Ho scoperto un “oceano blu”, è il mercato delle statuine del Presepio.

Asinello

Il concetto di “oceano blu” è stato coniato nel 2005 da W. Chan Kim e Renée Mauborgne nel loro testo “Blue Ocean Strategy” e definisce quei mercati o segmenti di mercato ancora inesplorati dove la concorrenza è quindi ancora assente o comunque limitata.

Si contrappongono agli “oceani rossi”, dove la concorrenza è tanta e feroce e quindi l’acqua si tinge del colore del sangue dei moltissimi squali presenti che si mordono a vicenda.

Fuor di metafora parliamo della redditività aziendale per cui le imprese dovrebbero adottare una strategia che punti a creare (il corsivo è mio) un oceano blu in cui prosperare liberamente e facilmente.

L’esempio classico, tra i vari casi di studio analizzati nel libro, è quello del Cirque du Soleil che con la sua proposta innovativa, specifica e diversa è riuscito a creare un oceano blu nel mare rosso del mercato dello spettacolo circense.

Non è in concetto che io ami molto (da qui il corsivo per “creare”) perché, come la grandissima parte dei concetti di economia aziendale tende ad essere autodeterminato e/o semplicemente descrittivo della realtà a posteriori, e quindi aneddotico più che modellistico. Come si direbbe in spagnolo todo lo que ves, adivinas.

Ad ogni modo è un concetto che ha goduto di parecchia popolarità nelle aziende e mi è tornato in mente questi giorni durante la mia ricerca di un asinello per il Presepio (statuina, non in carne ed ossa).

Quest’anno infatti volevo comporre la Natività con statuine separate e non con la solita capanna con tutti i personaggi già incollati.

E’ stato molto più difficile di quanto potessi immaginare.

Potete facilmente trovare festoni, luci ed addobbi per l’albero, ma le statuine per il Presepio sono diventate una rarità. Il che volendo potrebbe essere un ulteriore segnale della laicizzazione e settentrionalizzazione della società italiana nel suo complesso, ma non aprirò questa parentesi.

Dopo aver tentato nei posti più semplici/comodi, sono andato nella cartoleria più fornita del quartiere (il negozio di giocattoli del quartiere ha chiuso un paio di anni fa, ma non aprirò nemmeno la parentesi sulla desertificazione commerciale delle città e relative conseguenze sulla qualità della vita dei loro abitanti).

Qui avevano alcune Madonne, altrettanti Bambin Gesù, ma nessun San Giuseppe, né buoi, né asinelli. Circostanza che stimola interessanti considerazioni su come mai la gente compri i personaggi del Presepio carenti di natura divina in misura maggiore di quelli divini. Oppure il contrario (e per questo il negozio ne ha maggiori scorte). Oppure semplicemente che in quella cartoleria sbagliano a fare gli ordini ai fornitori.

Comunque, ho continuato la mia ricerca in negozi di articoli per la casa (solo kit completo comprensivo di Angelo e Re Magi, ma quelli li ho già e poi per il mio scopo non mi servivano), in altre cartolerie in centro, in negozi di giocattoli, da Coin, ma niente.

Allora sono andato ai MERCATINO DI NATALE sicuro che lì avrei risolto. Stand gastronomici quanti ne volete e parecchi venditori di addobbi natalizi in stile nordico (again) tipo ghirlande, angioletti, eccettera, ma NESSUNO che vendesse statuine del Presepio.

Arresomi all’evidenza, sono andato nella casa avita a cercare tra le scatole del Natale della mia infanzia, dove ho trovato una capanna con tutte le figurine incollate. Però era più vecchia di quella che ho a casa io e quindi sono riuscito a staccarle tutte meno una: l’asinello (e anche qui non può non venire in mente la proverbiale testardaggine degli asini).

Almeno mi ero portato avanti e così ho ripreso la mia ricerca del solo ciuchino.

Per farvela breve l’ho trovato in un piccolo negozio di giocattoli vicino a dove abitavo prima, che pensavo avesse già da qualche anno.

Felice come un bimbo, sono andato alla cassa a pagare: 4 EURO!

