Le 10 bugie di Berlusconi secondo “la Repubblica” 12 aprile: chi semina vento raccoglie tempesta.

Lo so che i miei affezionati lettori aspettano il post sul cavallo, però oggi sono andato a Milano in treno e così mi hanno offerto un giornale; con la prospettiva di oltre 4 ore di viaggio ho preso la Repubblica.
Premetto che leggo sempre meno i giornali, li sfoglio per abitudine, ma leggerli proprio non mi riesce perchè … non c’è scritto niente. Dopo aver letto i titoli, le disdascalie sotto le foto ed i titoletti inseriti all’interno degli articoli, non resta molto di più negli asfittici articoli dei giornali moderni, schiacciati da riduzione del formato e pubblicità.
Confesso che non ho mai amato “la Repubblica” malgrado sia in un certo senso il giornale della mia generazione (quest’anno faccio 48 anni) ed ho smesso di comprarla da quando, credo fosse il 1987, dedicò un’articolo a pagina intera (e quella volta le pagine avevano più testo che grafica) al matrimonio di Pippo Baudo, deridendo in ogni frase l’atmosfera nazional-popolare della cerimonia e della festa seguente. O ritieni che la notizia sia interessante, e allora fai un reportage serio, oppure ritieni che per la tua linea editoriale non lo sia, linea editoriale che condividevo, e allora fai un trafiletto proprio per non vivere fuori dal mondo. Ma andare per metterlo alla berlina per il kitch in ogni angolo è disonestà intellettuale: Cosa ti potevi aspettare dal matrimonio di Pippo Baudo?
io leggevo il giorno (ci scriveva Gianni Clerici, poi passato a Repubblica) e la Stampa (Curzio Maltese e Berbara Spinelli anche loro passati a Repubblica, per citarne solo due).
Oggi però tra Corriere e Repubblica ho preso la seconda. Arrivato a pag. 4 ho trovato le 10 bugie di Berlusconi riguardo al processo Ruby (sul web non le trovo per linkarle, dovrete darvi da fare voi). Un trafiletto dove si in prosa “poliziese” si trovano cose tipo B.dice “E’ la 28esima persecuzione giudiziaria”. Il numero è inesatto. Berlusconi ha subito 16 processi (tre le assoluzioni) oppure B. dice “hanno violato la mia casa”. E’ falso. Le indagini si sono fermate al cancello di Arcore. Le altre sono più o meno su questa linea, ossia capziose (che siano 28 oppure 16 il concetto non cambia, sono comunque tante) e basate più sulla forma che sulla sostanza. Soprattutto le risposte del giornale implicano già una sentenza, mentre ilo dibattimento è appena cominciato. Niente di male che la redazione di Repubblica sia già convinta della colpevolezza di Berlusconi, però poi non si può pretendere così di rappresentare una voce equilibrata, in grado di porre delle questioni nella società. In realtà dubito che ci sia nessuno in Italia che creda che Berlusconi abbia pagato Ruby per NON farla prostituire, oppure che potesse davvero credere che fosse la nipote di Mubarak (affermazione che tra l’altro implica dare degli incompetenti totali ai nostri servizi di intelligence). Il punto è quanti sono gli elettori per i quali questi comportamenti sono politicamente irrilevanti (gli aspetti giudiziari, riguardano innazitutto i tribunali).
Se poi questo atteggiamento è una risposta all’agghiacciante e ributtante linea editoriale del Giornale, beh non funziona e serve invece solo ad alimentare e rafforzare l’ipotesi della persecuzione.
Come dice il proverbio riportato nel titolo: chi semina vento, raccoglie tempesta, e nella tempesta i capitani pavidi dell’ opposizione continuano a perdersi.
Sempre più grande il rimpianto per Prodi che con la credibilità della competenza e l’azione (di sostanza) invece della reazione (di forma) ha vinto due elezioni.
La prossima volta parlo di Dominique, promesso.

Gestione del personale ed etologia 3

Un’appendice all’ultimo post di argomento cinofilo per ricordare la terza lezione che ho imparato durante il corso di addestramento dei miei due cani (come detto all’inzio dall’addestratore il corso riguardava tanto loro quanto noi).
Si tratta del concetto di evitare “bruciare il comando”, insistendo negli ordini senza che vengano eseguiti oppure mentre vengono eseguiti, ed è particolarmente interessante perchè, al contrario di quelli del post precedente, è un concetto contro-intuitivo.
In pratica significa che che gridare “vieni-vieni-vieni-vieni ……” mentre il cane chiamato sta ubbidendo e venendo verso di noi non rafforza il comando, ma anzi lo indebolisce. Quante volte a voi umani è successo che venissero a controllare per assicurarsi che steste svolgendo il compito che vi era stato affidato poco prima? Vi siete sentiti motivi o avete percepito un senso di sfiducia? Ecco, con i cani è lo stesso.
Quanto più si ripete un comando e tanto più questo si banalizza alle orecchie del cane. Questo è anche il motivo per cui il cane va chiamato con il suo nome solamente per le cose importanti, mentre nelle altre occasioni è meglio utilizzare pseudonimi o termini generici a scelta. Per mantenere forza il nome non va inflazionato (un po’ lungo da spiegare a tutti quelli che come prima quando si fermano ad accarezzare il cane chiedono come prima cosa “Come si chiama?”).
Collegato a questo concetto c’è quello di evitare di continuare di dare un’ordine se non siamo nelle condizione di farlo sicuramente eseguire dal cane al terzo, massimo quarto comando, perchè in questo caso il comando rischia di bruciarsi ancora più rapidamento. Ad esempio se dò il comando di seduto e lui non lo fa, alla terza volta devo intervenire fisicamente e mettere il cane seduto (niente di violento, basta premergli in giù il sedere).
Da questo ne discende che devo dare al cane ordini che è in grado di sentire, comprendere ed eseguire. In latre parole l’addestramento deve essere graduale, i comandi chiari e semplici e dati solo quando abbiamo l’attenzione del cane. Dal mio corso di caporale mi torna in mente la definizione per cui la consegna deve essere “precisa, coincisa e tassativa”; sostituendo “tassativa” con “condivisa”, mi sentirei di sottorsciverlo.
Riassumendo se voglio chiamare il mio cane che sta gironzolando per il prato la sequenza è:
- ottenerne l’attenzione con un richiamo o al limite chiamandolo per nome;
- dare il comando “vieni”;
- aspettare per vedere se il cane si muove verso di me, viceversa ripetere il comando;
- avere la pazienza di aspettare che arrivi;
- premiarlo con un “bravo” quando arriva da me perchè ha ubbidito.

