree quindi all’eterogeineità delle situazioni puntuali in cui si trovano le aziende. Sinceramente non mi pare che l’aggressività sui prezzi sia maggiore da parte delle cooperative rispetto ai privati.
    La frammentazione produttiva e l’inelasticità della produzione tipica del settore agricolo sono le principali cause delle forti oscillazioni dei prezzi del vino sfuso. Essendo l’offerta di ogni vendemmia sostanzialmente fissa, il prezzo viene determinato dalla domanda.
    So per scienza ed esperienza che una gestione dei prezzi dello sfuso che calmierasse i picchi in alto ed in basso renderebbe più semplici le strategie di sviluppo dei prodotti e dei marchi sui marchi, ma sono anche cosciente che la concorrenza è il meccanismo su cui si basa la distribuzione del valore aggiunto nell’economia di mercato. Gli accordi inteprofessionali credo sia un buon esempio di corretta alterazione della concorrenza.
    Comunque se il vino sembra difficile, consiglio di non lavorare nel settore della carne suina: c’è stato un anno in cui ho dovuto fare 4 adeguamenti di listino.
    Tornando al vino, che nel 2012 ci sia scarsità di vino in tutta Europa in generale ed in Italia in particolare è cosa nota, da cui gli aumenti dei prezzi dei vini sfusi. Se e quanto arriveranno sul mercato del vino in bottiglia dipenderà dalle scelte che farà ogni azienda in relazione ai propri mercati. Mantenere la marginalità aumentando i prezzi, con il rischio di perdere quote di mercato o comprimere i margini per ridurre la perdita/mantenere/accrescere i volumi? Ogni azienda darà la risposta che ritiene più opportuna.
    D’altra parte due anni fa Pedron (a proposito il GIV è parte privata o cooperativa?)e Baccaglio recentemente hanno dimostrato come negli ultimi anni ci sia stato un trasferimento del valore aggiunto del settore verso le cantine, a scapito della fase agricola.
    E’ anche questione di cicli, ci sono fasi in cui rende di più il modello di business basato sull’acquisto e fasi in cui rende di più quello basato sulla produzione.
    A me alla fine quello che dispiace e preoccupa è che la perdita di superfice e relativa produzione, dovuta anche alla scarsissima remunerazione che l’uva ha avuto fino al 2010, difficilmente sarà recuperata, con conseguente indebolimento dell’intero settore perchè quando non ci sarà più uva le cantine non potranno più fare il vino.
    Anch’io mi scuso degli errori e dell’eventuale poca chiarezza di alcuni passaggi: la tastiera è normale, ma l’ora è tarda.

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