The excellence pursuer succeds forever.

Achieving-Excellence-in-Care-Services

Alcune settimane fa mi sono trovato a commentare un post relativamente ai concetti di qualità ed eccellenza nel settore del vino.

Alla richiesta di approfondimenti sul mio breve commento da parte dell’autore del post (per la cronaca si trattava di Alessandro Satin, che a sua volta condivideva un articolo pubblicato da Fabio Piccoli su Wine Meridian) rimandavo a questo blog, convinto che in tutti questi anni ci fosse almeno un post dedicato all’argomento. Anche perché mi ricordavo di aver scritto la frase del titolo di questo post.

Mi ricordavo bene, però in quel vecchio post oltre alla frase c’era poco altro.

Faccio quindi ammenda approfondendo oggi le questioni della qualità e dell’eccellenza, che nei loro aspetti fondamentali ovviamente sono comuni a tutti i settori, si tratti di vino, salumi, computer, motoscafi, abiti o prodotti di bellezza.

Vado subito al punto: la differenza tra qualità ed eccellenza è che la prima è (sostanzialmente) sempre relativa mentre la seconda è (sostanzialmente) sempre assoluta.

Le definizioni del dizionario di google chiariscono il concetto meglio di quanto non farei io con più giri di parole (Nota: ho guadato le definizioni anche di altri dizionari, ma queste mi sono sembrate le più chiare).

Eccellenza: qualità di sommo pregio o gradimento, unicità, perfezione.

Qualità: nozione alla quale sono ricondotti gli aspetti della realtà suscettibili di classificazione o di giudizio: buona, cattiva q.; frutta di q. scadente; assol., pregio, merito, dote: è un ragazzo pieno di q.; spesso contrapposto a quantità.

La qualità quindi si definisce rispetto a qualcos’altro: il prezzo, i prodotti/servizi concorrenti, gli altri prodotti/servizi dell’azienda nel tempo e nello spazio (geografico), le richieste del mercato, ecc….

Anche quando si parla di qualità totale e/o di certificazione della qualità ci si riferisce ad un livello qualitativo pianificato, che può essere basso, medio o alto, che sarà garantito costante grazie ai processi adottati dall’azienda. L’obiettivo è realizzare la qualità prevista in modo continuo e costante nel tempo e nello spazio (geografico).

L’eccellenza invece punta a produrre la miglior esperienza di consumo, o meglio di fruizione, possibile. Richiede quindi una visione autonoma, indipendente, da parte dell’azienda su cosa sia l’eccellenza della propria proposta e su cosa si basi. L’obiettivo è realizzare sempre la miglior proposta possibile, indipendentemente dal fatto che lo scarto qualitativo tra “migliore” e “medio” sia grande o piccolo.

Di conseguenza l’eccellenza è sempre una ricerca dell’eccellenza, ossia di come migliorarsi.

Si potrebbe dire che l’eccellenza è un’attitudine. Che non è né automatico né facile adottare. Cerco di spiegarne i principi con degli esempi per renderli più chiari.

 

Il prezzo, e quindi il costo, è un fattore marginale.

Questo non significa che nella logica dell’eccellenza sono ammessi sprechi o inefficienze. Significa che nel determinare le scelte aziendali il mantenimento/incremento dell’eccellenza viene prima delle valutazioni sulla convenienza o meno. Nota: “convenienza” è una parola che non dovrebbe esistere in un’azienda che punta all’eccellenza.

Potrei citare decine di esempi di scelte di eccellenza vs. convenienza che ho visto adottare nel salumificio Levoni quando ci lavoravo, oramai più di vent’anni fa. Scelgo questa: la salamoia per l’aromatizzazione di alcuni prosciutti cotti prevedeva la presenza di una piccola percentuale di marsala ed il marsala che si usava era Florio, il più celebre produttore di marsala.

Si sarebbe potuto utilizzare un marsala anonimo più economico? Certo.

Il sapore dei prosciutti sarebbe stato lo stesso? No per definizione.

La differenza sarebbe stata così rilevante da essere notata dai consumatori? Chissà.

