Gestione del personale ed etologia 5.

Oggi pensavo di scrivere un post sull’ennesima bolla papale emessa da Angelo Gaja e ripresa da numerosi siti (qui il link a quella indispensabile miniera di dati che è “I numeri del vino“).

Però mi rendo conto che, anche facendo raffreddare l’argomento per 10 giorni, molto probabilmente non sarebbe uscito un post critico, bensì un post polemico. E la polemica non mi interessa. Dico solo che Gaja oggi esprime posizioni contrarie a quelle che sosteneva nel settembre 2012 e che io confutavo in due lunghi post gentilmente ospitati da Franco Ziliani nel suo blog “Vino al vino”. A parte i modi, da cui il rischio di scadere nella polemica, non ho molto da aggiungere all’analisi, se siete curiosi potete andare a rileggerli perchè credo che buona parte delle considerazioni siano ancora valide.

Escluso Gaja, una ex collega ed amica mi suggeriva di regionare sul fatto se esiste ancora il marketing, ma il post della scorsa settimana non è stato abbastanza riposante per affrontare oggi un DOMANDONE di tale livello.

Prendo allora spunto dalla notizia relativa allo studio sull’efficenza del volo degli uccelli migratori (riporto il link a El Pais perchè ha pubblicato un giorno prima dei giornali italiani e perchè la ricerca sul sito del Corriere si è interrotta con il messaggio Service Temporarely Unavailable).

La notizia in sostanza è che uno studio condotto dal Royal Veterinary College dell’Università di Londra sul volo di uno stormo di ibis eremita evidenzia come gli uccelli in formazione a “V” coordinino con estrema precisione il battito delle ali rispetto all’uccello che li precede, in modo da sfruttare al massimo le correnti d’aria che crea e ridurre quindi il dispendio di energia. E’ per questo che il movimento dello stormo in volo ricorda un’onda permanente.

Ora, a parte che non avevo mai pensato che gli uccelli migratori volassero così per un semplice fatto estetico (e NON aprirò una parentesi sull’intrinseca eleganza del gesto parsimonioso, dalla danza all’architettura), la notizia risveglia il produttore animale che è in me e mi permette di riprendere l’argomento del legame tra gestione del personale ed etologia, uno di quelli che ricordo con più affetto tra i tanti affrontati in quasi 7 anni di biscomarketing.

Osservando la tecnica di volo dell’ibis eremita i ricercatori inglesi si sono giustamente focalizzati sul risultato: la massimizzazione dell’efficenza dello sforzo permette allo stromo di volare più a lungo (tempo e distanza) di quanto non potrebbe fare un uccello da solo oppure uno stormo peggio organizzato.

Questa organizzazione di volo però richiede il verificarsi di tre premesse comportamentali:
1) tutti gli uccelli conoscono la rotta, ossia sanno qual’è la meta e quali sono i persorsi per raggiungerla;
2) tutti gli uccelli sono d’accordo di raggiungere la stessa meta;
3) tutti gli uccelli condividono gli sforzi turnandosi al vertice della “V”, la posizione più faticosa.

In realtà utilizzo il modello dello stormo nella spiegazione e nella gestione dell’organizzaizone del lavoro da circa 10 anni. Da quando ho scoperto questa matrice degli stili organizzativi.

organization matrix

Io normalmente la uso in diverse fasi.

Riunisco il gruppo di lavoro e la mostro “muta”, senza la spiegazione delle due assi e senza il testo dei quadranti per evitare di suggerire giudizi di valore. A questo punto chiedo a tutti di dire qual’è secondo loro il modello organizzativo migliore. Poi chiedo in che situazione ci troviamo noi.

Poi scopro la versione parlante, con i testi nei riquadri e la spiegazione delle assi, chiedo conferma delle opinioni espresse in precedenza e ragioni sul perchè l’organizzazione migliore sia quella dello stormo.

