Ancora marketing relazionale: i cattivi esempi di Loacker e Coop.

Mi piace partecipare ai concorsi. Non che abbia mai vinto niente di particolare, però mi piace giocare.

Quindi tempo fa ho partecipato al concorso Loacker “Una tortina d’oro” (tanti anni fa avrei voluto fare un concorso mettendo un diamante dentro ai wurstel, ma non ho mai sviluppato l’idea perché il rischio che chi lo trovasse si rompesse un dente era troppo grande e quindi l’idea irrealizzabile).

Per partecipare i sono iscritto al sito Loacker e quindi periodicamente mi arriva una mail/newletter dall’azienda. Non le avevo mai aperte fino ad oggi, ma l’altro giorno l’ho fatto, un po’ perchè sto ragionando di marketing relazionale ed un po’ perché prometteva buoni sconti per acquisti di prodotti Loacker (che in effetti è un po’ che non compro).

Quindi ho aperto la mail, i sono guardato i vari contenuti fino a quando sono arrivato in fondo ed ho cliccato sul link per ottenere i buoni sconto.

Il link non i ha portato direttamente nella pagina del sito Loacker dove scaricare i buoni sconto, a nella home page. Poco male, ci sta. Per scaricare i buoni sconto dovevo entrare nel mio profilo personale del sito inserendo e-mail e password.

Ora devo ammettere che già la richiesta della password mi sembra eccessiva. Di password ne devo ricordare già troppe e sicuramente quella del sito Loacker non è né tra quelle che uso più spesso né tra quelle che mi preoccupano maggiormente. cosa rischio se qualcuno mi hackera il profilo Loacker? Che mi portino via i biscotti?

Ad ogni, come dicevo mi piace giocare, e quindi ho richiesto una nuova password all’indirizzo e-mail al quale avevo ricevuto la newletter.

Il sistema mi ha risposto automaticamente che non c’è nessun utente registrato con quella mail. Allora perché mi avete mandato la newsletter offrendomi dei buoni sconto?

Siccome, per quanto mi diverta a giocare, ho anche altro da fare nella vita, ho detto un bel CIAONE al sito Loacker ed ai suoi buoni sconto (vorrà dire che aspetterò la prossima promozione sullo scaffale).

Il caso della Coop se vogliamo è ancora più grave / sconcertante.

Da anni faccio la spesa al supermercato Coop vicino a casa (ci andavo già prima, quando era un supermercato Despar).

Dal 20 gennaio è iniziato il concorso #2MilioniDiPremi, per cui ogni 20 euro di spesa si riceve una cartolina gratta e vinci.

Se non si è vinto niente con il gratta e vinci si può andare sul sito apposito #2MilioniDiPremi ed inserire il codice della cartolina per partecipare ad una estrazione. Se non ricordo male il sito è il medesimo di quello usato da Coop per un concorso analogo realizzato lo scorso anno, a cui i sono sicuramente già registrato, ma di cui non assolutamente idea che mail e che password ho usato.

Ad ogni modo non me ne preoccupo perché il concorso è riservato ai soci quindi mi aspetto che per giocare i codici sia sufficiente inserire il mio codice socio, a cui presumo siano collegati tutti i dati che mi hanno chiesto al momento dell’associazione (se vogliamo fare i sofisti essere socio della Coop è una cosa un po’ diversa da una normale carta fedeltà di un’altra catena di supermercati).

Sbagliavo. Nel senso che per registrarmi il sito mi richiede di inserire il codice numerico stampato sotto il codice a barre della tessera socio. Non la cosa più pratica e comprensibile del mondo. Provo prima omettendo lo zero iniziale, poi anche con lo zero iniziale. In entrambi i casi il sito mi segnala che il formato del codice è errato e anche in questo caso decido che gli eventuali premi ad estrazione li vincerà qualcuno più bravo / meritevole / paziente di me.

Quello però che mi chiedo: perché non mi avete fatto giocare con il mio codice socio a 7 cifre stampato bello chiaro sul retro della mia tessera socio? Dite che il problema è che il codice potrebbe non essere univoco tra le varie Coop che ci sono in Italia (in altre parole qualcun altro in una Coop diversa potrebbe avere lo stesso numero)? Basta richiedere di indicare la cooperativa di appartenenza, che è chiaramente stampata sul fronte della tessera (nel mio caso “Coop Alleanza 3.0″ ed il gioco è fatto.

Se invece anche all’interno di Coop Alleanza 3.0 il mio codice potrebbe non essere univoco, beh allora di strada da fare ne avete molta e la cosa un po’ anche mi preoccupa.

Continuo ad essere sconcertato di quante risorse e sforzi le aziende dedichino ad instaurare una relazione con i propri consumatori e quanta poca attenzione mettano nel gestirla, seguendo un approccio che non solo non è di servizio (alla fin fine il cliente sono io, e nel caso di Coop sono anche “proprietario”), ma nemmeno paritetico. E’ invece di “superiorità”.

E stiamo parlando di due aziende “brave”, che più di una volta ho segnalato su questo blog per le loro strategie interessanti ed efficaci.

Figuriamoci le altre.