E’ che in un’ottica di eccellenza l’ultima domanda non si pone, perché se voglio fare il prosciutto migliore uso i migliori ingredienti. Punto.

 

Il prezzo dei prodotti eccellenti non è in proporzione al livello di performances confrontato con i concorrenti: è più alto.

Innanzitutto per chi lavora nell’ambito dell’eccellenza la regola base per cui il prezzo del prodotto/servizio deve essere legato al valore della proposta e non al costo diventa un dogma.

Quello però che intendo con il titolo di questo paragrafo è che se il prodotto eccellente manifesta performances del 10% superiori rispetto al miglior concorrente (quello che lavora sull’alta qualità) il prezzo del prodotto eccellente non sarà del 10% più alto, ma più caro.

Questo perché l’eccellenza si stacca dal confronto competitivo, non è il 10% più buono: è il migliore. E chi ricerca l’eccellenza è (deve) essere disposto a pagare un prezzo slegato a quello dei concorrenti.

Quanto più alto sarà il prezzo? Dipende dalla fascia della capacità di spesa dei consumatori che si vuole coinvolgere, ricordando che l’eccellenza sarà tendenzialmente sempre una nicchia, più o meno grande del mercato.

Attenzione che non si tratta necessariamente di utilizzare un prezzo alto come segnale di esclusività e qualità. L’eccellenza è una cosa diversa dal lusso, soprattutto inteso come ostentazione, con cui può coincidere o meno.

Il posizionamento di prezzo elevato è necessario anche per fornire all’azienda le risorse che le permettono di perseguire la ricerca dell’eccellenza senza continui adeguamenti di listino.

La proposta di VERALAB si basa sull’eccellenza, senza per questo essere lussuosa (nemmeno nei prezzi).

 

L’azienda eccellente non deve fare tutto, ma tutto quello che fa deve essere eccellente.

All’inizio di questo post ho parlato di eccellenza di fruizione nell’esperienza con la marca/prodotto/servizio. Con questo intendevo che è sbagliato riferire l’eccellenza solamente alle caratteristiche fisiche di un prodotto.

Giova infatti ricordare che le persone non utilizzano mai prodotti, ma sempre servizi. O servizi come tali (tipo andare dal dentista) oppure quelli inglobati nelle caratteristiche fisiche dei prodotti. Gli aspetti legati alla fruizione di tutti questi servizi sono parte integrante dell’esperienza di marca e quindi come tali devono essere allo stesso livello di eccellenza della proposta di base. Non solo: possono (devono) essere oggetto di quella continua ricerca di eccellenza che costituisce uno degli elementi fondanti dell’eccellenza stessa.

Questo significa che se produco un vino eccellente devo mettermi a fare anche i bicchieri? No, però significa che quando faccio una degustazione i bicchieri che uso dovranno essere eccellenti.

Mettersi a fare i bicchieri potrebbe essere un’ottima idea per far crescere la nostra eccellenza (scusate l’ossimoro). L’ideale sarebbe farlo insieme ad un eccellente produttore, o, meglio ancora, artigiano, che ha le competenze eccellenti nella manifattura, disegnati da un eccellente architetto che ha le competenze eccellenti nella progettazione su indicazioni della cantina che ha le competenze eccellenti riguardo al vino. Qualcuno direbbe che si potrebbe farlo disegnare da un eccellente degustatore/sommelier, però secondo me in questo modo indeboliamo l’eccellenza della nostra proposta perché deleghiamo ad altri la sua interpretazione.

Non ho mai avuto modo di verificarlo personalmente, ma mi è rimasto impresso un articolo letto anni fa sull’alta moda scritto da un non esperto in cui l’autore sottolineava coma la cosa più stupefacente dei capi di alta moda era la cura e la qualità delle parti interne, quelle che non si vedono indossandolo, equivalente a quella delle parti visibili.

 

L’eccellenza è innanzitutto un’attitudine, però poi ci vogliono le competenze e gli strumenti/tecnologie.

Avere la visione non basta se poi non si è capaci di realizzarla. Non è necessario essere in grado di fare tutto personalmente, ma bisogna conoscere la materia per trovare, allevare e gestire i talenti ed acquisire, o addirittura creare, gli strumenti/tecnologie.

