Le tecniche di vendita (digitale) stanno uccidendo il marketing (e le marche)?

Tanti anni fa da qualche parte ho sentito qualcuno che diceva più o meno che il marketing perfetto non ha bisogno né di forza vendita né di pubblicità. Se si propone al proprio mercato obiettivo il prodotto/servizio per lui ideale ed al giusto prezzo rispetto al valore percepito saranno i consumatori a cercarlo ed a promuoverlo con il passaparola.

E’ un concetto con cui ero sostanzialmente d’accordo quella volta ed ancora di più oggi visto che l’era digitale con i social networks ha aumentato ancora di più l’importanza e la portata del passaparola nella comunicazione delle marche rispetto alle varie forme di comunicazione controllate dalle aziende (pubblicità in primis) e con le vendite on line ha smaterializzato la distribuzione di moltissime categorie merceologiche.

Non a caso uno dei concetti alla base della mia visione del marketing totale (che son quasi 4 anni) è che le marche devono preoccuparsi di rendersi facili da trovare per i consumatori invece di preoccuparsi di cercarli.

La pratica però sembra andare in una direzione molto diversa rispetto a questa teoria e sempre più spesso viviamo esempi di tecnologie digitali utilizzati per spingere le vendite, in modo più o meno mirato (la mia impressione è che quando il “push” supera certi livelli di invasività anche una proposta in linea con le mie esigenze/desideri/interessi diventa fastidiosa).

Ne scrivevo lo scorso febbraio e ne scrivo oggi perché l’altro giorno dovevo fare un acquisto on line sul sito di Decathlon ed ho intenzionalmente cliccato sul primo risultato apparso nel motore di ricerca.

Normalmente evito i risultati sponsorizzati perchè so che spesso e volentieri portano in luoghi pericolosi, ma questa volta l’ho fatto intenzionalmente proprio a scopi investigativi. Un po’ come i  chimici, medici e biologi che nel XIX e XX secolo che sperimentavano su se stessi i risultati delle proprie teorie e ricerche, ma con molto meno rischio.

Inoltre mi aveva incuriosito il fatto che, benché fosse sponsorizzata, il link apparisse come Decathlon, esattamente come quello “organico” che c’era sotto.

Quindi si è aperta l’home page di Decathlon con sopra un banner che offriva la possibilità di vincere buoni sconto Decathlon a fronte della compilazione di un breve questionario. Sito Decathlon, buoni sconto Decathlon per avere i miei dati, ci sta. Tanto più che io da Decathlon faccio già acquisti 2/3 volte all’anno.

Ho risposto a poche domande sul mio “profilo” sportivo e poi per poter partecipare all’estrazione dovevo fornire i miei dati. Ci sta. Come mail ho dato la solita mail a rischio “spazzatura” che poi non guardo mai, però era richiesto anche il cellulare. La cosa un po’ mi ha insospettito, ma neanche tanto perché pensavo di esser in territorio Decathlon, e poi comunque ero lì per vedere cosa succedeva.

Non ho vinto, ma mi subito mi è arrivata un’offerta, da un altro URL. Lì ho capito che NON ero da Decathlon, ma in una imboscata di vendita.

Visto che ero in ballo ho continuato a ballare per un po’, dando qualche risposta a caso e dopo un po’ ho chiuso tutto perché avevo altro da fare e l’esperimento era durato abbastanza.

Tutto tranquillo per una decina di giorni e poi ieri, sabato, alle 13:04 mentre pranzavo mi chiama sul cellulare uno dalla Sardegna per propormi un’offerta di EON Energia, dicendo che avevo espresso il mio interesse e dato il mio consenso.

Probabile che sia anche vero, però comunque il sabato mentre sto pranzando non è proprio il momento in cui ho più voglia di ragionare di quanto sto pagando adesso la luce e valutare proposte alternative.

Detto in altre parole, mi state disturbando e non era nemmeno tanto difficile da prevedere.

Tra l’altro vi potrei forse capire se mi aveste chiamato al telefono fisso (sabato a pranzo è effettivamente uno dei momenti in cui è più probabile trovarmi a casa), ma visto che avete il cellulare perché non avete chiamato in un momento più consono?

Il bello è che potrei essere anche interessato a cambiare fornitore, perché ho la sensazione che quello attuale sia un po’ caro, però a questo punto EON energia lo escludo per fastidioso.

Non so se io sono particolarmente rompiscatole, però sicuramente questo non è un esempio isolato (ho già scritto un post al riguardo), e temo che le cose siano destinate a peggiorare visto che l’altro giorno è sentito un esperto di marketing sostenere che l’acronimo WIIFM – What’s is it For Me? (Qual è il mio vantaggio?) non esprimerebbe la domanda che le persone si fanno di fronte ad una qualsiasi proposta (di marca) come credevo io, ma la domanda che noi (l’azienda) deve farsi ogni volta che viene a contatto con qualcuno.

Ossia quali e quanti vantaggi posso trarre io dalla relazione.

Non credo si essere l’unico ad avere crisi di rigetto sempre più frequenti.

5 modi in cui i contenuti di marketing possono supportare le vendite.

Ispirato da un articolo apparso su Marketing News, ed in parte riprendendone i contenuti, propongo 5 regole per rendere i contenuti creati dal marketing più efficaci nel supportare le vendite.

Una delle frasi che ripetevo spesso in azienda è che le strategie di marketing vengono realizzate (soprattutto) dalle (funzioni) vendite. Se i risultati non saranno buoni, per qualsiasi motivo, la strategia dovrà essere rivista, quando non abbandonata.