Anche se non lo trovo nei post vecchi, ho la sensazione di aver già scritto questo aneddoto. Se è così chiedo perdono per la ripetizione.
Quando avevo 14 anni giocavo a pallacanestro nella squadra di Spinea (per dare un’idea di quante cose siano cambiate basta dire che eravamo l’unica squadra a giocare in una palestra, tutte le altre avevano solo campi all’aperto. Oggi sembra incredibile, ma vi assicuro che ho giocato partite di basket sospese per pioggia e per neve) e la miglior squadra del girone era lo Zelarino, il cui allenatore non smetteva di gridare indicazioni ai suoi giocatori per tutti i 40 minuti.
Visti i risultati credevo fosse una tecnica vincente. Tre anni dopo mi sono trovato a fare un provino per le giovanili della gloriosa Reyer Venezia, allora in serie A, e sul sacro parquet dell’Abazzia della Misericordia (chiesa sconsacrata dove si giocava tra gli affreschi del Sansovino) mi sono allenato per tre mesi con un giocatore proprio dello Zelarino. Quando gli ho chiesto come faceva a seguire quel continuo flusso di istruzioni mi ha tranquillamente risposto che non gli davano alcun fastidio perchè dopo i primi cinque minuti nessuno dei giocatori ascoltava più quell’(esaltato) allenatore che si sgolava a bordo campo.
Questo è lo spunto per riflettre sul corretto dosaggio di intervento nei confronti delle persone di cui si ha la responsabilità. Ma su questo argomento il grande maestro è il cavallo, che sarà l’animale protagonista del prossimo post.
A dopo il Vinitaly (se volete passare a trovarmi, lo stand Santa Margherita è nel padiglione 4).

Gestione del personale ed etologia 2

Io ho due cani, per la precisione un maschio ed una femmina, per maggior precisione Fly e Kali (abbreviativo di Kalimera o Kalimocho, a piacere). Fly è quello marrone, Kali è quella bianca.