Mi permetto di concludere con alcune avvertenze:
- utilizzate questo modello con il vostro gruppo di lavoro solamente se vi sentite solidi nella sua gestione. Discutere apertamente di questi aspetti, soprattutto con uno strumento così forte, innesca delle dinamiche che non possono essere più fermate. Possono essere solo gestite.
- La solidità non dipende solo dai vostri rapporti con i collaboratori, ma anche da quelli tra di loro.
- Se pensate di mostrare/discutere la matrice singolarmente con i diversi collaboratori per ridurre il rischio di innescare dinamiche disgregative, NON fatelo. E’ molto probabile che i collaboratori parleranno tra loro comunque ed avrete creato un clima diffidenza.
- la situazione organizzativa più pericolosa in cui potete trovarvi è quella del quadrante A, perchè può darvi l’impressione di essere nel quadrante D. Vi accorgerete della differenza al primo problema che richiede un supporto da parte di tutto il gruppo di lavoro.
- anche se sembra ci siano parecchi esempi di successo con organizzazioni come quelle del quadrante C, personalmente penso che sia una situazione attualmente semplicemente impossibile. La turbocompetizione richiede una quantità e tempestività di risposte che cui le persone a tutti i livelli dell’organizzazione si trovano a dover affrontare un certo grado autonomia che aumenta la dispersione della mandria.
- prima di pensare che si tratta di belle teorie, peccato però che i vostri collaboratori siano tutti degli incapaci menefreghisti, ricordatevi che le 3 premesse comportamentali per il funzionamento dello stormo implicano una continua, dettagliata e trasparente informazione, la necessaria formazione, l’aperta discussione per la definizione e condivisione degli obiettivi.

Buona fortuna.
-

Cliente si, #coglioneNO. (Quasi) vent’anni di esperienze nei rapporti con creativi.

Questa settimana avevo bisogno di un post leggero, defaticante, dopo lo sforzo di confrontarsi con un tema come la visione per il futuro del Paese di Farinetti.
Prendo allora spunto dalla campagna #coglioneNO, su cui mi sono già espresso con un tweet “Com’è che le agenzia di pubblicità non mi hanno mai proposto una campagna a basso costo così efficace? Cliente sì #coglioneNo.”
La campagna è già stata ampiamente commentata da diversi punti di vista. Qui di seguito i link ai primi risultati che appaiono su twitter: Wired, minima&moralia, il post, blog del Corriere, osservatori esterni, le parole e le cose con un post del 2012 coerente con il tema della campagna.

Pare che i media abbiano già consumato l’argomento, sicuramente più di quanto immaginavo. Cosa posso aggiungere io? Il punto di vista, finora assente, di chi da quasi vent’anni paga per servizi di creatività.

Ho iniziato a fare il cliente di agenzie nel settembre del 1994 e, se mi sono ricordato di tutti, in questi anni ho lavorato con almeno 20 agenzie pubblicitarie (che hanno fatto anche grafica, Pubbliche Relazioni, attività promozionali), 10 agenzie di Pubbliche Relazioni e 7 studi di design. A questi vanno poi aggiunte le agenzie che ho analizzato durante le selezioni per decidere a chi affidare i lavori, e altre strutture a minor intensità di creatività come le agenzie di oggettistica promozionale, i centri media, le case di produzione cinematografica e gli istituti di ricerca di mercato.

Si è trattato di strutture di tutti i tipi: multinazionali, nazionali, locali; agenzie affermate ed agenzie che iniziavano.

Diciamo in sintesi che ho visto un po’ di situazioni e sono stato testimone di un po’ di cambiamenti.

Nel 1994 c’erano ancora aziende che nel selezionare l’agenzia a cui affidare una campagna faceva una gara retribuita, a cui però le agenzie si presentavano con la campagna fatta e finita e declinata su tutti i mezzi (TV, radio, stampa).

Il compenso dell’agenzia era una commissione del 15% sull’importo dei costi della pubblicità, sia i costi di produzione che quelli di acquisto degli spazi pubblicitari. Questa % era uguale per tutti e nessuno nemmeno pensava che potesse essere oggetto di contrattazione. Se non ricordo male, era normale che l’editore fatturasse al cliente e poi versasse direttamente il 15% all’agenzia.
Se l’anno dopo si utilizzava la stessa campagna,la provvigione rimaneva sempre del 15%, anche se non c’era stato alcun lavoro creativo.
Le campagne rimanevano sempre di proprietà delle agenzie, i clienti in un certo senso le “affittavano”.
Erano i tempi descritti da Silvio Saffirio nel suo libro “Gli anni ruggenti della pubblicità”.

