Perché le aziende / marche vanno in crisi.

Giovedì scorso ho scritto in anticipo il post per questa settimana. Si intitola(va) “Gli shopping bots stanno rivoluzionando i processi e l’esperienza d’acquisto e dimostrano l’importanza del concetto di Marketing Totale e delle sue implicazioni.”

E’ un bel post ed era già pianificato per la pubblicazione automatica questa domenica alle 19:21.

Poi sabato mattina sono andato a fare la spesa.

Ed all’ingresso del (piccolo) supermercato Coop che frequento mi sono trovato davanti questo espositore natalizio del caffè Illy in offerta.

Espositore Illy natale 2017

Mi sono venuti in mente anche Benetton e Melegatti e quindi non sono riuscito a sfuggire al mio destino che mi vede dedicare, oramai da 10 anni, parte della domenica pomeriggio a scrivere il post di biscomarketing.

Comincio completando l’affermazione del titolo: le aziende vanno in crisi perché smettono di rispettare la propria identità, la propria cultura, i propri valori, in pratica quello grazie al quale hanno creato i vantaggi competitivi che le hanno portate al successo.

Questo è il principale fattore interno che determina i problemi di un’azienda / marca ed è anche il fattore che indebolisce la capacità dell’azienda / marca di anticipare/reagire con successo ai fattori di crisi esterni quali cambiamenti tecnologici e/o nel comportamento delle persone (consumatori), ecc…

Una marca capace di rimanere fedele al proprio spirito, senza per questo essere immobile, ha buone probabilità di convertirsi in una “Supermarca” che trascenderà le tendenze del proprio settore merceologico (per l’approfondimento del concetto di Supermarca potete leggere questo mio post del febbraio 2016).

Per me non è una novità. Sono sempre stato convinto dell’importanza cruciale della definizione chiara ed onesta del posizionamento delle marche come pilastro e come guida di ogni strategia di successo.

Si tratta di una cosa a cui ho sempre dato massima importanza nel mio lavoro in azienda ed è l’aspetto principale in cui opero nella mia attività di consulente.

Eppure le aziende continuano a sottovalutarlo, forse perché sembra una cosa talmente semplice da non meritare importanza. Certo che è semplice, ma (proprio per questo) difficile.

Le dichiarazioni di Luciano Benetton nella recente intervista rilasciata a Repubblica sulla crisi della sua azienda e sulle strategie di rilancio sono illuminanti:

«Mentre gli altri ci imitavano, la United Colors spegneva i suoi colori. Ci siamo sconfitti da soli(N.d.A.: il grassetto è mio). I negozi, che erano pozzi di luce, sono diventati bui e tristi come quelli della Polonia comunista. E parlo di Milano, Roma, Parigi… Abbiamo chiuso in Sudamerica e negli Usa»

«hanno (N.d.A.: riferito ai manager che gestivano l’azienda dopo la sua uscita dai ruoli operativi) smesso di fabbricare i maglioni. È come se avessero tolto l’acqua a un acquedotto. Ho visto cappotti alla russa, con il doppiopetto, il bavero largo, le spalle grosse… di colore grigio sporco. Pensi che hanno chiuso le tin-to-rie!».

Con il senno di poi sembra evidente l’assurdità per un’azienda che si chiama “United Colors” di chiudere le tintorie, però dei dirigenti (che si presume) qualificati ed esperti l’hanno fatto.

E’ giusto ricordare che i problemi di Benetton non nascono dal fatto che il concetto di instant-fashion di cui sono stati gli inventori / pionieri sia entrato in crisi. Tutt’altro: si tratta dell’approccio tutt’ora vincente nella produzione e distribuzione di abbigliamento.

Solo che mentre Zara ed H&M, per fare due nomi, si ispiravano al successo di Benetton, trovando soluzioni di maggior successo, Benetton smetteva di farsi ispirare da se stesso (o di essere fonte di ispirazione, se preferite).

Credo che sia evidente l’enorme vantaggio competitivo in termini di competenze, dimensioni, curve di esperienza, capillare presenza sul mercato, (potenziale) capacità di ascoltare i consumatori, esperienza, ecc… che Benetton aveva sui concorrenti che oggi lo hanno superato quando questi concorrenti sono partiti.

Patrimonio completamente dilapidato nel giro di 10 anni (se la “nuova” strategia di rilancio sia effettivamente nuova oppure una minestra riscaldata è un tema in cui qui oggi non entro).

Attenzione che non è sufficiente il mantenimento della gestione famigliare per assicurare la coerenza tra visione e gestione. Il figlio di Luciano Benetton è stato presidente dell’azienda dal 2012 al 2014. E’ necessario formalizzare l’identità attraverso un lavoro di (psico)analisi dell’azienda / marca, per poterla poi trasferire nel tempo e nello spazio

Forse ancora maggiore era il vantaggio competitivo di Melegatti indipendentemente dal brevetto del pandoro nel 1894 chiunque ha almeno 45 anni sa che fino agli anni ’80 il pandoro era solo Melegatti. E non si trattava di uno slogan, era un dato di fatto. Ve lo dice un vecchio bambino degli anni ’70 che, minoritariamente ai tempi, non mangiava il panettone.

Le cose sono cominciate a cambiare a partire dagli anni ’80 (grazie?) all’arrivo di Bauli sul mercato nazionale (sull’invenzione del pandoro Ruggero Bauli diceva “Chi l’ha inventado non se sa, ma el pandoro Bauli lo gò inventado mi”), seguito poi da Paluani.

Quindi anche qui ci troviamo in un settore in crescita, in cui il pioniere si è perso in strategie che rincorrevano il mercato invece di lavorare sulla propria proposta per aggiornarla ed affermarla. Qui trovate il mio post di 2 anni fa (tempi non sospetti) E se il problema principale di Melegatti fosse la qualità del prodotto e non comunicazione e posizionamento?”

E arriviamo, brevemente, ad Illy. A partire dagli anni ’90 e per almeno vent’anni Illy è stato il riferimento nel settore del caffè per tutti: consumatori, baristi, produttori concorrenti.

Ha costruito il proprio successo diffondendo la cultura del caffè basandosi sull’eccellenza in ogni aspetto. Massima qualità intrinseca del prodotto, conoscenza assoluta e trasferimento delle conoscenze per utilizzarlo al meglio (ossia su come fare il caffè, vedi “Università dell’Espresso”) e stile che (s)confina con l’arte.

La qualità intrinseca è stata messa in discussione con le capsule (area di affari in cui tra l’altro ha tradito/abbandonato i principi con cui aveva dato vita al progetto delle cialde E.S.E.) ed in quanto a stile, la foto all’inizio di questo post parla da sola.

La pressione del mercato, una certa uggia che subentra al fare sempre le stesse cose, la voglia di novità portata dalle nuove persone che entrano in azienda, sia per un naturale modo diverso di vedere le cose sia per provare a se stessi ed agli altri di cosa si è capaci. Sono tutti fattori che tendono a minare la coerenza intrinseca della gestione e, soprattutto, la coerenza con l’identità / spirito / personalità della marca.