Fly l’abbiamo preso dal canile che aveva circa 6 anni, mentre Kali l’abbiamo comprata in allevamento che aveva 5 mesi, un po’ perchè un cane così da adottare non riuscivamo a trovarlo ed un po’ per fare compagnia a Fly, che aveva crisi di ansia di abbandono piuttosto forti. La cosa aveva in parte funzionato, ma, comunque, sei mesi dopo all’arrivo della primavera abbiamo deciso di fare una serie di lezioni di addestramento/comportamento (tanti anni fa per un periodo giravo con in tasca biglietti da visita di un centro di addestramento per cani di un amico e quando avevo a che fare con persone particolarmente maleducate gliene davo uno dicendo “non pretendo l’educazione, ma magari almeno un minimo di addestramento”).
Le lezioni sono state utili ed istruttive per trattare meglio i cani e stimolanti per riflettere sui paralleli con il comportamento tra gli umani. La cosa non è per niente nuova, tanto che è stata persino utilizzata nella sceneggiatura di una piacevolissima commedia con Sandra Dee: “Una sposa per due”.
Ma veniamo alle lezioni.
- Prima lezione: prova di affezione. In un spazio aperto il cane viene trattenuto dall’addestratore mentre il padrone si allontana e si nasconde, in modo che il cane non possa più vederlo. Quando il padrone è nascosto il cane viene rilasciato, libero di fare quello che vuole. Se esiste un rapporto forte, il cane andrà dritto alla ricerca del padrone annusando il terreno, se è debole girerà intorno per il prato, se è conflittuale andrà in giro tranquillamente per il prato a quando trova il padrone gli farà la pipì sui pantaloni (se maschio). Poichè tutti siamo convinti di essere amati dal nostro cane, consiglio di fare la prova solamente se ci si sente moralmente pronti ad accettare il peggio. E’ me è andata così-così nel senso che ho dovuto chiamarli un paio di volte prima che decidessero di venire a cercarmi invece di inseguire le farfalle. A detta dell’addestratore non malissimo, considerando che avevamo i cani da 6-8 mesi. E qui ho imparato la mia prima lezione: per stabilire un rapporto con un essere vivente ci vuole del tempo ed è necessario aver condiviso una serie di esperienze insieme. Ovvio direte voi, certamente rispondo io. Ed in effetti tutto quello che scriverò in questo post è ovvio a posteriori, a voi il compito di riflettere su quante volte questi ovvi comportamenti si manifestano nei vostri rapporti quotidiani con le persone (sul luogo di lavoro e non).
Seconda lezione: il cane è un animale gerarchico nel senso che si colloca in un ordine ben preciso all’interno del branco e per gestire il cane con tranquillità nostra e sua, il padrone/i padroni devono essere in cima alla scala gerarchica perchè gli ordini del capobranco riconosciuto vengono seguiti con serenità. Il punto è come fare ad essere riconosciuti come capobranco. Fra le varie cose da fare c’è anche quella di premiare i comportamenti positivi e condannare quelli negativi, senza mai usare punizioni fisiche perchè in questo caso il cane temerà il padrone e quindi ubbidirà solo perchè “costretto”, ma, soprattutto, sarà sempre in ansia. in altre parole invece della serenità che gli viene dalla consapevolezza di avere una guida da seguire, sarà in ansia per la necessità di ubbidire. Aggiungo, cosa importante, che il cane in ansia fa più fatica a capire cosa gli viene richiesto e quindi cosa ha sbagliato e quindi a correggersi.
In sentesi la buona vecchia differenza tra autorità ed autorevolezza.
E qui è stato divertente, perchè l’addestratore si era raccomandato di portare qualcosa di buono con cui premiare i cani e noi avevamo portato un confezione di wurstel, che Fly e Kali snobbavano alla grande. E’ che rispetto alla cena di crocchette mescolate con la carne macinata che mangiavano tutti i giorni, non è che fossero particolarmente appetitosi. Ricordo però che la cena succulenta non li rendeva comunque particolarmente affezionati ai loro padroni (vedi sopra). Decisione dell’addestratore: da quel giorno, per tutto il periodo di addestramento, solo crocchette nella ciotola e le leccornie esclusivamente come premio.
Altra attività che rafforza il rapporto cane.padrone è il gioco, che ha anche una forte funzione premiante, tanto più quanta più voglia di giocare ha il cane. Quindi nell’addestramento è importante non giocare ad oltranza, ma smettere quando il cane ha ancora voglia. E qui credevo di aver imparato la mia seconda lezione, nel senso che se io sono quello che decide quando si mangiano le cose buone e quando ci si diverte, è ovvio che sono il capo, ma non c’è un gran merito.
Credevo, perchè in realtà vanno evitati gli automatismi, il cane infatti non è mona (come si direbbe a casa mia) ed il confine che passa tra il rinforzo positivo della e farsi addestrare dal cane che è estremamente piccolo.
Ecco perchè si comincia con le più facili ricompense tangibili (leccornie) per arrivare poi a quelle intangibili (carezze, complimenti, ecc) raggiungendo, quanto meno, una “moral suasion”. Vi assicuro che dopo 6/7 lezioni la prova di affezione era un’altra cosa.
Come dicevo all’inizio, il parallelo tra l’addestramento cinofilo ed i rapporti tra le persone non sono niente di nuovo e mentre facevo questo ciclo di addestramento mi è tornata in mente la considerazione di una mia collega in Stock (era entrata nel 1972 e quindi ne aveva viste di tutti i colori) quando si parlava di corsi di formazione del middle e top management per la gestione del personale “Mi ricordo quando qualche anno fa anno mandato i direttori in “collegio” allo studio Ambrosetti”. io chiesi “In che senso in collegio?” “Nel senso che sostanzialmente quello che gli hanno insegnato al corso è stato chiedere per piacere e a dire grazie. Peccato che tempo un mese se ne erano già dimenticati”.
Come dicevo all’inizio: se non educazione, almeno un minimo di addestramento.