Poi si è iniziato a prevedere una scala sconti legata all’ammontare del progetto. Ricordo un contratto fatto ancora in lire per cui si arrivava all’11% di commissione nel caso di un investimento di 1.000.000.000 di lire (che bei numeroni maneggiavamo una volta). Le commissioni sui costi di produzione hanno cominciato ad abbassarsi fino ad attestarsi intorno all’8%.
Ovviamente con questa nuova situazione gli editori hanno cominciato a fatturare ai clienti i costi degli spazi al netto del 15% di agenzia (che è rimasto come retaggio del passato, tipo la campana che apre le contrattazioni a Wall Street) e le agenzie hanno iniziato a fatturare direttamente ai clienti, sulla base delle % definite nei contratti.

Circa nello stesso periodo si è iniziato a fare contratti che prevedevano un compenso fisso in base alle attività previste, come è sempre stato nel caso di agenzie di PR e studi di design.

I ricavi pubblicitari hanno continuato a crescere fino al 2008, secondo le rilevazioni dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ma l’aumento dell’offerta di servizi di comunicazione era probabilmente cresciuto di più perchè intorno al 2005 le commissioni di agenzia oscillavano tra l’8% ed il 4% a seconda del budget pubblicitario e del fatto che la campagna fosse nuova oppure venisse ripetuta.

Basta l’eccesso di offerta attuale, complice anche una domanda calante, a spiegare la commoditizzazione dei lavori creativi che porta (tante) aziende a scegliere solo in base al prezzo fino al limite di puntare a non retribuire i servizi di cui hanno bisogno? Secondo me da solo non basta perchè un lavoro fatto male costa comunque. Un folder fatto male significa meno vendite, un evento mal organizzato implica comunque dei costi vivi, un’etichetta sbagliata abbassa il posizionamento del prodotto.

La percezione di assoluta fungibilità tra le diverse opzioni di servizi creativi (ma se volete parlate con un avvocato, la stragrande maggioranza ha lo stesso problema) che porta a scegliere solo in base costo, portandolo possibilmente a 0, è un atteggiamento predatorio (estremizzo) simmetrico a tanti anni del medesimo comportamento da parte delle agenzie (ho detto che sto estremizzando). Un po’ non ho la garanzia che pagando (di più) ottengo risultati migliori, un po’ sfrutto la posizione di (maggior) forza adesso che posso.

La situazione (forse) non sarebbe, e non è, così estrema in presenza di un rapporto di effettiva fiducia e collaborazione tra agenzie e clienti. Se i fornitori non ti chiamassero per proporti lo stesso gadget dell’anno prima al 15% in meno (sa, se lavoriamo direttamente possiamo risparmiare), se i designer non proponessero a due anni di distanza le stesse soluzioni scartate per un’altro prodotto facendo finta di niente (Davvero? Scusa ma abbiamo cambiato l’account. Ossia il responsabile clienti, n.d.a.), se non facessero seguire le campagne stampa nazionali agli stagisti (con io che vedendo l’errore nella bozza di stampa gli spiegavo dove si erano sbagliati i creativi rispetto alle proposte e lei che insisteva che no, che assolutamente, che avevano controllato tutto).

Poi c’è un punto che credo sfugga a buona parte dei giovani creativi, un po’ per inesperienza un po’ per scarsa/cattiva formazione: la creatività in sè non è quasi mai l’elemento discriminante nella scelta dell’agenzia con cui lavorare. La discriminante è la capacità/volontà della struttura di dare risposte creative coerenti alle esigenze di comunicazione del cliente in modo continuo e costante nel tempo e nello spazio.

Un reparto creativo qualche buona idea la produrrà sempre, se non altro per statistica, ma è l’impostazione complessiva del lavoro che garantisce che l’agenzia sarà in grado di fornire soluzioni efficaci per me come ha fatto in passato per altri. E quando ho cambiato agenzie (e ne ho cambiate un po’) è stato perchè si era persa la capacità e/o la volontà di sforzarsi per trovare soluzioni originali alle nostre necessità. Gli stessi creativi che mi avevano fatto campagne eccellenti, che vincevano i premi a Cannes con campagne fatte per altri clienti, non erano più in grado di dare a noi risposte altrettanto buone.