Non è che Steve Jobs abbia tecnicamente sviluppato tutti i componenti di tutti i prodotti Apple, ma indubbiamente aveva le competenze per capire di cosa si parlava.

Domanda: Apple è ancora un’azienda eccellente oppure è solo di alta qualità?

 

Per fare eccellenza ci vuole una cultura aziendale rivolta all’eccellenza.

Anni fa mi capitò che un cliente si lamentasse per un lotto di bottiglie su cui l’etichetta era leggermente storta.

Verificata la cosa con la produzione si arrivò alla conclusione che per avere la certezza che tutte le bottiglie uscissero dalla linea con le etichette perfettamente dritte sarebbe stato necessario rallentare la velocità della linea di imbottigliamento.

Misurati i costi di produzione aggiuntivi e stimata l’entità del problema sul mercato, si decise che NON VALEVA LA PENA modificare i processi in atto.

Giustamente, perché quell’azienda non funzionava su un approccio di eccellenza (e comunque funzionava bene in termini di risultati).

Il Gruppo Ferretti è un gruppo industriale proprietario di diversi cantieri/marchi che producono imbarcazioni di lusso. Tra le diverse azienda del gruppo c’è anche la Riva di Sarnico sul lago d’Iseo, con una storia che risale alla prima metà dell’800 e, soprattutto, produttore di motoscafi fin dagli anni ’20 del novecento. Un’azienda con una visione ed una cultura di eccellenza che negli anni ’60 ha prodotto il mitico motoscafo Acquarama.

Un paio di anni fa ho visto un programma televisivo dedicato alla fabbrica di motoscafi Riva in cui un top manager del Gruppo Ferretti (credo fosse l’Amministratore Delegato), diceva qualcosa del tipo “Se io vado in una delle altre aziende del gruppo e dicessi, ad esempio, di ridurre gli scarti nella selezione delle pelli per i sedili ubbidirebbero perché è una richiesta della direzione. Qui alla Riva invece gli operai si rifiuterebbero perché andrebbe contro la loro cultura di eccellenza”.

Credo che sia un esempio illuminante (e quando ci penso mi chiedo sempre se lo stipendio degli operai della Riva sia adeguato alle loro competenze ed alla loro visione).

 

Per fare eccellenza ci vuole capacità finanziaria.

Non sempre si trovano i segmenti di mercato interessati all’eccellenza, o almeno non subito.

I costi però corrono da subito e corrono tutto l’anno.

Ecco perché ci vuole una capacità finanziaria in grado di sopportare i periodi di nulla o scarsa redditività e di creare le basi per i (grandi) profitti futuri.

Come diceva (più o meno) la baronessa Rothschild “Quello del vino è un business interessante, passate le difficoltà dei primi ottant’anni”.

Magari se riuscite a capire dove sta la vostra eccellenza e sapete proporla all’audience giusta, magari ci mettete meno (però anche per fare questo la capacità finanziaria fa comodo).

Esempio Ducati.

Una ventina di anni fa Ducati era un’azienda in crisi: dopo diversi passaggi di proprietà le sue moto venivano generalmente considerate superate, difficili da guidare e difficili da manutenere.

La ricetta più ovvia ed efficace per non sparire poteva sembrare quella di fare evolvere il prodotto nella direzione delle grandi marche giapponesi che stavano prendendo il mercato.

Però, per fortuna, il management invece puntò sull’eccellenza riconosciuta dell’azienda (riconosciuta sia dai motociclisti che dai produttori concorrenti): il motore desmodromico. Una tecnologia unica (unicità ed eccellenza spesso sono legate), che permette di raggiungere performances superiori, motoristicamente parlando.

Anche perché si rese conto che c’era una comunità spontanea di appassionati ducatisti che amavano le Ducati proprio perché erano potenti e difficili. Come mi racconto un manager dell’azienda a suo tempo “il tipo di persone contente di fare la gita la domenica su strade piene di curve e passare poi il resto della settimana a sistemare la moto”.