Gestione del personale ed etologia – 1

Premessa n.1: questo è il primo di alcuni post sull’argomento (me ne frullano in testa altri 2).
Premessa n.2: il titolo potrebbe essere stato più efficacemente “leadership ed etologia” perchè per me “leadership” è un sinonimo di “gestione del personale”, però così mi sembrava più chiaro.
Premessa n.3: alcuni dei concetti che scriverò li ho già usati nel mio lavoro e quindi so che c’è il rischio che qualcuno si offenda ad essere paragonato ad un animale. Chiedo scusa fin da subito e segnalo che i centri emotivi del cervello sono tra le parti più antiche dell’organo (se non ricordo male). E comunque Desmond Morris l’ha detto molto prima e molto meglio di me.
La mia conoscenza di alcuni concetti di etologia proviene dagli studi di produzione animale. Da molti anni quindi ho utilizzato uno dei più elementari relativamente al comportamenti dei gruppi sociali.
Esempio 1: ogni scrofa (termine tecnico) partorisce 8-10 suinetti per volta e questi vengono svezzati dopo 4 settimane, unendo due nidiate. Nei primi due giorni dopo che sono state unite le due nidiate si assiste ad una perdita di peso dei suinetti semplicemente perchè smettono di mangiare. E smettono di mangiare perchè sono impegnati a ristabilire le gerarchie all’interno del nuovo gruppo.
Esempio 2: nell’allevamento di vacche (anche questo è un termine tecnico, ho visto uno studente sotto esame perdere due punti per aver detto “mucca”) da latte a stabulazione libera (significa che non sono chiuse in stalla, ma girano libere all’interno del recinto) bisogna evitare mandrie superiori ai 40 capi perchè oltre questo numero non si riescono a stabilire gerarchie chiare all’interno della mandria e quindi la produzione di latte si riduce. Detto in altri termini gli animali sono continuamente in tensione per stabilire una scala gerarchica, che non riesco però a fissare a causa dell’eccesso di interazioni che devono gestire. E l’animale stressato produce meno, sia perchè mangia meno sia perchè consuma energie nervose nella gestione dei rapporti sociali.
Tanti, tanti anni fa, quando ero bambino, il jingle della pubblicità dei formaggini Milkana (mai mangiato uno) diceva “dove il pascolo è più alto, l’erba è verde-verde-verde, dove l’erba è verde-verde-verde c’è la mucca più felice, se la mucca è più felice è migliore anche il suo latte. Beh, forse i creativi di quella volta avevano in mano delle ricerche o magari gli è semplicemente piaciuto il concetto, però è assolutamente e scientificamente vero! Da qui potrei partire un una lunga digressione sulla gestione dell’allevamento di vacche da latte, e come questa sia più efficace quando in stalla ci sono delle donne, ma cerco di mantenermi nell’ambito del marketing.
Ricordo lo stupore e l’ilarità di alcuni colleghi quando raccontavo l’esempio delle vacche da latte (anche se so che il mio amico Michael Kennedy della Drambuie ne è rimasto talmente colpito da diffonderlo).
Immaginatevi il mio stupore quando 7 anni fa, quindi molto dopo la mia laurea in produzioni animali, ad un corso internazioanle sulla gestione dei gruppi di lavoro mi hanno spiegato che un gruppo di persone passa per 4 fasi: FORMING – STORMING – NORMING – PERFORMING.
Senza offesa per nessuno mi chiedo: cosa c’è di diverso rispetto al gruppo di lavoro della vacche da latte?
Una differenza c’è e sta nelle sovrastruttura delle convezioni sociali che abbiamo noi umani, e che (probabilmente) manca negli animali.
Mi spiego: quando si mette insieme un gruppo di animali (forming) questi naturalmente si confronteranno (storming), definiranno le scale gerarchiche confrontandosi sui comportamenti (norming) ed a questo punto potranno produrre un risultato (performing).
In un gruppo umano manca l’automatismo e la relazione diretta tra intenzioni e comportamento. E’ quindi cruciale creare nel gruppo la serenità necessaria perchè la fase di storming sia la più completa ed approfondita possibile, evitando di lasciare zone d’ombra o come si dice in inglese “girando tutti i sassi”. Viceversa il norming che ne scaturisce non riuscirà a contemplare tutte le situazioni ed aspettative, mettendo a rischio il performing.
L’altra differenza tra i gruppi animali e quelli umani è che nei primi il leader viene identificato attraverso un processo di confronto spontaneo e naturale mentre nei secondi viene nominato formalmente. Poichè confrontarsi all’interno di un gruppo ha sempre un costo emotivo, non è detto che la fase di storming si sviluppi con la necessaria chiarezza e completezza per passare efficaciemente a quello successive. Ecco perchè questo rischio va ridotto creando la massima serenità all’interno del gruppo per minimizzare il costo emotivo del confronto.
Nel prossimo post spazio ai (miei due) cani.

Marketing marketing myopia

Non è che nella fretta ho scritto male il titolo e non me ne sono accorto. E’ che il post di oggi è sulla miopia di marketing che affligge il marketing.
Spiego: il concetto di miopia di marketing (in inglese “marketing myopia“) descrive quel fenomeno per cui le aziende/funzioni marketing perdono delle opportunità di mercato perchè non vedono al di là del proprio naso.
E’ un concetto che mi ha sempre affascinato per la sua facile ed immediata comprensibilità, immagino dovuta al fatto che ero miope (oramai con l’età sono passato alle bifocali) e che l’assonanza con l’italiano mi permise di capirlo all’inizio dei miei studi di marketing canadesi (quando l’inglese era ancora molto maccheronico).
Però non l’avevo mai pensato associato al ruolo della funzione marketing in generale. Lo spunto però mi è venuto ad un convegno sull’ecosostenibilità nel settore del vino a cui mi hanno gentilmente invitato a parlare.
Diversi altri relatori hanno sottolineato come sull’argomento ecostenibilità sia necessaria una maggiore e migliore comunicazione (più chiara, precisa, credibile, autorevole) e QUINDI sia necessario andare oltre il marketing.
Attenzione, non si diceva che il marketing deve (tornare ad) avere maggiore credibilità. Si diceva che per avere credibilità bisogna liberarsene tout-court.
Credo sia chiaro come sia oramai cosciente dell’associazione marketing=propaganda che permea la società civile, ma che nessuno vede la contraddizione di chiedere più comunicazione ed allo stesso tempo estromettere i professionisti nel realizzarla comunque mi stupisce ed un po’ mi dispiace.
Perchè professionisti del marketing e della comunicazione non ci si improvvisa e se una comunicazione efficace non si può fare con il marketing, perchè manca di etica e credibilità, non si può fare nemmeno senza quel mix di competenze di targeting, positioning, consumer behaviour, semantica e semiotica che contraddistinguono i professionisti del marketing (per una volta ho usato i termini inglesi come quelli veri).
Chiudo con una considerazione organizzativa: non sarebbe ora che il marketing diventasse una posizione di staff invece che di linea?