Ma sono tutte scorciatoie faticose ed in cui è facile perdersi.

Siate onesti con voi stessi, così la vostra proposta sarà autentica ed i consumatori vi troveranno. Siate confusi o, peggio, falsi ed i consumatori scapperanno per quanto li cerchiate e li blandiate.

Onestà, autenticità, coerenza non significano fissità ed immobilismo.

Come sa chiunque sia stato al timone di una barca a vela con il brutto tempo (ad esempio navigando di bolina per tornare da Melilla, enclave spagnola sulla costa mediterranea del Marocco, a Motril, porto vicino a Granada, con mare forza 5) per mantenere la rotta bisogna continuamente aggiustare il timone e regolare le vele.

Si impara più rapidamente in barca, dove l’effetto degli errori ed i relativi rischi si vedono subito, che non in azienda. Però, se non si impara, si naufraga uguale (oppure si chiama un consulente, che sia bravo mi raccomando).

Gestire i corporate brands è difficile e complicato: il, cattivo, esempio Coca Cola. 2° e ultima puntata.

Domenica scorsa vi avevo lasciati con la domanda: la campagna #cocacolarenew sarà in grado di riposizionare l’immagine di “Coca Cola” (bevanda) in senso più salutistico per ridurre l’effetto negativo dei nuovi comportamenti di consumo nei confronti delle bibite gassate zuccherate?
La risposta è: dubito fortemente, almeno per due ragioni:
• La campagna è Coca Cola centrica: vero che la voce fuori campo parla di “Coca Cola Company” però l’ashtag è #cocacolarenew.
• Gli altri prodotti sani (thè biologico, acqua di cocco, acqua minerale, integratori, ecc…) appartengono a categorie profondamente diverse dalle “cole” per ingredienti, caratteristiche organolettiche e motivazioni di consumo. Il trasferimento di percezione, immagine e competenze è quindi limitato, se non nullo. Mi spiego meglio: se mi piace il Pandoro Bauli e lo considero migliore rispetto ai concorrenti, è probabile che ritenga di poter trovare la stessa qualità anche nei croissants. Si tratta sempre di prodotti dolciari da forno, la cui produzione richiede le stesse competenze e, festività a parte, soddisfano motivazioni e momenti di consumo simili (alzi la mano chi non ha mai fatto colazione con un pezzo di pandoro avanzato dal giorno prima).
Detto in sintesi la campagna #cocacolarenew rimane soprattutto una campagna di Coca Cola (bevanda).
Per questo io vedo più probabile un trasferimento del percepito di Coca Cola sugli altri marchi “sani” che appartengono a Coca Cola Company, che non viceversa.
Nella misura in cui questo si dovesse realizzare, la campagna diventerebbe un boomerang nei confronti delle, più deboli, marche del gruppo. Soprattutto per quei consumatori che ad oggi non erano coscienti del fatto che thè biologico, acqua di cocco, acqua minerale, integratori, ecc… appartenessero alla multinazionale di Atlanta.
Spesso si tende a sottovalutare la forza del marchio originario riflettuto nel corporate brand e della deriva/influenza che ha sugli altri marchi.
Ma c’era qualcosa che Coca Cola Company poteva fare niente per riflettere nella propria immagine la propria evoluzione?
Sì e l’avevano sotto gli occhi, ma era un salto troppo grosso e (probabilmente) non hanno avuto il coraggio di farlo.
E’ lo stesso sito di Coca Cola Italia a riportare le parole dell’Amministratore Delegato di Coca Cola Company, James Quincey:
“The Coca-Cola Company è diventata più grande del marchio Coca-Cola. Il brand Coca-Cola costituirà sempre il cuore e l’anima di The Coca-Cola Company, ma l’azienda oggi è molto di più rispetto al suo brand principale.”.
Lo dice ancora più chiaro il testo dello spot, quando in apertura la voce fuori campo recita: We may be one of the world’s most familiar company, but we make more than our name suggest. (Probabilmente siamo una delle aziende più conosciute al mondo, ma facciamo di più di quello che suggerisce/indica il nostro nome).
Ergo, cambiate il nome.
E’ evidente lo strabismo di marketing per cui la notorietà della marca Coca Cola bevanda viene, scorrettamente, attribuita a Coca Cola Company azienda.
E’ probabile che un rinnovamento della percezione di Coca Cola Company in grado di rispecchiare l’evoluzione che ha portato l’azienda ad essere quello che è oggi fosse necessario, sia per guidare le strategie e l’operatività interna che nei confronti dei clienti del trade e degli investitori.
Il problema è che secondo me è possibile farlo solamente con un cambio radicale del marchio/nome aziendale che abbandoni il marchio Coca Cola. O, se volete fare le cose per gradi, che lo mantenga marginalmente durante un primo periodo, per poi eliminarlo successivamente (attenzione però che, come diceva mia mamma, “il medico pietoso fa la piaga pustolosa”).
E’difficile? Certo, nessuno si dovrebbe aspettare che gestire uno dei più grandi marchi mondiali sia una cosa facile.
E’ rischioso? Secondo me meno della strategia #cocacolarenew in corso, per le ragioni spiegate sopra.
E’ inutile? Forse si, per le ragioni spiegate domenica scorsa. Ma, evidentemente, non sono nelle condizioni di poter valutare la necessità di un allargamento dello scopo aziendale di Coca Cola Company per mantenere la massima efficacia ed efficienza nello sviluppo del gruppo (cosa che può valutare solo chi è all’interno dell’azienda).
Deciso però che questo allargamento dello scopo aziendale fosse necessario, andava fatto fino in fondo, staccandosi dal marchio Coca Cola, che intrinsecamente lo restringe.
Come definire questo nuovo scopo? Non dovrebbe essere difficile per un’azienda che rappresenta uno degli emblemi della cultura americana in tutto il mondo.
E anche qui devo ammettere che la nuova visione sviluppata da Quincey di Coca Cola Company come una “Total Beverage Company” è deludente.
Possibile che Coca Cola Company non trovi di meglio per definire se stessa del semplice atto di consumo e che il massimo comun denominatore che ispira il suo modus operandi sia la purezza dell’acqua utilizzata per tutti i suoi prodotti? Forse qualcuno aveva il dubbio che i prodotti di Coca Cola Company fossero realizzati con acqua inquinata?
Se è una Total Beverage Company significa che nel proprio scopo aziendale rientrano anche superalcolici, vino e birra?
Nel definire dei valori comuni che collegano tutti i prodotti, e quindi così avvantaggiarsi sia dell’equity costruita nel tempo dal marchio Coca Cola bevanda che dalla percezione più sana dei nuovi prodotti, Coca Cola Company potrebbe essere una:
• “happiness company”: dove “wellness” è una componente dell’”happiness”.
• “togheterness company”: sia come filosofia di condivisione sia come comunità mondiale grazie alla globalizzazione dell’azienda.
• “opportunity company”: per la moltiplicità delle scelte, per la creazione di opportunità alle persone all’interno dell’azienda, nelle comunità in cui opera, ecc…
Questi sono solo i primi esempi che mi vengono in mente senza alcuna conoscenza dell’azienda, le sue caratteristiche, la sua cultura, oltre a quelle che mi vengono dall’essere un affezionato consumatore.
Concludo sottolineando come questi due post non siano stati sostenuti dalla voglia/soddisfazione di far vedere che sono più furbo di Coca Cola.
E’ invece un profondo dispiacere, da consumatore dei prodotti dell’azienda e da professionista di marketing, vedere come anche Coca Cola Company abbia difficoltà ad operare con una visione complessiva di marketing strategico e temo non sia slegato al fatto che il suo attuale Amministratore Delegato è un inglese, laureato in ingegneria informatica.