 

Le relazioni nascono dagli argomenti, non dagli strumenti. Imparare da Farmina.

Per vari motivi sto approfondendo l’area del marketing relazionale.

Avevo cominciato ad esplorarla un paio di anni fa ed ero rimasto perplesso. Man ano che approfondisco, aumentano le mie perplessità.

Ho la netta impressione che la visione prevalente si basi soprattutto su tecnicismi, che si contrappongono alla visione altrettanto tecnicistica del marketing transazionale.

Si tratta di concetti che in realtà poco hanno a che vedere con il marketing strategico ed alla sua pianificazione e gestione efficace ed efficiente.

Mi rendo conto che detta così la cosa suona presuntuosa e forse un tantino nihilista, però sono troppo stanco per sviscerare questa impressione oggi. Dico solo che mi sembra siano come “above the line” e “below the line”, due concetti di pubblicità che venivano dati per scontati e che per e non sono mai esistiti nello sviluppo di una strategia di comunicazione fin da quando faccio marketing per professione, ossia del 1994. Non solo perché non ne faceva menzione Kotler nell’edizione canadese di Marketing Management che ho studiato io, ma soprattutto perché si tratta di una classificazione slegata al comportamento del consumatore che quindi rischia di generare strategie inefficaci. Non è così che le persone si rapportano alle diverse forme di comunicazione. Se poi le agenzie di pubblicità / centri media devono fare i loro traffici con le concessionarie, si organizzino come meglio credono senza confondermi le idee invece di aiutarmi (ne scrivevo in maniera più estesa ed organica qui nel 2014).

Buona parte del marketing relazionale è concentrato sugli strumenti (digitali) per attivare e gestire le relazioni. Che poi all’atto pratico si riducono nell’ottenere i dati per aprire canali di comunicazione diretti con le persone e poter bersagliarli in modo più preciso con strategie di push che neanche il peggior approccio di vendita.

Oggi invece ho vissuto in prima persona un bell’esempio di marketing relazionale (che io normalmente avrei chiamato semplicemente di marketing) da parte della ditta di alimenti per cani e gatti “Farmina”.

Stavo attraversando Piazza Unità a Trieste con i miei due cani al guinzaglio (cosa che sarà capitata 3 volte in 12 anni) quando mi ha avvicinato una gentile signorina chiedendomi se poteva regalarmi dei bocconcini omaggio per i miei cani.

Ovviamente ho detto di sì. Mentre me li dava mi chiesto se poteva farmi un paio di domande e come potevo dire di no?

Mi ha chiesto come si chiamavano, di che sesso erano, che età avevano.

Poi mi ha chiesto se volevo dargli la mia mail per ricevere altri buoni sconto sui prodotti Farmina (uno era già nella borsetta con dentro i bocconcini omaggio) ed io gliel’ho dato. La finalità promozionale è trasparente e l’accetto volentieri.

Hanno attivato una relazione attraverso un rapporto personale, non digitale.

Se saranno bravi e mi disturberanno via mail per dirmi/offrirmi cose interessanti la relazione continuerà, altrimenti finiranno nello spam (non perdo neanche il tempo di cancellarmi dalla mailing list).

Prima di salutarmi mi ha chiesto se poteva fare una foro ai miei cani. E’ rimasta un po’ sorpresa quando le ho chiesto il motivo, ma da quando Diva e Donna mi ha paparazzato i cani prendendo una foto da questo blog per il giornale sono più sensibile alla privacy.

Mi ha risposto che è per pubblicare la foto sul loro profilo Instagram, ma che se non ero d’accordo non c’era problema. Quando le ho detto sì, mi ha chiesto se potevo far entrare nel campo visivo anche la borsetta con il logo Farmina.

Kali ha guardato in macchina, mentre quel vecchio brontolone di Fly si è girato dall’altra parte.

In sintesi:

- targettizzazione perfetta: tutti quelli che hanno un cane e solo quelli che hanno un cane.

- attivazione della relazione tramite un approccio personale emotivo (… a i cani ed i padroni dei cani) in cui l’azienda si spende nei confronti del target.

- integrazione dell’analogico con il digitale (e-mail)

- rafforzamento del rapporto personale con gli strumenti digitali (“guarda mamma il nostro cane è su Istagram”, vuoi non cliccare sul cuoricino?)

Se la borsetta fosse stata in plastica biodegradabile gli avrei dato 10!

Price is what you pay, value is what you get. L’esempio dell’hotel Travelodge dell’Aeroporto di Valencia.

Qualche anno fa Michael Krauss, Presidente della società Market Strategy Group di Chicago ha detto “Se lo fai migliore, più economico e più divertente potresti avere successo.”.

Sembra una ovvia tautologia, ma in realtà non lo è perché la visione secondo cui migliore e più economico sono concetti contrapposti è ancora estremamente diffusa tra i produttori e fornitori di beni/servizi ed in parte anche tra i consumatori.

La dimensione “divertimento” poi è raramente considerata dai produttori e fornitori di beni/servizi, malgrado sia invece molto apprezzata dai clienti (tanti anni fa ho spiegato in un post su questo blog che le persone coprano sempre servizi, incorporati o meno in un bene tangibile, quindi da qui in avanti utilizzerò solamente il termine “servizi” per indicare sia i beni tangibili che gli intangibili).