QUATTRO EURO??!!!!

Lo devo scrivere ancora perché non mi capacito:

QUAAATROOOO EEEEUROOOOOOO.

La statuina di plastica estrusa che vedete nella foto in apertura di questo post che all’ingrosso costerà 30 centesimi, a voler esagerare.

Il mio proposito per l’anno nuovo è diventato comprare una stampante 3D per produrre statuine del Presepio su ordinazione.

P.S. Forse vi chiederete perché ci tenevo tanto ad avere le statuine singole e non mi andava bene la capanna “completa” che avevo già.

E’ che quest’anno ho deciso che volevo un Presepio volante sulle nuvole (lo so teologicamente è un controsenso visto che la Natività rappresenta la discesa di Dio in terra, però ho i miei motivi).

Visto il risultato sono contento dello sforzo :-)

Presepio voante

Vi auguro che la letizia invada le vostre vite almeno per un giorno. Se poi sarà per tutto il 2019, meglio.

3 modi per costruire una marca concorrenziale, risoluta ed irresistible.

D.A. Aaker

 

A pensarci bene credo che siano 3 i libri fondamentali per ilmio marketing. Fondamentali nel senso che tutto quello che ho letto/studiato/imparato dopo averli letti (ed anche qualcosa prima) si sono ancorati / appoggiati sulle fondamenta costruite con questi libri.

Sono tre libri che ho studiato nei miei corsi all’Università di Guelph – Ontario, oramai 25/26 anni fa.

- P. Kotler, R.E. Turner, Marketing Management, Prentice -Hall Canada, 1989.

- J.F. Engel, R.D. Blackwell, P.W. Miniard, Consumer behavior, The Dryden Press, 1990.

- D.A. Aaker, G.S. Day, Marketing Research, John Wiley & Sons, 1989.

Si tratta quindi libri ed autori ai quali sono particolarmente affezionato, con cui si è stabilito un rapporto speciale di stima (unidirezionale, ovviamente perchè, a parte Kotler, non li ho mai incontrati). E’ stato un po’ come quando all’università mi sono trovato come professore di Topografia e Costruzioni il Prof. Chiappini, che aveva scritto il libro di testo su cui avevo studiato alle superiori. Mi è sembrata una garanzia di qualità del corso ed anche un po’ di conoscerlo già.

Ecco perchè sono stato contento quando Aaker ha cominciato a pubblicare sulla rivista Marketing News dell’American Marketing Association i suoi articoli tratti/ispirati dal suo ultimo libro Aaker on Branding: 20 Principles to Drive Success.

L’ultimo articolo in ordine di tempo si intitola Three Ways to Build a Competitive, Compelling, Purposeful Brand, che da me tradotto in italiano è il titolo di questo post, e mi è sembrato particolarmente utile ed interessante.

Ecco la mia sintesi (riassunto e commento si diceva alle elementari).

Ci sono 3 tendenze che si stanno velocemente affermando nelle strategie e tattiche di creazione della marche (branding), trasversalmente praticamente in tutti i settori. Il successo futuro delle organizzazioni deriverà dalla loro capacità cavalcare queste onde piuttosto che nuotarci controcorrente.

La prima tendenza è lo spostamento della concorrenza dalle preferenze di marca alle sottocategorie di un settore.

La concorrenza basata su preferenze di marca è caratterizzata da innovazione incrementale, per cui la promessa della marca diventa “la mia marca è meglio della sua”.

La concorrenza basata su sottocategorie è caratterizzata da innovazione sostanziale, per cui la promessa della marca diventa “la mia marca ti offre qualcosa che non ha nessuno”. In questo senso l’offerta della marca può diventare un “must have”. Per non parlare sempre di Apple, un esempio nel settore dell’automobile è stata l’introduzione dei SUV o dei minivan. La marca crea una sottocategoria dove non ci sono (ancora) concorrenti rilevanti.

N.d.A., ossia mia: è un altro modo guardare al famoso concetto di Blue Ocean Strategy. Un modo che ha il vantaggio rispetto all’approccio economico-aziendale del testo di Kim e Mauborgne di fornire un approccio più efficace per perseguire l’identificazione / definizione / creazione degli “oceani blu” ex ante e non solamente a posteriori. E’ un po’ la stessa differenza che c’è secondo me tra Kotler e Porter.