Il ruolo del positioning nel fondamentale equilibrio tra awareness e reputazione.

equilibrio balla

Nel mio posto del giugno 2016 “Sul web si crea la reputazione, non la conoscenza di marca” , ho pubblicato questa matrice, che sviluppai nel lontano 1993 quando mi dedicavo all’inquadramento teorico del marketing dei prodotti tipici a denominazione d’origine, senza spiegarla.

Credo però che meriti un approfondimento per l’utilità che ha il suo utilizzo nell’analisi della situazione della marca e nella definizione delle relative strategie.

Come esempio concreto prendo la recente campagna pubblicitaria del Buondì Motta, approfittando del fatto che la grande attenzione ricevuta rende i ragionamenti che seguono più facilmente comprensibili.

La campagna Buondì aveva l’obiettivo dichiarato di rilanciare una marca/prodotto un po’ appannata ed ha generato grande aumento della sua awareness (sicuramente a breve termine, sul medio è da vedere).

Però era proprio l’awareness il punto debole su cui bisognava intervenire? Dipende.

Se la marca si trovava nel quadrante buono, e quindi l’appannamento dipendeva dalla bassa awareness in presenza di una buona reputazione, evidentemente la strategia della campagna era quella giusta.

Se però l’appannamento della marca dipendeva da un basso livello sia di awareness che di reputazione, quadrante potenziale, investire sull’aumento di awareness sposta la marca nel quadrante pessimo (affossandola definitivamente).

Ovviamente la rappresentazione di confini netti tra i vari quadranti della matrice è una semplificazione per esprimere il concetto con maggior chiarezza. Nella realtà operativa lo spostamento delle marche sugli assi è un continuum.

Altrettanto è evidentemente che l’aumento di reputazione implica sempre un certo aumento di awareness, se non altro per il passaparola.

Attenzione però che non è vero il contrario, ossia ci può essere aumento di awareness senza aumento di reputazione. Oppure, ed è il caso peggiore, ci può essere un aumento di awareness innescato da un calo di reputazione, come nel caso di Carpisa di questi giorni.

Dal punto di vista delle strategie aziendali, quello che lega awareness e reputazione è il positioning, inteso come la definizione da parte dell’azienda di cosa la marca vuole rappresentare per la sua audience e le successive azioni messe in atto per realizzare questa rappresentazione sul mercato.

In altre parole dal punto di vista aziendale il positioning è l’insieme della definizione della reputazione che dovrebbe avere la marca della marca e le strategie realizzate per trasferirla sul mercato. Attenzione che il trasferimento del positioning non riguarda solamente la politiche di comunicazione (che non a caso io definisco di “percezione” nella mia visione del Marketing Totale), ma anche quelle di prodotto, prezzo e distribuzione (che io definisco “presenza” nella mia visione del Marketing Totale)

Nella matrice invece l’asse della reputazione rappresenta la reputazione effettiva della marca sul mercato.

Le due reputazioni, quella pianificata dall’azienda e quella percepita dal mercato, non corrispondono quasi mai per le distorsioni che il messaggio subisce nel processo di comunicazione tra l’emittente ed il ricevente. Anche se non siete degli esperti di teoria della comunicazione, semiotica, ecc.., basta che da bambini abbiate giocato una volta al telefono senza fili per sapere cosa intendo.

Più il positioning aziendale è chiaro, forte, preciso e dettagliato e meno distorsioni subirà nel trasferimento al mercato.

Qual’era la posizione della marca Buondì sulla matrice awareness-comunicazione prima della campagna pubblicitaria? Qual’ è il positioning che vuole comunicare? E’ definito chiaramente? E’ quello che viene trasmesso/recepito dalla campagna?

Vista tutta la discussione che ha generato nei media analogici, digitali e social credo che sarebbe una bella azione di content marketing se Buondì rendesse pubblici i risultati della campagna pubblicitaria in termini di variazione dell’awarness, reputazione e vendite.

Segmentare, targhettizzare, posizionare ai tempi del marketing totale.

Giovedì e venerdì ho tenuto due lezioni su “L’impostazione del brand” al Corso di Alta Specializzazione in Marketing Internazionale del Vino organizzato a Firenze da Wine Job.

Siccome in questo ultimo paio d’anni mi sono reso conto che ho la tendenza ad affrontare le tematiche di marketing sempre da un punto di partenza piuttosto avanzato, nel preparare le lezioni sono andato a riprendere gli appunti del primo corso di gestione del marketing che ho insegnato nel lontanissimo 1992 (24 anni fa! Brividi!).

La cosa è stata utile ed anche interessante: mi sono reso conto che in questi anni ho acquistato in esperienza, e forse, in profondità, ma ho perso in chiarezza e rigore.

Ad ogni modo le lezioni mi sembra siano andate bene (poi diranno gli allievi con la loro valutazione). Quindi ho fatto un salto sulla sedia quando oggi leggendo Marketing News ho trovato l’articolo dove l’emerito professor Schultz dichiarava sorpassato il modello STP, ovvero Segmenting, Targeting e Positioning.

Roba vecchia secondo lui, innanzitutto perché si tratta di concetti definiti tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso (maledetti rottamatori, continuano a venir fuori dove meno te li aspetti).

Ohibò, mi sono detto, vuoi vedere che ho insegnato delle cose che valgono più? Proprio io, che mi sono inventato il concetto del Marketing Totale proprio per avere un quadro teorico per guidare la gestione di marketing nell’era digitale?

Poi ho continuato a leggere e mi sono reso conto che io ed il Prof. Schultz diciamo cose molto simili, solo che io continuo ad usare i vecchi termini (reintepretati) mentre lui ne usa di nuovi.

Poco importante in questo caso, mentre importa quello che diciamo. Ecco quindi quello che dico io (se volete leggere quello che dice lui iscrivetevi all’American Marketing Association, o almeno registratevi nel sito).

 

Il positioning oggi viene cronologicamente prima del segmenting e del targeting.

