Cristiano Ronaldo, la Coca Cola ed il new normal.

New normal è un termine che suona bene.
A memoria la prima volta che si è cominciato ad usare diffusamente è stato dopo la crisi economica del 2008.
Dopo un paio di anni però le cose sono tornate a funzionare, e le persone a comportarsi, più o meno come prima.
L’altro momento in cui “new normal” è diventato popolare è quello del COVID che stiamo vivendo. Anche in questo caso i “è cambiato il mondo” oppure “Niente sarà più come prima” si sono sprecati. Rientrata, un’altra volta, l’emergenza sembra però che tutto questo cambiamento sia più a parole che nei fatti.
Invece il mondo è veramente cambiato con un processo evolutivo in corso da qualche anno; solamente che non l’avevamo notata fino a quando non si manifesta una crisi e per questo la scambiamo per rivoluzione.
Conviene rendersene conto per capire quali sono i cambiamenti destinati a rimanere anche dopo la soluzione dell’emergenza.
Immagino che molti sapranno della querelle tra Cristiano Ronaldo e la Coca Cola durante la conferenza stampa del pre partita di Portogallo – Ungheria agli Europei di calcio.
Riassumo brevemente per i pochi che ne siano all’oscuro.
All’inizio della conferenza stampa Cristiano Ronaldo ha platealmente spostato le due bottigliette di Coca Cola, messe lì perché sponsor degli Europei, fino a portarle fuori dall’inquadratura della telecamera.
Dopodiché ha alzato la bottiglia di acqua dicendo con enfasi “Acqua!” e poi “Coca Cola” con espressione infastidita.
La UEFA ha ricordato alle squadre ed ai calciatori partecipanti agli Europei l’importanza degli sponsor per tutto il movimento ed ha raccomandato di non spostare le bottiglie collocate per le conferenze stampa (dopo Ronaldo, hanno fatto qualcosa di simile, un po’ meno plateale, Pgba con una bottiglia di birra Heineken, analcolica, e Localtelli, sempre con le bottiglie di Coca Cola).
Nei giorni seguenti al gesto di Ronaldo, le azioni della Coca Cola sono calate arrivando a perdere anche oltre il -3%, facendo scendere la capitalizzazione in borsa dell’azienda americana di qualche miliardo di dollari.
Il giorno dopo la conferenza stampa, la Coca Cola ha emesso un comunicato che in cui dichiara che “… ognuno ha il diritto alle proprie preferenze in termini di gusti ed esigenze …”
Cosa ho imparato da questo piccolo aneddoto.

Oggi le persone sono delle marche.
Ovviamente quanto più popolari, tanto più importanti come marca.
Non necessariamente forti, perché per le persone, come per le marche commerciali, la forza si misura nelle due dimensioni di popolarità ed immagine.
Da qui il gesto di Ronaldo: rafforzare la propria immagine di marca ipersalutistica e fisicamente efficiente.

La forza delle persone come marche si basa sulla disintermediazione della comunicazione.
La disintermediazione è uno dei grandi fenomeni sociali resi possibili dalla rivoluzione digitale.
Come tutte le tendenze di fondo, agisce trasversalmente nei diversi contesti della società.
Dall’acquisto dei biglietti aerei alla prenotazione dei taxi, dalle consegne a casa (o dove si vuole) di qualsiasi cosa alle vendite dirette on-line, ecc…
Nel caso di Ronaldo significa che per sapere cosa fa / pensa / crede il pubblico non deve più affidarsi ai mezzi di comunicazione, ma può farlo direttamente dai suoi canali social. Informazioni di prima mano dalla viva voce del protagonista: una fonte imbattibile, nella misura in cui mantiene la propria credibilità (e si torna al punto sopra).
In molti settori gli intermediari hanno imparato a proprie spese che si può diventare rapidamente superflui e non ci sono barriere in grado di fermare questo cambiamento. Nell’ambito del giornalismo sportivo un recente esempio lampante è stato quello della tennista giapponese Naomi Osaka, ritiratasi dal Roland Garros 2021 proprio per non dover reggere lo stress delle conferenze stampa post-partita.
Ovvero, gli intermediari superflui o ritrovano una dimensione utile oppure diventano dannosi.