E non è vero che non si possano pianificare e misurare efficacia e valore del lavoro creativo nel fornire soluzioni di comunicazione. Però bisogna esserne capaci e non ha niente a che vedere con l’arte.

Concludo con alcune precisazioni:
- non è vero che nessuna agenzia non mi abbia mai proposto campagne a basso costo efficaci. Devo rendere merito a Marco Durazzi di aver sviluppato nel 2005 per Keglevich la campagna virale Your Fun quando dirigeva EuroRSCG 4D (costola di EuroRSCG che si occupava di promozioni e avd digitale).
- non ho mai pagato gli stagisti (a parte il rimborso dei pasti). Ho sempre avuto solo stagisti veri, ossia persone che all’interno del loro percorso di formazione dovevano passare un periodo in azienda. Li ho sempre coinvolti nel lavoro come un qualsiasi componente del gruppo così potevano imparare cosa succede davvero in azienda (si hanno anche fatto le fotocopie quando serviva). Spesso hanno chiesto di prolungare lo stage oltre il tempo previsto.
- non ho mai fatto lavorare gratis nessuno. A volte è stato difficile, perchè con persone veramente alle prime armi, quando ho chiesto un preventivo mi sono sentito chiedere quale era il budget. Ora se tu sei un professionista DEVI sapere quanto vale il tuo lavoro e se io sono un professionista a questa domanda devo rispondere “non c’è budget” e aspettare la tua controproposta. Dopodichè so’ ragazzi e vanno aiutati.
- non discuto (quasi) mai nel merito le richieste economiche delle agenzie perchè ognuno è libero di dare al proprio lavoro il valore che ritiene opportuno, soprattutto quando i costi vivi sono bassi. Le confronto sempre con le risorse disponibili per quel progetto e con il costo di soluzioni che valuto equivalenti.
- per certi lavori per cui le risorse erano limitate, inferiori alla media di mercato, ho segnalato quelle che potevano essere le ricadute di visibilità, addirittura di divertimento date dall’originalità dei progetti. In trasparenza, senza millantare del credito. Questo per permettere all’agenzia di fare una valutazione complessiva, considerando, se volevano, anche questi elementi. Non mi ricordo che mi abbiano detto no, nè che si siano pentiti dal non averlo fatto.
- ogni tanto l’agenzia va “frustata”. Lo dico con rammarico perchè implica fatica e perdita di tempo, ma dopo tanti anni non posso fare altro che ammetterlo. E’ necessario per farla uscire dagli impasse in cui si avviluppa perchè per pigrizia o testardaggine si blocca su punti di vista autoreferenziali. Ovvio che se vi trovate a farlo una volta sì e una volta no è il momento di cambiare agenzia.

Concludo davvero con quello che mi ha detto un giovane e bravo creativo di provincia (e di successo) l’altro giorno quando parlavamo della campagna #coglioneNO “Comunque se quando l’azienda XY mi propose un lavoro a 0 budget (detto in anticipo perchè la chiarezza è un indicatore di serietà ed affidabilità) avessi detto no, oggi non sarebbe uno dei miei principali clienti (paganti)”.

In realtà investire nel proprio tempo è più semplice che investire soldi (che magari, soprattutto agli inizi, sono pochi). Però in tutti i casi bisogna saper investire nel modo giusto.

P.S. mi scuso per il turpiloquio, ma di questo magari parlo un’altra volta.

Ha ragione Farinetti (?): ho visto il futuro (e non sono sicuro sia sostenibile).

Dunque riparto da dove ho finito la settimana scorsa.

L’opinione, qualificatissima, di Oscar Farinetti è che l’attuale ciclo economico durerà fino a all’affermazione di un nuovo modello socio-economico che sostituirà la società dei consumi. Nel frattempo la risposta più efficace sta nello sviluppo delle esportazioni e quindi suggerisce di puntare sui punti di forza del paese e quindi perseguire l’obiettivo di raddoppiare esportazioni e turisti per far uscire l’Italia dalla crisi (definendo le esportazioni come fornitura di beni e servizi a persone non residenti nel paese, il turismo diventa un’attività di esportazione all’interno dei confini nazionali).