Il posizionamento di una marca era, è e rimarrà quello che la marca rappresenta nella testa delle persone.

Quello che è cambiato rispetto agli anni ’70 è che si è passati da un mercato in cui le marche andavano alla ricerca dei consumatori ad un mercato, oggi, in cui sono i consumatori a trovare le marche.

Allora la definizione del posizionamento da parte dell’azienda (operativamente la definizione del positioning statement) non si fa dopo positioning e targeting sulla base delle aspettative (presunte) dei mercati obiettivo, ma si fa PRIMA sulla base dell’identità aziendale.

L’autenticità infatti è cruciale per farsi trovare dalle persone nei posti e nei momenti giusti” ed ancor di più per soddisfare in modo credibile e quindi durevole.

Però, come mi ha chiesto uno studente, se il posizionamento reale è quello che dà il consumatore, perché parlo della necessità da parte dell’azienda di definire il proprio posizionamento come DEL pilastro su cui poggia tutta l’attività di marketing?

Perché l’obiettivo ideale, e quindi mai realizzato al 100%, è quello che la percezione della marca che abbiamo noi azienda che la marca la “facciamo” e quella che hanno le persone che la usano, corrispondano.

 

La segmentazione per essere efficace DEVE partire sempre dal comportamento delle persone, idealmente dai benefits (servizi) che cercano nell’uso dei prodotti.

Le persone consumano sempre servizi, più o meno incorporati in prodotti fisici.

Sono i desideri/bisogni che vogliono soddisfare a determinare i servizi che ricercano in un prodotto e quindi quali sono i prodotti concorrenti.

Dai benefici attesi deriveranno in larga misura le occasioni, le modalità, i livelli d’uso e l’atteggiamento nei confronti della marca/prodotto.

Sarà quindi il grado di omogeneità nei confronti di uno o più di questi parametri a costituire la base su cui definire un segmento.

Bisognerà poi vedere se oltre alla volontà di acquistare/consumare, i segmenti individuati posseggono anche la capacità, innanzitutto economica, di consumare. In altri termini se hanno una rilevanza economica sufficiente rispetto alla struttura ed agli obiettivi aziendali.

Se c’è questa rilevanza economica, per rendere operativo il segmento passando al targeting è necessario trovare i modi per accedervi in termini di comunicazione e/o vendita. E l’accessibilità di un segmento viene ancora determinata in buona parte dalle caratteristiche geografiche, demografiche e psicografiche delle persone che lo compongono.

 

Il targeting oggi riguarda principalmente i modi con cui ci si rivolge ai segmenti, mentre i contenuti (di fondo) sono legati all’identità della marca (e quindi al positioning a priori).

Il targeting è la globalità delle azioni con cui la marca si rivolge ai segmenti individuati. Per questo da un po’ di tempo io preferisco utilizzare il termine audiences invece di target markets

Il complesso di azioni riguarda tutto le attività del marketing mix: prodotto, prezzo, presenza (accezione che prende la P di Place nell’approccio del Marketing Totale) e percezione (accezione che prende la P di Promotion nell’approccio del Marketing Totale).

Non commettiamo ancora il classico errore di considerare marketing=comunicazione (o peggio ancora pubblicità).

Perché il targeting sia efficace, le strategie devono riuscire a far comprendere l’identità della marca alle audiences alle quali si vuole rivolgere.

La realizzazione delle strategie riguarderà quindi soprattutto le modalità verbali, visuali o reali con cui la marca si rivolge (o si fa trovare, è quasi la stessa cosa) alle audiences.

Viceversa riguarderà solo limitatamente i contenuti fondanti del concetto della marca. Al massimo potrà selezionare tra i diversi contenuti che la definiscono quali sono più interessanti / comprensibili per le diverse audiences.

Sempre avendo ben presente il rischio di incoerenza oppure di banalizzazione, che porta alla perdita di credibilità.

E’ per questo che le marche sono tanto più solide quanto più larga è la loro personalità.

 

Qui mi fermo perché il post è già abbastanza lungo e, soprattutto, è già abbastanza tardi. Se qualche concetto non vi è chiaro perché non è stato sviscerato abbastanza, cercate nel blog e troverete almeno un post specifico dedicato alla maggior parte degli argomenti di oggi.

E se il problema principale di Melegatti fosse la qualità del prodotto e non comunicazione e posizionamento?

Si sa, biscomarketing è un blog “freddo” che raramente è sulla notizia, ma spesso ci torna.

Un paio di settimane fa è “esploso” il caso Melegatti a causa di una serie di comportamenti erratici che l’azienda ha tenuto in termini di comunicazione (stile, toni e contenuti), soprattutto legati al lancio del pandoro ad edizione speciale Valerio Scanu.

La questione è stata analizzata approfonditamente in un lungo post di Frank Merenda, che in diversi cruciali passaggi ho trovato sinceramente grossolano. Detto in sintesi “marketing da bar” o, parafrasando Saint-Exupery nei confronti di Pirandello, “marketing da portinai” (poi è arrivato “L’eleganza del riccio” a smentirlo, riguardo ai portinai non su Pirandello).

Sarà per questo che il post di Merenda ha poi trovato grande diffusione sul web? Forse si, o forse sono io che da presuntuoso sto diventando elitista. Poco importa, il punto è che un analisi basata su presupposti sbagliati rischia fortemente di portare a soluzioni altrettanto sbagliate.

Il posizionamento di Melegatti come il Pandoro Originale è già stato sconfitto sul mercato.
Io sono nato nel 1963 e mi ricordo che da piccolo a Natale ero il bambino “rompiscatole” perchè mangiavo solo il pandoro ed assolutamente non mangiavo l’onnipresente panettone (non mi piacevano i canditi, che oggi adoro).

Ovviamente mangiavo Melegatti, che era l’unico pandoro sul mercato.

Dati aggiornati sui consumi non ne ho trovati, quelli del 2004 davano la produzioni di panettoni doppia rispetto al pandoro (fonte AIDI/Mark-up). Oggi, se guardo gli spazi che hanno i prodotti nella grande distribuzione credo di non sbagliare troppo stimando che la vendite delle due categorie di prodotto sia sostanzialmente equivalente (sarei tentato di dire che si vende più pandoro, ma magari sono influenzato dai miei ricordi d’infanzia).

Diciamo quindi che negli ultimi vent’anni c’è stato uno spostamento delle preferenze dal panettone al pandoro.

Chi ne ha beneficiato? Le quote nel mercato del pandoro+panettone nel 2012 (anche qui dati più recenti non ne ho trovati) vedevano il primato di Bauli con il oltre il 40%, seguita da Melegatti con il 15%, Balocco 12%, Maina 7%, Dal Colle e Paluani con il 3%-4% ognuna (fonte L’arena)

Bauli per il 2011 ha pubblicato i dati distinti per segmento ed indicava una quota nel mercato del pandoro pari al 31,9%.

