La nuova DOC del Pinot Grigio Delle Venezie: una partita perdente?

“Winner take nothing” è il titolo di dell’ultima raccolta di racconti pubblicata da Ernest Hemingway. Contiene alcuni dei racconti più cupi ed amari di Hemingway, nonché due tra i miei preferiti (“Mutamento al mare” e “Un posto pulito, illuminato bene”). Quindi forse non è un caso che sarebbe stato il titolo perfetto per questo post.

Breve premessa per mettere tutti in pari sui fatti che stanno alla base di questo post, soprattutto i lettori che non si occupano di questioni viti-vinicole.

Il pinot grigio è il vitigno di gran lunga più coltivato nel triveneto: oltre 10.100 ha di vigneto in Veneto (12% del totale), oltre 5.700 ha in Friuli Venezia Giulia (circa 25% del totale) e 3.000 ha in Trentino (circa il 30% del totale). La grandissima parte del Pinot Grigio Veneto è ad Indicazione Geografica Tipica (lo standard qualitativo LEGALE che sta al di sotto della Denominazione d’Origine), mentre in Friuli Venezia Giulia e Trentino prevale la DOC (chiedo venia, i dati precisi non li ho).

In buona sostanza il Pinot Grigio IGT è il vitigno che tiene in piedi (dà da mangiare) buona parte della viticoltura del Veneto, insieme al Prosecco (soprattutto nel Veneto Orientale) ed al sistema Valpolicella-Amarone nel Veneto Occidentale.

E lo fa dagli anni ’70 quando, grazie soprattutto a Santa Margherita (che si trova in Veneto, ma produce principalmente Pinot Grigio DOC Alto Adige e Valdadige), ha cominciato a diffondersi soprattutto nei paesi anglosassoni (USA, Canada e UK), tanto da diventare l’emblema del vino bianco italiano nel mondo.

Lo fa malgrado il sistema nella sua globalità abbia lasciato il Pinot Grigio abbastanza a se stesso, convinto già 10 anni fa che trattasse di una moda destinata ad esaurirsi. Dopo 25 anni, ci stava anche, ma il Pinot Grigio, testardo lui, invece ha continuato a crescere.

Lo fa bene, gratificando i viticoltori con fatturati per ettaro che non hanno eguali al mondo, soprattutto per una viticoltura di pianura che permette un’elevata meccanizzazione e quindi un considerevole contenimento dei costi rispetto alla viticoltura di collina. Non fatevi prendere dal romanticismo e non scandalizzatevi: la vendemmia meccanica è una necessità perché, anche volendo, oramai la manodopera per vendemmiare a mano non si trova più.

Qualche mese fa il sistema del vino triveneto a cominciato a discutere sulla necessità di gestire il marchio Pinot Grigio e questa discussione sta sfociando nella creazione di una nuova DOC del Pinot Grigio delle Venezie, i cui contenuti sono ancora in fase di discussione, che dovrebbe andare ad affiancare le attuali DOC trentine, venete e friulano-giuliane, che rimangono, ed a SOSTITUIRE le attuali IGT, che spariscono per il Pinot Grigio.

FINE DELLA PREMESSA

Non sapendo quali saranno i contenuti della nuova DOC farei meglio a starmene zitto, eppure io sostengo che anche chi sarà convinto di vincere in questa operazione non prenderà niente. Perché (oltre al fatto che sono un presuntuoso rompiscatole)?

Perché nella creazione della nuova doc ci sono solo due possibili alternative:

1)      si riducono le rese di produzione di uva / ha ad un livello di 150 q.li/ha (come l’attuale DOC Venezia)

2)      si mantengono rese vicine a quelle dell’attuale IGT (diciamo 180 q.li/ha rispetto ai 190 q.li/ha previsti dal disciplinare dell’IGT).

La prima opzione implica un significativo aumento del prezzo del prodotto che ho stimato in circa 0,25 euro a bottiglia alla cantina, pari ad aumento del 15%-20%. Il conteggio non ve lo esplicito per non annoiarvi, comunque tiene conto dei prezzi della borsa merci della CCIAA di Treviso per il Pinot Grigio IGT e Doc Venezia, considerando che con l’eliminazione dell’IGT si viene a perdere il recupero del supero di produzione di Pinot Grigio DOC come IGT (questa è una cosa da addetti ai lavori che spiego su richiesta).

Come si ripercuote questo aumento sul prezzo a scaffale dipende dalle caratteristiche della filiera nei diversi mercati. Diciamo che a spanne potrebbe causare un aumento di circa 0,50 euro a bottiglia sullo scaffale. Sicuramente porterà il prezzo minimo a scaffale oltre la soglia psicologica delle 4,99 sterline nei supermercati del Regno Unito e dei 6,99 $ negli USA.

Non credo che esista azienda al mondo che pianificherebbe un riposizionamento verso l’alto di questa entità di uno dei suoi marchi principali, a meno che non ci fosse costretta da cause di forza maggiore.

Considerando anche la quantità di vini alternativi, è presumibile una perdita di vendite a seguito dell’aumento di prezzo. Quanto?

Per dirlo con precisione bisognerebbe fare una ricerca che misuri la sensibilità al prezzo del Pinot Grigio delle Venezia da parte dei consumatori. Basterebbe farlo in USA ed UK, visto quanto pesano questi due mercati sul consumo totale di Pinot Grigio IGT e quindi non costerebbe nemmeno molto.

Io mi metto a disposizione per selezionare l’istituto, definire il piano di ricerca e seguirne la realizzazione.

Intanto butto lì una cifra spannometrica dicendo che vedo a forte rischio circa 25.000.000 di bottiglie, quello vendute con marchio dell’insegna di supermercato o comunque con etichetta esclusiva che competono a scaffale solamente sul prezzo e su cui nessuno ha interesse e risorse per investire in comunicazione.

La seconda opzione, quella di mantenere rese simili alle attuali, riduce l’aumento del prezzo a scaffale (attenzione però che se l’elasticità del consumatore al prezzo è elevata, anche una variazione minima del prezzo può avere effetti rilevanti sulle vendite), ma crea una DOC svilita e svilente.

I nostri interlocutori sui mercati esteri non sono degli sprovveduti e vedrebbero la nuova doc come un mero strumento per avere un controllo (cogente) sulla superfice piantata a Pinot Grigio, quindi in un certo senso per alterare il mercato a loro sfavore.

Inoltre una DOC con rese da 180 q.li/ha da un lato determinerebbe uno scadimento per l’istituto stesso della Denominazione d’Origine Controllata in generale e dall’altro metterebbe una ingiustificata pressione sui prezzi delle altre DOC trivenete del Pinot Grigio che, con produzioni ad ettaro inferiori, si vedrebbero messe sullo stesso piano, almeno formalmente.

Anche il consumatore, che non dimentichiamo sta premiando l’attuale profilo e livello qualitativo del vino, si troverà come minimo confuso davanti ad un nuovo vino doc che avrà sostanzialmente le caratteristiche organolettiche del vecchio IGT. Probabilmente si sentirà anche defraudato di fronte alla promessa di miglior qualità implicita nella DOC e scarsamente mantenuta

Se poi la nuova DOC dovesse riguardare solamente il Pinot Grigio, come pare probabile, ecco che il senso della DOC come zona di origine specificatamente vocata e caratterizzante perde totalmente di senso (per amor di brevità e focalizzazione non voglio qui entrare nel tema per cui una DOC si giustifica solamente per l’esigenza di tutela del consumatore, altrimenti stiamo parlando di strategie di valorizzazione che dovrebbero essere perseguite con altri strumenti).

Tertium non datur?

