Il neuromarketing produce packaging orientati al “clickbaiting” più che al coinvolgimento?

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Premessa: questo post si preannuncia un po’ confuso e astratto perché nasce più da sensazioni che da fatti conclamati (quelli bravi avrebbero detto “segnali deboli”), sensazioni che mi hanno stimolato ragionamenti ancora in divenire ed anche piuttosto astratti.

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E se il problema principale di Melegatti fosse la qualità del prodotto e non comunicazione e posizionamento?

Si sa, biscomarketing è un blog “freddo” che raramente è sulla notizia, ma spesso ci torna.

Un paio di settimane fa è “esploso” il caso Melegatti a causa di una serie di comportamenti erratici che l’azienda ha tenuto in termini di comunicazione (stile, toni e contenuti), soprattutto legati al lancio del pandoro ad edizione speciale Valerio Scanu.

La questione è stata analizzata approfonditamente in un lungo post di Frank Merenda, che in diversi cruciali passaggi ho trovato sinceramente grossolano. Detto in sintesi “marketing da bar” o, parafrasando Saint-Exupery nei confronti di Pirandello, “marketing da portinai” (poi è arrivato “L’eleganza del riccio” a smentirlo, riguardo ai portinai non su Pirandello).

Sarà per questo che il post di Merenda ha poi trovato grande diffusione sul web? Forse si, o forse sono io che da presuntuoso sto diventando elitista. Poco importa, il punto è che un analisi basata su presupposti sbagliati rischia fortemente di portare a soluzioni altrettanto sbagliate.

Il posizionamento di Melegatti come il Pandoro Originale è già stato sconfitto sul mercato.
Io sono nato nel 1963 e mi ricordo che da piccolo a Natale ero il bambino “rompiscatole” perchè mangiavo solo il pandoro ed assolutamente non mangiavo l’onnipresente panettone (non mi piacevano i canditi, che oggi adoro).

Ovviamente mangiavo Melegatti, che era l’unico pandoro sul mercato.

Dati aggiornati sui consumi non ne ho trovati, quelli del 2004 davano la produzioni di panettoni doppia rispetto al pandoro (fonte AIDI/Mark-up). Oggi, se guardo gli spazi che hanno i prodotti nella grande distribuzione credo di non sbagliare troppo stimando che la vendite delle due categorie di prodotto sia sostanzialmente equivalente (sarei tentato di dire che si vende più pandoro, ma magari sono influenzato dai miei ricordi d’infanzia).

Diciamo quindi che negli ultimi vent’anni c’è stato uno spostamento delle preferenze dal panettone al pandoro.

Chi ne ha beneficiato? Le quote nel mercato del pandoro+panettone nel 2012 (anche qui dati più recenti non ne ho trovati) vedevano il primato di Bauli con il oltre il 40%, seguita da Melegatti con il 15%, Balocco 12%, Maina 7%, Dal Colle e Paluani con il 3%-4% ognuna (fonte L’arena)

Bauli per il 2011 ha pubblicato i dati distinti per segmento ed indicava una quota nel mercato del pandoro pari al 31,9%.

Sostanzialente negli ultimi 30 anni Melegatti è stata doppiata sul mercato dei prodotti da ricorrenza da un concorrente che nasce con il pandoro e prima era praticamente inesistente.

Un concorrente che ha saputo avvantaggiarsi molto di più della tendenza di mercato a favore del pandoro e, forse, ha anche contribuito a crearla.

Un concorrente che grazie al pandoro ha saputo costruire una marchio con una forza tale da poter diventare un marchio ombrello con cui entrare con successo prima nel mercato del panettone e poi in quello delle merendine. Tutti mercato che apparivano fortemente presidiati da marchi storici.

Qual’è il punto? I punti sono 4:

1) Dopo tutti questi anni da follower il posizionamento intrinseco di Melegatti come pioniere del pandoro si è consumato. Questo non significa che non possa essere il posizionamento corretto per la marca, ma va ri-costruito ex novo.

2) Il “vantaggio del pioniere” esiste (lo so per esperienza avendo gestito Stock 84, Keglevich, Pinot Grigio Santa Margherita), ma non è basato sui valori della tradizione. E’ basato sui valori dell’avanguardia e dell’archetipicità. Va quandi alimentato e rinnovato attraverso ricerca ed innovazione. Non rispetto al mercato, ma rispetto a se stessi.

3) Il marketing della nostalgia è di corto respiro e raramente è riuscito a rilanciare i marchi.