Sostanzialente negli ultimi 30 anni Melegatti è stata doppiata sul mercato dei prodotti da ricorrenza da un concorrente che nasce con il pandoro e prima era praticamente inesistente.

Un concorrente che ha saputo avvantaggiarsi molto di più della tendenza di mercato a favore del pandoro e, forse, ha anche contribuito a crearla.

Un concorrente che grazie al pandoro ha saputo costruire una marchio con una forza tale da poter diventare un marchio ombrello con cui entrare con successo prima nel mercato del panettone e poi in quello delle merendine. Tutti mercato che apparivano fortemente presidiati da marchi storici.

Qual’è il punto? I punti sono 4:

1) Dopo tutti questi anni da follower il posizionamento intrinseco di Melegatti come pioniere del pandoro si è consumato. Questo non significa che non possa essere il posizionamento corretto per la marca, ma va ri-costruito ex novo.

2) Il “vantaggio del pioniere” esiste (lo so per esperienza avendo gestito Stock 84, Keglevich, Pinot Grigio Santa Margherita), ma non è basato sui valori della tradizione. E’ basato sui valori dell’avanguardia e dell’archetipicità. Va quandi alimentato e rinnovato attraverso ricerca ed innovazione. Non rispetto al mercato, ma rispetto a se stessi.

3) Il marketing della nostalgia è di corto respiro e raramente è riuscito a rilanciare i marchi.

4) Forse è vero che Melegatti non può essere altro che pandoro e quindi deve rassegnarsi a vedere ridimensionato il suo ruolo rispetto ai concorrenti, ma posso capire che l’azienda cerchi di recuperare posizioni visto che i concorrenti dimostrano che estendere il marchio a nuovi, profittevoli, segmenti. Attenzione, non si tratta di semplice ambizione, ma della necessità di creare risorse per competere anche nei segmenti tradizionali (in altre parole fare i soldi con le merendine per finanziare le campagne pubblicitarie dei pandori).

Poi ci sarebbero anche delle interessanti considerazioni sulle peculiarità del marketing dei prodotti da ricorrenza (ho gestito anche quelli), ma poi il post diventa lungo e dispersivo.

 

Torno al titolo del post: e se il problema del pandoro Melegatti fosse la qualità intrinseca del prodotto?

Nel “marketing da bar” si trova spesso quella che io chiamo la “sindrome del persuasore occulto” dal titolo del libro di Packard del 1957.

E’ la sindrome di chi crede che sia sufficente saperla raccontare bene ed avere grandi budget pubblicitari per sbolognare qualsiasi cosa a chiunque.

La teoria e la pratica del marketing ci dicono che non è così. Meno che meno nel caso dei prodotti alimentari, visto che tutti siamo esperti dei nostri gusti.

E se la vittoria di Bauli nella guerra dei pandori fosse dovuta ad una migliore qualità intrinseca.

Da vecchio consumatore di pandoro il dubbio l’avevo già, mi si è rafforzato quando ho visto l’immagine con cui Melegatti è tornata alla tradizione, seguendo i “consigli” della rete.

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Ora, signori Melegatti se questo è il meglio che avete scelto per di-mostrare la qualità (se non l’eccellenza) del vostro pandoro io consiglieri di concentrarsi sulla P di Prodotto, non a caso la prima del marketing mix.

Il valore della parsimonia: Ravelli Zero philosophy.

 

Oggi biscomarketing è listato a lutto in omaggio alle vittime degli attentati di Parigi e di tutte le vittime del terrorismo.

 

Il 31 agosto del 2014 nel post “Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 3: le politiche di prodotto” segnalavo la tendenza alla “parsimonia” e scrivevo “La competizione che spinge a contenere i costi e l’attenzione alla eco-compatibilità da parte delle persone, premierà le aziende che sapranno operare con parsimonia.”

Sono andato a riguardarmelo l’altro giorno dopo che ho sul giornale ho trovato questa pubblicità della ditta Ravelli incentrata sulla “Zero philosophy”.
ravelli o philisophy

Mi è sembrato un segnale ed una conferma interessante di un atendenza che sento tanto forte come nuova ed alquanto disruptiva rispetto al passato.

Anche se ovviamente declinata nei benefit positivi “Zero limiti, infinite possibilità”, “Zero manutenzione, infinito tempo libero”, “Zero rumore, infinito silenzio” (qui i creativi erano un po’ a fine turno), non deve sfuggire la peculiarità della valorizzazione della marca basta su un concetto per cui “meno è più”.

La storia dello sviluppo economico degli ultimi 100 anni, ma potrebbero bastare anche gli ultimi 50, è una storia di conquista dell’abbondanza in cui il “più è più.

il valore dello zero rappresenta una vera e propria inversione culturale: “km 0″, “0 emissioni”, “0 solfiti” (nel vino), “Coca Cola 0″ (nel trend c’entrerà anche Zerocalcare?).

Una tendenza più che una moda, visto che sta proseguendo anche dopo la crisi economica che ha riportato in auge il lusso da un parte ed i concorsi a premio più imeediati e semplici dall’altra.

Mi è già capitato in una cosnulenza di sottolineare la parsimonia e chiedere all’azienda quale assenza era in grado di fornire al mercato.

Mi viene in mente una vecchissima, sciocca battuta: “Siate parchi, come il Parco Nazionale dell’Abruzzo”

I sogni son desideri, chiusi in fondo al cuor: #illydreamers.

Giusto l’altro giorno riflettevo che è da un po’ che non facevo un post dedicato all’attività di una marca e mi chiedevo se fosse dovuto al fatto al essere malato di troppa esperienza (né ho già viste troppo?), alla stanchezza creativa delle marche oppure perché non so più cosa succede, visto che non leggo i giornali, non guardo la TV né ascolto più la radio (grazie alla drastica riduzione delle ore passate in auto).

Poi un mio amico (e lettore di biscomarketing) mi ha chiesto cosa ne pensavo della nuova campagna illy, lanciata in grande stile su stampa, radio e web e che io non avevo visto per i motivi di cui sopra.

Allora per curiosità sono andato a cercarla su web. Ho trovato alcuni degli annunci stampa, alcuni degli spot su youtube (certi si caricavano e certi no), nessuno spot radio.

Non pensavo però di dedicarci un post, per diversi motivi. Innanzitutto mi straniava un po’ partire da uno stimolo esterno, poi perché ho già trattato di illy in numerosi post di questo blog, il più delle volte con toni (costruttivamente) critici. Volevo, e vorrei, evitare l’impressione di un accanimento specifico, magari con lo scopo di sfruttare la notorietà del marchio, tanto più nei confronti di un’azienda dove lavorano alcuni amici e di cui ho ammirato l’approccio strategico dagli anni ’90 in poi.

Per di più non mi dispiacerebbe avere anche un cliente un po’ più vicino a casa, visto che al momento sono tutti sparsi per il nord Italia, e non sono convinto che la critica, seppur costruttiva, sia il modo migliore per stimolare una eventuale collaborazione.