Secondo me anche no. Però serviva un approccio e strumenti nuovi, diversi dal solito, eterodossi che sparigliassero partendo dal mercato e non dalla logica monopolista di controllo dell’offerta.

Rispettando gli i consumatori che ci hanno voluto (e fatto) del bene fino ad oggi.

Difendendo e sviluppando la domanda, anche approfittando della ciclo mondiale che vede da qualche anno il ritorno dei vini bianchi rispetto ai rossi.

Sviluppando azioni promo-pubblicitarie sul marchio “collettivo” e “generico” (nel senso buono) Pinot Grigio IGT delle Venezie.

Tutte cose che avevo già scritto lo scorso agosto, ma che oramai probabilmente non servono a niente, superate dalle scelte che sembrano già fatte.

Pare infatti che abbia prevalso l’approccio dirigistico, nell’illusione che i sistemi economici (mercati) obbediscano linearmente agli interventi di politica economica di chi spera (crede) di governarli.

Si governano (forse) le aziende, non le marche (che invece si gestiscono).

Aspetto di vedere la proposta del nuovo disciplinare (per essere smentito).

Intanto se avessi due euro di diritti di impianto, correrei in Sicilia a piantare un vigneto di Pinot Grigio IGT.

 

Per soddisfare la domanda mancano almeno altri 100.000 hl di Prosecco DOC vendemmia 2013!

Sembra un destino che io mi ritrovi a scrivere di Prosecco ogni volta che smetto di lavorare per una cantina.
E’successo nel 2011 quando ho lasciato Santa Margherita e mi sono occupato (principalmente) del Prosecco Superiore DOCG Conegliano-Valdobbiane con questo post.

Succede oggi che sto per lasciare Bosco Viticultori e trattero (principalmente) del Prosecco DOC.
Quindi questo sarà un post totalmente enologico, ma con concetti che riguardano la gestione delle Denominazioni d’Origine in generale, sia quelle degli altri vini che quelle di altre categorie di prodotto.

Sarà anche un post veramente lungo (… e se lo dico io), però anche veramente interessante (fidatevi).

Per permettere a tutti i lettori di capire e seguire l’analisi e le considerazioni che seguono è necessario una minima descrizione dell’antefatto, se però sieta già dentro alle dinamiche del comparto potete passare direttamente al fatto. Buona lettura.

Nel 2010 viene istituita la DOC del Prosecco che copre le province di Treviso, Venezia, Vicenza, Padova e Belluno in Veneto e quelle di Pordenone, Udine, Gorizia e Trieste in Friuli Venezia Giulia. in questo modo la parola “Prosecco” non identifica più un’uva ma un territorio originato dal paese di Prosecco in provincia di Trieste. A chi non si occupa di vino o di prodotti DOC può sembrare una piccola cosa, che tra l’altro crea confusione, ma è un passaggio fondamentale che impedisce a chiunque produca vino utilizzando uve “glera” (nuovo nome dato alle uve utilizzate per produrre Prosecco DOC) ovunque nel mondo di chiamare il suo vino “Prosecco”. Detto in altri termini, protegge il consumatore che quando compra “Prosecco” si aspetta un vino con determinate caratteristiche di trovare proprio quelle caratteristiche e non altre.

Nel 2011, a fronte del forte incremento di nuovi impianti di vigenti di glera nell’area della DOC, le Regioni Veneto e Friuli Venezia Giulia, su richiesta del Consorzio di Tutela, decretano il blocco di ulteriori nuovi vigneti, fissando il limite di 20.000 ettari complessivi piantati a glera (16.500 Ha in Veneto e 3.500 Ha in Friuli Venezia Giulia).
Sottolineo, per l’importanza che avrà nell’analisi successiva, che questa misura rende fissa l’offerta di Prosecco DOC non solo per ogni anno di vendemmia, ma anche per gli anni futuri. Di conseguenza il prezzo di mercato sarà determinato unicamente dalla domanda.

A fine agosto 2012, sempre giustamente su richiesta del Consorzio di Tutela, la Regione Veneto di concerto con la Regione Friuli Venezia Giulia, dispone lo stoccaggio del 10% del Prosecco dell’imminente vendemmia 2012, in modo da “tener sotto controllo la gestione dei volumi di prodotto messi in commercio, mantenendo un livello dei prezzi accettabile e stabilizzando così il funzionamento del mercato dei vini rispetto ad un prodotto che ha dimostrato di essere abbondantemente apprezzato in Italia e all’estero.” (il virgolettato riporta la dichiarazione dell’assessore veneto all’agricoltura Franco Manzato indicata nel comunicato stampa n.1461 emesso dalla Regione Veneto il 27-08-2012). Non entrerò nell’interessante tema dell’impostazione sostanzialmente da commodity ottocentesca per la gestione di mercato (marketing non è proprio un sinonimo) di un grande marchio collettivo di diffusione mondiale, perchè sarebbe una parentesi troppo lunga e complessa (però mi piacerebbe molto).

A febbraio 2013 l’andamento positivo delle vendite di Prosecco DOC portano allo sblocco del 10% di Prosecco DOC precedentemente stoccato. Un precedente interessante nell’ottica dell’analisi che seguirà.

A fine agosto 2013, sempre giustamente su richiesta del Consorzio di Tutela, la Regione Veneto di concerto con la Regione Friuli Venezia Giulia, dispone lo stoccaggio del 20% del Prosecco dell’imminente vendemmia 2013, con l’esclusione dei vigneti a conduzione biolgica.

A gennaio 2014 la Regione Veneto comunica i dati consuntivi della vendemmia 2013 che indicano per il Prosecco DOC una produzione di 2.591.831,68 q.li, pari ad un incremento del 14,43% rispetto alla vendemmia 2012. Al netto del prodotto stoccato la disponibilità di Prosecco DOC della vendemmia 2013 è quindi sostanzialmente la stessa di quella dell’anno precedente (lo so che è spannometrico, ma non preoccupatevi poi arrivano i numeri precisi).

Ad aprile 2014 Valoritalia, l’ente incaricato di certificare la produzione e gli imbottigliamenti di numerosi vini DOC, tra cui il Prosecco, pubblica sul suo sito che gli imbottigliamenti del primo trimestre del 2014 sono del 22% superiori a quelli dello stesso periodo del 2013. Anche qui a spanne si può intuire che, se questa tendenza si dovesse mantenere anche nei mesi successivi, per soddisfare la domanda bisognerà sbloccare TUTTO il Prosecco stoccato (come si è già verificato nel 2013).

Il 7-05-2014 diverse testate pubblicano la notizia che durante la prossima assemblea generale dei soci del Consorzio del Prosecco DOC, il Consiglio di Amministrazione proporrà di estendere il blocco degli impianti di nuovi vigneti fino almeno al 2017 e di stoccare il 20% della produzione della vendemmia 2014 (ricordo che il 20% è la quantità massima stoccabile secondo l’attuale legislazione). Negli articoli si aggiungeva che non sivedeva necessità di calmierare il mercato sbloccando parte del Prosecco 2013 stoccato e che l’attuale aumento del 30% delle richieste di certificazione dimostrava la bontà della strategia adottata dal consorzio per stabilizzare i prezzi.