Così piuttosto che cercare di rendere le moto più docili, più neutre, snaturandole, il rilancio della Ducati è stato realizzando coltivando proprio quelle caratteristiche che sembravano negative.

L’eccellenza non è per tutti, né come consumatori né come aziende. A volte però i giusti targeting, positioning e marketing mix riescono a tirar fuori le eccellenze inespresse.

Make the money work harder

Dopo lunga pausa estiva, riprende Biscomarketing pubblicando un mio articolo uscito sull’ultimo numero de “Il Mio Vino”.
E’ un po’ lungo, ma punto sul recupero di energie che spero abbiate fatto durante questa calda estate.
Prima dell’articolo una precisazione: qualche settimana fa un’amica mi ha chiesto come mai scrivo su “Il Mio Vino” ed il tono suonava circa “Cosa ci fa un tipo come te in un posto come quello?”. La ragione è molto semplice, seguivano il blog ed ad un certo punto mi hanno chiesto se potevano riprenderne i post (ricordo che questo blog pratica il copyleft). A quel punto io ho suggerito di scrivere dei contenuti originali (finchè mi vengono in mente argomenti), quindi scrivo su “Il Mio Vino” perchè sono stati i primi a chiedermelo. Ovviamente non seguo nessuna linea editoriale e sono totalmente libero nei contenuti.
Ed ecco di seguito l’articolo, con il suo titolo originale:
MAKE THE MONEY WORK HARDER
Chi mi conosce sa che cerco di limitare l’utilizzo dei termini inglesi ai casi cui è strettamente necessario, per l’effettiva mancanza dell’equivalente italiano.
Uno di questi casi è l’espressione “make your money work harder”. Si potrebbe tradurre come far “fruttare al massimo i propri soldi”, ma secondo me non rende appieno quell’idea di soldi che lavorano, delle gocce di sudore che cadono dalle banconote e dalle monete nello sforzo di produrre di più, dato un determinato investimento. Non si tratta tanto ( o solamente) di scegliere l’ottimale allocazione delle risorse finanziarie tra le diverse strategie di investimento possibili, si tratta soprattutto di realizzare le strategie in modo da spremere al massimo i soldi spesi.
Un esempio esterno al mondo del vino credo renda immediatamente chiaro il concetto: l’inserimento del logo della Apple sul retro dello schermo dei computer MacIntosch, logo che si illumina quando il computer è acceso. E’ un accorgimento che non aumenta i costi di produzione (o li aumenta in misura risibile), però trasforma ogni computer Mac in un potentissimo mezzo di comunicazione, attraverso cui si moltiplica la visibilità del marchio ed il posizionamento del marchio. La pubblicità intrinseca nella macchina crea delle sinergie con le altre forme di comunicazione realizzate dalla Apple e viceversa. In più crea una sorta di effetto “passaparola” per cui ogni utente dichiara al mondo, volente o nolente, “io sto utilizzando un computer Mac”. NdA: settimane dopo aver scritto questo pezzo, ieri ho visto su “La Stampa” la nuova pubblicità dell’HP Spectre Ultrabook che ha come claim “Non ti servono le parole per dire chi sei”. Peccato che poi l’aspetto del portatile ricalchi quello del notebook Apple ultrapiatto. Possibile che nell’elettronica nessuno sia capace di differenziarsi dall’immagine della Apple, risultando alla fine sempre e comunque dei followers? Se nella moda c’è mercato per il minimalismo di Armani e per il barocco di Versace perchè non dovrebbe essere così anche nell’elettronica?
Come e dove si può applicare questo principio al mondo del vino?
Durante lo scorso Vinitaly in un momento di leggero sadomasochismo ho sfogliato il numero dedicato alla fiera veronese di tutte le riviste della stampa specializzata e non, guardando la pubblicità delle cantine. Purtroppo ho trovato quello che mi aspettavo: la grande maggioranza degli annunci (compreso uno mio, da qui il sadomasochismo) non indicava la posizione dello stand all’interno della fiera.
E’ vero che molte di quelle pubblicità sono state realizzate indipendentemente dal Vinitaly e quindi perseguivano obiettivi di comunicazione diversi. E’ però altrettanto vero che l’attenzione di operatori ed appassionati di vino in quel momento e focalizzata al Vinitaly, aumentando quindi la visibilità di tutto quello che ne è collegato, pubblicità compresa, e, soprattutto, che è molto probabile che si trovino in fiera.