Poi però ho cambiato idea e quindi spero mi credano quando dico che è perché gli voglio bene.

Ho cambiato idea perché nel frattempo ho letto un paio di articoli di Marketing Insight dell’anno scorso ed ho trovato nella campagna #illydreamers una serie di spunti per riflessioni di marketing più generali.

Estraggo e traduco al volo dall’articolo “Storytelling and Marketing: The Perfect Pairing?”:

“L’arte della narrazione è vecchia come il Mondo e rappresenta forse una delle più antiche forme di comunicazione tra le persone: trasmettere dei messaggi e condividere la conoscenza e la saggezza accumulate per aiutare a gestire e spiegare il mondo intorno a noi”.

“Secondo i risultati di uno studio del 2010 realizzato da ricercatori di Harvard e presentati nell’articolo “What Sex, Food And Selfies Have To Do With Effective Social Marketing”, condividere i nostri pensieri e le nostre esperienze attiva i sistemi di gratificazione del cervello, causando la medesima scarica di dopamina che si genera in conseguenza al sesso, al cibo o all’attività fisica.”

“Secondo un articolo della società di ricerca Nielsen sulla diffusione dell’interazione degli spettatori televisivi con il programma che stanno guardando attraverso i commenti sui social, l’audience su twitter è pari a 50 volte il numero degli autori dei tweets. Ad esempio se 2.000 persone fanno un tweet su un certo programma televisivo, questi tweet saranno visti da 100.000 persone”

Estraggo e traduco al volo dall’articolo “With a purpose”:

“Quello che definisce il successo di lungo periodo di una marca, più dei semplici risultati finanziari attuali, è l’abilità di creare connessioni significative (nel senso che per essere rilevanti devono essere portatrici di un significato specifico, n.d.a.) con i consumatori (i direi meglio con le persone, n.d.a.)”

“… la nostra strategia dovrebbe essere di un coinvolgimento di scopo in tutte le nostre interazioni con i consumatori.”

“Per essere presa in considerazione una marca deve fornire al consumatore qualcosa di utile, per essere credibile ed ottenerne la fiducia deve essere autentica e coerente ai propri obiettivi ed ai propri ideali.”

“Il comportamento di una marca diventa il suo messaggio tanto quanto quello che dice (io direi DI PIU’ di quello che dice o, parafrasando Forrest Gum: marca è quello che la marca fa, n.d.a.).”

“….. è necessario definire e tenere a mente qual è il vantaggio (payoff) emotivo che il consumatore riceve dall’acquisto della marca.”

“Nell’universo digitale e sociale, la comunicazione unidirezionale della marca è rimpiazzata dalle conversazioni.”

Aggiungo a quanto letto su marketing management una considerazione mia, che ho sottolineato anche venerdì durante la mia lezione-seminario all’Università di Cà Foscari a Treviso: il rischio di cambiamenti eccessivamente frequenti nel posizionamento delle marche rispetto alla necessità di reiterazione.

E’ rischio connaturato nell’attività di marketing, che richiede di essere sempre un passo avanti al mercato, ai concorrenti e magari anche alle aspettative dei consumatori. E’ un rischio acuito dal fatto che chi si occupa del marketing e della comunicazione della marca, lo fa tutti i giorni, 365 giorni all’anno e quindi percepisce come “vecchio” un posizionamento che ha appena iniziato a sedimentare nel consumatore.

Permettetemi una considerazione grossolana: se durante l’anno la marca comunica per 1 mese, due anni del Brand Manager equivalgono a 24 anni per il consumatore.

La mission va definita come se fosse eterna e per servire allo scopo di indirizzare e far crescere la marca in una determinata direzione dovrebbe essere mantenuta almeno 5 anni. Il positioning statement (sempre che sia una cosa diversa) dovrebbe derivare dalla mission e quindi avere (almeno) la stessa durata.

Medesimo discorso per il payoff che, secondo me, deve essere l’essenza del positioning statement/mission/scopo della marca.

Modificare con troppo frequenza il payoff impedisce che questo si sedimenti nel percepito del consumatore, diventando un punto di forza e di ancoraggio della marca, anche in grado di accompagnare il consumatore nell’evoluzione del posizionamento della marca.

Queste considerazioni le ho sperimentate in prima persona sul campo con Keglevich che ha mantenuto il payoff “Keglevich la vodka ke volevich” per almeno un decennio, dalla fine degli anni ’90 alla fine degli anni 2000, con crescente successo ed attraverso 3 riposizionamenti della marca. Non credo sia stato un caso che l’unico anno in cui è stato cambiato sia stato quello con le peggiori performances.

Se questo era vero 15 anni fa, secondo me lo è ancora di più oggi, quando la frammentazione e la moltiplicazione di media, messaggi e targets rende ancora più importante il rafforzamento dell’identità della marca.

Torno a bomba, ossia alla campagna #illydreamers riportando qui sotto due annunci stampa e linkando la sezione #illydreamers nel sito dell’azienda.

HenriqueChristophe

Mi/vi pongo quindi alcune domande sulla campagna

-          Stimola la condivisione/il commento?

-          Coinvolge l’audience (consumatori/persone)?

-          Stimola la conversazione della marca con l’audience (consumatore/le persone)?

-          Qual è il payoff emotivo che si aspetta o propone all’audience (consumatore/consumatore)?

-          L’utilizzo dell’hashtag #illydreamers in contemporanea con quello #livehappilly (che è anche il payoff della campagna) rafforza la personalità della marca allargandola oppure la indebolisce confondendo? Considerando poi che da settembre 2014 a gennaio 2015 è stato utilizzato l’hashtag #buongiornoilly per il concorso relativo alla miglior colazione in casa?

-          L’utilizzo della marca negli hashtag favorisce le considivsioni oppure le frena? Ha ragione illy oppure la maggior parte delle altre marche, in tutti i settori, che utilizzano hashtag emozionali dove la marca non compare?

Concludo con due note tecniche, una positiva e una negativa (nella migliore tradizione cerchiobottista).

Della campagna stampa #illydreamers mi è piaciuto che i soggetti siano sospesi. E’ una soluzione che crea una leggera scansione rispetto alla realtà che attira l’attenzione e, soprattutto, suggerisce / sottolinea / rafforza l’aspirazione verso l’alto e verso il cielo implicita nei (grandi) sogni.

A me ha ricordato un po’ le foto che Philippe Halsam faceva alle persone famose mentre saltavano perché secondo lui “l’atto del saltare rivela la vera natura dei soggetti”. Forse sarebbe stato troppo sofisticato fare le foto delle persone veramente nell’atto di saltare, però secondo me sarebbe stato assolutamente coerente con l’autenticità e la qualità del posizionamento di illy, (e l’avrebbe quindi rafforzato) nonché con il suo legame con l’arte.