Il 9-05-14 durante l’assemblea generale dei soci del consorzio del Prosecco DOC vengono presentati i dati a sostegno della richiesta di mantenimento del blocco di tutti i 341.000 hl di prodotto stoccato. Sostanzialmente si considera che il Prosecco della vendemmia 2014 potrà essere già disponibile per l’imbottigliamento a partire dal 1 ottobre 2014 (mentre nel 2013 gli imbottigliamenti della nuova annata sono iniziati a novembre) quindi, prevedendo i volumi necessari da aprile a settembre 2014 sulla base della media dei 12 mesi da aprile 2013 a a marzo 2014 (quindi facendo previsioni basate sui dati consolidati del passato e non sulla tendenza in atto), l’attuale disponibilità di 1.800.000 hl totali di Prosecco DOC vendemmia 2013 viene ritenuta sufficiente.

Nel settore cominciano a manifestarsi situazioni paradossali di aziende vitivinicole, che svolgono l’intero ciclo produzione del vino sfuso-spumantizzazione-imbottigliamento, pur disponendo di prodotto stoccato non possono utlizzarlo e sono costrette a comprarlo sul mercato, con difficoltà a reperirlo (senza contare dell’aggravio dei costi per lo stoccaggio, l’acquisto del prodotto da terzi e l’impossibilità di garantire la medesima qualità rispetto al vino prodotto dai propri vigneti). Direi un chiaro segnale di carenza di Prosecco DOC rispetto alla domanda.

Dal 20-05 al 10-06, per quattro sedute consecutive, la borsa merci di Treviso non ha quotato il prezzo del Prosecco DOC. Segno inequivocabile della carenza di Prosecco DOC e del blocco del mercato causato dalle decisioni del Consorzio.

Il 12-06-2014 il Consorzio di Tutela pressato ha richiesto alle regioni competenti lo sblocco di oltre 100.000 hl di Prosecco DOC precedentemente stoccati. Dal comunicato stampa emesso in seguito: “Parte oggi dal Consorzio di tutela Prosecco doc la richiesta ufficiale di destoccaggio diretta alle Regioni del Veneto e del Friuli Venezia Giulia sulla scorta della decisione assunta lo scorso giovedì 12 giugno dal proprio Consiglio di Amministrazione che ha deliberato lo svincolo di oltre 100.000 ettolitri di vino atto a divenire Prosecco DOC. La quota così liberata, pari al 5,1 % della produzione totale, in parte prudenzialmente stoccata con la vendemmia 2013, va a soddisfare la crescente domanda di prodotto e consentirà ai produttori di immetterla nel mercato come Prosecco doc con miglior remunerazione”.
Il presidente Stefano Zanette commenta così: “Si tratta di un’ulteriore conferma del trend positivo di vendita del Prosecco doc che spicca in un contesto di contrazione generalizzata dei consumi. Alla vigilia della vendemmia 2013 il pronostico più ottimistico auspicava l’assorbimento, da parte del mercato, dell’intera nuova produzione, tenendo conto che si prevedeva aumentasse nella misura di almeno il 10% rispetto all’annata precedente. Oggi possiamo dire che non solo l’obiettivo è stato raggiunto ma addirittura superato. Quindi circa un terzo (29,3%) del prodotto stoccato nella logica di gestire il delicato equilibrio tra domanda e offerta che determina il valore dei beni, viene svincolato a significare che le politiche di governance attuate dal Consorzio vanno nella giusta direzione”.

. Ora vorrei sottolineare come sia lo stesso Direttore del Consorzio ad indicare come la domanda di Prosecco DOC stia aumentando oltre il 10%, intuitivamente quindi sorgono già dei dubbi su come possa essere soddisfatta liberando solo il 5% (a meno che non entrino in gioco le scorte, ma, come già detto, tra un po’ metto in fila tutti i numeri).

Il 19-06-14 durante un convegno dedicato al comparto del Prosecco (DOC e DOCG) nell’am ito della manifestazione “Enovitis” a Ca’ Tron” viene presentato il dato tendenziale di +27% degli imbottigliamenti di Prosecco DOC nel 2014 rispetto al 2013.

FINE DELL’ANTEFATTO ED INIZIO DEL FATTO
Il fatto, dimostrato dai numeri, è molto semplice: sul mercato c’è carenza di Prosecco DOC rispetto alla domanda, quindi mantenre lo stoccaggio (di parte) del Prosecco DOC della vendemmia 2013 è una misura, inutilmente costosa, distorsiva del mercato e strategicamente rischiosa per l’affermazione e lo sviluppo del prodotto sui mercati.

Ecco il calcolo della disponibilità e dei fabbisogni di Prosecco DOC a partire da novembre 2013 (inizio degli imbottigliamenti con la nuova annata) fatto sulla base dei numeri forniti dal Consorzio di Tutela:

DISPONIBILITA’ PROSECCO DOC A NOVEMBRE 2013 (dati in hl)
giacenza Prosecco DOC vendemmia 2012 al 31-10-2013 (dati Consorzio) 85.000
produzione vino atto a prosecco DOC vendemmia 2013 (dati Consorzio) 2.141.000
vino stoccato decreto Regione Veneto n.35 del 22-08-2013 (dati Consorzio) -341.000
vino liberato con decisione Consorzio del 12-06-14 100.000
disponibilità vino atto a prosecco DOC vendemmia 2013 1.900.000
TOTALE DISPONIBILITA’ PROSECCO DOC A NOVEMBRE 2013 1.985.000

PREVISIONE FABBISOGNI PROSECCO DOC IMBOTTIGLIAMENTI NOVEMBRE 2013 – SETTEMBRE 2014 (dati in hl)
imbottigliamenti novembre 2013 -marzo 2014 (dati Consorzio) 801.000
tendenza imbottigliamenti 2014 su 2013 (convegno Enovitis 19/06/14) 27%
imbottigliamenti aprile-settembre 2013 (dato Valoritalia) 933.560
stima imbottigliamenti aprile-settembre 2014 1.185.621
TOTALE PREVISIONE FABBISOGNI FINO A SETTEMBRE 2014 1.986.621

DIFFERENZA DISPONIBILITA’ – FABBISOGNI FINO A SETTEMBRE 2014 (dati in hl) -1.621

I conteggi non sono niente di sofisticato (aritmetica elementare: “+”,”-”, “/”, “x” e “%”). L’unica differenza rispetto all’analisi fatta dal Consorzio è che i fabbisogni aprile-settembre 2014 sono stati calcolati secondo un approccio da “aspettative razionali”, incrementando il dato dello stesso periodo del 2013 in base alla tendenza attuale e non applicando in modo lineare la media del passato.

A prima vista il risultato dell’analisi può dare l’impressione che il comparto sia in sostanziale equilibrio, come l’ha data a me la settimana scorsa. Ma effettivamente una disponibilità di 1.621 hl inferiore alla domanda (sempre che questa non accelleri ulteriormente durante l’estate) in un comparto come quello del Prosecco DOC significa una grandissima tensione sul mercato. Nessuno penserebbe di portare la propria cantina a scorta zero; immaginare di portarci l’intero comparto è … impensabile.

Innazitutto bisogna considerare che non stiamo parlando di mercato di prodotti finanziari ma di un prodotto fisico, quindi per incontrare domanda ed offerta bisogna che effettivamente tutto il vino disponibile nelle oltre 1.000 cantine vinificatrici si sposti nelle oltre 300 cantine di frizzantatura/spumantizzazione.

Questo non succederà perchè i 100.000 hl liberati sono frammentati nella varie cantine vinificatrici nell’ordine del 5,1% della loro produzione 2013. Considerato che un’autocisterna trasporta 300 hl, non sarà nè tecnicamente possibile nè economicamente conveniente ritirare i 10, 15, 20 hl che si sono liberati. Inoltre le cantine che realizzano entrambe le fasi potranno decidere di non vendere il vino sfuso eccedente ai loro immediati fabbisogni per evitare il rischio di non poter fronteggiare un aumento della domanda da parte dei loro specifici clienti oppure per sfruttare il vantaggio competitivo, artificiosamente creato, di poter disporre del prodotto.