In effetti Aaker prosegue indicando le implicazioni che questa detenza determina nella gestione dell’impresa e delle marche:

- spostare parte degli investimenti dalla ricerca di innovazione incrementale a quella di innovazione sostanziale.

- sviluppare la capacità e gli strumenti per riconoscere quali sono i (potenziali) “must have” e quali no (N.d.A.:ricerca di marketing se ci sei batti un colpo).

- diventare il leader di riferimento della nuova sottocategoria (N.d.A.: rapidamente perchè i plus sono destinati a diventare must per l’entrata nella sottocategoria dei concorrenti).

- la volontà e capacità di gestire sottocategorie piuttosto che marche (N.d.A.: pensando alle mie esperienze con Limoncè e, soprattutto, Keglevich io direi la visione di gestire sottocategorie)

- possedere la sottocategorie creando barriere all’entrata dei concorrenti.

 

La seconda tendenza è lo spostamento dal comunicare fatti relativi alla marca / offerta /azienda al creare “contenuti sweet-spot per il cliente”, contenuti che interessino e coinvolgano i clienti attuali e potenziali (N.d.t., sempre io: una traduzione decente di sweet-spot non l’ho trovata, quindi l’ho lasciato così).

Un contenuto generato / ispirato da uno sweet-spot del cliente rafforza la percezione della marca e genera molta più fiducia, credibilità ed autenticità rispetto alla miglior pubblicità.

N.d.A.: se volete è il vecchio caro concetto di comunicare i vantaggi che il cliente ottiene dal consumo della marca grazie alle sue caratteristiche e non fermarsi alle semplici caratteristiche, lasciando al cliente l’onere di capirne i (potenziali) vantaggi. Però più approfondito e calato nella realtà attuale dei “contenuti”. Nell’era digitale siamo tutti nell’attività editoriale, anche se facciamo biscotti, è il marketing totale bellezza.

 

La terza tendenza è quella che le mmarche devono avere / trovare / adottare uno scopo più ampio ed elevato rispetto al semplice battere la concorrenza sul mercato.

Ovviamente perchè questo scopo più ampio ed alto riesca ad avere un impatto all’interno ed all’esterno dell’organizzazione / marca deve essere vissuto in modo genuino e sostanziale.

Direi che per oggi abbiamo abbastanza food-for-thought

Alcune cose che ho imparato dal quadrato semiotico dei wine lovers.

Adesso che il tourbillon del Vinitaly è alle spalle e mi sono reso conto dell’ambaradam che ho messo in piedi con il quadrato semiotico dei wine lovers, pubblico convegno Vinitalyposso fermarmi un attimo e capire cosa ho imparato da questa esperienza?

Resistenza all’innovazione
Il quadrato semiotico dei wine lovers ha suscitato molto interesse nel settore ed è stato ripreso da parecchie testate, non solo riguardanti il vino (al convegno hanno assistito 70 giornalisti). Eppure ci sono stati diversi opinion leaders che lo hanno ritenuto una cosa di scarso interesse (in ambito vinicolo). Purtroppo per loro (e per noi) le centinaia di persone che hanno fotografato il quadrato allo standa di Bosco Viticultori, dimostrano che si sbagliavano.
quadrato wine lovers allo stand.