Gli individui prevalgono sulle comunità e le organizzazioni.
L’individualizzazione della società viene da lontano ed il suo paradigma può essere ritrovato nella frase pronunciata da Margaret Thatcher nel 1987: “… la società non esiste. Esistono gli uomini e le donne, individui, ed esistono le famiglie …”
Sono passati 35 anni, è crollata l’URSS, sono spariti i regimi comunisti nell’Europa dell’est, ci sono state (almeno) due crisi economiche mondiali e la peggiore pandemia degli ultimi 100 anni, eppure questa visione (politica) della società (scusate il gioco di parole) non ha mai smesso di diffondersi ed affermarsi.
Qualche decennio fa Cristiano Ronaldo sarebbe stato ampiamente criticato per non rispettare le regole degli impegni presi dalla UEFA.
Oggi l’individuo è chiaramente più importante del gruppo / organizzazione.
Ci si aspetta che le singole persone prendano posizione, non che si riuniscano in una comunità per creare un insieme di valori condivisi che guidi i comportamenti.
Le comunità di follower non partecipano all’elaborazione di una visione comune, ma approvano (applaudono) quella del leader.
Ma se oggi le persone sono marche, vale anche il contrario: per avere successo le marche devono essere persone, prima che contenitori di idee.

Costruire, rafforzare e mantenere marche iconiche.

Piramide marca iconica

L’altro giorno sul solito Marketing News dell’American Marketing Association ho letto un’intervista a Soon Yu, autore del libro Iconic Advantage .

La tentazione è di fare un copia-incolla totale, vista la quantità di cose che ho detto, pensato e (cercato di fare) nella mia attività professionale che ci ho trovato dentro.

Resisto alla tentazione e cerco di farne una sintesi ragionata, ricordando un concetto che ripeto in tutti i miei interventi formativi: le marche crescono, si rafforzano e prosperano nella misura in cui vengono alimentate di idee (significati).

Vedasi anche il mio concetto di “supermarca”.

Ma andiamo ad incominciare.

 

Come si crea una marca iconica?

Va innanzitutto definito il proprio punto di differenziazione unicità (vedasi il mio concetto di “Best Selling Proposition”) e quali sono gli elementi che lo rendono percepibile dal mercato (signature element).

Il punto di differenziazione non è MAI rappresentato dalle caratteristiche del prodotto, ma SEMPRE dalla rilevanza che i sui vantaggi (benefits) significano per la vita dei consumatori.

Per trovare il proprio punto di differenziazione può aiutare la piramide della marca iconica del Sig. Yu. Io uso un modello di ragionamento a matrice un (bel) po’ diverso, ma lo riservo per i clienti o per chi partecipa ai miei corsi di formazione

Bella comunque la metafora di Yu quando dice che la trappola per topi più efficace non è quella più grande o più veloce, ma quella con il formaggio dall’odore più forte.

Spesso le marche iconiche cominciano dalla leadership di una nicchia di mercato (“owning a market niche” rende forse meglio l’idea), perché questo implica una rilevanza distintiva. Per diventare iconici bisogna aggiungere la longevità alla distintività: una marca che mantiene rilevanza distintiva per un lungo periodo di tempo diventa iconica.

 

Come si mantiene una marca iconica?

Ci sono quattro elementi che costituiscono la cornice in cui si crea la rilevanza senza tempo di una marca iconica:

  1. Proteggere l’elemento che rappresenta la marca (brand signature element) per creare familiarità.
  2. Evolvere il racconto della propria eredità/retaggio/origini per alimentare la marca di significato.
  3. Innovare il vantaggio (benefit) per le persone in modo da rinnovare l’interesse (excitement).
  4. Re-immaginare il design per mantenerlo fresco ed attuale.

In realtà gli ultimi tre sono le leve da usare per realizzare la protezione dell’elemento che rappresenta la marca, che è il punto chiave.

 

Perché le marche iconiche si perdono?

Le marche iconiche si perdono per ignoranza interna, per eccessiva voglia di novità o per eccessivo immobilismo.