Eppure le aziende che operano con l’approccio low cost in tutti settori hanno dimostrato che farlo migliore, più economico e più divertente è possibile.

Per riuscirsi è fondamentale capire e distinguere le differenze tra “migliore”, concetto legato al valore per il cliente/consumatore, “economico”, concetto legato ai costi, e “divertente”, che dipende solo dallo sforzo creativo che uno vuole mettere nel disegnare i propri servizi.

Con queste differenze ben chiare in testa è possibile ridisegnare il proprio servizio massimizzando il valore eliminando tutti i costi non necessari. Si tratta di identificare cosa determina plusvalore, cosa disvalori e cosa è considerato come neutro.

Il 3 di gennaio ho pernottato all’Hotel Travelodge dell’Aeroporto di Valencia al costo di 35 euro (stanza doppia uso singola, prenotata attraverso il call center della catena, prenotazione non rimborsabile) dove la teoria mi è sembrata messa perfettamente in pratica. Mi spiego per punti.

 

Targeting:

In tutti i libri di marketing l’individuazione del proprio mercato obiettivo è indicata con il primo passo fondamentale per iniziare lo sviluppo di una strategia. Nella pratica, quando viene realizzata, è spesso un’attività svolta superficialmente, soprattutto nelle piccole e medie imprese. I segmenti vengono definiti in modo ampio e generico, non solo per mancanza di risorse da destinare a questa analisi ma anche per una inconfessata preoccupazione che una definizione più precisa porti alla perdita di potenziali clienti/consumatori. Per ovviare a questo problema io personalmente cerco di individuare sia il segmento centrale (core target) che quelli allargati o secondari.

Senza una definizione chiara dei benefici che le persone ricercano nella fruizione del nostro servizio sarà impossibile individuare con precisione quali sono i fattori che generano valore e quindi come operare per ridurre i costi.

Sinteticamente si può dire che il target dell’Hotel Travelodge dell’Aeroporto di Valencia sono i viaggiatori che arrivano e partono. L’aeroporto di Valencia è un aeroporto in cui operano prevalentemente compagnie low cost (Raynair la principale), quindi il target dell’hotel sarà sovrapponibile a quello delle aerolinee che volano sull’aeroporto di Valencia.

Attenzione, non si tratta di gente che semplicemente vuole spendere poco. La differenza si capirà con gli esempi dei vari reparti dell’hotel che seguono.

Vi invito mentalmente a confrontarli con i classici hotel economici a tre stelle che ci sono in Italia o, peggio ancora in Francia, che sono organizzati come quelli da quattro o cinque, solo molto più miseri e tristi.

 

Location, location, location.

Il Presidente della catena di supermercati Loblows, una tra le prime ad inserire nel proprio assortimento prodotti generici come le scatole di piselli con scritto sopra “piselli” senza neanche il marchio dell’insegna oppure prodotti gourmet a marchio dell’insegna (oltre a tutta quella che è diventata gamma di prodotti a marchio privato dell’insegna la classica per tutte le insegna) diceva che il successo nella veendita al dettaglio si basava su tre “L”: location, location, location.

L’hotel Travelodge dell’Aeroporto di Valencia si trova a Manresa nel quartiere industriale dell’aerporto. In pratica un quartiere di condomini e capannoni alla periferia di una grande città.

E’ di fronte alla fermata della metropolitana, ad una stazione di distanza dall’aeroporto. L’aeroporto si può raggiungere anche a piedi in circa 15’, ma lo sconsiglio anche se avete solo il bagaglio a mano perché vi troverete a camminare ai bordi di una superstrada.

Per chi arriva o deve partire con l’aereo la posizione è perfetta, soprattutto arriva la sera tardi o parte il mattino presto.

La vicinanza con la stazione comunque lo rende interessante anche per chi vuole fermarsi qualche giorno a Valencia spendendo poco.

Se già fosse a stato a 500 m dalla stazione della metropolitana, il valore ricevuto dal cliente sarebbe stato inferiore. Quindi non so se e quanto l’edificio in cui si trova l’hotel costi in più di quelli più distanti dalla metropolitana, però è un elemento su cui vale la pena investire visto il valore che porta.

Il valore della location è ulteriormente incrementato dal fatto che di fianco si trova un superstore della catena Mercadona, la più grande catena di supermercati spagnola, aperto fino alle 21:30. Così i clienti dell’hotel che si sono dimenticati qualcosa, tipo io lo spazzolino da denti, oppure che vogliono mangiare qualcosa senza spendere troppo o che vogliono comprare gli ultimi souvenir alimentari senza pagare i prezzi elevati dei negozi dell’aeroporto, lo possono fare.

Un “servizio” implicito dell’hotel, senza che questo debba sostenere nessun costo aggiuntivo.

 

L’estetica generale dell’albergo.

Trovandosi in un quartiere non particolarmente bello, è importante che l’albergo invece risulti immediatamente accogliente.

Al Travelodge dell’Aeroporto di Valencia l’hanno ottenuto con un design semplice e lineare che definirei “Ikea caldo”: molto bianco, un po’ di blu e legno chiaro (più sotto vedrete le foto delle camere).