Malgrado Steve Jobs, le ricerche quantitative mantengono il loro fascino
Steve Jobs diceva di non appiattirsi sui risultati dei focus group (tecnica qualitativa) perchè le persone non sono in grado di descrivere/richiedere quello che non possono neanche immaginare (esempio i-pad). Più prosaicamente e restando nell’alimentare, le leggende del marketing narrano che tutte le ricerche quantitative dimostravano come non ci fosse mercato per il “Kinder Sorpresa” ne per il “Gatorade”. Feargal Quinn, fondatore dei supermercati irlandesi Superquinn, partecipava personalmente ai focus group organizzati con i suoi clienti prechè diceva che nessun questionario poteva raccogliere l’indicazione di quell’unica persona che aveva ragione (meno quantitativo di così, impossibile). E come faceva a sapere che quell’indicazione era quella giusta? Secondo me perchè conosceva la propria identità, quindi la propria missione, quindi i propri punti di forza e la propria strategia.
Eppure nel diffondere il quadrato semiotico dei wine lovers da più parti è arrivata la richiesta di dare un peso ai quadranti, cosa che secondo me è inutile ed impossibile.
Inutile perchè il quadrato semiotico fornisce una mappa per sviluppare percorsi strategici di medio-lungo periodo, tempo durante il quale gli eventuali pesi possono cambiare. Inutile soprattutto perchè il successo di questi percorsi strategici si basa principalmente nella coerenza tra l’identità della proposta di marca/prodotto e le decodifiche che ne le persone (i consumatori). Detta più semplice, anche ipotizzando che gli enosnob siano la maggioranza avrebbe poco senso rivolgersi a loro se la mia identità è incoerente con i loro codici. Inutile infine perchè la produzione vinicola è talmente frammentata che comunque un’azienda dovrebbe crescere almeno 10 volte prima di trovarsi (forse) con il problema di aver esaurito l’audience.
Impossibile perchè la ricchezza informativa dell’analisi semiotica in cui i comportamenti sono un continuum lungo gli assi e le diagonali, necessaria per guidare le strategie di medio lungo, viene giocoforza ridotta dall’aggregazione che richiede una ricerca quantitativa.
Secondo me, se proprio si vuole avere un riscontro quantitativo, sulla base degli insight qualitativi si definisce una proposta di vendita che viene testata in termini quantitativi. Comunque è un processo che rischia di essere datato, visto che Samsung adotta già un approccio di trial-and-error per cui non fa ricerche, ma lancia sul mercato i prodotti e poi decide se e come continuare in base ai risultati di vendita.

Il target tutti
Oscar Farinetti, stupor mundi, ha colpito l’attenzione, e suscitato qualche perplessità da parte di chi lo ritiene un vecchio volpone, dichiarando che il suo obiettivo è il “target tutti”.
Io sottoscrivo la sua visione per due motivi:
1) ha colto chiaramente che il quadrato semiotico dei wine lovers non individua vini ma atteggiamenti e codici che le diverse persone associano al consumo di vino. Per questo è possibile perseguire il suo obiettivo di vendere vini di vendere “vini naturali e liberi”, codice che appartiene al quadrante “Radical” ai consumatori “Pane al pane”. Basta rivolgeri a quelle persone con i codici di comunicazione corretti e, dettaglio non da poco, avere un’immagine di marca abbastanza ampia ed articolata da rendere credibile la proposta in modo trasversale.
Un aspetto del quadrato semiotico dei wine lovers che forse non è stato sufficentemente evidenziato nelle varie discussioni è che TUTTI i consumatori che sono rappresentati sono wine lovers e sono tutti interessati alla qualità del vino, però la valutano secondo aspetti diversi.
2) Mi ha ricordato il concetto di marketing democratico, concetto definito ed approfondito (anche se magari non così diffuso e consolidato) di cui ho trattato qui in un vecchio post.

Obiettivi poetici, strumenti matematici
Sempre Farinetti ha espresso questa bellissima sintesi. Io che sono prolisso continuo a parlare di mission/positioning statement come l’ho definito in questo post dello scorso novembre, da cui discende la gerarchizzazione degli obiettivi che diventa sempre meno poetici e sempre più matematici man mano che si scende verso l’operatività. Fino ad arrivare alla granularità degli obiettivi di vendita per singola referenza per singolo punto vendita.

Di nuovo complimenti a tutti quelli che mi hanno aiutato in questo lavoro e di nuovo grazie ad Oscar Farinetti (che è poetico e visionario, però parte sempre dai numeri: guardatevi il video del suo intervento al convegno, che merita).

Non c’è più Limoncè.