E’ quindi fondamentale che gli strumenti sviluppati dal marketing siano efficaci (anche) in termini di vendita. Viceversa i nostri colleghi delle vendite li utilizzeranno con scetticismo, o non li utilizzeranno proprio.

Lamentarsi dopo non serve a nulla.

1.Siate precisi e specifici: l’utilizzo di termini vaghi maschera il vantaggio competitivo della nostra proposta (prodotto o servizio che sia). Termini generici tipo “tra i migliori della categoria”, “innovativo”, “facile da usare”, ecc… sono abusate e quindi deboli, quando non inutili, nel supportare le vendite.

Suonano bene, ma costringeranno i vostri colleghi delle vendite ad un maggiore sforzo nel far apprezzare ai clienti il vantaggio competitivo, con il rischio che non ci riescano.

Siate specifici e precisi nel descrivere il vantaggio competitivo che caratterizza la proposta, evitando i concetti generici o, almeno, contestualizzandoli in modo inequivocabile (e magari differenziante). Questo ridurrà il pericoloso spazio per le interpretazioni ed aumenterà l’efficacia dei colleghi delle vendite.

 

2.       Focalizzatevi sul benefit che la proposta fornisce ai vostri clienti: se sono più veloce non dirò che sono molto più veloce, ma dirò qual è la mia velocità o, meglio ancora, che sono il 20 % più veloce del miglior concorrente (ricordate che le scelte di acquisto delle persone sono sempre comparative e mai assolute).

 

3.       Non fate dichiarazioni vuote: fornite (ai colleghi delle vendite ed ai clienti) le prove di quello che dite. “Siamo il 20% più veloci del miglior concorrente perché costruiamo il nostro prodotto usando questo brevetto in esclusiva e questi sono i test che lo dimostrano”.

 

4.      Usate termini famigliari e sensati per la categoria: non è lo stesso della precisione e specificità dette prima. Qui si tratta di permettere ai clienti di poter confrontare le proposte (prodotti o servizi) di due o più concorrenti e per farlo è necessario che i parametri che li descrivono siano confrontabili. Ad esempio la potenza, la velocità massima, il consumo per 100 km, ecc.. nel caso di una automobile. Usare parametri fuori dagli standard della categoria, tipo “da 0 a 38 km/ora in x secondi” creerebbe solo confusione nei potenziali clienti.

Inoltre sempre più spesso molti acquisti vengono confrontando prima sul web (molte) diverse alternativa e l’utilizzo di termini/parametri avulsi dalla categoria comporta il grande rischio di essere subito esclusi dal paniere delle scelte. Rischio che diventa praticamente certo se la comparazione viene fatta da appositi bot.

 

5.       Non mischiate i messaggi: il tono ed i contenuti del messaggio vanno calibrati coerentemente al livello di conoscenza/professionalità che hanno le diverse audiences a cui ci rivolgiamo. Toni e contenuti per comunicare con gli intermediari dovranno essere diversi da quelli usati per il consumatore finale.

Tenete presente anche dei diversi livelli di conoscenza/esperienza/formazione dei diversi tipi di intermediari commerciali e dei diversi segmenti di consumatori. Ad esempio tra un ristorante stellato ed una trattoria nel proporre un abbattitore di temperatura o tra un appassionato degustatore ed un bevitore occasionale nel proporre un vino.

Le relazioni nascono dagli argomenti, non dagli strumenti. Imparare da Farmina.

Per vari motivi sto approfondendo l’area del marketing relazionale.

Avevo cominciato ad esplorarla un paio di anni fa ed ero rimasto perplesso. Man ano che approfondisco, aumentano le mie perplessità.

Ho la netta impressione che la visione prevalente si basi soprattutto su tecnicismi, che si contrappongono alla visione altrettanto tecnicistica del marketing transazionale.

Si tratta di concetti che in realtà poco hanno a che vedere con il marketing strategico ed alla sua pianificazione e gestione efficace ed efficiente.

Mi rendo conto che detta così la cosa suona presuntuosa e forse un tantino nihilista, però sono troppo stanco per sviscerare questa impressione oggi. Dico solo che mi sembra siano come “above the line” e “below the line”, due concetti di pubblicità che venivano dati per scontati e che per e non sono mai esistiti nello sviluppo di una strategia di comunicazione fin da quando faccio marketing per professione, ossia del 1994. Non solo perché non ne faceva menzione Kotler nell’edizione canadese di Marketing Management che ho studiato io, ma soprattutto perché si tratta di una classificazione slegata al comportamento del consumatore che quindi rischia di generare strategie inefficaci. Non è così che le persone si rapportano alle diverse forme di comunicazione. Se poi le agenzie di pubblicità / centri media devono fare i loro traffici con le concessionarie, si organizzino come meglio credono senza confondermi le idee invece di aiutarmi (ne scrivevo in maniera più estesa ed organica qui nel 2014).

Buona parte del marketing relazionale è concentrato sugli strumenti (digitali) per attivare e gestire le relazioni. Che poi all’atto pratico si riducono nell’ottenere i dati per aprire canali di comunicazione diretti con le persone e poter bersagliarli in modo più preciso con strategie di push che neanche il peggior approccio di vendita.

Oggi invece ho vissuto in prima persona un bell’esempio di marketing relazionale (che io normalmente avrei chiamato semplicemente di marketing) da parte della ditta di alimenti per cani e gatti “Farmina”.

Stavo attraversando Piazza Unità a Trieste con i miei due cani al guinzaglio (cosa che sarà capitata 3 volte in 12 anni) quando mi ha avvicinato una gentile signorina chiedendomi se poteva regalarmi dei bocconcini omaggio per i miei cani.