Ignoranza interna:

se l’azienda non sa cos’è che rende la propria marca iconica in termini di vantaggio distintivo per il mercato ed elemento rappresentativo non potrà proteggerlo. La marca continuerà a rimanere iconica “per caso”, fino a quando gli elementi della sua iconicità verranno cambiati (altrettanto per caso).

 

Eccessiva voglia di novità:

questo secondo è il motivo principale per cui le marche iconiche si perdono. Si verifica quando chi gestisce la marca smette di cercarne il vero significato ed elimina quello che la rendeva iconica per cercarne di completamente nuovi.

Invece di aggiornare gli elementi iconici, evolvendoli, si abbandonano per cercare di creare un significato totalmente nuovo.

Questo può avvenire:

-          per un cambio del management, per cui il nuovo management non conosce chiaramente quali sono gli elementi che rendono la marca iconica (l’ignoranza interna di cui sopra) e/o vuole portare il proprio contributo alla marca.

-          Per una “naturale” noia del management, che dopo anni di gestione della marca vuole fare qualcosa di nuovo e diverso.

-          Per la presunzione di onnipotenza del management, che crede che l’iconicità della marca sia così forte e diffusa da prescindere dagli elementi che l’hanno generata e su cui si basa.

 

Eccessivo immobilismo:

E’ la trappola della coerenza, che resta comunque la base fondamentale di qualsiasi strategia di marketing di successo nel medio-lungo periodo.

Il management decide che per proteggere l’iconicità raggiunta dalla marca non si può né deve toccare niente fino alla morte. Quindi muoiono.

Coerenza vuole dire rimanere fedeli alla propria storia, ai propri valori, alla propria personalità. Questo permette di far evolvere la marca in modo equilibrato infondendo il giusto grado di novità per mantenere rilevanza ed interesse, senza perdere in familiarità.

 

Tutti i concetti precedenti sono sintetizzati in un esempio che fa il Signor Yu di una marca iconica e che riporto letteralmente parola per parola.

C’è Nike Air Max e il suo elemento distintivo che rappresenta la marca (signature element) è la bolla d’aria nella suola. Questo incapsula il loro punto di differenziazione della linea Air Max: rimbalzabilità (buoyance) e prestazioni. La maggior parte della scarpe da ginnastica perdono fino al 40% di sostegno durante la vita della scarpa, ma una bolla d’aria non perderà mai la sua rimbalzabilità. Nike fa tutto il possibile per evidenziare e celebrare questa differenza.

Il passo successivo da fare per proteggere la marca è infondere l’elemento distintivo con constante innovazione.

Quando Nike lanciò Air Max nel 1987 la bolla d’aria era nella parte posteriore del tallone. Col passare degli anni ha coperto l’intero tallone, poi anche la punta della scarpa ed infine l’intera suola. Successivamente sono state inserite “power pocket” di aria nei punti strategici della suola.

In trent’anni Nike ha continuato ad innovare il concetto della “bolla d’aria”, non è mai rimasto statico.

Hanno continuato a raccontare la storia della scarpa, come è stata creata, le nuove celebrità che la usavano, le nuove categorie sportive in cui la scarpa veniva introdotta e come queste introduzioni rivoluzionassero gli sport in cui entrava, fosse il golf oppure il tennis.

Nike ha continuato a far evolvere la storia, le storie creano significati e le persone amano i significati.

Se si guarda ai trent’anni di storia di questa scarpa si vede che hanno continuato a giocare con il design per mantenerla attuale con lo spirito del tempo e le tendenze della moda del momento/periodo.

Hanno protetto l’elemento distintivo che rappresenta la marca infondendolo di innovazione e creando storie al riguardo, circondandolo di rinnovato design, senza violarne la storia e famigliarità.

Gestire i corporate brands è difficile e complicato: il, cattivo, esempio Coca Cola. 2° e ultima puntata.