Evitare, o dimenticare, di fornire il riferimento dello stand è un’occasione persa, che riduce in partenza la resa potenziale dei soldi investiti nell’acquisto di quella pagina pubblicitaria.
Sicuramente errori e mosse vincenti fanno parte della vita di tutte le aziende, ma sarebbe sbagliato ridurre questi due esempi a semplice aneddotica perché sono in realtà indicatori di un metodo (o della sua assenza), ed è attraverso il metodo che sistematicamente si riducono gli errori di gestione.
E’ giusto quindi trarre alcuni principi generali per ottenere il massimo dalle proprie strategie:
1. Riuscire ad ottenere il massimo dai propri soldi è innanzitutto una questione di atteggiamento mentale e non implica necessariamente costi aggiuntivi. L’atteggiamento mentale consiste nella consapevolezza che ogni attività genera (potenzialmente) una molteplicità di risultati.
2. Il passaggio successivo consiste nell’analizzare con il maggior dettaglio possibile e da diversi punti di vista cosa succede quando una determinata attività viene, chi ne viene effettivamente toccato e come.
3. A questo punto si è in possesso degli elementi per immaginare quali altri risultati, oltre a quelli principali per cui è nata, l’attività è in grado di generare. L’immaginazione, o se preferite la creatività, è fondamentale perché normalmente la misurazione e la ricerca dell’efficienza si basa sul miglioramento della resa rispetto ai parametri esistenti piuttosto che sull’aggiunta di altri risultati.
4. Infine va pianificata la realizzazione delle modalità operative in modo da raggiungere tutti gli obiettivi possibili. Attenzione che qui il termine possibili vuole anche sottolineare la necessità evitare di mettere troppo carne al fuoco, con il risultato di non cucinare niente.
Teoria? Io credo che in questo momento nel settore del vino ci sia una situazione di grande spreco di risorse potenziali che riguarda le modalità di realizzazione delle azioni di promozione del vino sui mercati extra-comunitari co-finanziate con i fondi UE.
Non mi riferisco a come questi sono spesi, ai vari richiami a fare sistema o a concentrarsi maggiormente su certi mercati o su determinate aziende. Questi sono discorsi di politica economica che esulano dal tema di questo articolo.
Mi riferiscono invece ad ottenere di più dalle attività già adesso, sostanzialmente con gli attuali meccanismi e l’unica cosa che cambierei è l’obbligo di inserire in tutti i materiali realizzati per le attività finanziati con i fondi europei la dicitura “Progetto finanziato ai sensi del Reg ….” accompagnata dalle bandiere italiana e della comunità. Si tratta di una dicitura che non ha nessuna utilità, anzi nei paesi che sono anche produttori di vino rischia di venir percepita come una sorta di concorrenza sleale operata da parte dell’Unione Europea ai danni dei produttori nazionali.
Prevederei invece al suo posto l’obbligo di inserire un slogan di posizionamento dei vino italiano, o quanto meno dei vini europei, qualcosa tipo “Vini italiani: il gusto della vita” (tanto per buttare lì una frase che renda l’idea). In realtà non è questo il contesto in cui definire quali dovrebbe essere i valori portanti del posizionamento tra i tanti possibili: storia, cultura, tradizione, qualità, sicurezza, autenticità, diversità, abbinabilità con il cibo, ecc..
Il punto è che così facendo il costo di tutto quello spazio, oggi sprecato, diventerebbe immediatamente un veicolo per rafforzare il posizionamento dei vini dell’Unione Europea nella competizione con quelli provenienti da altri paesi del vecchio e nuovo mondo.
Per di più creando delle sinergie con la comunicazione aziendale o consortile, che rimane la parte principale dell’attività.
Un aumento della produttività degli investimenti che, soprattutto in questa fase di riduzione delle risorse, mi sembra più un dovere che un’opportunità.