Ovviamente ho detto di sì. Mentre me li dava mi chiesto se poteva farmi un paio di domande e come potevo dire di no?

Mi ha chiesto come si chiamavano, di che sesso erano, che età avevano.

Poi mi ha chiesto se volevo dargli la mia mail per ricevere altri buoni sconto sui prodotti Farmina (uno era già nella borsetta con dentro i bocconcini omaggio) ed io gliel’ho dato. La finalità promozionale è trasparente e l’accetto volentieri.

Hanno attivato una relazione attraverso un rapporto personale, non digitale.

Se saranno bravi e mi disturberanno via mail per dirmi/offrirmi cose interessanti la relazione continuerà, altrimenti finiranno nello spam (non perdo neanche il tempo di cancellarmi dalla mailing list).

Prima di salutarmi mi ha chiesto se poteva fare una foro ai miei cani. E’ rimasta un po’ sorpresa quando le ho chiesto il motivo, ma da quando Diva e Donna mi ha paparazzato i cani prendendo una foto da questo blog per il giornale sono più sensibile alla privacy.

Mi ha risposto che è per pubblicare la foto sul loro profilo Instagram, ma che se non ero d’accordo non c’era problema. Quando le ho detto sì, mi ha chiesto se potevo far entrare nel campo visivo anche la borsetta con il logo Farmina.

Kali ha guardato in macchina, mentre quel vecchio brontolone di Fly si è girato dall’altra parte.

In sintesi:

- targettizzazione perfetta: tutti quelli che hanno un cane e solo quelli che hanno un cane.

- attivazione della relazione tramite un approccio personale emotivo (… a i cani ed i padroni dei cani) in cui l’azienda si spende nei confronti del target.

- integrazione dell’analogico con il digitale (e-mail)

- rafforzamento del rapporto personale con gli strumenti digitali (“guarda mamma il nostro cane è su Istagram”, vuoi non cliccare sul cuoricino?)

Se la borsetta fosse stata in plastica biodegradabile gli avrei dato 10!

Il marketing del compleanno – aggiornamento 2017.

L’anno scorso intorno a questa data ho scritto un post sul marketing del compleanno.

Siccome, Deo gratia, lo scorso 18 settembre ho compiuto gli anni di nuovo, mi è sembrato interessante riprendere il tema aggiornando la situazione.

Cominciamo con il leader incontrastato del marketing del compleanno.

Facebook il giorno del compleanno mi ha fatto gli auguri e mi ha chiesto se volevo rivivere i ricordi dei compleanni passati. Confesso che la prima associazione mentale che mi è venuta è stata con i fantasmi dei Natali Passati del “Racconto di Natale” di Dickens.

Probabilmente sono io che sono fatto male, resta però questa forte tendenza nostalgia che fa guardare al passato molto più che al futuro (vedasi tutti i rapper trentenni che cantano di quando erano giovani).

Il giorno dopo invece mi ha detto più meno  “E’ stata una splendida giornata, rivivila con il video che abbiamo preparato per te”. E se fosse stata una giornata di mer…? Facebook, tu non sei un mio amico, sei una piattaforma web dove condivido (parte) della mia vita. E questo mio modo di pensare non credo sia molto diverso da quello della maggioranza delle persone. Invece di cercare di creare un rapporto personale che risulterà  comunque finto, ci sarebbero tante cose utili che potresti fare per me il giorno del io compleanno per stringere il rapporto utente/macchina (non le dico perchè vivo facendo il consulente, quindi gli spunti possono essere anche gratis, ma le soluzioni vanno pagate).

Voto 3 per il tentativo di irretirmi e la sensazione di tristezza prodotta.

 

Genertel invece è in netto miglioramento rispetto alla finta intimità dell’anno scorso. Mi manda infatti questa mail

Ciao Lorenzo,
BUON COMPLEANNO!
Oggi il tuo Facebook è pieno di “Auguri!”, “Happy Birthday” e “Tanti Auguri!”. 
Per non farti passare la giornata a ringraziare tutti, uno a uno, abbiamo pensato di aiutarti così:
Condividi la gif sui tuoi social per ringraziare tutti i tuoi amici e poi…
VAI A FESTEGGIARE!!

Genertel 2018

Per inciso, colgo l’occasione per ringraziare nuovamente tutti quelli che mi hanno fatto gli auguri. Qualunque mezzo abbiano usato.

Voto 8 per l’uso creativo dell’analisi sulla consumer experience (di facebook).

 

Unicredit mi scrive “Lorenzo Biscontin, oggi è un giorno importante e meriti speciale. Buon Compleanno dalla tua Banca”. Ora siccome non sono Mr. Banks di Mary Poppins non è che ricevere una mail generata automaticamente tramite un algoritmo che pesca nella mia anagrafica da parte della Banca mi emozioni particolarmente. Potevate almeno fare lo sforzo e creare un algoritmo più completo per fare in modo che gli auguri arrivassero dal “mio” consulente o dal Direttore della mia agenzia.

La cosa è ulteriormente peggiorata dai due riquadri che si trovano in calce alla mail: nel primo ci sono le istruzioni per cambiare l’indirizzo a cui ricevere le comunicazioni ed nel secondo, con il titolo DIFFIDATE DELLE IMITAZIONI! in evidenza, quelle antiphishing.

Voto 4 per l’aridità emotiva degna di una banca di altri tempi.