ABC degli affari

Questo probabilmente il post di cazzeggio che non ho scritto l’altro ieri.
A novembre scorso, per non smentira la non attualità di questo blog, ho partecipato ad una tavola rotonda alla fiera Sia guest di Rimini: salone internazionale dell’accoglienza.
Arrivato con un paio d’ore d’anticipo ho fatto un giro per gli stand per vedere se trovavo qualche spunto interessante, ed in un padiglione collettivo di diversi designers ho visto due o tre cose sfiziose. Richieste informazioni, mi hanno detto di rivolgermi al banco all’ingresso che faceva servizio di reception per tutti gli espositori. Ho lasciato diligentemente il mio biglietto da visita ….. e sono ancora che aspetto.
Ma c’è stato di peggio: in un grande stand di una ditta di forniture alberghiere (non alimentari) pipeno di agenti/venditori che chiaccheravano tra loro mi sono aggirato vari minuti in due occasioni (la prima volta era orario di pranzo ed ho cercato di essere comprensivo) senza che nessuno mi degnasse nemmeno di un saluto. Sottolineo che ero vestito da lavoro, ossia giacca e cravatta.
Un po’ meno peggio in un’altro stand di porta menù, dove mi hanno mostrato un po’ di campioni. Ho chiesto di mandarmene 4-5. Dopo una settimana mi è arrivata una mail dicendo che il loro agente di zona era disponibile a venirmi a trovare. Gentili; peccato che a me interessavano i campioni, sia come pro-memoria, che per confrontarmi con i colleghi prima di approfondire.
Risultato: il tempo di fissare un appuntamento con l’agente (che mi interessa davvero, ma ahimè non urge). Non l’ho ancora trovato.
Per forza che poi i guru del marketing che proclamano che il consumatore è il re, trovano (ancora?!!) quelli che rimangono a bocca aperta.

P.S. per chi me l’ha chiesto: non so come fanno il marketing in Brasile, Cina e India, anche perchè sono stato solo in Brasile ed era oramai 6 anni fa. Se qualcuno ci è stato con occhio critico batta un colpo, perchè comunque ho la sensazione che nel concetto di marketing all’osso ci sia un po’ di polpa.

Marketing all’osso

Barebone marketing suonava francamente meglio, ma tanti anni fa mi sono dato la regola di non utilizzare terminologia inglese, a meno che non esistesse un’espressione equivalente in italiano.
Questo post volevo scriverlo per motivi di pura opportunità e cortesia, nel senso che mi rendo conto che, a furia di tenerlo a metabolismo basale con le frasi dell’AMA, il blog rischia di morire e poi c’era qualche richiesta di cortesi lettori.
D’altra parte non mi sembrava di avere niente di interesante da dire, che è la situazione peggiore ed è anche un po’ sorprendente, visto che da Natale ho scritto solo un post.
Anche perchè durante le vacanze ho letto un po’ di cose interessanti di gestione di marketing e di economia aziendale, ho visto quello che succede in Spagna, insomma in teoria ho avuto un po’ di stimoli. Eppure tutto mi sembra già visto, perfino al Corte Ingles non ho trovato niente di nuovo (è la prima volta che mi succede in 18 anni).
Sarà vecchiaia oppure la stanchezza della preparazione del Vinitaly del 50° del Pinot Grigio Santa Margherita.
Allora mi sono detto: scrivo un post di cazzeggio di marketing. Farebbe bene a me, che mi sto fossilizzando in post sempre e solo strategici, ed a chi mi dice che questo blog richiede sempre grande attenzione (forse troppa).
Un bel post facile facile, con i complimenti al (semi) nuovo spot di Campari oppure la perplessità sul nuovo spot del nuovo amaro Limoncè, del quale mi convinceva già poco il concetto di prodotto e lo spot stile anni ’80 ancora meno.
Mentre pensavo che forse è il legame emotivo con una marca che ho gestito tanti anni ad impedirmi di vedere le cose con obiettività, mi sono reso conto che sempre di più imposto le attività di marketing in generale, e la comunicazione in particolare, con modalità tendenzialmente scarne.
Riflettendo mi rendo conto che a fronte dell’affermarsi della propoganda nella comunicazione e della sensazione generale di già visto, mi sposto sempre più distante dalla logica son-et-lumiere, o stucco-e-pittura come diceve una mia ex collega.
in altre parole la mia visione del marketing è sempre più quella di un marketing all’osso, che va all’essenza, che, come c’è scritto nei libri, punta a rendere inutile le attività di pubblicità e promozione grazie alla forza della proposta in termini di interesse per il servizio offerto.
In altre parole l’I-Pad, per cui tutti i giornali si sono affrettati a fare la versione compatibile, indipendentemente dalla diffusione o meno dell’apparecchio.
Sarà l’ennesimo segnale che mi sto convertendo in uno dei vecchietti del Muppet Show, l’evidenza che non sono più al passo con i tempi oppure sono la punta più avanzata dell’avanguardia (che comunque non è mai positivio).
Se qualcuno ha l’occasione di analizzare come si fa il marketing in Brasile, soprattutto, Cina e India, troverà la risposta.

Sempre la solita storia.

Dopo aver inutilmente pagato il doveroso dazio al teatrino dei gattopardi della politica (proverbio spagnolo: de noche todos los gatos son pardos), torno ad oocuparmi di cose serie, ossia teoria e strategia di marketing.
Durante le ferie ho approfittato per studiare un po’ ed ho trovato un interessantissimo articolo sull’analisi narrativa per ls creazione di storie persuasive che permettano di connettersi a livello emotivo con la propria audience. Dico da subito che tralascerò completamente qualsiasi commento riguardante la questione della persuasione occulta.
La cosa interessante è che le ricerche basate sull’analisi dei testi hanno identificato meccanismi e strutture che si ripetono attraverso la storia e le culture.
I livelli di comprensione della storia sono sempre tre. Dal più superficiale al più profondo: il messaggio, a livello razionale, il significato, a livello di sentimenti e convinzioni, il mito, a livello del nostro inconscio universale ed eterno.
Quindi comunicare alle persone attraverso miti universali, permette di parlargli al più profondo livello emotivo. Il bello è che anche il mito, sfumature a parte, si può ricondurre sempre ad alcuni modelli fondamentali:
- il mito dell’eroe: una persona normale viene chiamata a fare cose eccesionali, supera prove difficili, combatte i propri demoni esterni ed interni che lo spingono a mollare ed alla fine, guidato da un mentore, raggiunge il suo obiettivo. Marca? Nike “Just do it”.
- il mito del ciclo della vita: il continuo fluire delle generazioni in cui il vecchio passa la propria saggezza al giovane in un ciclo di ottimismo e speranza dove non c’è fine, ma solo nuovi inizi. Marca? Ford Mustang con lo spot del 2005 che resuscitava Steve McQueen.
- il mito della creazione: qui non serve nemmeno spiegarla. Marca? L’immagine di Jobs e Wozniak che montano il primo Apple nascosti nel loro garage.
- Il mito della creazione dalla distruzione: scegliete quello che vi piace di più tra Noè e l’Araba Fenice. Marca? Coca Cola Classics resuscitata dalla ceneri della New Coke.
- il mito della lotta tra il bene e il male: la battaglia tra il caos e l’ordine si trova già nella cultura sumerica. Marca? Vespa vs. Lambretta, Apple vs. Microsoft, ecc…