Ma anche se succedesse, chi vorrà essere la cantina che dovrà dire ai propri clienti che gli mancano 1.621 hl (ossia 216.000 bottiglie). Nessuno. Ecco quindi che il prezzo del Prosecco DOC sfuso crescerà man mano che ci si avvicinerà al 30 settembre, o all’esaurimento della disponibilità di prodotto (si tratta di una modifica dell’utilità marginale del prodotto per il produttore, ma non voglio diventare troppo teorico).

Se lo scenario descritto fin qui vi sembra abbastanza fosco, io vedo un rischio ancora maggiore: è tecnicamente impossibile imbottigliare Prosecco DOC spumante annata 2014 a partire dal 1 ottobre 2014!

La vendemmia del prosecco è prevista per fine agosto, per produrre un prosecco spumante sono necessarie almeno 4 settimane a cui ne va aggiunta un’altra per le procedure di certificazione. Di conseguenza, anche facendo partire la spumantizzazione da mosto (su questo punto torno tra un attimo) non si potrà avere il prodotto pronto per l’imbottigliamento prima del 6 di ottobre. Tenuto conto che una cantina organizzata efficentemente programma gli imbottigliamenti con un certo anticipo, quindi dei vini che è sicura di poter imbottigliare, quest’anno le cantine di spumantizzazione dovranno decidere se trovarsi senza Prosecco per due settimane oppure programmare l’imbottigliamento “alla cieca” con l’eventualità di trovarsi senza vino da imbottigliare se la fermentazione o la certificazione richiedono qualche giorno in più del previsto.

“… anche facendo partire la spumantizzazione da mosto”: frizzantare o spumantizzare Prosecco DOC da mosto anzichè da vino è previsto dal disciplinare di produzione, ma è l’eccezione piuttosto che la norma tra le cantine produttrici. Di conseguenza le politiche di stoccaggio adottato dal Consorzio stanno forzando le cantine ad adottare una pratica non tradizionale, su cui possono avere esperienza e competenza limitate. Meno male che in Italia vige l’economia di mercato basata sulla libera concorrenza, perchè nei fatti a me questa situazione ricorda tanto il dirigismo dei piani quinquiennali sovietici. E non voglio nemmeno considerare la teorica forzatura ad accorciare i tempi di spumantizzazione, con relativo impatto sulla qualità del prodotto finito, perchè mi fido della serietà delle cantine produttrici.

Aggiungo che tutti questi ragionamenti, i miei come quelli del Consorzio, sono fatti partendo dal presupposto di anticipare il cambio annata di un mese rispetto a quanto avvenuto nel 2013. Questo anticipo non è giustificato da un anticipo della venedemmia, che sarà realizzata sostanzialmente nello stesso periodo dell’anno scorso, e crea una carenza di Prosecco DOC nel periodo più critico dell’anno. Nel 2013 settembre ed ottobre sono stati i mesi con i maggiori volumi di imbottigliamento dopo luglio, quando le cantine imbottigliano le scorte per le spedizioni del mese di agosto, con circa oltre 180.000 hl al mese. Oltre al rientro dalle vacanze, per il mese di settembre, questo è dovuto al fatto che sono i mesi in cui si realizzano le spedizioni sui mercati esteri per le vendite di fine anno (ricordo che il Giorno del Ringraziamento quest’anno cade il 13 ottobre in Canada ed il 27 novembre negli U.S.A.).

Canada, USA, Cina o Regno Unito non sono mercati dove si possa operare con la stessa flessibilità logistica dell’Italia.

Invito a riflettere sulle conseguenze nell’affermazione del Prosecco l’effetto che può avere costringere una catena di supermercati americana a cancellare la promozione del Prosecco prevista per il Giorno del Ringraziamento (non voglio nemmeno considerare la pazzia di pianificare la promozione e poi non avere il prodotto sugli scaffali) o un importatore cinese a non avere il prodotto disponibile per fine anno.

Segnalo che stimando un volume di imbottigliamento di Prosecco DOC in ottobre 2013 di 185.000 hl e applicando l’attuale trend di +27% si può prevedere un volume di imbottigliamento per ottobre 2014 di circa 235.000 hl, pari al 97,5% dell’attuale stock di Prosecco DOC annata 2013. La mia stima dell’imbottigliamento complessivo di Prosecco DOC da novembre 2013 ad ottobre 2014, periodo fisilogicamente corretto di imbottigliemento dell’annata, sarebbe quindi di 2.200.000 hl.

Dalle voci di mercato pare la decisione di anticipare il cambio annata risponda all’obiettivo di “consumare” una quota maggiore di Prosecco vendemmia 2014 nell’anno in corso, in modo da equilibrare la maggior produzione prevista quest’anno. Anno in cui anche i vigneti piantati per ultimi raggiungeranno il massimo produttivo consentito dal disciplinare.

Vediamo quindi quant’è la produzione MASSIMA 2014 prevista dal Consorzio, utilizzando sempre i dati presentati durante l’assemblea generale dei soci dello scorso 9 maggio:

Totale Prosecco DOC: ettari: 20.000 ettolitri: 2.720.000

Veneto+ superi DOCG: ettari: 16.500 ettolitri: 2.088.000 produzione media per ettaro: 126,5 hl

Friuli Venezia Giulia: ettari: 3.500 ettolitri: 466.000 produzione media per ettaro: 133,1 hl

Complementari: ettari: 1.400 ettolitri: 166.000

Ora, tralasciando il fatto che non mi spiego la differenza di produzione media/ettaro tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, applicando alla produzione MASSIMA prevista per il 2014 lo stoccaggio del 20% già deciso si ottiene una disponibilità di Prosecco DOC pari a 2.176.000 hl.

Si tratta di una quantità inferiore alla mia previsione di 2.200.000 hl imbottigliati tra novembre 2013 ed ottobre 2014 spiegata in precedenza. Ecco quindi che un semplice MANTENIMENTO degli attuali volumi di vendita sarebbe sufficiente ad assorbire tutta la produzione 2014, al netto dello stoccaggio.

Ricordo che la produzione massima rimane per definizione un valore teorico che non può mai essere effettivamente raggiunto, quantomeno per le fallanze di piante in vigneto e per la superfice coltivata a biologico che non raggiunge i livelli produttivi massimi previsti dal disciplinare.

Se poi qualcuno mi spiega i motivi della differenza di resa per ettaro tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, mi toglie un tarlo che da qualche parte in tutta la mia analisi ci sia una falla che non riesco a vedere.

Basta? No non basta, perchè quando si adottano misure così drastiche e distorsive della concorrenza come lo stoccaggio del prodotto bisogna misurarne anche i costi e gli svantaggi.

Il declassamento a vino bianco da tavola dei 214.000 hl di Prosecco DOC 2013 ancora stoccati implica un costo per il comparto di oltre 19.000.000 di euro. Ecco il conteggio:

Prezzo medio 2014 euro/litro Prosecco DOC Borsa Merci Treviso: 1,15
Stima prezzo euro/litro vino bianco da tavola: 0,35
Perdita euro/litro vendita vino atto Prosecco DOC come bianco tavola: -0,80
Hl vino atto Prosecco DOC 2013 stoccati: 241.000
Perdita complessiva vendita vino atto Prosecco DOC 2013 come bianco tavola (euro):-19.280.000

Con i dati a disposizione si può anche calcolare qual’è il prezzo medio a cui si sarebbe dovuta vendere tutta la produzione della vendemmia 2013 per ottenere lo stesso incasso totale per il comparto. Per brevità vi risparmio il conteggio: il prezzo medio è di 1,06 euro/litro, ossia il 7,8% in meno rispetto al prezzo che siè verificato durante il 2014 (ho anche calcolato il valore di elasticità del prezzo all’offerta che porta al verifivarsi di questo prezzo, ma questo lo spiego solo se me lo chiedete).