Io questo futuro l’ho visto, anzi ci sono cresciuto dentro, e si chiama Venezia (ecco perchè dicevo che l’hanno visto anche molti di voi).

Non c’è dubbio che Venezia rappresenta uno dei maggiori giacimenti artistico-culturali italiani e mondiali (vorrei richiamare la derivazione della parola “giacimento” da “giacere” e quindi la sua intrinseca staticità).

Venezia quindi rappresenta un ottimo caso di studio degli effetti della concentrazione economica sull’esportazione (in questo caso il turismo). Malgrado sia evidente che rappresenta una punta estrema della visione farinettiana (e magari Farinetti, a buon diritto, non sarà da’accordo) è bene ricordare come lo sfruttamento “industriale” del giacimento artistico-culturale veneziano sia relativamente recente e presenti quindi ulteriori spazi di crescita.

Per una volta non cito dati oggettivi ma mi affido ai ricordi personali: trent’anni fa in Rio Terà San Leonardo (tragitto turistico dalla stazione a Rialto) c’erano le bancarelle come oggi, ma erano di frutta e verdura e non di souvenir, sulla Riva degli Schiavoni erano ormeggiati i rimorchiatori della Panfido (malgrado in bacino non passassero le grandi navi), in Punta della Dogana al posto del museo di Pineault c’erano le sedi delle società sportive ed io a Parigi mi stupivo dei bateaux-mouches pensando che a Venezia, con molte più vie d’acqua e molto più da vedere, non c’era niente di simile.

Non si tratta della solita nostalgia dei cinquantenni che appestano fb con i loro ricordi, sono esempi di come sia cambiata la struttura economica verso le attività dedicate al turismo (d’altra parte se trentanni fa arrivando al Colosseo avessimo visto delle persone vestite da antichi romani avremmo chiesto che film stavano girando).

La dimostrazione che lo sfruttamento intensivo del turismo è relativamente recente lo dimostrano gli spazi ancora inesplorati in questo senso, ad esempio il progetto Veniceland.

Il punto oggi non è chiedersi (lamentarsi) se Venezia avesse potuto seguire altri percorsi, troppo difficile ed oramai troppo inutile. La cosa interessante è guardare il caso veneziano e chiedersi se un’economia basata in larghissima misura sull’esportazione è economicamente e socialmente sostenibile.

La popolazione residente del centro storico veneziano, passata dai 95.222 abitanti del 1980 ai 58.991 del 2011 (-38%).
Questi trend demografici sembrano suggerire che lo sviluppo del turismo non è stato in grado di compensare il declino delle altre attività economiche per la società veneziana nel suo complesso.

Io personalmente dubito che riuscirà a farlo in futuro perchè il limite all’ulteriore crescita del turismo è dato dal senso senso di estraneità che crea. Quanto si può sfruttare un giacimento turistico prima che si esaurisca, se non viene rinnovato dalla società a cui appartiene (e qui società potete intenderlo sia in senso di commerciale di azienda che di società umana).

Oramai non sono solo i (pochi rimasti) veneziani a lamentarsi che Venezia è diventata talmente artificiale da sembrare (essere!) un parco di divertimenti: lo dicono anche i turisti. Continueranno a venire o ad un certo punto alla Dineyland di Venezia preferiranno la Venezia della Dineyland (sicuramente meglio organizzata, fruibile, divertente ed economica).

Se avessi i soldi per costruire Veniceland non lo farei a a Venezia (più scomodo, più costoso ed in diretta concorrenza con le pietre originale per un mercato che ha fretta), la costruirei da qualche parte sulla costa meridionale della Cina.

Solito gustafeste? Forse, però la questione Grandi Navi può essere un segnale. E’(ra) una delle ultime frontiere dell’intensificazione dello sfruttamento del giacimento veneziano, rappresenta una fonte importante di presenze ed ha rilanciato l’economia del porto. Ma ha creato il corto circuito per cui io crocerista che godo della vista di piazza San Marco dal ponte della nave che entra in porto, quando poi mi trovo in piazza San Marco sono infastidito dal passaggio della nave successiva.