E la vostra marca di che mito è?

Stefano Di Traglia: se ci sei batti un colpo

Dire che la ripresa dopo le lunghe ferie natalizie è in salita sarebbe un eufemismo. Il tentativo di recuperare un anno che è iniziato il 10 gennaio mi ha portato spesso in queste ultime due settimane a lavorare dopo cena e nei fine settimana, momenti normalmente dedicata alla scrittura del blog.
Anche oggi in realtà stava vincendo la pigrizia, però poi due cose mi hanno fatto accendere il PC: innanzitutto le 17 visite che il blog ha avuto lunedì scorso, malgrado il lungo silenzio e poi l’indignazione per un paio di cose sentite in radio e TV negli ultimi due/tre giorni.
Avrete già intuito che anche io parlerò, banalmente, di politica, ma cercherò di mantenermi nell’ambito del marketing. Non prometto di non ripetere cose già dette, ma mai come in questo caso repetita iuvant.
Stefano di Traglia è il responsabile comunicazione del PD e mi chiedo dove sia e cosa faccia visto come si sta sviluppando in generale la comunicazione sul Rubygate ed in particolare come viene gestito dal PD. Sarà colpa anche qui della marginalizzazione del marketing oppure è più semplicemente incompetenza?
Facendo del buon marketing partiamo da quelli che dovrebbero essere gli obiettivi intrinsechi di ogni opposizione di governo: proporre e realizzare politiche che favoriscano lo sviluppo della società (secondo la propria visione evidentemente) e guadagnare il consenso di (parte) degli elettori che hanno votato a favore dello schieramento contrario, in modo da vincere le elezioni successive. Rimango nel perimetro della democrazia e quindi tralascio rivoluzioni, colpi di stato e cose simili.
Grazie alla sua rilevanza mediatica il caso Ruby è una splendida occasione di visibilità per tutte le forze politiche e quindi anche per l’opposizione per raggiungere gli obiettivi di cui sopra, il problema è che, una volta di più, tanta la strategia come la pratica del PD sembrano andare in direzione contraria.
Dico questo perchè tutta la discussione sull’adeguatezza di Berlusconi a rimanere a capo del Governo si sta incentrando ogni giorno di più sul lato sessuale dello scandalo, tralasciando completamente la parte di indagine relativa alla concussione (termine di non immediata comprensione generale che si riferisce alla telefonata fatta alla Questura di Milano per rilasciare la ragazza, al tempo minorenne, affidandola alla Minetti).
Ora è evidente che la questione dei festini a casa del premier implica un voyeurismo che “vende” molto di più e quindi capisco che sia quella a cui i giornali dedicano più spazio. E’ però altrettanto evidente che è quella più privata (sono proprio curioso di vedere quali prove saranno in grado di produrre i magistrati per dimostrare che ci sono stati i rapporti sessuali e lo sfruttamento della prostituzione, al di là del concetto di “utente finale” già coniato in occasione del caso D’Addario), che più si presta alle controaccuse di persecuzione e di illegittima intrusione nella privacy. E’ quindi il lato della questione su cui si può essere più facilmente tacciati di moralismo piuttosto che di moralità, senza dimenticare il rischio di rimanere comunque invischiati nella volgarità e nel pecoreccio sulla base del quale si chiedono le dimissioni del premier. Aggiungo che far passare le ragazze coinvolte nell’inchiesta come delle povere ingenue illuse o, peggio, sfruttate dal satiro Berlusconi, dal punto di vista della comunicazione non mi pare proprio la cosa più semplice. Aggiungo ancora che non mi pare di dire niente di geniale quando credo che buona parte dell’elettorato dal PdL dia per assodato che Berlusconi utilizzi prostitute almeno a partire dal caso D’Addario e che ritenga la cosa sostanzialmente un affare privato.
In sintesi, scopi pure con il Grande Puffo, l’importante è che l’Italia abbia affrontato la crisi meglio di altri paesi europei / abbia affrontato l’emergenza terremoto / abbia risolto il problema dei rifiuti di Napoli / e tutti gli eccetera che volete. Il PD superato a sinistra sul piano del principio delle libertà individuali.
La questione della telefonata in questura si presenta invece estremamente più efficace per l’opposizione. In termini di principio è quasi indiscutibile il fatto che una telefonata del Presidente del Consiglio ad una questura sia un problema istituzione e non personale e nella sostanza dei fatti offre un quadro di grande forza in cui tutti possono immedesimarsi dell’uomo di potere che cerca di imporsi su un poveretto che sta solo facendo il proprio dovere. In un colpo solo ecco che tornano tutte le volte in cui ho subito un torto perchè le regole sono saltate a favore di qualcuno che aveva le conoscenze giuste e tutte quelle in cui qualche privilegiato mi ha messo in mezzo tra fare il mio dovere e fare i suoi comodi.
Ed in effetti il sindacato di polizia si è trovato solo a difendere l’operato e la dignità della questura. Persa l’occasione da parte del PD di schierarsi a fianco delle forze dell’ordine. Persa anche l’occasione di rafforzare la richiesta di una nuova legge elettorale che restituisca agli elettori la libertà di scegliere i propri rappresentati, perchè la richiesta di dimissioni della Minetti è arrivata dei militanti del PdL.
Aggiungo, e finisco questo che si sta trasformando in uno sproloquio, l’errore di continuare a rivolgersi a Berlusconi per chiedergli di dimettersi invece di rivolgersi ai suoi elettori per chiedergli, fornendo le opportune ragioni, di non votarlo più.
Quali sono le due cose che mi hanno fatto indignare?
Giovedì ho sentito per radio la dichiarazione di Stefania Craxi, Sottosegretario di Stato agli Esteri, sull’ex presidente della Tunisia Ben Alì (scappato in Arabia Saudita con i soldi dopo aver fatto sparare sui manifestanti e buon amico di Bettino Craxi). Diceva grosso modo che va ricordato come abbia portato la Tunisia alla modernità anche se poi il suo regime si è sprofondato nella corruzione e nella gestione familistica dello stato. Agghicciante! Continuavo a chiedermi se parlava di Ben Alì o della storia della sua famiglia.
La risposta l’ho avuta oggi pomeriggio guardando il TG1: alla fine hanno annunciato lo speciale TG1 di questa sera dal titolo “Craxi, elogio del capro espiatorio”.
Come dicevo all’inizio: il 2011 è iniziato proprio in salita.