Oltre alla perdita netta, il declassamento a vino bianco da tavola di 241.000 hl di vino atto a Prosecco DOC ha un’altra importante implicazione strategica: crea la base produttiva per 32.133.333 bottiglie di vino spumante/frizzante con un costo di produzione inferiore di circa il 35% rispetto al Prosecco DOC, ma con le stesse caratteristiche organolettiche.

Si tratta di un volume pari al 12,6% del Prosecco DOC 2013 totale che qualche turbativa di prezzo in qualche mercato la creeranno sicuramente.

QUINDI, CHE FARE?
Non sarebbe serio avervi tenuto tutto questo tempo a seguire un’analisi critica delle strategie di governo del comparto del Prosecco DOC senza proporre SINTETICAMENTE delle soluzioni.

Secondo me bisogna:

1) liberare subito almeno altri 100.000 hl di vino atto a Prosecco DOC per calmierare effettivamente il mercato (io personalmente libererei tutto per dimostrare la forza del comparto). Fino ad oggi il Consorzio si è preoccupato che il prezzo del vino sfuso non scendesse troppo, ma adesso c’è il rischio che salga rapidamente. Consideriamo anche il ritardo di 3/4 settimane con cui il mercato recepisce le variazioni di disponibilità del prodotto e rischiamo di trovarci a ridosso della vendemmia con prezzi elevati. Ricordo che nel 2011 prezzi intorno ad 1,40 – 1,50 eruo/litro hanno portato il prezzo a scaffale del Prosecco DOC frizzante nei discount tedeschi oltre il prezzo psicologico di 1,99 euro/bottiglia, causando un crollo delle rotazioni perchè i consumatori, oltre un certo differenziale di prezzo, hanno sostituito il Prosecco DOC con vini frizzanti generici/IGT.

2) realizzare delle ricerche che determinino il comportamento e gli atteggaimenti dei consumatori nei confronti del Prosecco DOC nei principali mercati di sbocco. Nell’ottobre 2011 ho pubblicato un post con il link alla ricerca svolta da Bosco Viticultori sull’atteggiamento del consumatore USA nei confronti del Prosecco DOC. Ad oggi è l’unica ricerca quantitativa sul consumatore riguardante il Prosecco DOC che abbia mai visto (il che non è positivo). Tra le indicazioni più significative risultava che oltre il 50% dei consumatori che conosceva il Prosecco anche solo per nome lo consumava. E’ una % elevatissima rispetto ad altri vini che conferma il grande appeal del prodotto. Risultava anche che solo il 50% dei cosnumatori di vino americani conosceva, anche solo per nome, il Prosecco, prefigurando un grande potenziale per le attività di comunicazione.

3) sulla base delle ricerche del precedente punto 2, concentrare le risorse consortili in un piano di comunicazione al consumatore in uno o pochi mercati obiettivo alla volta, per creare le basi che permettano di collocare l’intera produzione degli anni a venire e ne rafforzino il posizionamento d’immagine, sia per slegarne la percezione dall’eventuale basso prezzo di vendita che per ridurne la sostituibilità con prodotti concorrenti. Grazie ai fondi europei 700.000 euro negli USA diventano 1.400.000 ed è già una cifra che permette di fare un sacco di cose.

4) prevedere di valutare lo sblocco di una parte, anche solo il 2-3%, del prodotto stoccato nel primo trimestre del 2015 in modo da poter valutare le valutazioni sulla reazione del mercato ed intervenire in modo più graduale.

Questo in due parole il cosa, per il come io non ho più forse e, credo, neanche voi. Però dal 1 di settembre io sono disponibile come consulente.

Grazie, davvero, dell’attenzione.

Ha ragione Farinetti (?): ho visto il futuro (e non sono sicuro sia sostenibile).

Dunque riparto da dove ho finito la settimana scorsa.

L’opinione, qualificatissima, di Oscar Farinetti è che l’attuale ciclo economico durerà fino a all’affermazione di un nuovo modello socio-economico che sostituirà la società dei consumi. Nel frattempo la risposta più efficace sta nello sviluppo delle esportazioni e quindi suggerisce di puntare sui punti di forza del paese e quindi perseguire l’obiettivo di raddoppiare esportazioni e turisti per far uscire l’Italia dalla crisi (definendo le esportazioni come fornitura di beni e servizi a persone non residenti nel paese, il turismo diventa un’attività di esportazione all’interno dei confini nazionali).

Io questo futuro l’ho visto, anzi ci sono cresciuto dentro, e si chiama Venezia (ecco perchè dicevo che l’hanno visto anche molti di voi).

Non c’è dubbio che Venezia rappresenta uno dei maggiori giacimenti artistico-culturali italiani e mondiali (vorrei richiamare la derivazione della parola “giacimento” da “giacere” e quindi la sua intrinseca staticità).

Venezia quindi rappresenta un ottimo caso di studio degli effetti della concentrazione economica sull’esportazione (in questo caso il turismo). Malgrado sia evidente che rappresenta una punta estrema della visione farinettiana (e magari Farinetti, a buon diritto, non sarà da’accordo) è bene ricordare come lo sfruttamento “industriale” del giacimento artistico-culturale veneziano sia relativamente recente e presenti quindi ulteriori spazi di crescita.

Per una volta non cito dati oggettivi ma mi affido ai ricordi personali: trent’anni fa in Rio Terà San Leonardo (tragitto turistico dalla stazione a Rialto) c’erano le bancarelle come oggi, ma erano di frutta e verdura e non di souvenir, sulla Riva degli Schiavoni erano ormeggiati i rimorchiatori della Panfido (malgrado in bacino non passassero le grandi navi), in Punta della Dogana al posto del museo di Pineault c’erano le sedi delle società sportive ed io a Parigi mi stupivo dei bateaux-mouches pensando che a Venezia, con molte più vie d’acqua e molto più da vedere, non c’era niente di simile.

Non si tratta della solita nostalgia dei cinquantenni che appestano fb con i loro ricordi, sono esempi di come sia cambiata la struttura economica verso le attività dedicate al turismo (d’altra parte se trentanni fa arrivando al Colosseo avessimo visto delle persone vestite da antichi romani avremmo chiesto che film stavano girando).

La dimostrazione che lo sfruttamento intensivo del turismo è relativamente recente lo dimostrano gli spazi ancora inesplorati in questo senso, ad esempio il progetto Veniceland.

Il punto oggi non è chiedersi (lamentarsi) se Venezia avesse potuto seguire altri percorsi, troppo difficile ed oramai troppo inutile. La cosa interessante è guardare il caso veneziano e chiedersi se un’economia basata in larghissima misura sull’esportazione è economicamente e socialmente sostenibile.

La popolazione residente del centro storico veneziano, passata dai 95.222 abitanti del 1980 ai 58.991 del 2011 (-38%).
Questi trend demografici sembrano suggerire che lo sviluppo del turismo non è stato in grado di compensare il declino delle altre attività economiche per la società veneziana nel suo complesso.

Io personalmente dubito che riuscirà a farlo in futuro perchè il limite all’ulteriore crescita del turismo è dato dal senso senso di estraneità che crea. Quanto si può sfruttare un giacimento turistico prima che si esaurisca, se non viene rinnovato dalla società a cui appartiene (e qui società potete intenderlo sia in senso di commerciale di azienda che di società umana).