Anche gli arredi delle zone comuni, hall, ristornate-zona colazione e bar, richiamano la linearità del design nordico senza rischiare di sembrare copie economiche di mobili “belli”.

Un’atmosfera neutra un po’ famigliare a tutti e solo leggermente anonima, senza arrivare al gelo del design spinto che io personalmente, sarà l’età, trovo sempre più affaticante anche nelle sue versioni costose.

Wi-fi.

Trattare il wi-fi come un punto specifico può sembrare un assurdo, ma non lo è considerando che negli hotel a 4 e 5 stelle fino ad un paio di anni fa (recentemente non li ho più frequentati) per il wi-fi in camera si pagava un prezzo extra. Su un costo della camera che era già sopra i 100 euro a notte. Oramai per tutti, ma ancora di più per il tipo di clientela iper-connessa che vola low cost, il wi-fi in stanza è imprescindibile, quindi ha un forte valore aggiunto, quindi è un vantaggio competitivo rilevante (o svantaggio, se mancasse).

E’ parlando di “costo” e “valore” si tratta di un servizio che per l’hotel non ha alcun costo aggiuntivo.

Reception.

Reception Travelodge Valencia

La reception è aperta sostanzialmente 24 ore su 24 (salvo imprevisti), anche grazie al fatto che richiede una sola persona perché deve occuparsi solamente del check perché il check out si riduce alla restituzione della chiave dal momento che le stanze non hanno frigo bar.

Visto che non ci possono essere spese aggiuntive rispetto al prezzo della stanza, si paga all’arrivo e non alla partenza. Questo quindi evita di dover fare fila, anche solo per restituire la chiave, alla partenza. Che tra l’altro è un momento in cui si può avere più fretta rispetto a quando si arriva, soprattutto se si deve prendere un aereo la mattina presto. Aggiungeteci che spesso le partenze dei voli low cost per le diverse tratte in questi aeroporti “periferici” spesso si concentrano in fasce orarie relativamente ristrette, e di conseguenza anche le partenze dagli hotel dei passeggeri.

Il valore del frigo bar in camera per le persone in questa situazione di viaggio è relativamente basso (si viaggerà in aerei con servizio di ristoro a pagamento) e il “disservizio” è mitigato dalla vicinanza del supermercato già citata, da un distributore automatico di bevande nella hall e dal bar dell’albergo (vedi sotto).

 

Ristorante e bar.

Si potrebbe pensare che avere il ristorante in un hotel low cost sia un lusso inutile, invece si tratta di un servizio che da all’hotel un vantaggio competitivo differenziante generando profitti.

Nel quartiere vicino all’hotel ci sono solo un bar ed un bar ristorante gestito da cinesi e di livello medio basso, d’altra parte chi arriva la sera per pernottare e ripartire il giorno dopo deve pur mangiare, quindi il tasso di riempimento della struttura è mediamente buono, sicuramente superiore a quello dei ristoranti di albergo classici.

La sera che ci sono stato io nell’ora tra le 20:30 e le 21:30 ha fatto circa 15 coperti.

La scelta del menù era limitata a tre/quattro primi ed altrettanti secondi (ovviamente non potevano mancare pasta ed hamburgher) con un’offerta del giorno che prevede il bere in omaggio con un primo.

Io mi sono arrischiato a prendere il risotto con i funghi (a Valencia comunque il riso sanno cucinarlo) con il bere in omaggio per 7,50 euro in tutto.

Di negativo c’è stato che ho dovuto aspettare mezz’ora prima che me lo portassero (anche perché giusto pria di me aveva ordinato tutto altro un gruppo di 8 persone) però devo dire che era buono e quindi il tempo di attesa non è stato solo ritardo, ma anche cottura.

L’altro vantaggio di avere il ristorante è quello di servire anche la colazione, particolarmente importante per la clientela del nord Europa e a maggior ragione se deve andare a prendere un areo dove non gli daranno niente gratis.

Da notare gli ospiti che partivano dalle 5:00 alle 7:00, l’ora in cui cominciava ad essere servita la colazione, potevano richiedere una breakfast box da asporto.

Avendo la struttura del ristorante con il bar e la colazione servita a buffet, quelli come me che la mattina mangiano poco possono prendersi un caffè e una brioche spendendo 2 euro come in qualsiasi bar.

E i costi di personale? Un’unica cameriera fa il servizio del bar e del ristorante. In cucina non so quante persone ci fossero, ma vista il menù ridotto potrebbe essere stata anche una al massimo 2.

Negli orari in cui il ristorante è chiuso (non so se funziona anche a pranzo) il servizio del bar viene svolto dalla persona che è alla reception.

 

Le stanze.

Le stanze sono probabilmente il posto dove si apprezza di più come sia possibile fornire più valore ai clienti abbassando i costi ripensando quello che è il modo “normale” di fare le cose.

Tutte le stanze hanno i letti a due piazze, quindi anche chi è alto 193 cm e viaggia da solo non rischia di trovarsi in minuscoli letti singoli (successo non molti mesi fa a Milano e Firenze) oppure di dover pagare un “sovraprezzo statura”. Anche qui ritorno al targeting e ricordo l’aumento della statura media degli europei negli ultimi anni.