Domenica scorsa vi avevo lasciati con la domanda: la campagna #cocacolarenew sarà in grado di riposizionare l’immagine di “Coca Cola” (bevanda) in senso più salutistico per ridurre l’effetto negativo dei nuovi comportamenti di consumo nei confronti delle bibite gassate zuccherate?
La risposta è: dubito fortemente, almeno per due ragioni:
• La campagna è Coca Cola centrica: vero che la voce fuori campo parla di “Coca Cola Company” però l’ashtag è #cocacolarenew.
• Gli altri prodotti sani (thè biologico, acqua di cocco, acqua minerale, integratori, ecc…) appartengono a categorie profondamente diverse dalle “cole” per ingredienti, caratteristiche organolettiche e motivazioni di consumo. Il trasferimento di percezione, immagine e competenze è quindi limitato, se non nullo. Mi spiego meglio: se mi piace il Pandoro Bauli e lo considero migliore rispetto ai concorrenti, è probabile che ritenga di poter trovare la stessa qualità anche nei croissants. Si tratta sempre di prodotti dolciari da forno, la cui produzione richiede le stesse competenze e, festività a parte, soddisfano motivazioni e momenti di consumo simili (alzi la mano chi non ha mai fatto colazione con un pezzo di pandoro avanzato dal giorno prima).
Detto in sintesi la campagna #cocacolarenew rimane soprattutto una campagna di Coca Cola (bevanda).
Per questo io vedo più probabile un trasferimento del percepito di Coca Cola sugli altri marchi “sani” che appartengono a Coca Cola Company, che non viceversa.
Nella misura in cui questo si dovesse realizzare, la campagna diventerebbe un boomerang nei confronti delle, più deboli, marche del gruppo. Soprattutto per quei consumatori che ad oggi non erano coscienti del fatto che thè biologico, acqua di cocco, acqua minerale, integratori, ecc… appartenessero alla multinazionale di Atlanta.
Spesso si tende a sottovalutare la forza del marchio originario riflettuto nel corporate brand e della deriva/influenza che ha sugli altri marchi.
Ma c’era qualcosa che Coca Cola Company poteva fare niente per riflettere nella propria immagine la propria evoluzione?
Sì e l’avevano sotto gli occhi, ma era un salto troppo grosso e (probabilmente) non hanno avuto il coraggio di farlo.
E’ lo stesso sito di Coca Cola Italia a riportare le parole dell’Amministratore Delegato di Coca Cola Company, James Quincey:
“The Coca-Cola Company è diventata più grande del marchio Coca-Cola. Il brand Coca-Cola costituirà sempre il cuore e l’anima di The Coca-Cola Company, ma l’azienda oggi è molto di più rispetto al suo brand principale.”.
Lo dice ancora più chiaro il testo dello spot, quando in apertura la voce fuori campo recita: We may be one of the world’s most familiar company, but we make more than our name suggest. (Probabilmente siamo una delle aziende più conosciute al mondo, ma facciamo di più di quello che suggerisce/indica il nostro nome).
Ergo, cambiate il nome.
E’ evidente lo strabismo di marketing per cui la notorietà della marca Coca Cola bevanda viene, scorrettamente, attribuita a Coca Cola Company azienda.
E’ probabile che un rinnovamento della percezione di Coca Cola Company in grado di rispecchiare l’evoluzione che ha portato l’azienda ad essere quello che è oggi fosse necessario, sia per guidare le strategie e l’operatività interna che nei confronti dei clienti del trade e degli investitori.
Il problema è che secondo me è possibile farlo solamente con un cambio radicale del marchio/nome aziendale che abbandoni il marchio Coca Cola. O, se volete fare le cose per gradi, che lo mantenga marginalmente durante un primo periodo, per poi eliminarlo successivamente (attenzione però che, come diceva mia mamma, “il medico pietoso fa la piaga pustolosa”).
E’difficile? Certo, nessuno si dovrebbe aspettare che gestire uno dei più grandi marchi mondiali sia una cosa facile.
E’ rischioso? Secondo me meno della strategia #cocacolarenew in corso, per le ragioni spiegate sopra.
E’ inutile? Forse si, per le ragioni spiegate domenica scorsa. Ma, evidentemente, non sono nelle condizioni di poter valutare la necessità di un allargamento dello scopo aziendale di Coca Cola Company per mantenere la massima efficacia ed efficienza nello sviluppo del gruppo (cosa che può valutare solo chi è all’interno dell’azienda).
Deciso però che questo allargamento dello scopo aziendale fosse necessario, andava fatto fino in fondo, staccandosi dal marchio Coca Cola, che intrinsecamente lo restringe.
Come definire questo nuovo scopo? Non dovrebbe essere difficile per un’azienda che rappresenta uno degli emblemi della cultura americana in tutto il mondo.
E anche qui devo ammettere che la nuova visione sviluppata da Quincey di Coca Cola Company come una “Total Beverage Company” è deludente.
Possibile che Coca Cola Company non trovi di meglio per definire se stessa del semplice atto di consumo e che il massimo comun denominatore che ispira il suo modus operandi sia la purezza dell’acqua utilizzata per tutti i suoi prodotti? Forse qualcuno aveva il dubbio che i prodotti di Coca Cola Company fossero realizzati con acqua inquinata?
Se è una Total Beverage Company significa che nel proprio scopo aziendale rientrano anche superalcolici, vino e birra?
Nel definire dei valori comuni che collegano tutti i prodotti, e quindi così avvantaggiarsi sia dell’equity costruita nel tempo dal marchio Coca Cola bevanda che dalla percezione più sana dei nuovi prodotti, Coca Cola Company potrebbe essere una:
• “happiness company”: dove “wellness” è una componente dell’”happiness”.
• “togheterness company”: sia come filosofia di condivisione sia come comunità mondiale grazie alla globalizzazione dell’azienda.
• “opportunity company”: per la moltiplicità delle scelte, per la creazione di opportunità alle persone all’interno dell’azienda, nelle comunità in cui opera, ecc…
Questi sono solo i primi esempi che mi vengono in mente senza alcuna conoscenza dell’azienda, le sue caratteristiche, la sua cultura, oltre a quelle che mi vengono dall’essere un affezionato consumatore.
Concludo sottolineando come questi due post non siano stati sostenuti dalla voglia/soddisfazione di far vedere che sono più furbo di Coca Cola.
E’ invece un profondo dispiacere, da consumatore dei prodotti dell’azienda e da professionista di marketing, vedere come anche Coca Cola Company abbia difficoltà ad operare con una visione complessiva di marketing strategico e temo non sia slegato al fatto che il suo attuale Amministratore Delegato è un inglese, laureato in ingegneria informatica.