 

Europcar mi dice che ha una sorpresa per me, mi augura buon compleanno e mi offre un buono sconto sul prossimo noleggio fino al 31-12-2017.

Voto 6 ½ per sapere fare correttamente il proprio lavoro. Avrebbero preso 7 se la validità del coupon fosse definita come periodo a partire dalla data del compleanno. Uno è tanto più penalizzato quanto più avanti nell’anno compie gli anni, se li compie il 31 dicembre è una beffa. (mi rendo conto che ho dato una soluzione gratis, è perché così non crediate che millanto del credito).

 

Experteer, che continuo a non ricordarmi cosa sia e cosa faccia e da cui quindi dovrei “scancellarmi”, mi regala 7 giorni di iscrizione Premium gratuita.

Voto 6, ossia sufficienza, per aver fatto almeno uno sforzo.

 

Geneanet, sito di ricerche genealogiche a cui mi sono iscritto dieci anni fa e che non guardo da … 9, mi augura buon compleanno e mi ringrazia di essere membro di Geneanet.

Voto 6 ½ per la cortesia.

 

Lufthansa mi regala 1.000 punti miles & more se prenoto un albergo partner attraverso il sito miles & more. Come l’anno scorso, uguale uguale.

Voto 6/7. Fossero stati meno ripetitivi avrebbero preso 7.

 

Brillano invece per la loro assenza tutti quei siti e/o aziende che tutti i giorni mi contattano per vendermi qualcosa.

Si faranno vini l’anno prossimo? Se, a Dio piacendo, arriverò al compleanno 2018 ve lo farò sapere.

Il ruolo del positioning nel fondamentale equilibrio tra awareness e reputazione.

equilibrio balla

Nel mio posto del giugno 2016 “Sul web si crea la reputazione, non la conoscenza di marca” , ho pubblicato questa matrice, che sviluppai nel lontano 1993 quando mi dedicavo all’inquadramento teorico del marketing dei prodotti tipici a denominazione d’origine, senza spiegarla.

Credo però che meriti un approfondimento per l’utilità che ha il suo utilizzo nell’analisi della situazione della marca e nella definizione delle relative strategie.

Come esempio concreto prendo la recente campagna pubblicitaria del Buondì Motta, approfittando del fatto che la grande attenzione ricevuta rende i ragionamenti che seguono più facilmente comprensibili.

La campagna Buondì aveva l’obiettivo dichiarato di rilanciare una marca/prodotto un po’ appannata ed ha generato grande aumento della sua awareness (sicuramente a breve termine, sul medio è da vedere).

Però era proprio l’awareness il punto debole su cui bisognava intervenire? Dipende.

Se la marca si trovava nel quadrante buono, e quindi l’appannamento dipendeva dalla bassa awareness in presenza di una buona reputazione, evidentemente la strategia della campagna era quella giusta.

Se però l’appannamento della marca dipendeva da un basso livello sia di awareness che di reputazione, quadrante potenziale, investire sull’aumento di awareness sposta la marca nel quadrante pessimo (affossandola definitivamente).

Ovviamente la rappresentazione di confini netti tra i vari quadranti della matrice è una semplificazione per esprimere il concetto con maggior chiarezza. Nella realtà operativa lo spostamento delle marche sugli assi è un continuum.

Altrettanto è evidentemente che l’aumento di reputazione implica sempre un certo aumento di awareness, se non altro per il passaparola.

Attenzione però che non è vero il contrario, ossia ci può essere aumento di awareness senza aumento di reputazione. Oppure, ed è il caso peggiore, ci può essere un aumento di awareness innescato da un calo di reputazione, come nel caso di Carpisa di questi giorni.

Dal punto di vista delle strategie aziendali, quello che lega awareness e reputazione è il positioning, inteso come la definizione da parte dell’azienda di cosa la marca vuole rappresentare per la sua audience e le successive azioni messe in atto per realizzare questa rappresentazione sul mercato.

In altre parole dal punto di vista aziendale il positioning è l’insieme della definizione della reputazione che dovrebbe avere la marca della marca e le strategie realizzate per trasferirla sul mercato. Attenzione che il trasferimento del positioning non riguarda solamente la politiche di comunicazione (che non a caso io definisco di “percezione” nella mia visione del Marketing Totale), ma anche quelle di prodotto, prezzo e distribuzione (che io definisco “presenza” nella mia visione del Marketing Totale)

Nella matrice invece l’asse della reputazione rappresenta la reputazione effettiva della marca sul mercato.

Le due reputazioni, quella pianificata dall’azienda e quella percepita dal mercato, non corrispondono quasi mai per le distorsioni che il messaggio subisce nel processo di comunicazione tra l’emittente ed il ricevente. Anche se non siete degli esperti di teoria della comunicazione, semiotica, ecc.., basta che da bambini abbiate giocato una volta al telefono senza fili per sapere cosa intendo.

Più il positioning aziendale è chiaro, forte, preciso e dettagliato e meno distorsioni subirà nel trasferimento al mercato.

Qual’era la posizione della marca Buondì sulla matrice awareness-comunicazione prima della campagna pubblicitaria? Qual’ è il positioning che vuole comunicare? E’ definito chiaramente? E’ quello che viene trasmesso/recepito dalla campagna?

Vista tutta la discussione che ha generato nei media analogici, digitali e social credo che sarebbe una bella azione di content marketing se Buondì rendesse pubblici i risultati della campagna pubblicitaria in termini di variazione dell’awarness, reputazione e vendite.

“Brad is single”, meglio !