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Il pavimento è di parquet di legno chiaro che trasmette calore all’ambiente ed il letto ha una “testiera attrezzata” ed è senza pediera. In questo modo il letto risulta comunque “vestito”, ma si guadagna spazio vivibile nella stanza (ricordo una decina di anni fa un hotel a Parigi St. Denis, quindi neanche in centro, dove tra il letto e la parete dovevo passare di profilo).

La testiera aveva una profondità di circa 15 cm nella quale di fianco al letto erano ricavate due nicchie dove potevano starci tranquillamente un libro o un tablet o il telefono, l’orologio ecc…

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Se bisognava appoggiare altre cose, si poteva usare la parte superiore della testiera, che nella zona centrale all’interno aveva una lampada che accesa creava una luce soffusa in tutta la stanza.

Ancora una volta guadagno di spazio utile grazie all’assenza di comodini. Che poi quanti di voi hanno mai usato i cassetti dei comodini degli alberghi? E quanti si sono dimenticati quello che avevano messo dentro?

Avete presente il problema di quanto arrivate in albergo e c’è una unica presa elettrica, normalmente posizionata scomodamente sotto il tavolo o dietro il frigo bar? E il cellulare, il computer, il tablet, la batteria esterna (power bank, come dicono quelli veri) dove li attacco? Qui a sotto ad ogni nicchia c’era la sua bella presa. Altre due si trovavano comodamente sulla parete della scrivania a penisola (nuovamente risparmio di spazio senza sacrificare di niente la fruibilità).

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Il bagno con doccia aveva lo specchio a tutta parete, comodo, ma soprattutto il pavimento in materiale antiscivolo, ossia sicurezza.

Secondo me però la soluzione più furba era l’armadio … che non c’era. Al suo posto un “appendiabiti attrezzato” con due ripiani dove tutte le cose che ci metto sono sempre bene in vista e quindi è più difficile che me le dimentichi.

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Ossia più servizio ad un costo inferiore di quello di un armadio da pochi soldi, che sicuramente sarebbe costato di più, avrebbe fatto “tristezza” ed avrebbe anche occupato più spazio.

In sintesi la prossima volta che state pensando a sviluppare/rinnovare/migliorare la vostra proposta, qualsiasi bene o servizio producete/vendete, prima di dire che per dare più valore ai vostri clienti bisogna alzare i prezzi vi consiglio di pensare bene al vostro target e di analizzare bene cosa potete fare di diverso per renderli più contenti. Poi preoccupatevi del come, e magari potreste scoprire che riuscite persino a risparmiare.

Fatelo voi, prima che lo facciano i vostri concorrenti.

(bando alle ciance) La questione dei sacchetti di plastica vista secondo l’approccio di marketing.

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Come primo post del 2018 avevo in mentre due argomenti diversi, però da quando il 4 gennaio sono rientrato in Italia l’argomento “sacchetti di plastica” mi ha sopraffatto.
All’inizio l’ho sostanzialmente ignorato, anche per l’oggettivo ridotto peso economico della questione, però poi la quantità di spazio che continua ad occupare su tutti i mezzi di comunicazione (formali ed informali, digitali ed analogici) gli conferisce un indubbio peso sociale.
Quindi mi è venuta voglia di approfondire tutte le mezze informazioni, nessuna risolutiva o completamente esatta, per cui spesso contrastanti tra loro, in cui mi sono imbattuto, anche perché giovedì sono andato a fare la spesa. Ho potuto così osservare quali potrebbero essere i cambiamenti nei comportamenti di vendita e di acquisto indotti dalla nuova legge e le relative opportunità e minacce sui diversi mercati.
Quella che segue quindi è un’analisi della situazione secondo un approccio (integrato, ovviamente) di marketing, libera da valutazioni politiche e/o demagogiche.
Per facilitarne l’esecuzione e la comprensione l’ho divisa in 3 parti: definizione del quadro normativo, analisi dei possibili/probabili cambiamenti dei comportamenti di mercato, brevi considerazioni sulla comunicazione politica. La parte principale è la seconda, ma non si poteva svolgere senza la prima, perché la legislazione definisce i confini entro cui ci si può muovere. La terza non sarebbe necessaria ai fini dello scopo di questo post, però deriva direttamente dalla seconda e, già che c’ero, mi sembrava un peccato “buttarla via”.