Natale hic et nunc

Negli ultimi giorni sono stato parecchio defedato (niente di grave, solo un forte raffreddore che però mi ha esaurito le poche forze che rimanevano).

Adesso arrivano le vacanze natalizie e me andrò via fino al 5 di gennaio. Probabilmente anche biscomarketing resterà chiuso in questo periodo.

Come cartolina di Natale lascio questa vignetta di Mafalda (se sto violando un copyright spero almeno che qualche giovine che non conosce Quino sia incuriosito a leggerlo).

Ditemi voi se non è la raffigurazione del web 2.0, sarà per questo che ogni tanto mi gira la testa? Oppure è il raffreddore? Comunque non c’è niente da fare: come futurologi nessuno batte i poeti, e se non ci credete guardate questo (brutto) articolo su un vecchio racconto di Buzzati. O meglio ancora leggetevi il libro.

Allora auguro a tutti di passare un Natale di serenità, vivendo l’attimo presente.

Arrivederci al 2011.

Ritmo e melodia del marketing

Citazione 1: “…. troppo spesso la saggezza è solamente la prudenza più stagnante…. ” (Mogol-Battisti).
Citazione 2: “Specificità del marketing moderno è la (parziale) perdita dei controllo (del contesto) della marca” (io, forse o forse l’ho letto/sentito da qualche parte).

Storiella di spunto del post.
Lunedì 6 dicembre sono partito da Venezia via Francoforte per andare ad incontrarmi con il nostro agente in Canada. Arrivo previsto a Toronto ore 19:45 locali di lunedì 6/12, partenza prevista da Toronto ore 17:30 locali di mercoledì 8/12 (è per quello che si chiamano viaggi di lavoro).
Purtroppo però il volo da Venezia è partito con ritardo, causa ritardato arrivo dell’aeromobile, quel tanto che è bastato per farmi correre all’imbarco arrivando 5 minuti prima della partenza prevista del volo e scoprire che non avevano aspettato i passeggeri in transito. Alle mie lamentele sul fatto che non mi era mai capitata una cosa così idiota in tanti anni in giro per gli aeroporti, l’hostess Lufthansa che mi prenotava sul primo volo del mattino dopo mi ha risposto seriamente che non potevano aspettare perchè per la loro compagnia la puntualità è la prima cosa. Almeno quando gli ho riso in faccia non se l’è presa, forse perchè il passeggero allo sportello di fianco con il mio stesso problema stava trattando la sua collega con dei toni ben peggiori del sarcasmo.
Qual’è il punto? Il punto è che sempre più spesso noto negli approcci delle aziende alla gestione delle marche un’eccessiva fissità, che in buona parte riconduco alla solita marginalizzazione del marketing.
Mi spiego meglio: si è passati da un concetto secondo il quale il marketing era troppo importante per lasciarlo in mano agli uffici marketing (verissimo) intendendo con questo che la cultura di marketing doveva essere patrimonio di tutti, ad un concetto secondo il quale il marketing deve rispondere alle esigenze che provengono dai clienti compatibilmente con quelle della redditività attesa.
Peccato che le esigenze dei clienti abbiano poco a vedere con la gestione del valore di una marca nel medio periodo e che le funzioni vendite vendite e finanza (oltre ahimè sempre più spesso alla funzione marketing) non abbiano l’approccio è le competenze per identificare i tratti essenziali e caratterizzanti del posizionamento. Il risultato quindi è che ci si immobilizza sulle forme enunciate e non sui valori sottostanti, come è successo alla hostess Lufthansa.
Faccio un esempio (noto che mi esprimo sempre più per metafore, la volta che comincio con le parabole qualcuno mi fermi per cortesia): chiunque sia stato almeno 5 minuti al timone di una barca a vela sa che per andare dritti la barra del timone non può stare ferma, ma va continuamente regolata per compensare i movimenti imposti alla barca dalle onde e dal vento. Il marketing ha (dovrebbe avere) le competenze per far andare il più velocemente (efficacemente) possibile la barca lungo la rotta decisa dal capitano, ma sempre più spesso nella gestione democratica del marketing viene deciso di fissare il timone in un punto, confondendo l’immobilismo con la coerenza. Il risultato è che poi non si arriva dove previsto.