4) Forse è vero che Melegatti non può essere altro che pandoro e quindi deve rassegnarsi a vedere ridimensionato il suo ruolo rispetto ai concorrenti, ma posso capire che l’azienda cerchi di recuperare posizioni visto che i concorrenti dimostrano che estendere il marchio a nuovi, profittevoli, segmenti. Attenzione, non si tratta di semplice ambizione, ma della necessità di creare risorse per competere anche nei segmenti tradizionali (in altre parole fare i soldi con le merendine per finanziare le campagne pubblicitarie dei pandori).

Poi ci sarebbero anche delle interessanti considerazioni sulle peculiarità del marketing dei prodotti da ricorrenza (ho gestito anche quelli), ma poi il post diventa lungo e dispersivo.

 

Torno al titolo del post: e se il problema del pandoro Melegatti fosse la qualità intrinseca del prodotto?

Nel “marketing da bar” si trova spesso quella che io chiamo la “sindrome del persuasore occulto” dal titolo del libro di Packard del 1957.

E’ la sindrome di chi crede che sia sufficente saperla raccontare bene ed avere grandi budget pubblicitari per sbolognare qualsiasi cosa a chiunque.

La teoria e la pratica del marketing ci dicono che non è così. Meno che meno nel caso dei prodotti alimentari, visto che tutti siamo esperti dei nostri gusti.

E se la vittoria di Bauli nella guerra dei pandori fosse dovuta ad una migliore qualità intrinseca.

Da vecchio consumatore di pandoro il dubbio l’avevo già, mi si è rafforzato quando ho visto l’immagine con cui Melegatti è tornata alla tradizione, seguendo i “consigli” della rete.

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Ora, signori Melegatti se questo è il meglio che avete scelto per di-mostrare la qualità (se non l’eccellenza) del vostro pandoro io consiglieri di concentrarsi sulla P di Prodotto, non a caso la prima del marketing mix.

Loacker: dai maestri del wafer, l’innovazione di prodotto …… monoprodotto.

Saranno quasi quarant’anni da quando ho mangiato i miei primi wafer Loacker.

Da quella volta non ne ho mai mangiati altri, semplicemente perchè i wafer Loacker sono (o mi sono sempre sembrati) nettamente i più buoni sul mercato.

Con l’età ho smesso di mangiare wafer, ma non di mangiare snack dolci (una volta dicevo che uno degli elementi caratterizzanti le società occidentali è la pornografia; credo si possa aggiungere il perdurare dei comportamenti adolescenziali, vedi facebook, anche se probabilmente la prima è conseguenza dei secondi).

Ho quindi ripreso a mangiare prodotti Loacker quando l’azienda ha lanciato sul mercato le tortine. Da qualche mese sugli scaffali del mio supermercato di fiducia sono apparse le barrette choco& milk cereals, che ho subito provato.

Essendo anche queste molto buone, sono diventate una presenza costante nel mio frigo (lo so che la cioccolata in frigo è una barbarie sensoriale, però non è che stiamo parlando di napoliten da degustazione).

Ecco la prova.

Loacker

Poi l’altro giorno mangiando una barretta mi sono reso conto che non è altro che una base di wafer Loacker “vestita”. Lo stesso vale per le tortine. Ed è per questo che sono così buone.

Ossia che il dominio della maestria nella produzione del miglior wafer permette alla Loacker di fare innovazione di prodotto, nel senso di proporre qualcosa che attira e soddisfa diversi segmenti di persone e diverse occasioni/momenti di consumo, rimanendo sostanzialmmente un’azienda “monoprodotto” (alla fine sempre wafer sono).

O per dirla in altro modo: the excellence pursuer succeeds for ever. I miei più sinceri complimenti.

Nota 1: lo stimolo a provare “automaticamente” i nuovi prodotti da parte dei consumatori è uno dei principali valori della reputazione di una marca. E quando dico valori intendo la parola nel suo significato monetario, perchè la prova generata dalla fiducia nella marca implica un considerevole risparmio in attività promo-pubblicitarie, noncè una accellerazione delle rotazioni. Doppio effetto: meno costi e più ricavi. Dubito però che questo valore sia monetizzabile da tutte le analisi che si realizzano attualmente per misurare il ROI di marketing (o ROMI: return on marketing investment) ed a cui vengono subordinate le decisioni sugli investimenti di marketing.

Nota 2: ovviamente questo post NON è un post sponsorizzato. Se l’avete pensato, lavatevi la bocca con l’aceto come quando si dicevano le parolacce.