Il quadro normativo.
Alla luce delle informazioni parziali e contradditorie relativamente al quadro normativo che trovavo sui vari mezzi di informazione a cui accennavo in precedenza, sono andato alla fonte e mi sono letto tutti provvedimenti coinvolti (grazie internet per permettere di trovarli e di spulciarli senza doverli stampare: più comodo e più ecologico). Nel testo trovate tutti i link.
La legge 123 del 03-08-17 che prevede che dal primo gennaio 2018 non possano più essere utilizzate buste di plastica con meno del 40% di materia prima rinnovabile (percentuale che salirà progressivamente fino al 60% dal 1° gennaio 2021), ottempera a quanto previsto dalla Direttiva UE 2015/70 che a sua volta modificava la Direttiva 94/62/CE per quanto riguarda la riduzione dell’utilizzo di borse in plastica in materiale leggero (definito come quello con spessore inferiore ai 50 micron).
La legge 123 a sua volta è la conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91 recante disposizioni urgenti per la crescita economica del Mezzogiorno. Se vi chiedete cosa diavolo c’entrino le borse in plastica con le “disposizioni urgenti per la crescita economica del Mezzogiorno”, la risposta è niente. Si tratta dell’ennesima dimostrazione di quanto le leggi italiane sia scritte male sia come impianto strutturale sia come redazione. Un giurista mi ha detto che il problema è noto, la sua soluzione è costantemente all’ordine del giorno, ma non se ne esce probabilmente perché deriva dai regolamenti parlamentari. E’ un problema non da poco, ma ha poco a vedere con l’argomento di questo post e quindi lo lascio perdere.
In realtà il DL 20-06-17 n.91 riguardo ai sacchetti di plastica non dice sostanzialmente niente. Li tratta all’articolo 9, che consta di un solo comma. E’ talmente breve che vale la pena di riportarlo integralmente:

Art. 9

Misure urgenti ambientali in materia di classificazione dei rifiuti

1. I numeri da 1 a 7 della parte premessa all’introduzione
dell’allegato D alla parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006,
n. 152, sono sostituiti dal seguente: «1. La classificazione dei
rifiuti e’ effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente
codice CER ed applicando le disposizioni contenute nella decisione
2014/955/UE e nel regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione,
del 18 dicembre 2014».

La legge 123 del 03-08-17 conferma quanto sopra (con una minima modifica formale) ed aggiunge l’articolo 9-bis che, nei suoi numerosi commi, disciplina la commercializzazione delle borse di plastica in materiale leggero ed ultraleggero (definito come quello con spessore inferiore ai 15 micron), sua con disposizioni ex-novo che modificando articoli del Capo V del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia ambientale”.
Fatto un minimo di ordine nell’intrico dei provvedimenti che si riferiscono alla questione (prometto che non ne ti tiro fuori altri), andiamo a vedere le cose salienti che dicono partendo dalla Direttiva UE 2015/70. Vale la pena spiegare per i meno avvezzi alla legislazione comunitaria che la Direttiva è un provvedimento con cui la UE sostanzialmente definisce un obiettivo, lasciando ampia libertà agli Stati Membri su come raggiungerlo (viceversa il Regolamento Comunitario è un provvedimento legislativo che dice a tutti gli Stati Membri quello che devono fare con limitata, o nulla, libertà riguardo alle modalità di recepimento).
In altre parole si sapeva che “ce l’ha chiesto l’Europa” era probabilmente una bugia senza nemmeno leggere la Direttiva (che poi è solo di 5 pagine e quindi si legge anche in fretta).
La Direttiva comunque contiene ovviamente cose importanti. Secondo me il principio più importante è quello enunciato al punto 9 delle considerazioni iniziali (il grassetto è mio):
“Inoltre, è provato che le informazioni ai consumatori svolgono un ruolo decisivo nel raggiungimento degli obiettivi di riduzione dell’utilizzo di borse di plastica. Pertanto, è necessario impegnarsi a livello istituzionale per aumentare la consapevolezza del pubblico in merito agli impatti sull’ambiente delle borse di plastica e liberarsi dall’idea ancora diffusa che la plastica sia un materiale innocuo e poco costoso“.
A cui aggiungerei subito dopo il punto 15 delle considerazioni iniziali:
“I programmi di sensibilizzazione per i consumatori in generale e i programmi educativi per i bambini possono svolgere un ruolo importante nella riduzione dell’utilizzo di borse di plastica.”
Dal punto di vista operativo invece la cosa più importante contenuta dalla Direttiva è che lascia libertà agli Stati Membri sulle misure da adottare per raggiungere una riduzione sostenuta dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero. Queste misure però devono includere una delle seguenti opzioni, oppure entrambe (copie e incollo, il grassetto come sempre è mio):
“Le misure adottate dagli Stati membri includono l’una o l’altra delle seguente opzioni o entrambe:
a) adozione di misure atte ad assicurare che il livello di utilizzo annuale non superi 90 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre 2019 e 40 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre 2025 o obiettivi equivalenti in peso. Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse dagli obiettivi di utilizzo nazionali;
b) adozione di strumenti atti ad assicurare che, entro il 31 dicembre 2018, le borse di plastica in materiale leggero non siano fornite gratuitamente nei punti vendita di merci o prodotti, salvo che siano attuati altri strumenti di pari efficacia. Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse da tali misure“.
Come vedete viene esplicitato che le borse in plastica in materiale ultraleggero, quelle usate per frutta e verdura per capirsi, possono essere escluse dalle misure di riduzione dell’utilizzo di borse in plastica (i più attenti di voi l’avevano già capito dal fatto che la norma si riferisce sempre alla “borse in plastica di materiale leggero”. Per di più la direttiva richiede che il pagamento delle borse in plastica venga fatto entro il 31 dicembre 2018.
Quindi è stato il Parlamento Italiano a decidere di far pagare anche le borse in plastica di materiale ultraleggero e di farle pagare dal 1 gennaio 2018 e non, per esempio dal 30 dicembre 2018.
Chiarisco subito che io sono personalmente d’accordissimo con questa decisione.
L’altra considerazione è che tutto il can-can che si sta facendo in questi giorni su giornali e social è in ritardo 5 mesi, perché il 3 di agosto 2017 si sapeva già che dal 1 gennaio 2018 tutte le borse di plastica avrebbero dovuto avere almeno il 40% di materia prima rinnovabile e sarebbero stati a pagamento. Il che ha come corollario una certa disonestà intellettuale da parte delle forze sociali (partiti politici e non solo) che oggi si stracciano le vesti.