Quando faccio la spesa dedico una particolare attenzione al reparto dei vini e liquori per ovvie ragioni professionali. Ieri ho notato con sconcerto la nuova bottiglia di limoncè, che vedete nella foto qui sotto (non a caso di fianco a Limoncetta di Sorrento).
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Conoscendo bene la storia strategica e di risultati di mercato di Limoncè per averlo “frequentato” 7 anni e gestito circa 4, ho mentalmente ripercorso l’evoluzione dei pack: da qui lo sconcerto.
In ordine cronologico, questo era la versione precedente (in realtà questa è l’immagine del prodotto al momento del lancio nel 1997, poi negli anni il tappo di sughero è stato sostituito da un tappo a vite, la scritta Stock sulla capsula sul collo della bottiglia è stata sostituita da una ripetizione del logo che è evoluto graficamente ammorbidendosi come lo si vede oggi) e sotto si vede il Limoncè ’83 inserito nel contesto competitivo dei limoncelli nel 1997, prima del lancio di Limoncè come lo conoscono tutti.

Ora non entrerò nei dettagli perchè rischio di scrivere non un post ma un blog intero.
In sintesi nel 1997 Stock con Limoncè 83 era già il leader di mercato dei limoncelli grazie alla sua forza distributiva, ma,notando un forte potenziale di mercato inespresso, decide di uccidere quel prodotto (leader di mercato sottolineo una volta di più) per lanciarne uno in grado di dare contemporaneità alla categoria di prodotto.
Limoncè diventa così uno dei più grandi successi nel mercato dei liquori e distillati degli ultimi quindici anni grazie ad una strategia pensata e realizzata con chiarezza e precisione (la fortuna, chissà come mai, accompagna sempre queto tipo di operazioni, mentre scarseggia in quelle strategicamente deboli).
Uno dei principali elementi di differenziazione che hanno costruito l’immagine della marca è stato il packaging sia in termini di forma della bottiglia ovale e allungata, che in termini di logo, in cui l’elemente del limonè diventa parte integrante di una grafica che va in direzione opposta a quelle utilizzate fino a quel momento (anche da Stock).
In poche parole Stock crea il nuovo stile del limoncello, oggi si sarebbe detto un esempio di blue ocean strategy (però il libro non era ancora stato pubblicato).
Con questa modifica di packaging l’attuale management della Stock, dopo l’insulsa campagna TV di due anni fa e l’inutile lancio del liquore Limoncè, fa abdicare la marca al proprio ruolo di leader una volta di più e quindi le dà un ulteriore spinta verso il declino.
I ghirigori su bottiglia e capsula vogliono rimandare ad una generica tradizione (e ricordano stranamente l’immagine liberty del Limoncè 83) ed indeboliscono il logo. Il limone del logo ripetuto sulla capsula è diventato una (confusa) spirale di bucce e su capsula e bottiglia si trovano due frasi diverse ma simili che reclamano la genuinità del prodotto: “Solo Limoni italiani” e “Liquore naturale di limoni”. Excusatio non petita,accusatio manifesta.

Nel frattempo il pack di Limoncetta, da anni il principale concorrente, si è raffinato unendo simpatia ed eleganza nel comunicare il suo plus intrinseco: essere prodotto con limoni di Sorrento IGP.

In sintesi Limoncè ha perso la sua leadership innazitutto concettuale e di stile e si propone con un immagine che va nella direzione di Limoncetta di Sorrento, puntando, goffamente ed inutilmente (visto che è già contenuto nel logo), sul limone quale ingrediente principale della ricetta. Carta che risulterà sempre perdente nei confronti di Limoncetta che in etichetta dichiara nell’ordine “Liquore di limoni di Sorrento”, “l’Originale”, “Ricetta tradizionale per infusione”. Ho solo un appunto da fare ad Averna, proprietari del marchio “Limoncetta” (cosa credavate? Che lo facessero le suore cieche di qualche monastero della costiera amalfitana?): sul sito c’è ancora la foto del pack vecchio.

Se penso che nella proposta che avevo raccomandato per l’aggiornamento del marchio Limoncè nel 2006 il marchio diventatava l’immagine del limone+c’è, forse capite un po’ meglio il mio sconcerto.