Negli ultimi due giorni è diventata virale una pubblicità di una linea aerea che riportava semplicemente la scritta “Brad is single” nelle varie lingue, con il prezzo della tratta tra un aeroporto del paese e Los Angeles.

brad-is-single

E’ una campagna molto buona per diversi motivi, ma in sintesi perché posiziona la compagnia aerea come un’azienda dinamica, attenta, sveglia che vive in pieno il proprio tempo. Al di là dell’eventuale effetto tattico promozionale di vendere voli da e per Los Angeles, l’effetto più interessante di questa campagna è quello strategico sulla percezione della marca/azienda.

Come spesso (sempre) succede in comunicazione i messaggi indiretti sono più forti e profondi di quelli espliciti, quando arrivano. In questo caso sicuramente è arrivato ad ampie fasce di consumatori, anche grazie alla viralità ed all’eco che ha ricevuto da parte di tutti i media tradizionali e non (che senso abbia che i quotidiani parlino di un argomento solo perché è un argomento popolare, clickbaiting a parte è un argomento di cui magari parliamo un’altra volta).

Faccio però una domanda a tutti voi che avete visto l’immagine della campagna da qualche parte: qual è la compagnia aerea che l’ha fatta?

Se anche il 100% di voi ha risposto giusto, per le ragioni esposte sopra e per il corollario che descriverò a breve, io credo che con un leggero cambiamento la campagna sarebbe stata ancora più efficace: mettendo il logo della “norwegian” sotto al prezzo del volo ci sarebbe stata (maggiore) certezza che le persone esposte alla campagna lo vedessero e la forza elegante del messaggio sarebbe stata comunque tale da dare il medesimo contributo alla percezione della marca (brand equity).

E’ il concetto di “make the money work harder” e va perseguito sempre per quanto possibile per l’etica dell’efficienza (che porta alla massimizzazione dell’efficacia).

Il corollario che ha probabilmente contribuito alla diffusione della conoscenza della norwegian è stata la risposta di “Alitalia”. Dal punto di vista di Alitalia secondo me è stata una pessima mossa perché:

-          Posiziona Alitalia come follower.

-          Posiziona Alitalia come guascone / parassita.

-          Rischia di posizionare Alitalia come compagnia aerea non conveniente nel caso in cui il costo del volo sia superiore a quello di norwegian.

-          Diventa un megafono che amplifica la campagna (originaria e originale) di norwegian.

Lo so che mi direte che comunque è stata un’azione di social media marketing che ha dato visibilità ad Alitalia, ma ormai dovrebbero saperlo anche i sassi che le vanity metrics non portano a niente (nel migliore dei casi) e spesso portano alla perdizione (delle marche).

Aggiungo io un corollario per i massmediologi: com’è che a nessuno è venuto in mente che anche Angelina is single?

Il marketing del compleanno.

Oggi è il mio compleanno. Oltre ad aver ricevuto gli auguri di parenti, amici e conoscenti (grazie), li ho ricevuti anche da 3 società con cui ho (più o meno) rapporti. Solo 3.

Experteer, che non ho mai usato e a stento mi ricordo in cosa consista, mi regala 1 settimana di iscrizione premium. Ok è qualcosa, a caval donato non si guarda in bocca (mentre scrivo mi viene in mente che se mai possederò un cavallo lo chiamerò Donato).

Genertel fanno i simpatici mandandomi questa immagine.

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Ok, siete simpatici. Però tendenzialmente gli scherzi mi piacciono da parte delle persone, meglio se amici. Dai sistemi automatici di una compagni di assicurazioni anche no.

Lufthansa mi regala 1.000 punti miles & more se prenoto un albergo partner attraverso il sito miles & more. E qui direi che siamo nell’ambito del buon marketing, nel senso che mi avete leggermento disturbato mandandomi una mail, ma l’avete fatto per offrirmi qualcosa di “concreto” che mi può interessare e voi ci guadagnate il fatto che io imparo (o mi ricordate) la possibilità di prenotare gli alberghi dal sito Miles & More. cosa che non sapevo.

Ora io non è che voglio essere riempito di spam dall’office automation delle diverse aziende, però dov’è l’Alitalia con cui volo almeno 4 volte al mese da maggio scorso? dov’è Europcar con cui ho una convenzione e nel 2015 ho fatto tanti noleggi da passare da zero a Privilege Elite del programma fedeltà?

Dove siete tutti voi che sì, mi riempite di spam per segnalarmi le vostre promozioni?

E sì che basterebbe googolare “marketing del compleanno” per trovare spunti e soluzioni.

Non c’è niente da fare: per quanto diventi facile e potente la tecnologia la differenza sta sempre nelle idee, il resto sono solo tecnicismi.

Marketing is global, business is local; ovvero location-based marketing is here to stay.

La prima frase del titolo l’ho sentita dire da nonmi ricordo più chi ad un convegno al Cibus del 1992. Alcune ere geologiche digitali fa. E per un bel pezzo “glocal” è stato uno dei termini di modi nella comunicazione e gestione aziendale.

L’effettivo avvento della società digitale sta riportando il marketing ai suoi aspetti fondamentali, dando la possibilità di realizzare con un’immediatezza raramente vista prima gli enunciati di principio.

Se la creazione e gestione dei contenuti, fatta in gran parte sui media digitali, è alla base dell’immagine (reputazione) della marca, il location-based marketing è quello che permette di utilizzare gli stessi media per monetizzarla.

Cos’è il location-based marketing?