Opportunità e minacce del nuovo quadro di mercato.
Secondo quanto riporta un articolo del mensile della Coop “Con: consumatori e responsabilità”, in Italia venivano utilizzati attualmente 8.000.000.000 di sacchetti di polietilene ultraleggeri all’anno.
Considerando un prezzo di vendita medio di 0,03 euro (sto largo), significa un maggior fatturato da parte della distribuzione alimentare piccola e grande (soprattutto) di 240.000.000 di euro. Quindi maggiori introiti dello stato tramite l’IVA di 52.800.000 euro. Un po’ pochi rispetto al bilancio dello stato per pensare che l’obiettivo principale della scelta del Governo sia stata quella di fare cassa (per dare un’idea il debito del Comune di Roma è di 17.000.000.000 di euro).
Per le entrate delle tasse sul reddito d’impresa è difficile fare delle previsioni perché dipendono dall’effettivo aumento dei guadagni da parte delle aziende del dettaglio alimentare. Se il prezzo di cessione dei nuovi sacchetti corrisponde alla differenza di costo tra quelli vecchi e quelli nuovi non ci sarà aumento del reddito d’impresa, se invece il prezzo di cessione supera questa differenza ci sarà un aumento dei guadagni mentre se le aziende distributive decidono di investire e vendono i nuovi sacchetti ad un prezzo che non copre la differenza di costo rispetto ai vecchi, il reddito d’impresa diminuirà e di conseguenza anche le tasse pagate dalle aziende. Il tutto ovviamente in una situazione di ceteris paribus, ossia con le tutte le altre variabili immutate.
In sintesi comunque le cifre in gioco sono piccole sia a livello unitario, 0,02 / 0,03 euro a sacchetto – 5 / 10 euro a famiglia all’anno, che a livello complessivo.
Più significativi invece appaiono i cambiamenti nei comportamenti di vendita e di acquisto ed ancora di più le opportunità strategiche per le catene della GDO, che al momento paiono essersi limitate a soddisfare i requisiti minimi di legge.
In termini del comportamento del consumatore bisogna tenere conto della combinazione di due fattori.
Da una parte l’imposizione di far pagare i sacchetti di plastica ultraleggeri sembra sia stata vissuta da ampie fasce di popolazione come un balzello (quanto questo sia stata spontaneo e quanto alimentato da strategie politiche populiste e demagogiche, qui poco importa) mentre dall’altra è noto, provato, consolidato e generalizzato l’interesse delle persone nei confronti dell’ambiente se questo non comporta (eccessivi) costi monetari o “comportamentali”.
Per questo quindi dubito fortemente che il pagamento dei sacchetti per frutta e verdura sposti gli acquisti delle persone sui prodotti cosiddetti di IV gamma, ossia l’ortofrutta già preparata per il consumo e confezionata in buste di plastica, come hanno suggerito alcuni esperti.
Osservando le persone al supermercato ho notato piuttosto un interesse per la frutta e verdura fresca già confezionata in rete di plastica e per quella venduta a cassetta intera.
Se io fossi il Direttore Marketing di una catena della GDO osserverei con attenzione il dato del peso medio dell’acquisto per atto di acquisto per vedere se cresce e quello della frequenza di acquisto per vedere se cala. Nel caso in cui crescesse il primo e rimanesse invariato il secondo significherebbe che le persone stanno comprando più frutta e verdura. Se ne stanno anche mangiando di più dipende da quanta ne buttano via (spero nell’umido) perché è andata a male.
Farei anche un’altra cosa: comincerei ad inserire nell’assortimento frutta e verdura fresca confezionata in rete in formati più piccoli di quelli attuali e vedere come ruotano. Oltre ad offrire al consumatore il vantaggio di una confezione più ecologica (meno plastica) e che a lui non costa, miglioro tutta l’organizzazione del reparto riducendo l’utilizzo delle bilance (tempo per pesare, inceppamenti, manutenzione, sostituzione rotoli etichette) e le conseguenti perdite di tempo alle casse (sacchetti non pesati e prezzati, codici EAN illeggibili). In sintesi fornisco più valore ai consumatori ed abbasso i miei costi: meglio di così, impossibile.
Queste le prime due cose che mi vengono in mente e che si possono realizzare da subito.
Il comportamento del consumatore però apre prospettive su cui potrebbe essere interessante investire, sia per fidelizzare gli attuali che per attirarne di nuovi.
In questo senso l’avviso nel supermercato Coop della foto che apre questo post è deludente da tutti i punti di vista.
E’ deludente la forma: un foglio A4 stampato al computer ed attaccato con il nastro adesivo. Si poteva fare di meglio su un argomento al quale le persone stanno dando così tanta attenzione e che quindi diventa un’opportunità di comunicazione rilevante.
E’ deludente nel contenuto: COOP semplicemente si adegua alla normativa e comunica che il prezzo di 2 centesimi al sacchetto copre solo in parte i costi. Quindi con i 2 centesimi in realtà Coop sta assorbendo parte dei costi che altrimenti avrei dovuto pagare io? E quanti costi assorbe? Visto che anche altre catene di supermercati li fanno pagare 2 centesimi all’uno anche loro coprono parte dei costi che sarebbero stati a carico del consumatore, oppure no? Se veramente Coop si sta impegnando per me mi piacerebbe sapere come e quanto, instillare dubbi di credibilità nella mente dei propri clienti credo sia la cosa peggiore che un negoziante possa fare.
In comunicazione ci si sforza tanto per poter attirare l’attenzione delle persone e poi quando ce la danno spontaneamente la sprechiamo così.
Nel frattempo leggo sul giornale che Coop annuncia che “presenterà a breve soluzioni e materiali di confezionamento sulla merce fresca e sfusa che siano effettivamente riutilizzabili a bassissimo costo per i consumatori e di maggior vantaggio per l’ambiente”.
Si poteva fare di più e meglio per differenziarsi? Credo proprio di sì e continuo con l’esempio di Coop perché la rivista “Con” riporta che durante l’iter legislativo si era opposta al pagamento dei sacchetti da parte dei consumatori, quindi aveva previsto di sopportare i costi aggiuntivi per i 350.000.000 di sacchetti che utilizza ogni anno.
Si poteva far pagare i sacchetti 0,01 euro l’uno, si potevano utilizzare sacchetti con il 100% di materia prima rinnovabile, si potevano usare sacchetti di carta.