Gestire i Corporate Brands è difficile e complicato: il, cattivo, esempio Coca-Cola. 1a puntata.

L’altro giorno ho letto su Data Media Hub un interessante post dal titolo “Il riposizionamento di The Coca Cola Company”, relativo al nuovo corso strategico di Coca Cola per enfatizzare l’ampiezza e la maggiore salubrità dell’assortimento aziendale, al di là della Coca Cola intesa come specifica bevanda, nelle sue diverse versioni. Per chiarezza da qui in avanti userò “The Coca Cola Company” per riferirmi all’azienda e “Coca Cola” per riferirmi alla bevanda specifica (o all’Area Strategica di Affari rappresentata dal marchio specifico se preferite).

In sintesi quello che sta succedendo è che il cambiamento dell’atteggiamento dei consumatori e delle istituzioni nei confronti delle bevande gassate ricche di zucchero, molti comuni statunitensi applicano tasse basate sul contenuto di zuccherino, ha causato un forte calo dei consumi.
I dati del 2016 relativi al consumo delle bibite gassate negli USA registrano i valori più bassi degli ultimi trent’anni, sostituite da acqua minerale gassata, caffè freddo in bottiglia ed energy o sport drinks.

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Questa tendenza di consumo quindi viene da lontano, ed infatti da anni la Coca Cola Company ha allargato il proprio assortimento ai diversi tipi di bevande e lavorato sulla riduzione del contenuto di zucchero delle bevande esistenti (o l’aggiunta nell’assortimento di versioni di versioni meno zuccherine) per cercare di continuare a sviluppare fatturato e profitti.
Malgrado questa strategia però tanto l’uno come gli altri sono in costante calo dal 2012 (Fonte: Forbes).