Perchè il titolo? Perchè in un primo tempo pensavo di usare la metafora del ritmo e della melodia, dicendo che l’importante per la coerenza della marca è che si riconosca la seconda anche cambiando il primo. Però la mia conoscenza della musica, tanto teorica come pratica, è talmente scadente che non sono riuscito ad essere convinto del paragone neanche dopo aver studiato Wikipedia. Ho quindi preferito evitare di dire castronerie.
Se però c’è qualche musicista tra il pubblico, mi piacerebbe mi spiegasse meglio i due concetti.

Saranno famosi?

Chissà se nell’era del web e dei social media Saint Exupery (sì quello del Piccolo Principe) giudicherebbe ancora “metafisica da portinaie” la questione pirandelliana dell’identità. Io una tempo avevo trovato illuminante la definizione del primo, ma oggi ho qualche dubbio sull’attualità del secondo.
Perchè questo incipit da tema del liceo? Perchè domani alle 8:30 di mattina, con replica alle 18:30 per i meno mattinieri, va in onda nel programma Casa Alice del canale Alice di SKY (il numero del canale non lo so) l’intervista che mi hanno fatto sul premio “Santa Margherita Esploratori del Gusto” nel ruolo di Direttore Marketing di Santa Margherita, appunto.
Massimo del narcisismo: siccome domani parto per il Canada ed alle 8:30 sarò eccezionalmente ancora a casa, mi guarderò. Speriamo bene perchè dopo la foto su Gente a fianco di Al Bano, punto a sfondare nel target delle massaie (che secondo la direzione commerciale di SKY esistono ancora con mio sommo stupore).

Oscar Farinetti: stupor mundi

L’altro giorno ho ricevuto una risposta personale al mio post sulla campagna radio fatta dall PAM. Anche se l’intenzione di scrivermi personalmente invece di postare un commento mi pare fosse quella di non sparare sulla croce rossa, credo (spero) non se ne abbia a male se riporto parte della sua mail: .…. ma c’è una situazione in questo settore (della distribuzione N.d.A.) che definire drammatica è dir poco.
C’è una battaglia sul prezzo pazzesca, c’è il problema della terza settimana, ci sono competitor che entrano da un giorno all’altro.
E ti assicuro che di fronte ad una situazione del genere non si riesce più a farli ragionare: sono come impazziti, rapiti nel vortice di promozioni, sconti e buoni spesa, pronti a tradire posizionamenti e format pur di far quadrare i fatturati.
Il risultato sarà che qualcuno alla fine salterà e che si apriranno nuove opportunità per chi le saprà cogliere, mettendo in crisi le “vecchie” insegne.

Tutto vero, tutto giusto, tutto condivisibile, P E R O’ poi viene fuori Oscar Farinetti che apre Eatily con posizionamento forte basato su una chiara promessa di valore per un determinato target (che in questo caso è tutti i segmenti di consumo) e tutti rimangono a bocca aperta. E poi tutti i concorrenti lì a trovare scuse, …. è amico di Petrini, …. è proprietario delle cantine, ecc…, per giustificarsi di non averlo fatto (anche) loro.

Ma la cosa interessante è capire cosa ha in più Farinetti per ottenere i successi che ottiene.

Secondo me Farinetti ha più testa e più cuore (manca solo la coda e poi abbiamo rifatto il Carosello della grappa Piave).
Più testa nel senso che ha l’acume, le conoscenze e la creatività per pernsare e formulare della proposte di valore inovvative e rilevanti per ampie fasce di persone. Il buon vecchio marketing strategico. Il bello è che l’innovatività della proposta non sta tanto nei singoli elementi che la compongono, che in buona parte sono già presenti in modo sparso sul mercato, ma nel fatto di metterli e nel modo in cui vengono collegati. In parole povere nel pensiero che ci sta dietro, cosicchè il valore per i consumatori sta innanzitutto nel pensiero di base, di cui i servizi che gli vengono offerti (ribadisco una volta di più che nessuno compra mai prodotti, ma sempre servizi) sono la “semplice” concretizzazione. Il buon vecchio marketing strategico
Coem scrivevo in un mio vecchio post il concetto di “unique selling proposition” è spesso sopravvalutato perchè nella maggioranza dei settori è talmente difficile da rischiare di portare l’azienda ad inseguire chimere irragiungibili. Quello che fa Farinetti è sviluppare una “best selling proposition”, inserendo alcuni elementi di novità in quella che è sostanzialmente una nuova, e più ampia, combinazione di elementi esistenti.
Il pensiero però non basta senza l’azione e qui Farinetti dimostra più cuore della maggioranza dei suoi concorrenti perchè ha il coraggio di credere nella bontà della sua proposta, anche se questa esce dai canoni classici dei settori in cui opera. Crederci davvero significa alimentarla con le risorse necessarie avendo la fiducia che queste verranno ripagate e realizzarla con disciplina, coerenza e costanza, in modo da far crescere sempre di più nel tempo la propria credibilità. in altre parole rifuggire i compromessi che potrebbero (dare l’impressione di) prendere in giro le persone.

Non è niente di complicato, ma la realtà di tutti i giorni dimostra quanto sia difficile.

Ecco perchè quando l’ho visto alla presentazione delle Guide de L’Espresso a Firenze lo scorso ottobre, mi sono tolto il cappello e sono andato a fargli i miei più sinceri complimenti.