Attenzione, non è che ce l’ho con la Coop, di cui sono affezionato cliente: sono tutte cose che potevano fare anche le altre catene di supermercati.

La carta è la strada che la stessa Coop ha preso nel reparto pescheria e mi sembra la strada che sta prendendo il piccolo dettaglio indipendente, per il quale far pagare i sacchetti è un po’ più complesso in termini operativi e soprattutto è molto più difficile in termini di rapporto con la clientela.

Quindi la nuova norma crea una situazione evidentemente favorevole per i produttori di bioplastica, a attenzione anche ai produttori di sacchetti di carta.
Ecco perché sono d’accordo con la scelta del Parlamento di far pagare anche i sacchetti ultraleggeri: la norma sta spingendo verso una riduzione dell’uso della plastica al di là degli obblighi di legge e sta contribuendo a smontare l’idea che la plastica sia un materiale innocuo e poco costoso.
Se poi avessero destinato l’introito IVA a campagne di sensibilizzazione sulla visione degli imballaggi secondo la regola delle 3R – Ridurre, Riusare, Riciclare in questo ordine di priorità – sarebbe stato ancora meglio, ma per il momento mi accontento.

La comunicazione del PD sulla questione del pagamento che sacchetti di plastica ultraleggeri.
Il post è già lungo, quindi sarò estremamente sintetico.
Sul pagamento dei sacchetti di plastica per l’ortofrutta il PD a tre mesi dalle elezioni ha fatto la figura del Governo gabelliere che ruba ai poveri per dare agli amici ricchi.
Questo anche perché alle accuse populiste e demagogiche si è risposto con altrettanta confusione ed imprecisione (per non dire bugie “E’ una norma europea”).
La materia in realtà era chiara e conosciuta, il governo del Pd ha fatto una scelta precisa nel recepimento della direttiva che immagino (e voglio sperare) non era casuale, a basata su precise valutazioni.
Valutazioni che probabilmente porteranno a risultati apprezzati da ampie face di elettori fedeli e potenziali.
Anche nell’attuale frammentazione della comunicazione non avrebbe fatto male una presa di posizione ufficiale da parte del PD che ne spiegasse le ragioni, anche perché magari sarebbe stato un indirizzo e riferimento per tutti i rappresentanti del Partito, gli attivisti ed i simpatizzanti che sui social hanno condiviso posizioni sbagliate e contradditorie che alla fine fanno il gioco degli avversari.
Populista è chi populista fa e rispondere al populismo con il populismo sullo stesso argomento non funziona. Se proprio si vuole percorrere questa strada comunicativa (tutto da vedere se è nelle corde del proprio target elettorale, a questa è un’altra storia) bisogna usarlo per distrarre l’attenzione da questo argomento per portarla su altri.
Detto in altre parole, il meme della cugina di terzo grado di Renzi funziona solo per chi si rende conto che è un meme e comunque continua a rimestare l’argomento togliendo attenzione a quello del miglioramento dei dati sui musei.
Ricordo Prodi che, sbeffeggiato come “Mortadella”, arrivava ai dibattiti con il suo plico di carte e l’aria da professore (in teoria quanto di peggio si poteva immaginare per la raccolta del consenso) e le elezioni le vinceva, anche con tutte le televisioni contro.