Bentornati.
Dopo questo lungo intervallo di biscomarketing non sapevo bene come tornare (in realtà non ero molto sicuro SE tornare). La prima idea era di riprendere con un post leggero, poi però ho pensato che dopo tutto questo relax ci poteva stare anche un post concettuale ed anche abbastanza attuale.
Lo scorso 18 agosto infatti la copertina del Time è uscita con il titolo “Why we’re losing the internet to the culture of hate” ed all’interno c’era l’articolo di Joel Stein dal titolo “How Trolls Are Ruining The Internet”.
Poi sul numero del 26 agosto de L’Internazionale c’era l’articolo di Katahrine Viner “La fine della verità” (uscito in realtà sul Guardian il 12 luglio con il titolo “How technology disrupted the truth”, che rende molto meglio l’idea del pezzo)
Dubito che le due cose, la cultura dell’odio e la distruzione della verità, siano slegate tra loro e mi sono chiesto quali effetti queste due tendenze sociali possono avere sul marketing, in particolar modo per le aziende.
Tradizionalmente le aziende che producono beni di consumo hanno evitato di entrare (eccessivamente) nel dibattitto sociale e soprattutto hanno evitato di prendere posizioni partigiane. La ragione è molto semplice: ogni azienda punta a vendere i propri prodotti a tutti, senza distinzione di razza, religione, credo politico, ecc….
Se ci pensate bene, oltre agli ovvi obiettivi commerciali, c’è una radice di democrazia in questo atteggiamento.
Negli ultimi, diciamo, trent’anni è cresciuta l’esigenza / volontà da parte delle aziende di essere anche dei cittadini e delle marche di sviluppare una personalità. Di conseguenza è aumentato il coinvolgimento delle aziende/marche su tematiche sociali ritenute affini alla propria visione / posizionamento.
Si è trattato e si tratta però quasi esclusivamente di perse di posizioni in senso positivo e su principi generali ampiamente condivisi: l’amicizia, la parità dei sessi, la protezione dell’infanzia, la prevenzione di malattie ecc…
Qualcosa di molto diverso rispetto alla partigianeria e litigiosità che stanno caratterizzando il dibattito sociale.
Riporto le dichiarazioni fatte nel 2014 da Neetzan Zimmerman, specialista di storie virali, dall’articolo della Viner “Di questi tempi non è importante che una storia sia vera, l’unica cosa che conta è che la gente ci clicchi sopra. I fatti sono finiti, sono una reliquia dell’era della stampa quando i lettori non avevano scelta. Se nessuno condivide una notizia significa che quella, sostanzialmente, non è una notizia”.
La verità se è noiosa non fa notizia, se la si altera, anche solo leggermente e anche solo sugli aspetti marginali, ecco che non è più così vera e il confine tra l’informazione e l’intrattenimento diventa sempre più labile. Con la conseguenza di perdita di credibilità delle fonti “ufficiali” e, comparativamente, crescita di credibilità di quelle non ufficiali (in pratica tutti quelli che hanno una tastiera ed uno, o più, profilo sui social networks).
Tralasciando l’aspetto di analisi dell’evoluzione dei media (anche perché in estrema sostanza poco avrei da aggiungere a questo mio post del …) qui il punto è: dato che tutte le aziende / marche operano nell’editoria, indipendentemente dal loro settore produttivo, intesa come creazione e distribuzione dei contenuti, possono ancora continuare a seguire un modello basato sulla verità e sui valori positivi senza perdere di visibilità e rilevanza?
Oppure per mantenere la rilevanza dovranno abbracciare la cultura della critica, se non proprio dell’odio, che però porta per definizione a controversie che creano fazioni di sostenitori ed oppositori.
E’ la naturale conseguenza della frammentazione dei target?
O viceversa le (grandi) marche rimarranno i pochi fattori di coesione sociale trasversale ai gruppi (tribù) in cui tende a suddividersi la società digitale?
Le risposte non sono facili almeno due ragioni:
- Da circa vent’anni i cittadini trattati come sudditi dalle elites politiche ed amministrative, esigono di essere trattati come principi nel regno delle marche. Probabilmente anche qui c’è una relazione tra le due cose.
Fatto sta che le stesse persone che accettano e perdonano vessazioni sempre più grandi da parte della politica (vedi ad esempio le bugie raccontate dai politici a favore del Brexit e da loro stessi indicate come tali il giorno dopo il referendum) non perdonano un’etichetta attaccata storta su una scatola di biscotti.
Ergo pensare di cavalcare l’onda dell’”interessante” rispetto al “vero”, per le marche sembra implicare ancora un grosso rischio di credibilità.
- Forse l’attuale tempo dell’odio è il risultato di una minoranza rumorosa. Si tratta di un trend passeggero? E anche se fosse duraturo non c’è il rischio che a lungo andare la maggioranza delle persone abbandoni quello che è diventato il mondo dei troll? Forse c’è anche questo alla base del declino di twitter? Pensate a quanti dei vostri amici/contatti di fb e twitter sono attivi? Si sarà già capito che non credo alle coincidenze e quindi dubito sia un caso che i nativi digitali si muovano su piattaforme più chiuse e protette come Instagram, Snapchat, Whatsapp, ecc…
Come vedete un rientro pieno di dubbi.
L’unica certezza è la necessità di porseli.