Oramai non sono solo i (pochi rimasti) veneziani a lamentarsi che Venezia è diventata talmente artificiale da sembrare (essere!) un parco di divertimenti: lo dicono anche i turisti. Continueranno a venire o ad un certo punto alla Dineyland di Venezia preferiranno la Venezia della Dineyland (sicuramente meglio organizzata, fruibile, divertente ed economica).

Se avessi i soldi per costruire Veniceland non lo farei a a Venezia (più scomodo, più costoso ed in diretta concorrenza con le pietre originale per un mercato che ha fretta), la costruirei da qualche parte sulla costa meridionale della Cina.

Solito gustafeste? Forse, però la questione Grandi Navi può essere un segnale. E’(ra) una delle ultime frontiere dell’intensificazione dello sfruttamento del giacimento veneziano, rappresenta una fonte importante di presenze ed ha rilanciato l’economia del porto. Ma ha creato il corto circuito per cui io crocerista che godo della vista di piazza San Marco dal ponte della nave che entra in porto, quando poi mi trovo in piazza San Marco sono infastidito dal passaggio della nave successiva.

Alternative? Più che in come produrre più valore aggiunto si entra nell’ambito della sua definizione, misurazione e distribuzione. Si torna al primo punto della sintesi che ho fatto la settimana scorsa del pensiero di Farinetti. Per riprendere la parole di Balasso nel suo discorso di Capodanno (minuto 2:20, se volete risparmiavi il turpiloquio) “… il problema non è l’assenza di lavoro, ma l’assenza di stipendio …”.

Sto leggendo “Perchè le Nazioni Falliscono”. I due autori riportano che l’unico caso in cui l’introduzione di una tecnologia migliore non ha portato ad un aumento della produttività delle persone è stata l’introduzione dell’ascia di acciaio nelle comunità degli aborigeni australiani (una delle civiltà più antiche del pianeta). L’effetto è stato invece un aumento delle ore di sonno grazie al tempo risparmiato con la nuova ascia per procurarsi la stessa quantità di legna necessaria.

Per il 2014 vi auguro di dormire, e quindi sognare, di più.

Ha ragione Farinetti (?)

Finalmente scrivo questo post che mi frulla in testa dallo scorso 6 ottobre, giorno dell’intervista di Oscar Farinetti alla trasmissione “Che Tempo Che Fa”, è che ho più volte annunciato in alcuni post scritti nel frattempo.
Le ragioni di questo ritardo, che confermano la caratteristica/tradizione di biscomarketing come blog “freddo”, sono diverse: la vastità del tema ed il rispetto dovuto ad una persona come Oscar Farinetti mi hanno consigliato di riflettere bene prima di esprimermi, ma, soprattutto, più riflettevo e più continuavo a cambiare idea sul fatto se lui abbia o meno ragione (e chissà che non mi capiti di cambiarla ancora mentre scrivo).
In sintesi alla fine credo che Farinetti abbia ragione sulla sua visione del futuro, d’altra parte possiede una storia personale che consiglia, nel dubbio, a credergli, e che la mia impressione che questo futuro non mi piaccia è dovuta più al fatto che tratteggia un mondo diverso da quello che conosco, piuttosto che da un peggioramento effettivo (la solita nostalgia canaglia per cui i tempi quando eravamo giovani e felici ce li ricordiamo comunque migliori).

Quindi se avete poca voglia o tempo potete anche smettere di leggere qui. Però ci sono una serie di ma (… se preferite “ma ci sono una serie di però”) che non riesco a scacciare. Se siete curiosi mettetivi comodi perchè la loro esposizione sarà piuttosto articolata, tanto che questa volta ho organizzato il post a capitoli per facilitare la lettura (volendo potete anche leggerlo anche a puntate).

Cosa ha detto Farinetti (in sintesi)
Il 6 ottobre 2013 Oscar Farinetti è stato intervistato da Fabio Fazio durante la trasmissione “Che Tempo Che Fa” in occasione dell’uscita del suo libro “Storie di coraggio – 12 incontri con i grandi italiani del vino”.
Oltre a parlare di vino, ha dato la sua visione sul futuro dell’Italia. Questa è la sintesi che ne ho ricavato io (basata sull’intervista TV, il libro, chiedo venia, non l’ho comprato).
1) Il sud del mondo è destinato ad entrare in crisi (è entrato in crisi) perchè la società dei consumi che si basa sul lavoro e sul salario è diventata dicotomica rispetto all’idea di progresso che si basa sull’invenzione di macchine e robot che annullano posti di lavoro. Su questo sono d’accordo almeno dal 30-06-2013, ma magari torno sull’argomento un’altra volta.

2) Finchè non ci inventeremo un modello sociale nuovo, ce la faranno le nazioni che esporteranno molto. Noi italiani abbiamo 5 vocazioni straordinarie, enormi, che sfruttiamo molto poco, ma abbiamo tutto il mondo che ci cerca. Siamo lo 0,83% dei cittadini del mondo, fuori c’è un 99,17% che ci guarda ed in questo momento tutti vorrebbero mangiare come gli italiani, vestirsi come gli italiani, vedere le nostre opere d’arte, poter venire in Italia.

3) L’export agroalimentare italiano vale 31 miliardi di euro, di cui 4,7 di vino (voce principale) in forte crescita sui mercati esteri. La Francia ha esportazioni di vino pari a quelle italiane in quantità che in euro valgono 11 miliardi. I nostri numeri sono talmente bassi che ci aiutano a crescere.

4) La Francia riceve ogni anno 80 milioni di turisti, l’Italia 45,7.

5) I vantaggi competitivi dei francesi sono la storia, saper fare accoglienza, la migliore organizzazione della Pubblica Amministrazione. A livello di patrimonio artistico ed enogastronomico l’Italia non è inferiore, anzi. Con 3 anni di buon lavoro si può salvare il Paese raddoppiando le esportazioni agro-alimentari e raddoppiando il numero di turisti che visitano l’Italia. Questo implica un aumento di volume d’affari pari a 150 miliardi di euro, quindi 42 miliardi di tasse nette che entrano nelle casse delle istituzioni.