Da definizione di wikipedia si tratta di una nuova forma di comunicazione (pubblicità in originale, N.d.A.) che integra la comunicazione su dispositivi portatili con servizi/prodotti su base locale. La tecnologia è utilizzata per identificare dove si trova il (potenziale N.d.A.) consumatore e fornirgli comunicazioni legate specificatammente al luogo in cui si trova sui sui dispositivi portatili (smartphone per farla breve N.d.A.).

Secondo Bruner e Kummar (2007) ” location-based marketing si riferisce ad informazioni controllate dall’azienda e disegnate specificatamente per il luogo in cui gli utenti accedono ad un mezzo di comunicazione.”

Questa la definizione, che come vedete risale a quasi 10 anni fa, ma quali sono le tendenze?

Un articolo di Mireya Prado nel numero primaverile di Marketing Insights, rivista dell’American Marketing Association, indica queste come le principali.

1. La facilità d’uso su smartphone (e tablet) è cruciale.

La diffusione della navigazione da smartphone ha portato i motori di ricerca ad adottare nuove tecnologie per migliorare l’esperienza di utilizzo. Google ad esempio ha spinto sulle Accellerated Mobile Pages (in sintesi una tecnologia che permette di caricare più velocemente le pagine su smartphone ed ha effettuato vari aggiornamenti dell’algoritmo per migliorare la ricerca locale da dispositivi mobili.

Anche per il 2016 è prevedibile che gli aggiornamenti continuino ed una delle direzione in cui si svilupperanno è quella di utilizzare gli “structured data” come elemento di dterminaazione del ranking nelle ricerche (se sapessi cosa significa, lo spiegherei. al momento l’ho solo intuito leggendo la spiegazione che ne fa google search)

La sintesi di tutto questo è che nel 2016, per avere successo nelle ricerche su base locale bisognerà disegnare i nostri media digitali con un approccio “mobile first” in modo da fornire agli utenti la miglior esperienza di navigazione possibile per semplicità e completezza.

 

2. Capire che le persone (consumatori) usano i social come vogliono loro, non come l’azienda vorrebbe che li usassero.

Sulla diffusione dei social creo ci sia poco da dire, perchè la viviamo tutti in prima persona. Come in prima persona viviamo la diffusione del loro utilizzo da cellullare (i direi quasi che il secondo ha favorito il primo).

Questo ha creato la proliferazione di messaggi/contenuti in tempo reale a livello globale.

La conseguenza per i messaggi di contenuti locali è la necessità di comunicare direttamente con il consumatore e quindi di creare un coinvolgimento (dimenticatevi likes e follower: sono solo scalpi, al limite, decorativi).

Oggi i consumatori si aspettano una risposta diretta da una marca in meno di un’ora (io qualche anno fa avevo fissato come obiettivo del mio dipartimento di rispondere entro un giorno. Ognuno pensi ai tempi di risposta che riceve dalle marche, quando le riceve).

Perchè allora fare la fatica di accontentare questi tempi di risposta? Perchè una connessione rilevante con la marca aumenta di 7 volte la probabilità che un consumatore risponda positivamente ad una promozione.

 

3. Beacons e mobile wallet non sono una moda.

L’adozione di beacons e mobile wallet è ancora marginale perchè queste tecnologie non hanno ancora portato chiari vantaggi per le persone (consumatori). Nel momento in cui le marche saranno in grado di offrire esperienze (di acquisto) in grado di rispondere alla domanda del consumatore “A me cosa me ne viene?”, l’adozione sarà rapida.

La marca Sephora nel 2015 ha fatto dei test integrando beacons e mobile wallet nella ricerca dei punti vendita ed all’interno del punto vendita. In questo modo è possibile ottenre informazini riguardo a cosa e/o come porta i consumatori ad effettuare un acquisto e sviluppare le proprie strategie di conseguenza.

 

4. La cura della privacy non è un’opzione.

Il location-based marketing ha per sua natura un rischio intrinseco di diventare spam agli occhi del consumatore.

Quello che evita questo rischio è la rilevanza dei messaggi che la marca invia relativamente al contesto in cui si trovano le persone.

Secondo uno studio realizzato da Accenture negli USA, il 49% dei consumatori non hanno problemi a condividere i propri dati con una marca, se questa fornisce informazioni per loro rilevanti. Viceversa preparatevi ad essere nella lista dei loro adblockers.

Alla rilevanza nei confronti dei consumatori, vanno aggiunte trasperenza e chiarezza su come, quando e perchè la marca utilizzerà i loro dati.

 

5. La crescente importanza del location-based marketing richiede una sua gestione da parte delle aziende.

Si prevede la creazioen di una nuova figura all’interno dlele aziende: il Chief Location Officer, responsabile di gestire la comunicazione tra le varie funzioni aziendali per creare una miglior relazione con il cliente / consumatorea livello di esperienza locale.

 

Concludo con tre considerazioni mie:

a) molti dei concetti del location-based marketing mi sembrano collegati a quelli del (mio) marketing totale. La gestione però appare estremamente complessa.

b) leggendo l’articolo su Marketing Insights e scrivendo questo post mi sono sentito molto vecchio e affaticato.

c) i miei post hanno fama di essere complessi e non di facile comprensione. molte delle cose che ho scritto in questo post non sono chiare nemmmeno a me (vedi punto precedente). Se qualcuno me le volesse spiegare è il benevenuto.

 

L’importanza della gestione del prezzo dei prodotti “loss leader” della distribuzione da parte dei produttori.

Loss Leaders TagQuesto post si prospetta particolarmente tecnico, anche per gli standard di biscomarketing.

Quindi cercherò di essere particolarmente chiaro, in modo da renderlo comprensibile anche a quei lettori che non sono dei professionisti del marketing (so che ce ne sono, bontà loro).