Coca Cola Company revenue - Forbes
A marzo di quest’anno il Presidente ed Amministratore Delegato della Coca Cola Company James Quincey ha annunciato il rafforzamento di questa strategie con la “messa al centro del consumatore” (sigh)  e la conseguente evoluzione di Coca Cola Company verso una “Total Beverage Company” (doppio sigh)
Coerentemente con questa strategia/visione sintetizzata dall’ashtag #cocacolarenew, a settembre The Coca Cola Company ha trasmesso un nuovo spot negli orari di maggior ascolto televisivo, e quindi più costosi, degli U.S.A..
Qui di seguito trovato le tre versioni: 30”, 60” e 90”. Le ho riportate tutte perché spesso nel realizzare e pianificare una campagna pubblicitaria capita di sottostimare l’effetto della diversa durata nel messaggio che viene effettivamente trasmesso e quindi presumibilmente percepito. Voglio dire che l’articolazione e la completezza del messaggio che c’è nello spot di 90” si perde in quello di 30”. Poiché entrambi nascono dalla stessa idea creativa e sono realizzati dalle stesse persone, si rischia che lo spot da 30” vengo considerato semplicemente una versione più breve di quello da 90”, mentre in realtà ne è una versione in buona parte diversa.
Per questo ho riportato per ogni spot anche il numero di visualizzazioni che aveva su youtube alle 12:30 del 22-10-17.

30″ – 438.346 visualizzazioni.

60″ – 3.920.816 visualizzazioni.

90″ – 21.124 visualizzazioni.

Servirà tutto questo a migliorare le performances dei marchi di Coca Cola Company?

Dubito fortemente, perché secondo me si è adottato un approccio semplicistico ad una situazione aziendale complessa, come spesso accade quando si tratta della gestione dei corporate brands (o marchio aziendale) e/o di marchi ombrello.
La situazione in cui il marchio aziendale corrisponde anche ad una delle marche-prodotto dell’assortimento è sempre una situazione delicata. Quando poi la marca a cui corrisponde il marchio aziendale è una grande marca per personalità, volumi, reddività, ecc… la delicatezza della situazione cresce in proporzione.
Ovviamente non c’è alcun problema nel caso in cui il marchio aziendale corrisponde all’unica marca-prodotto dell’assortimento. E’ però una situazione molto più rara di quanto si pensi e, soprattutto, è una situazione che tende a cambiare con la crescita dell’azienda. Quindi la corrispondenza tra marchio aziendale e marca-prodotto è sempre potenzialmente complicata.
Alla complicazione ed ai rischi corrispondono però dei benefici: se io costruisco una reputazione per il marchio Ferrero, tutte le volte che sviluppo strategie riguardanti una delle singole marche-prodotto ottengono degli effetti sinergici su tutte le altre. Per fare un esempio semplice, nel momento in cui lancio l’Estathè Ferrero la buona reputazione del marchio aumenta l’attenzione ed il ricordo della campagna pubblicitaria e facilita la prova e l’adozione del prodotto.
Il tutto però funziona solo nel caso in cui il marchio aziendale venga associato a quello Estathè, Nutella, Fiesta, Kinder, ecc…, come effettivamente è stato fatto dalla Ferrero. Da notare anche che non esiste un prodotto / linea della Ferrero che non abbia una marca propria. In altre parole l’architettura della marca è sempre “marca-prodotto” di Ferrero (marchio aziendale).
Viceversa nel caso di Coca Cola Company il marchio aziendale si sovrappone interamente a quello della marca-prodotto “Coca Cola”, mentre l’associazione è debole, o nulla, con gli altri marchi aziendali come Bon Acqua, Aquarius, Fuze Teq, ecc …
Il punto è che il consumatore dei prodotti più “sani” dell’assortimento di Coca Cola Company il marchio aziendale non lo vede, né lo percepisce perché l’azienda non glielo mostra.

Coca Cola assortment
Nella campagna #cocacolarenew c’è quindi innanzitutto un sostanziale strabismo di marketing nell’identificazione del target di “Coca Cola Company. Sono principalmente gli investitori finanziari e non i consumatori quelli ai quali è importante comunicare che Coca Cola Company negli anni ha allargato il proprio assortimento è un’azienda.
Si potrebbe pensare però che l’obiettivo della campagna #cocacolarenew sia riposizionare in termini salutistici le marche dell’azienda. La domanda quindi sarebbe: è in grado di raggiungerlo?
Le mie risposte a domenica prossima …

E se Bauli per Natale producesse anche lo spumante?

bauli-nov-2016Ieri sono andato a fare la spesa, ho visto le confezioni natalizie di Bauli con l’abbinamento Pandoro – Spumante Modero della foto qui a fianco e mi sono partiti una serie di corto circuiti mentali.