Alternative? Più che in come produrre più valore aggiunto si entra nell’ambito della sua definizione, misurazione e distribuzione. Si torna al primo punto della sintesi che ho fatto la settimana scorsa del pensiero di Farinetti. Per riprendere la parole di Balasso nel suo discorso di Capodanno (minuto 2:20, se volete risparmiavi il turpiloquio) “… il problema non è l’assenza di lavoro, ma l’assenza di stipendio …”.

Sto leggendo “Perchè le Nazioni Falliscono”. I due autori riportano che l’unico caso in cui l’introduzione di una tecnologia migliore non ha portato ad un aumento della produttività delle persone è stata l’introduzione dell’ascia di acciaio nelle comunità degli aborigeni australiani (una delle civiltà più antiche del pianeta). L’effetto è stato invece un aumento delle ore di sonno grazie al tempo risparmiato con la nuova ascia per procurarsi la stessa quantità di legna necessaria.

Per il 2014 vi auguro di dormire, e quindi sognare, di più.

Ha ragione Farinetti (?)

Finalmente scrivo questo post che mi frulla in testa dallo scorso 6 ottobre, giorno dell’intervista di Oscar Farinetti alla trasmissione “Che Tempo Che Fa”, è che ho più volte annunciato in alcuni post scritti nel frattempo.
Le ragioni di questo ritardo, che confermano la caratteristica/tradizione di biscomarketing come blog “freddo”, sono diverse: la vastità del tema ed il rispetto dovuto ad una persona come Oscar Farinetti mi hanno consigliato di riflettere bene prima di esprimermi, ma, soprattutto, più riflettevo e più continuavo a cambiare idea sul fatto se lui abbia o meno ragione (e chissà che non mi capiti di cambiarla ancora mentre scrivo).
In sintesi alla fine credo che Farinetti abbia ragione sulla sua visione del futuro, d’altra parte possiede una storia personale che consiglia, nel dubbio, a credergli, e che la mia impressione che questo futuro non mi piaccia è dovuta più al fatto che tratteggia un mondo diverso da quello che conosco, piuttosto che da un peggioramento effettivo (la solita nostalgia canaglia per cui i tempi quando eravamo giovani e felici ce li ricordiamo comunque migliori).

Quindi se avete poca voglia o tempo potete anche smettere di leggere qui. Però ci sono una serie di ma (… se preferite “ma ci sono una serie di però”) che non riesco a scacciare. Se siete curiosi mettetivi comodi perchè la loro esposizione sarà piuttosto articolata, tanto che questa volta ho organizzato il post a capitoli per facilitare la lettura (volendo potete anche leggerlo anche a puntate).

Cosa ha detto Farinetti (in sintesi)
Il 6 ottobre 2013 Oscar Farinetti è stato intervistato da Fabio Fazio durante la trasmissione “Che Tempo Che Fa” in occasione dell’uscita del suo libro “Storie di coraggio – 12 incontri con i grandi italiani del vino”.
Oltre a parlare di vino, ha dato la sua visione sul futuro dell’Italia. Questa è la sintesi che ne ho ricavato io (basata sull’intervista TV, il libro, chiedo venia, non l’ho comprato).
1) Il sud del mondo è destinato ad entrare in crisi (è entrato in crisi) perchè la società dei consumi che si basa sul lavoro e sul salario è diventata dicotomica rispetto all’idea di progresso che si basa sull’invenzione di macchine e robot che annullano posti di lavoro. Su questo sono d’accordo almeno dal 30-06-2013, ma magari torno sull’argomento un’altra volta.

2) Finchè non ci inventeremo un modello sociale nuovo, ce la faranno le nazioni che esporteranno molto. Noi italiani abbiamo 5 vocazioni straordinarie, enormi, che sfruttiamo molto poco, ma abbiamo tutto il mondo che ci cerca. Siamo lo 0,83% dei cittadini del mondo, fuori c’è un 99,17% che ci guarda ed in questo momento tutti vorrebbero mangiare come gli italiani, vestirsi come gli italiani, vedere le nostre opere d’arte, poter venire in Italia.

3) L’export agroalimentare italiano vale 31 miliardi di euro, di cui 4,7 di vino (voce principale) in forte crescita sui mercati esteri. La Francia ha esportazioni di vino pari a quelle italiane in quantità che in euro valgono 11 miliardi. I nostri numeri sono talmente bassi che ci aiutano a crescere.