Innanzitutto cos’è un prodotto “loss leader“.

Si definiscono “loss leader” quei prodotti che le catene della Grande Distribuzione Organizzata (super e ipermercati per capirsi) vendono a prezzi particolarmente bassi, riducendo o annullando il proprio margine di profitto.

L’estremo della strategia “loss leader” è la vendita sottocosto, quando il supermercato vende il prodotto ad un prezzo inferiore di quello a cui l’ha acquistato dal fornitore. In Italia, come in molti altri Paesi, la vendita sottocosto è regolamentata, quindi va dichiarata sul punto vendita e deve essere limitata ad un determinato periodo di tempo e/o determinato numero di pezzi.

I prodotti “loss leader” quindi non sono venduti a prezzi bassi perchè hanno un basso prezzo all’origine, ma per una decisione autonoma ed indipendente del negoziante (una catena di supermercati in essenza è un negoziante) che rinuncia in tutto o in parte al suo guadagno (se vende sottocosto sostiene addirittura una perdita).

Perchè una catena di supermercati decide di adottare questa strategia? Per attirare clienti. L’ipotesi di base infatti è che l’aumento di vendite complessive generato dal maggior numero di clienti generi un margine aggiuntivo superiore a quello perso sui singoli prodotti loss leader.

Quindi la catena di supermercati aumenta le proprie vendite e guadagni ed il produttore del prodotto loss leader pure, per cui tutti contenti. Non proprio.

Ci sono almeno 3 ragioni per cui un produttore deve preoccuparsi della gestione del prezzo a scaffale dei suoi prodotti che i supermercati usano come loss leader:

1. il posizionamento di prezzo influenza l’immagine (di qualità) percepita del prodotto. I prodotti scelti come loss leader sono normalmente prodotti di immagine medio alta all’interno della loro categoria merceologica perchè è proprio questa immagine superiore che crea “l’affare” per il consumatore. Trovare spesso il prodotto/marca ad un prezzo (più) basso sullo scaffale può indebolirne l’immagine nel medio lungo periodo.

2. il posizionamento di prezzo a scaffale come loss leader genera un aumento di vendite “anomalo”. Il rischio è che l’azienda si strutturi per produrre volumi di vendita “fragili” perchè basati sulla scelta dei supermercati di vendere ad un prezzo incoerente con il valore del prodotto (e con il suo costo di acquisto).

3. nel caso in cui a consuntivo la catena di supermercati abbia una marginalità inferiore a quella prevista, chiederà ai produttori di coprire (almeno in parte) i mancati guadagni. Le dinamiche commerciali sono fatte (anche) di rapporti di forza, quindi non mi metto neanche a discutere se la cosa sia giusta o meno: è un dato di fatto.

Ricordo il mio stupore quando per la prima volta in Stock ho visto i miei colleghi delle vendite calcolare la marginalità lorda che i vari clienti della GDO ottenevano ai diversi livelli di prezzo a scaffale del Limoncè (ai tempi tipico prodotto loss leader natalizio). Calcoli che poi condividevano con i loro interlocutori delle catene di supermercati. Per me era una questione che riguardava i buyers e category manager, in cui mi sembrava improprio ingerire.

In realtà però la cultura aziendale della distribuzione è spesso focalizzata sul fatturato, di cui la marginalità è conseguenza. Regola valida in termini generali, ma che può subire importanti eccezzioni quando il fatturato viene generato da prodotti loss leader.

Tutto questo mi è tornato in mente l’altro giorno, quando ho scritto su Vinix.it un post sulle vendite di Prosecco nel Regno Unito. In quel post segnalavo che il Prosecco DOC spumante in UK oggi è utilizzato come loss leader da quasi tutte le catene inglesi. Nei commenti c’è stato chi ha detto “…. che problema c’è se i supermercati vendono a prezzi bassi, se tanto il prezzo all’origine (in cantina) continua a crescere?”. Beh il problema è che la frenata potrebbe essere molto brusca. Tenete le cinture ben allacciate.

Perchè le marche non si curano delle proprie attività di vendita telefonica?

Maxino Ailo

Una delle mode (tendenza) del marketing strategico negli ultimi 10 anni è quella dell’importanza cruciale per le marche di stabilire un rapporto più stretto e diretto possibile con le proprie audiencies, intendendo con questo termine sia gli attuali consumatori che quello potenziali.

Questo approccio ha dato luogo ad azioni di “marketing di massa individuale” (confezioni di Nutella con il tuo nome, lattine di Coca Cola con i nomi, ecc…), all’utilizzo del BIG DATA per profilare sempre più precisamente e dettagliatamente i propri consumatori obiettivo, sviluppo di presenza delle aziende sui social network in modo da permettere l’interazione diretta tra le persone e la marca, ecc…

Il famoso concetto di creazioni di legami (emotivi) tra le marche e le persone (tema che ho già trattato su questo blog, l’ultima volta la scorsa settimana).

Un’altra tendenza, più tattica, diffusasi negli ultimi anni è quella dell’utilizzo delle vendite telefoniche, sia per i servizi, soprattutto, che per i prodotti.

Ora, credo non ci siano dubbi che uno dei momenti di maggior coinvolgimento tra una marca ed i suoi potenziali consumatori è quando la marca li chiama a casa loro per proporgli i suoi prodotti/servizi (repetita iuvant, una persona consuma sempre un servizio, che sia incorporato o meno in un prodotto fisico).