Conosco in prima persona la strategia di Bauli di abbinamenti con marchi altrettanto forti ed affini per dare valore al consumatore e sostenere l’immagine del marchio, perché per diversi anni gli ho fornito la Crema di Limoncè sfusa con cui farcire il Pandoro e le bottiglie di Crema di Limoncè per le confezioni regalo.

La conosco e la condivido, pur cosciente della fortissima competizione sul prezzo che caratterizza le vendite dei prodotti da ricorrenza a Natale.

Per un grande marchio entrare nella competizione di prezzo tout-court significa morire, sopravvivere e svilupparsi richiede che la proposta abbia sempre una componente, la più grande possibile, di valore.

Ora, sia detto con rispetto, non mi pare che “Modero” sia un marchio che aggiunge molto a Bauli.

Quindi, considerando anche l’aspetto sensoriale dell’abbinamento comunicato sulla confezione, mi chiedo: non sarebbe stata più forte la proposta se Bauli si fosse prodotto il proprio spumante per l’abbinamento ideale con il proprio Pandoro?

Certo che ho presente i problemi di credibilità di Bauli come produttore di vino, che si possono comunque attenuare coinvolgendo un enologo di fama, ma non vanno nemmeno sottostimati i problemi di indebolimento della marca per la sua associazione ad uno spumante sconosciuto.

Il punto quanto forte in profondità ed ampiezza è il marchio Bauli. Per usare un termine inglese che esprime meglio lo scopo e la dimensione della marca il franchise Bauli rischia di più ad associarsi a quello Modero oppure a testare se è in grado di coprire anche la categoria del vino spumante?

Mi ricordo un seminario con l’Amministratore Delegato della Beiesdorf, l’azienda che produce il marchio Nivea, che ad un certo punto dello sviluppo della marca hanno dovuto porsi la questione di come definire lo scopo della arca in termini di gamma prodotti per evitare di perdere opportunità che il consumatore considerava coerenti ed interessanti ed allo stesso tempo di diluire il posizionamento della marca. Quella volta si erano risposti che il marchio Nivea poteva riguardare tutti i prodotti che entravano in contatto con la pelle delle persone.

Ho l’impressione che capire e definire la dimensione del proprio franchise sarà sempre più importante perché ho la sensazione che nel tempo ci saranno da una parte prodotti anonimi / generici e dall’altra un numero ridotto di marchi sempre più ampi.

Niente di oggettivo, solo impressioni.

Voi lo berreste uno spumante Bauli insieme al Pandoro?

3 modi per costruire una marca concorrenziale, risoluta ed irresistible.

D.A. Aaker

 

A pensarci bene credo che siano 3 i libri fondamentali per ilmio marketing. Fondamentali nel senso che tutto quello che ho letto/studiato/imparato dopo averli letti (ed anche qualcosa prima) si sono ancorati / appoggiati sulle fondamenta costruite con questi libri.

Sono tre libri che ho studiato nei miei corsi all’Università di Guelph – Ontario, oramai 25/26 anni fa.

- P. Kotler, R.E. Turner, Marketing Management, Prentice -Hall Canada, 1989.

- J.F. Engel, R.D. Blackwell, P.W. Miniard, Consumer behavior, The Dryden Press, 1990.

- D.A. Aaker, G.S. Day, Marketing Research, John Wiley & Sons, 1989.

Si tratta quindi libri ed autori ai quali sono particolarmente affezionato, con cui si è stabilito un rapporto speciale di stima (unidirezionale, ovviamente perchè, a parte Kotler, non li ho mai incontrati). E’ stato un po’ come quando all’università mi sono trovato come professore di Topografia e Costruzioni il Prof. Chiappini, che aveva scritto il libro di testo su cui avevo studiato alle superiori. Mi è sembrata una garanzia di qualità del corso ed anche un po’ di conoscerlo già.