4) La Francia riceve ogni anno 80 milioni di turisti, l’Italia 45,7.

5) I vantaggi competitivi dei francesi sono la storia, saper fare accoglienza, la migliore organizzazione della Pubblica Amministrazione. A livello di patrimonio artistico ed enogastronomico l’Italia non è inferiore, anzi. Con 3 anni di buon lavoro si può salvare il Paese raddoppiando le esportazioni agro-alimentari e raddoppiando il numero di turisti che visitano l’Italia. Questo implica un aumento di volume d’affari pari a 150 miliardi di euro, quindi 42 miliardi di tasse nette che entrano nelle casse delle istituzioni.

I miei “ma” competitivi, ovvero il mondo è uno e siccome vogliono starci tutti le dinamiche concorrenziali raramente sono a somma positiva
Inizio con i dubbi legati allo scenario competitivo e non con quelli operativi perchè ho abbastanza esperienza di azienda per aver visto con i miei occhi come la forza di volontà di un imprenditore competente (il “coraggio” secondo la definizione di Farinetti) riesca da sola a costruire proposte in precedenza apparentemente inesistenti o finanche impossibili (Le scoperte consistono nel vedere ciò che tutti hanno visto e pensare ciò che nessuno ha pensato. – Albert Szent Gyorgyi via Pier Luca Santoro), in grado di rispondere alle richieste/desideri del mercato meglio di quelle disponibili fino a quel momento. il successo delle nuove idee rende evidente come quelle precedenti siano (fossero) obsolete e destinate quindi a ridimensionarsi in minore o maggior misura (Video killed the radio stars cantavano i Buggles nel 1979).
Eataly è un perfetto esempio in questo senso.
Le logiche competitive che valgono a livello di singola azienda non funzionano allo stesso modo a livello di sistema dove si ha crescita solamente se è positiva la somma dei risultati di tutti gli operatori dello scenario.
In altre parole l’indubbio successo dell’apertura di Eatily a Torino diventa una crescita del sistema agro-alimentare solamente se il suo volume d’affari (per definizione incrementale) supera il calo degli altri negozi in cui facevano la spesa i clienti di Eataly.
Nell’agroalimentare la somma degli effetti competitivi è positiva più raramente che in altri settori perchè, per definizione, tutti mangiano da quando nascono. Una crescita complessiva del mercato è quindi possibile solamente se ci sono più bocche che mangiano oppure se le stesse bocche mangiano di più. Viceversa, ed i trend demografici del nord del mondo vanno in questo senso, lo sviluppo competitivo avviene per sostituzione (lo stesso numero di bocche, o meno, mangiano la stessa quantità, o meno, di cose diverse). Concedetemi, per semplictà di esposizione, di tralasciare per il momento l’effetto prezzo.
L’innovatività del concetto di Eataly è talmente fenomenle da innescare tendenze che superano i confini dei suoi punti vendita: la crescita delle gelaterie Grom, l’inserimento delle bibite Lurisia anche nel mio supermercato Coop, la diffusione della birra Menabrea sono i primi esempi che mi vengono in mente. Però io non è che mangio più gelato perchè vado da Grom invece che da Zampolli.
Però Farinetti parla di raddopiare le ESPORTAZIONI dell’agroalimentare italiano. Al di là del vago senso di colonialismo culturale, le domande sono due: 1) su che mercati? 2) Come reagiranno i Paesi/produttori a cui porteremo via vendite?
Attualmente le esportazioni agro-alimentari italiane sono concentrate nei mercati occidentali, in cui la penetrazione è stata favorita anche dalla presenza delle comunità italiane create dall’emigrazione. Malgrado siano mercati maturi dal punto di vista economico e, nel caso dell’Europa, anche dal punto di vista demografico, sono ancora quelli che mostrano la maggior crescita assulta. Difficile però pensare di raddoppiare i livelli attuali di esportazione. Quindi tutti guardano all’estremo oriente, Cina in primis, per i tassi di sviluppo sia economico che demografico. Rispetto ai paesi occidentali si tratta però di nazioni con culture alimentari molto più ricche e sofisticate, come dimostra il fatto che sono già diffuse in tutto il mondo (senza tener conto che i cinesi in assoluto non mangiano formaggi). In realtà si tratta di paesi in cui è molto più semplice introdurre il vino rispetto agli alimenti italiani.
Su quella che può essere la risposta dei nostri concorrenti ad un RADDOPPIO delle nostre esportazioni, ricordo gli accordi bilaterali che la Cina ha stipulato con Australia e (credo) Cile per una sostanziale riduzione dei dazi di importazione. Segnalo anche che tra le 100 things to watch in 2014 secondo JWT intelligence c’è il vino cinese (la Cina è già il quinto produttore mondiale di vino).
Visto che si parla di vino permettetemi una parentesi. Il vino italiano in maggior crescita in Italia ed all’estero è il prosecco spumante. Le ragioni del suo successo sono sostanzialmente l’immediatezza e la piacevolezza sensoriale (del gusto) e la relativa omogeneità qualitativa tra le diverse cantine. Gli stessi fattori che lo rendono poco interessante per gli esperti e quindi avulso alle classiche (trite) ritualità del mondo del vino. Sarà un caso che tra i grandi del vino intervistatida Farinetti non c’è nessun produttore di prosecco?
Bastano come dubbi? In realtà no, perchè la possibilità di “salvare” il Paese puntando sulle esportazioni è tale solamente se la loro crescita superi il calo di consumi nazionale (nuovamente, il sistema azienda è diverso e più semplice del sistema Paese).
Nel caso del vino questo non si è verificato. Negli ultimi anni si è ridotto il numero di aziende viticole, la superfice dei vigneti e la produzione complessiva di vino (per approfondimenti qui trovate un mio post ospitato sul blog “Vino al Vino” di Franco Ziliani ed altri li potete trovare su biscomarketing) a causa del calo dei consumi interni. In altre parole, negli ultimi anni il settore del vino italiano nel suo complesso si è ridotto. Malgrado la crescita delle esportazioni oppure (anche) a causa dello strabismo del settore nei confronti dei mercati esteri? Io la mia l’ho già detta e la trovate qui.