Logica vorrebbe che per mettere insieme l’approccio strategico e la sua realizzazione tattica, le aziende battessero tutte le Università della Repubblica a contendersi i laureati di psicologia per avere nei propri call-center le persone più qualificate nel difficile ed ingrato lavoro (parlo per esperienza diretta) di stabilire un legame emotivo con un estraneo attraverso una conversazione telefonica.

Sorprendentemente invece le aziende trattano l’attività di vendita telefonica come se fosse una cosa esterna al sistema della marca e quindi lo esternalizzano a società che utilizzano le più trite e becere “tecniche di vendita”. Anche se chi chiama non dice chiaramente che si tratta di una telefonata per vendervi qualcosa, le formule di “rito” sono talmente fruste che lo capiscono tutti (a parte l’accento straniero ed il tono di essere impegnato a fare altro della voce dell’azienda che mi chiama).

Non so se si tratti dell’ennesimo esempio di scollamento tra marketing e vendite, ma la cosa per me è sconcertante: cosa c’è di più diretto della voce dell’azienda che mi parla? Eppure è evidente che nessuno in azienda si cura di capire e valutare se quella voce e quello che dice è coerente/allineato con il dialogo che la marca cerca di costruire con me in tutte le altre occasioni/situazioni (che sono meno dirette e quindi più “deboli”).

L’ (ennesimo) esempio di questo l’ho avuto la mattina dello scorso 8 dicembre (festa nazionale in Italia, ma forse non nel paese in cui risiede la persona che mi ha chiamato), quando mi ha telefonato a casa la Vodafone. Dopo il cortese, ma secco, diniego ho fatto un tweet.

Siccome la Vodefone (ma potete cambiare il nome con l’azienda che preferite) è una grande azienda ben organizzata (?) che fa un puntuale monitoraggio delle conversazioni social per conoscere in tempo reale il sentiment nei confronti del marchio ed essere vicina ai propri clienti, mi ha prontamente risposto.

Ecco la conversazione:

twitter vodafone

Col ciufolo che vi fornisco ulteriori informazioni mie.

E’ mai possibile che le aziende non abbiano ancora capito che l’esperienza della marca è complessiva e globale?

E se l’hanno capito è mai possibile che siano così burocratizzate da non riuscire e gestire le diverse attività di conseguenza?

E se il problema non è di burocratizzazione ma di prevalenza della visione finanziaria, è mai possibile che questi geni della finanza che negli ultimi anni hanno conquistato il comando della aziende siano capaci di ragionare solo in termini di costo (di breve periodo) e mai di valore (di lungo periodo)? La marginalizzazione del marketing e la crisi economica mondiale (ottobre 2010)

Fino a quando? Fino a quando non mi chiamano per una consulenza sul Marketing Totale.

Oppure fino a quando non arriva Maxino: Ailò. Una risata vi seppellirà.

Ferrero “Bontà E’ Bellezza”: può il marketing basarsi sull’etica dell’estetica?

Capita abbastanza spesso che su questo blog parli di cosa fa Ferrero, quasi sempre con una punta di invidia, non tanto perchè sono grandi, ma perchè sono svegli e riescono a realizzare cose che io avevo solo immaginato.

Questo è uno di quei casi perchè è partita da un po’ la campagna premio certo con il claim “Bontà è Bellezza”.

E’ una campagna con almeno deu elementi interessanti. Il primo è la spinta promozionale data dalla certezza della vincita, fatta però attraverso premi di valore aggiunto. Quindi non c’è un appiattimento della marca sul prezzo / sconto e si riesce a dare al consumatore qualcosa che per lui vale più di quanto costi all’azienda.

Volendo parlare tecnicamente, la Ferrero crea un surplus di valore che trasferisce al consumatore.

In più collegandosi a degustazioni di specialità alimentari italiane, la promozione si inserisce nel filone ancora molto attivo dell’enogastronomia (leggi foodporn) e permette di trasferire sui prodotti Ferrero promozionati l’alone di qualità dei prodotti tipici italiani.

Potrà sembrare un’idea banale, ma realizzare una promozione di tipo così aperto nella scelta e fruizione del premio richiede un’organizzazione non da poco.

Questa promozione utilizza e realizza in pieno due concetti che ho espresso tempo addietro: il crescente interesse dei consuatori alle promozioni in seguito alla crisi economica (il post del marzo 2013 lo trovate qui) e la necessità che nell’era del marketing totale le strategie siano tattiche e le tattiche strategiche.

Ma quello che mi intriga di più della campagna è il claim che collega direttamente la bonà alla bellezza. Questo perchè nella mia carriera ho tentato varie volte di posizionare esplicitamente una marca / prodotto sulla base della bellezza come proxy della qualità e non ci sono mai riuscito (leggi non me l’hanno mai lasciato fare).

Gli esempi si specano, basta pensare al ri-lancio della Fiat 500, però la domanda rimane: c’è un’etica nell’estetica? il fatto che un prodotto sia bello lo fa anche automaticamente buono, in senso esteso?

Questa enfasi sulla bellezza, non rischia di diventare un posizionamento classista? Vale più il meccanismo per cui acquisto i cioccolatini Ferrero per appropriarmi della loro bellezza (indipendentemente dalla loro bontà) oppure di rifiuto di ridurre tutto all’estetica. Mi ricordo che quando ero a piccolo a Venezia i panifici avevano i biscotti “brutti, ma boni”, che si posizionavano in modo totalmente contrario.

Ma soprattutto la domanda definitiva è Ferrero Rocher, Mon Cheri e Pocket Coffee sono belli o sono brutti? E se sono brutti, automaticamente diventano anche cattivi?

Voi che ne dite?