Ecco perchè sono stato contento quando Aaker ha cominciato a pubblicare sulla rivista Marketing News dell’American Marketing Association i suoi articoli tratti/ispirati dal suo ultimo libro Aaker on Branding: 20 Principles to Drive Success.

L’ultimo articolo in ordine di tempo si intitola Three Ways to Build a Competitive, Compelling, Purposeful Brand, che da me tradotto in italiano è il titolo di questo post, e mi è sembrato particolarmente utile ed interessante.

Ecco la mia sintesi (riassunto e commento si diceva alle elementari).

Ci sono 3 tendenze che si stanno velocemente affermando nelle strategie e tattiche di creazione della marche (branding), trasversalmente praticamente in tutti i settori. Il successo futuro delle organizzazioni deriverà dalla loro capacità cavalcare queste onde piuttosto che nuotarci controcorrente.

La prima tendenza è lo spostamento della concorrenza dalle preferenze di marca alle sottocategorie di un settore.

La concorrenza basata su preferenze di marca è caratterizzata da innovazione incrementale, per cui la promessa della marca diventa “la mia marca è meglio della sua”.

La concorrenza basata su sottocategorie è caratterizzata da innovazione sostanziale, per cui la promessa della marca diventa “la mia marca ti offre qualcosa che non ha nessuno”. In questo senso l’offerta della marca può diventare un “must have”. Per non parlare sempre di Apple, un esempio nel settore dell’automobile è stata l’introduzione dei SUV o dei minivan. La marca crea una sottocategoria dove non ci sono (ancora) concorrenti rilevanti.

N.d.A., ossia mia: è un altro modo guardare al famoso concetto di Blue Ocean Strategy. Un modo che ha il vantaggio rispetto all’approccio economico-aziendale del testo di Kim e Mauborgne di fornire un approccio più efficace per perseguire l’identificazione / definizione / creazione degli “oceani blu” ex ante e non solamente a posteriori. E’ un po’ la stessa differenza che c’è secondo me tra Kotler e Porter.

In effetti Aaker prosegue indicando le implicazioni che questa detenza determina nella gestione dell’impresa e delle marche:

- spostare parte degli investimenti dalla ricerca di innovazione incrementale a quella di innovazione sostanziale.

- sviluppare la capacità e gli strumenti per riconoscere quali sono i (potenziali) “must have” e quali no (N.d.A.:ricerca di marketing se ci sei batti un colpo).

- diventare il leader di riferimento della nuova sottocategoria (N.d.A.: rapidamente perchè i plus sono destinati a diventare must per l’entrata nella sottocategoria dei concorrenti).

- la volontà e capacità di gestire sottocategorie piuttosto che marche (N.d.A.: pensando alle mie esperienze con Limoncè e, soprattutto, Keglevich io direi la visione di gestire sottocategorie)

- possedere la sottocategorie creando barriere all’entrata dei concorrenti.

 

La seconda tendenza è lo spostamento dal comunicare fatti relativi alla marca / offerta /azienda al creare “contenuti sweet-spot per il cliente”, contenuti che interessino e coinvolgano i clienti attuali e potenziali (N.d.t., sempre io: una traduzione decente di sweet-spot non l’ho trovata, quindi l’ho lasciato così).

Un contenuto generato / ispirato da uno sweet-spot del cliente rafforza la percezione della marca e genera molta più fiducia, credibilità ed autenticità rispetto alla miglior pubblicità.

N.d.A.: se volete è il vecchio caro concetto di comunicare i vantaggi che il cliente ottiene dal consumo della marca grazie alle sue caratteristiche e non fermarsi alle semplici caratteristiche, lasciando al cliente l’onere di capirne i (potenziali) vantaggi. Però più approfondito e calato nella realtà attuale dei “contenuti”. Nell’era digitale siamo tutti nell’attività editoriale, anche se facciamo biscotti, è il marketing totale bellezza.

 

La terza tendenza è quella che le mmarche devono avere / trovare / adottare uno scopo più ampio ed elevato rispetto al semplice battere la concorrenza sul mercato.

Ovviamente perchè questo scopo più ampio ed alto riesca ad avere un impatto all’interno ed all’esterno dell’organizzazione / marca deve essere vissuto in modo genuino e sostanziale.

Direi che per oggi abbiamo abbastanza food-for-thought