I miei “ma” competitivi, ovvero il mondo è uno e siccome vogliono starci tutti le dinamiche concorrenziali raramente sono a somma positiva
Inizio con i dubbi legati allo scenario competitivo e non con quelli operativi perchè ho abbastanza esperienza di azienda per aver visto con i miei occhi come la forza di volontà di un imprenditore competente (il “coraggio” secondo la definizione di Farinetti) riesca da sola a costruire proposte in precedenza apparentemente inesistenti o finanche impossibili (Le scoperte consistono nel vedere ciò che tutti hanno visto e pensare ciò che nessuno ha pensato. – Albert Szent Gyorgyi via Pier Luca Santoro), in grado di rispondere alle richieste/desideri del mercato meglio di quelle disponibili fino a quel momento. il successo delle nuove idee rende evidente come quelle precedenti siano (fossero) obsolete e destinate quindi a ridimensionarsi in minore o maggior misura (Video killed the radio stars cantavano i Buggles nel 1979).
Eataly è un perfetto esempio in questo senso.
Le logiche competitive che valgono a livello di singola azienda non funzionano allo stesso modo a livello di sistema dove si ha crescita solamente se è positiva la somma dei risultati di tutti gli operatori dello scenario.
In altre parole l’indubbio successo dell’apertura di Eatily a Torino diventa una crescita del sistema agro-alimentare solamente se il suo volume d’affari (per definizione incrementale) supera il calo degli altri negozi in cui facevano la spesa i clienti di Eataly.
Nell’agroalimentare la somma degli effetti competitivi è positiva più raramente che in altri settori perchè, per definizione, tutti mangiano da quando nascono. Una crescita complessiva del mercato è quindi possibile solamente se ci sono più bocche che mangiano oppure se le stesse bocche mangiano di più. Viceversa, ed i trend demografici del nord del mondo vanno in questo senso, lo sviluppo competitivo avviene per sostituzione (lo stesso numero di bocche, o meno, mangiano la stessa quantità, o meno, di cose diverse). Concedetemi, per semplictà di esposizione, di tralasciare per il momento l’effetto prezzo.
L’innovatività del concetto di Eataly è talmente fenomenle da innescare tendenze che superano i confini dei suoi punti vendita: la crescita delle gelaterie Grom, l’inserimento delle bibite Lurisia anche nel mio supermercato Coop, la diffusione della birra Menabrea sono i primi esempi che mi vengono in mente. Però io non è che mangio più gelato perchè vado da Grom invece che da Zampolli.
Però Farinetti parla di raddopiare le ESPORTAZIONI dell’agroalimentare italiano. Al di là del vago senso di colonialismo culturale, le domande sono due: 1) su che mercati? 2) Come reagiranno i Paesi/produttori a cui porteremo via vendite?
Attualmente le esportazioni agro-alimentari italiane sono concentrate nei mercati occidentali, in cui la penetrazione è stata favorita anche dalla presenza delle comunità italiane create dall’emigrazione. Malgrado siano mercati maturi dal punto di vista economico e, nel caso dell’Europa, anche dal punto di vista demografico, sono ancora quelli che mostrano la maggior crescita assulta. Difficile però pensare di raddoppiare i livelli attuali di esportazione. Quindi tutti guardano all’estremo oriente, Cina in primis, per i tassi di sviluppo sia economico che demografico. Rispetto ai paesi occidentali si tratta però di nazioni con culture alimentari molto più ricche e sofisticate, come dimostra il fatto che sono già diffuse in tutto il mondo (senza tener conto che i cinesi in assoluto non mangiano formaggi). In realtà si tratta di paesi in cui è molto più semplice introdurre il vino rispetto agli alimenti italiani.
Su quella che può essere la risposta dei nostri concorrenti ad un RADDOPPIO delle nostre esportazioni, ricordo gli accordi bilaterali che la Cina ha stipulato con Australia e (credo) Cile per una sostanziale riduzione dei dazi di importazione. Segnalo anche che tra le 100 things to watch in 2014 secondo JWT intelligence c’è il vino cinese (la Cina è già il quinto produttore mondiale di vino).
Visto che si parla di vino permettetemi una parentesi. Il vino italiano in maggior crescita in Italia ed all’estero è il prosecco spumante. Le ragioni del suo successo sono sostanzialmente l’immediatezza e la piacevolezza sensoriale (del gusto) e la relativa omogeneità qualitativa tra le diverse cantine. Gli stessi fattori che lo rendono poco interessante per gli esperti e quindi avulso alle classiche (trite) ritualità del mondo del vino. Sarà un caso che tra i grandi del vino intervistatida Farinetti non c’è nessun produttore di prosecco?
Bastano come dubbi? In realtà no, perchè la possibilità di “salvare” il Paese puntando sulle esportazioni è tale solamente se la loro crescita superi il calo di consumi nazionale (nuovamente, il sistema azienda è diverso e più semplice del sistema Paese).
Nel caso del vino questo non si è verificato. Negli ultimi anni si è ridotto il numero di aziende viticole, la superfice dei vigneti e la produzione complessiva di vino (per approfondimenti qui trovate un mio post ospitato sul blog “Vino al Vino” di Franco Ziliani ed altri li potete trovare su biscomarketing) a causa del calo dei consumi interni. In altre parole, negli ultimi anni il settore del vino italiano nel suo complesso si è ridotto. Malgrado la crescita delle esportazioni oppure (anche) a causa dello strabismo del settore nei confronti dei mercati esteri? Io la mia l’ho già detta e la trovate qui.

Le stesse considerazioni valgono in linea di massima anche per quanto riguarda il turismo. 40 milioni di turisti in più in Italia, o sono 40 milioni di persone che prima non facevano turismo, oppure smettono di andare dove andavano prima. Considerando la dimensione dei numeri, e quindi del business, in entrambi i casi i nostri concorrenti nel mercato turistico si impegneranno a fondo per attirare, o mantenere, queste persone. Immaginate cosa significherebbe per l’economia francese perdere non 40, ma anche solo 4 milioni di turisti.

I miei “ma” operativi, ovvero tra il dire e il fare va risolta la questione strutturale
Qui la questione è molto più semplice.
Per raddoppiare le esportazioni bisogna avere la capacità produttiva per farlo.
Rimango nel caso del vino: le esportazioni coprono circa il 50% della produzione vinicola italiana quindi raddoppiare le esportazioni significa aumentare la produzione del 50% (assumendo costante la quantità destinata al mercato interno, altrimenti la crescita complessiva è inferiore e non si raggiunge l’obiettivo). Anche ipotizzando un aumento del prezzo medio unitario del 15% (un’enormità in termini di rapporti competitivi) è necessario una crescita dei volumi prodotti pari al 35%.
Una crescita di questa entità è semplicemente tecnicamente impossibile.
Lo stesso vale per tutti i prodotti a Denominazione d’Origine o Indicazione Geografica (per capirsi Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Prosciutto di Parma e San Daniele, ecc..).
Ma anche per gli altri prodotti alimentari appare estremamente difficile, tanto più considerando la continua riduzione di suolo agricolo causata dallo scempio dell’inutile consumo di suolo.
Per il turismo la situazione è meno drastica, ma credo sia comunque necessario chiedersi dove mettiamo e come muoviamo 40 milioni di turisti in più.

Questi i “ma” (i “ma” istituzionali, l’esempio citato da Farinetti che in Francia il vino è controllato da 2 enti mentre in Italia da 10, che forse diventeranno 11, non li considero, perchè la visione/proposta di Farinetti implica il superamento di questi limiti), però, come ho detto all’inizio, alla fin fine Farinetti ha ragione nella sua visione del futuro.

Io ci sono stato (anche molti voi, fidatevi) e la settimana prossima ve lo racconto.

Sulla famosa cabina di regia del vino italiano – biscomarketing nuovamente ospite di Vino al Vino

Devo ringraziare ancora una volta l’ospitalità di Franco Ziliani, che ha pubblicato sul suo noto blog “Vino al Vino” le mie riflessioni relativamente alla creazione di una “cabina di regia” del vino italiano.

Il post lo trovate qui.

Segnalo anche ai lettori di biscomarketing che queste riflesisoni sono in buona misura anche il seguito del mio vecchio post “C’è un sistema per fare sistema”, pubblicato lo scorso giugno.

Viribus unitis – ancora sul sistema del vino italiano

Lo so che avevo promesso un post sul futuro delle agenzia pubblicitarie, ma inderogabili impegni di lavoro mi impediscono di svilupparlo adeguatamente (il post scorso è sembratoa qualcuno incompleto).

In più la rivista Il Mio vino ha anticipato i contenuti del prossimo numero dell’inserto professional e voglio mantenere la pubblicazione in contemporanea sul blog, per rspetto ai lettori di biscomarketing. L’articolo in realtà riprende molti dei concetti dei miei due post gentilmente ospitati dal blog “Vino al vino” di Franco Ziliani poche settimane fa.

Posticipo quindi il post sulle agenzie pubblicitarie e pubblico di seguito l’articolo che uscirà su Il Mio Vino.