La nota negativa è che nella pagina web del sito aziendale con la storia di Christophe Locatelli c’è un errore di ortografia. Per un testo che comincia con “Amo le sfumature, ho sempre sognato di distinguermi per i dettagli” non è che sia il massimo.

Come sta scritto nell’intestazione della mia carta intestata ed in calce alla mia firma sulle e-mail:

Il marketing di successo è fatto di strategie nate dall’immaginazione più sfrenata, realizzate con disciplina maniacale.

Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) – 2

Rinvigorito dalla pausa estiva, riprendendo il filo dell’argomento del marketing del futuro che avevo iniziato lo scorso giugno.

Concludevo la critica alla visione degli esperti interpellati dalla American Marketing Association nel post 1 giugno dicendo che il marketing del futuro dovrà essere basato più sull’ESSERE che sull’apparire ed il tema centrale di quello dell’8 era l’ipotesi dell’evoluzione che avrà la società digitale. Attenzione che l’avvento della “società digitale” riguarda tutta la società e non solamente quelle parti o quegli aspetti direttamente legati alle tecnologie digitali. E’ la stessa logica per cui in seguito alla rivoluzione industriale la società agricola è evoluta nella società industriale in cui anche l’agricoltura (ad esempio) ha caratteristiche diverse.

Ora, credo ci siano pochi dubbi sul fatto che da qui a dieci anni le persone avranno un maggior potere nel definire le proprie scelte di acquisto. Anche se la disponibilità di informazioni non dovesse aumentare, e possiamo star certi che aumenterà, il livello attuale ha già fatto le sue vittime tra le marche che non offrivano un reale valore aggiunto.

Basta pensare solamente al dato che il 50% delle persone che fanno un acquisto on line cominciano la ricerca da un sito comparatore di prezzi per capire come la rivoluzione digitale ha spostato il potere sul contesto competitivo dalle aziende ai consumatori.

Detto in sintesi, da qui a 10 anni saranno sempre di più le persone a sciegliere le marche/prodotti che non le marche/prodotti a proporsi.

In questo contesto secondo me la risposta efficace NON può essere il tentativo di recuperare/mantenere il potere di infleunzare le scelte attraverso il perfezionamento della targetizzazione e personalizzazione grazie all’uso sempre più raffinato del “big data“. Le persone si aspettano, consciamente o inconsciamente, più libertà dalle aziende non meno. Per usare una terminologia forse desueta, le persone vogliono essere soggetto e non oggetto del marketing aziendale. Per l’azienda pianificare di far arrivare la propria proposta alle persone precisamente nel momento e nel luogo in cui stanno “pensando” ad acquistare/consumare quel tipo di prodotto è in realtà un’approccio di commoditizzazione, che prospetta di per sè delle scelte basate solamente sulla contingenza del momento.

Viceversa l’azienda/marca/prodotto dovrà concentrarsi sugli aspetti che rimangono intrinsecamente sotto il suo controllo.

Uno dei principali, se non il principale, è la propria IDENTITA’.

Che è una cosa diversa dal posizionamento perchè ne è il prodromo (per chi non l’avesso fatto, consiglio di leggere questo mio vecchio post “Cos’è (e a cosa serve) il posizionamento”).

Interrogarsi su chi si è come organizzazione/azienda/marca/prodotto porta a definire perchè si è, quindi quali sono (devono essere) i nostri comportamenti.

Un’identità chiara è la base per costruire un posizionamento forte e differenziante. Un posizionamento forte e differenziante aumenterà le probabilità di farci trovare dalle persone e/o di stimolare il loro interesse anche quando non stanno cercando una specifica soluzione di consumo.

Dite che nel crescente marasma dell’informazione/comunicazione sarà sempre più difficile farsi notare/trovare? A parte che dall’identità derivano i tempi, modi e contenuti della comunicazione dell’organizzazione/marca/prodotto, io vedo che in un modo o nell’altro (sono convinto che c’è una spiegazione scientifica) le cose per me interessanti si mettono in evidenza nel mare magnum delle timelines, articoli, ecc… Ecco, se un’organizzazione/marca/prodotto ha dei reali contenuti sono convinto che si realizzi un meccanismo simile.

Se invece la vostra marca è solo chiacchere e distintivo, preparatevi a lavorare sull’efficenza produttiva perchè sarete misurati solo sul prezzo.

Cos’è (e a cosa serve) il posizionamento.

Oggi torno all’essenza più pura del bisco-marketing, ossia del marketing secondo me (boom!) e lo faccio trattando un argomento apparentemente teorico, ma in realtà molto pratico, che spesso non viene approfondito come merita nella disciplina di marketing (premetto che ahimè ho lasciato in ufficio il Libro, intendo Marketing Management del Kotler, e quindi non sono riuscito a verificarne la trattazione che ne fa la bibbia del marketing.)

Se divento dottrinale fermatemi.

La migliore definizione di posizionamento rimane quella che ho sentito Thomas Funk, mio prof. di marketing in Canada, in una gelida mattina di dicembre (inizio lezione ore 8:00 a.m.): “il vostro posizionamento è quello che rappresentate nella testa del consumatore” (definizione che credo comunque essere Kotleriana).

Con l’esperienza di questi anni di lavoro io modificherei leggermente questa definizione e direi che “il posizionamento definisce quello una marca/organizzazione vuole rappresentare per il mercato”, dove “mercato” va inteso nell’accezione più ampia dei portatori di interessi (stakeholders). Poi ogni marca deciderà con quanta forza e con quali aspetti della propria personalità vuole rappresentare qualcosa per i diversi segmenti di portatori di interessi (lo so: ho già inserito altri concetti senza spiegarli, continuate a leggere …).

In realtà sono vere entrambe le definizioni, come spiega con estrema chiarezza questo post del Dr. Narayana Rao che raccoglie il pensiero di Kotler.

La seconda definizione si riferisce alla definizione dell’identità della marca, mentre la prima all’immagine che ne viene percepita dai consumatori.

E’ evidente che quanto la definizione dell’identità è chiara, forte e coerente con l’effettiva personalità della marca e tanto più ci sarà corrispondenza tra questa e l’immagine proiettata, quindi percepita, all’esterno.

Il “vuole” nella mia definizione infatti non significa che la definizione del posizionamento che rappresenta la personalità aziendale deve essere un auspicio. Significa che la definizoine del posizionamento deve esprimere una tensione verso quelli che SONO i valori dell’azienda e,soprattutto, verso la loro realizzazione con tutte le attività aziendali. “Vuole” sottolinea il fatto che la definizoine del posizionamento rappresenta una scelta che va confermata continuamente con il proprio comportamento.

Ne consegue che la definizione del posizionamento non può essere la somma delle diverse percezioni di sè e del proprio ruolo (come marca/organizzazione) che hanno le diverse persone/funzioni, ma deve esserne la SINTESI.