Le stesse considerazioni valgono in linea di massima anche per quanto riguarda il turismo. 40 milioni di turisti in più in Italia, o sono 40 milioni di persone che prima non facevano turismo, oppure smettono di andare dove andavano prima. Considerando la dimensione dei numeri, e quindi del business, in entrambi i casi i nostri concorrenti nel mercato turistico si impegneranno a fondo per attirare, o mantenere, queste persone. Immaginate cosa significherebbe per l’economia francese perdere non 40, ma anche solo 4 milioni di turisti.

I miei “ma” operativi, ovvero tra il dire e il fare va risolta la questione strutturale
Qui la questione è molto più semplice.
Per raddoppiare le esportazioni bisogna avere la capacità produttiva per farlo.
Rimango nel caso del vino: le esportazioni coprono circa il 50% della produzione vinicola italiana quindi raddoppiare le esportazioni significa aumentare la produzione del 50% (assumendo costante la quantità destinata al mercato interno, altrimenti la crescita complessiva è inferiore e non si raggiunge l’obiettivo). Anche ipotizzando un aumento del prezzo medio unitario del 15% (un’enormità in termini di rapporti competitivi) è necessario una crescita dei volumi prodotti pari al 35%.
Una crescita di questa entità è semplicemente tecnicamente impossibile.
Lo stesso vale per tutti i prodotti a Denominazione d’Origine o Indicazione Geografica (per capirsi Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Prosciutto di Parma e San Daniele, ecc..).
Ma anche per gli altri prodotti alimentari appare estremamente difficile, tanto più considerando la continua riduzione di suolo agricolo causata dallo scempio dell’inutile consumo di suolo.
Per il turismo la situazione è meno drastica, ma credo sia comunque necessario chiedersi dove mettiamo e come muoviamo 40 milioni di turisti in più.

Questi i “ma” (i “ma” istituzionali, l’esempio citato da Farinetti che in Francia il vino è controllato da 2 enti mentre in Italia da 10, che forse diventeranno 11, non li considero, perchè la visione/proposta di Farinetti implica il superamento di questi limiti), però, come ho detto all’inizio, alla fin fine Farinetti ha ragione nella sua visione del futuro.

Io ci sono stato (anche molti voi, fidatevi) e la settimana prossima ve lo racconto.