La riduzione della produzione che ha caratterizzato le vendemmie 2011 e 2012 pone la questione del ridimensionamento del sistema del vino italiano.
Malgrado gli effetti congiunturali della siccità di quest’anno (ma siamo proprio sicuri che questo clima non sia la nuova normalità), il calo della produzione di uva da vino in Italia deriva in larga misura dalla riduzione del vigneto italiano. Secondo i dati presentati dall’esperto Maurizio Gily al convegno che ho organizzato al Vinitaly di quest’anno, negli ultimi 5 anni si sono persi 60.000 ha di vigneto (più della superficie a vigneto dell’intera Toscana) , con una perdita del potenziale produttivo in hl stimabile tra il 10 ed il 14%.
Considerando che le estirpazioni a premio finanziate dalla PAC hanno riguardato solo la metà circa degli ettari persi, si può prevedere che questa tendenza all’abbandono dei vigneti continuerà anche in futuro, seppur a ritmi più ridotti a causa del ridotto ricambio generazionale.
Al’’interno del sistema del vino italiano c’è una corrente di pensiero che vedono positivamente questa riduzione perché riequilibria il rapporto domanda-offerta, che negli ultimi anni è stato caratterizzato da un eccesso di produzione a fronte del declino dei consumi nazionali, permettendo di tornare ad una remunerazione delle uve che rende economicamente interessante la viticoltura.
Una personalità autorevole come Angelo Gaja da due anni sprona il sistema vinicolo italiano ad approfittare dell’aumento del costo della materia prima per valorizzare meglio il prodotto, sostenendo che non è un problema il rallentamento dell’export del vino italiano perché determinato dal calo dello sfuso, svenduto a prezzi non remunerativi.
Si tratta di un’analisi che non condivido, innanzitutto perché non trova riscontro nella realtà dei fatti.
I dati relativi alle esportazioni del 1° semestre 2012dei principali Paesi produttori sono i seguenti (Fonte: elaborazione dell’autore su dati Corriere Vinicolo):
Export totale 1° semestre 2012
Paese Euro/litro Litri % vs. 1° sem. 2011 Indice litri (Italia=100)
FRANCIA 5,09 700.700.000 6% 72%
USA 2,30 104.065.000 -9% 11%
ITALIA 2,14 973.482.317 -11% 100%
AUSTRALIA 2,00 337.816.607 4% 35%
CILE 1,90 343.114.261 17% 35%
ARGENTINA 1,80 228.854.341 30% 24%
SPAGNA 1,06 1.073.467.721 3% 110%
SUD AFRICA 181.500.118 10% 19%

Nota: per la Francia il dato riguarda solamente il vino in bottiglia e per il Sud Africa è disponibile il prezzi medio solo per il vino sfuso. Si è preferito quindi omettere il dato.

La situazione mi pare talmente evidente da non richiedere ulteriori commenti. Siccome però le medie spesso e volentieri ingannano, se analizzano i soli vini da tavola esportati in bottiglia il prezzo medio per l’Italia è di 1,37 €/litro, contro lo 0,89 della Spagna e l’1,01 della Francia.
C’è però un altro motivo, strategico, per cui non condivido la valutazione positiva di una riduzione della produzione di vino nelle fasce di prezzo più basse ed è la struttura a sistema del vino italiano. Senza voler qui entrare in discussioni dottrinali sulla teoria economica aziendale dei distretti/reti/cluster, il fatto che il vino italiano sia un sistema significa che i diversi elementi che lo compongono sono connessi funzionalmente ed organicamente a formare un tutto unitario. Quanto meglio connessi in termini organici e funzionali, ma anche quanto competitivamente più forti i singoli elementi, e tanto più solido l’intero sistema.
Spesso riferendosi al settore del vino italiano in termini qualitativi si fa riferimento al modello della piramide. Adottando questo modello per raffigurare il sistema del vino italiano, dove gli strati inferiori sono anche i più grandi in termini quantitativi, potremmo dire che una riduzione della base d’appoggio porterà, nel medio termine, ad una maggior instabilità anche agli strati superiori, su su fino al vertice.
Il rischio di indebolimento dell’intero sistema è dovuto a fattori operativi che riguardano sia la domanda (estera) che l’offerta.
Dal lato della domanda dobbiamo ricordare che il valore attribuito da un consumatore ad un vino è scarsamente legato ai sui costi di produzione. Conseguentemente un’impennata del costi del vino da tavola come quella che si sta verificando con la vendemmia 2012, a fronte di una qualità del prodotto sostanzialmente equivalente, rischia di far uscire i vini italiani dal paniere di scelte della fasce di consumatori che l’hanno acquistato fino ad oggi. D’altra parte la domanda di vini con quel livello di prezzo e di qualità continuerà ad esistere, indipendentemente dalla nostra riduzione di disponibilità e conseguente aumento dei prezzi all’origine, e, in nostra assenza, sarà soddisfatta dai nostri concorrenti internazionali.
Inoltre la capacità di un offerta che copra le diverse fasce di mercato è un importante fattore competitivo nei rapporti con importatori e distributori, sia per iniziare che per sviluppare i rapporti commerciali. Detto in parole povere se comincio a servire un importatore cinese con un container di vino da tavola, poi potrò mandargli anche una campionatura di vino IGT e/o DOC. Se non sono competitivo con il vino da tavola, ed il container lo manda una cantina spagnola, ecco che la campionatura successiva sarà di Tempranillo. Sempre che la fornitura non si sia persa in partenza perché il cliente cinese voleva da subito sia il vino da tavola che quello di livello superiore.
L’alternativa che rimane alle cantine per non perdere le posizioni conquistate e continuare a sviluppare nuovi affari in grado di compensare il calo sul (colpevolmente trascurato) mercato nazionale, è quella di ridurre i margini (come sembra confermare un’analisi di Baccaglio sul suo blog “I numeri del Vino”). Alla il valore aggiunto del sistema vitivinicolo rischia di rimanere invariato nel breve periodo, con un rischio di indebolimento competitivo nel periodo medio-lungo.
Il calo della produzione vitivinicola italiana implica degli svantaggi competitivi anche sul fronte dell’offerta, perché riduce le economie di scala e le curve di apprendimento dell’intero settore.
E’ evidente che ad una minore produzione consegue un minor sfruttamento degli impianti e quindi un minore ammortamento degli investimenti.
Meno ovvio, ma altrettanto vero, che una riduzione della dimensione del sistema rischi di rendere meno competitivi in termini di costi e produttività tutti i servizi, nel senso ampio del termine, utilizzati nelle diverse fasi della filiera. Dalle professionalità a tutti i livelli, dagli operai in vendemmia, agli agronomi, agli enologi, ecc.., ai macchinari ed i prodotti per l’enologia e l’imbottigliamento si tratta di comparti in cui l’Italia è ai massimi livelli mondiali e che quindi giocano un ruolo chiave per la competitività delle nostre aziende. Tanto per le grandi come per le piccole, per quelle di eccellenza e per quelle di massa.
Che l’aumento del costo delle uve determini una miglior valorizzazione globale del vino italiano è un’ipotesi con deboli fondamenti analitici e tutta da dimostrare nella realtà. Ma se anche fosse, perseguire un aumento del valore unitario delle esportazioni attraverso una riduzione della produzione quando lo scenario mondiale è di crescita dei consumi di vino, significa, in un’ottica di sistema, pianificare il proprio declino.
La valorizzazione del vino italiano va perseguita invece attraverso la definizione e l’affermazione di un suo posizionamento chiaro, specifico e differenziante, che faccia da ombrello alla pluralità dell’enologia italiana.