Solo in questo modo riuscirà ad essere allo stesso tempo precisa nel rappresentare la marca/organizzazione in modo chiaro ed unico, ma sufficientemente ampia da rappresentare un punto di convergenza per tutte le persone coinvolte con la marca/organizzazione.

Solo in questo modo diventerà la “mano invisibile” (termine utilizzato da kotler riferendosi alla mission aziendale) che allinea “automaticamente” tutte le attività legate alla marca/organizzazione (sia che vengano realizzate da soggeti interni che esterni all’organizzazione) verso un unico sistema di valori coerente perchè condiviso.

Questo si traduce in maggiore efficenza ed efficacia nell’attività dell’organizzazione perchè il posizionamento scelto definisce quali ambiti gli appartengono e quali no e come i primi vanno presidiati. In parole povere cosa e come l’organizzazione può e deve fare (prima che mi diventiate troppo talebani vi linko un mio vecchio post dal titolo: “Il posizionamento della vostra marca è davvero così stretto?”).

Viceversa se la definizione del posizionamento risulta generica, espressione di auspipci più che di aspirazioni legittimate dalla realtà aziendale, o, peggio ancora, avulsa dall’affettiva personalità dell’organizzazione si trasforma in un formalismo inutile o, più spesso, dannoso.

Crea infatti delle inefficienze per l’incoerenza tra quello che si dichiara di voler fare e quello che si può e vuole effettivamente fare.

Mi rendo conto che forse sarebbe opportuno spipegare un po’ più diffusamente qualche concetto, però e già tardi quindi vi auguro buonanotte e resto disponibile a tutti gli spunti che vorrete darmi con i commenti.

Nutella diventa adulta, quale sarà il suo futuro?

“Stabilità demografica: i vecchi non invecchiavano, i giovani non maturavano, i bambini non crescevano.” Vignetta di “El Roto” su El Pais di venerdì 18 ottobre.

La settimana scorsa ero partito dalla copiatura, consapevole o casuale che sia, della campagna Coca Cola con i nomi da parte di Nutella, ma ero finito a parlare più dello sdoppiamento di personalità di Coca Cola con la promozione Vodafone.

Oggi invece mi concentro su Nutella, perchè la nuova campagna rappresenta un sostanziale cambio di posizionamento.
Guardando questa breve storia degli spot Nutella appare evidente come:
- nel tempo ci sia stato uno spostamento dai bambini agli adolescenti;
- dal 1988 al 2003 si sia abbandonato il coinvolgimento della famiglia ed il legame tra generazioni per focalizzarsi sul circolo degli amici e le situazioni di consumo si allargano, andando oltre (abbandonando?) la colazione e la merenda;
- dopo il 2003 il convolgimento famigliare ed il legame tra generazioni vengono ripresi, allargando lo “scopo” della marca alla società nel suo complesso (ma escludendo gli anziani), sia in termini di immagini/situazioni che con il claim “Nutella fa più buona la vita”;
- con l’attuale spot Nutella fa un giro di 360° ed abbandona la dimensione sociale del consumo per concentrarsi su quella individuale, la situazione di consumo ritorna nell’ambito della della famiglia tradizionale, però la comunicazione è rivolta in modo quasi esclusivo ai consumatori over 40. Torna a rafforzarsi nelle immagini e nel testo il collocamento nella situazione di consumo a colazione, mentre rimane assente la merenda.

Vale la pena anche di ricordare l’evoluzione degli slogan:”Nutella Ferrero”; “Mamma tu lo sai”; “Energia per fare e per pensare”; “Che mondo sarebbe senza Nutella”; “Che colazione sarebbe senza Nutella”; “Nutella fa più buona la vita”; “Il buongiorno ha un nuovo nome, il tuo”.

Nel concludere questa breve analisi segnalo come dal 1971 al 1988 la comunicazione sottolineasse gli ingredienti e la genuinità del prodotto, concetti abbandonati/tralasciati poi fino al 2011, ripresi brevemente con lo spot “Che colazione sarebbe senza Nutella” e poi tralasciati nuovamente. Quindi meno razionalità e più emozione.

Partendo dal presupposto, dimostrato in tanti anni di campagne, che alla Ferrero sono dei signori professionisti, viene da pensare che questa evoluzione dei posizionamenti abbia l’obiettivo di seguire l’evoluzione del proprio target, nonchè l’evoluzione demografica del Paese. Il pensiero pare confermato dal fatto che gli spot spagnoli, dove la campagna “personalizza la tua Nutella” è partita già in primavera sono targettizzati sui bambini/famiglie

A questo punto mi pongo una prima domanda: l’accettabilità sociale della Nutella è tale da permettere di pubblicizzare interamente sugli adulti un prodotto per bambini? Probabilmente la risposta è affermativa visto che la scena di Moretti con il mega bicchiere di Nutella nel film “Bianca” risale al 1984. Nella storia del marketing è successo spesso che quote importanti di consumo di un prodotto provenissero da target socio-demografici diversi da quelli previsti, ma che per diversi motivi si riconoscevano nelle caratteristiche/valori della marca. E’ successo altrettanto spesso che quando le marche si sono accorte di questo ed hanno rivolto il proprio posizionamento direttamente a questi consumatori, li abbiamo persi perchè quello che gli piaceva erano proprio i valori estranei al loro profilo (come è successo nel caso della Ford Mustang).

La seconda domanda è: e i bambini? L’altro giorno ho sentito per l’ennesima volta l’ovvia tautologia che “dobbiamo occuparci dei bambini perchè sono il nostro futuro” (la cui conseguenza, poco ricordata, è che in una società la “presenza” del futuro e direttamente proporzionale alla “presenza” dei bambini).

I bambini sono il futuro comunque, anche se non ce ne occupiamo. A Nutella basterà occuparsi dei genitori per essere nel futuro dei loro (attuali) bambini?

Detto in sintesi la preoccupazione è che Nutella (e Ferrero, vedi anche la campagna Kinder cereali) stiano adottando una visione molto forte nel breve periodo ma con delle incognite nel medio-lungo.

Qui pensavo di aver finito, ma devo a Maria Grazia un commento sulla campagna istantanea “Siamo in vendita solo per i nostri consumatori”, apparsa in questi giorni sui principali quotidiani a seguito delle voci di una possibile vendita alla Nestlè.

Non è che mi abbia fatto impazzire perchè:
- suona un po’ ad excusatio non petita.. perchè la notizia della possibile vendita non mi sembra avesse fatto così tanto rumore, e comunque è stata data riportando la smentita di Ferrero;
- il concetto “Siamo in vendita…” suona comunque male.
- visto che in primo piano c’è la Nutella, almeno avrebbero potuto collegarsi alla campagna in corso con una cosa tipo “Siamo in vendita solo per Stefano, Federica, Marco, Giovanni, Roberta, Anna, Giulio ….” (adesso mi metto a fare anche il copy).

Concludo con un’ultima presa di posizione: la presenza di bambini nella pubblicità dovrebbe essere vietata!