Implicazioni del marketing totale: persone e marche si confrontano ad armi pari, lo spot (anti)Doritos.

Questo post comincia con lo spot Dorito, guardatelo cliccando qui (anche se l’avete già visto, dura solo 1,16 minuti) e poi leggete.

L’avete visto? Fino al secondo 43, secondo me il più bello spot Dorito mai realizzato (qui una compilation dei migliori 11 della storia).

Ha l’autoironia che solo le grandi marche possono permettersi, la passione dei protagonisti per il prodotto è talmente caricaturale da diventare coinvolgente, la produzione è ottima (scenografia, regia, fotografia, recitazione). La forza della sceneggiatura è dimostrata dal fatto che lo spot non ha bisogno di dialoghi per far passare il messaggio, cosa che lo rende un spot perfetto per il mercato globale che richiede di andare all’essenza superando la barriera della lingua.

Talmente bello e forte che persino quando appare la prima scritta “Dorito può contenere tracce di foresta pluviale” ho pensato che Dorito avesse lanciato un’iniziativa per la salvaguardia di x ettari di foresta. Giuro. A voi non è successo?

Poi se volete vi guardate i vari commenti dei fan di Doritos, di chi dice che era ovvio, di chi vorrebbe del contradditorio (che per definizione non può esserci nella comunicazione pubblicitaria), ecc…

Per me il punto è che questo spot dimostra con una chiarezza raramente vista prima che le persone e le marche oramai si confrontano ad armi pari perchè:

- la diffusione della “pubblicità” dipende oggi principalmente dal contenuto (messaggio) e dalla qualità della forma piuttosto che dalla forza (leggi budget) della pianificazione.

- le tecnologie audiovisive digitali hanno ridotto fortemente i costi di produzione, riducendo la differenza nella qualità degli spot dovuta lìalle disponibilità finanziarie.

- la creatività fatta per passione è mediamente di quella fatta per lavoro (e se sono un giovane regista che deve lavorare semigratis per Doritos, forse non mi cambia molto lavorare gratis contro Doritos).

- le (persone) nelle ONG sembrano aver preso coscienza che il marketing serio è “Truth well told” (come recita il motto dell’agenzia di pubblicità McCann & Erickson) e non manipolazione per irretire e dominare le persone. In altre parole il marketing è una tecnica, uno strumento, che non ha in sè un’etica ma prende quella di chi lo usa. D’altra parte è (anche) grazie al marketing ed alla pubblicità che a suo tempo cadde il governo Pinochet in Cile.

Consumers (people) never sleep, per parafrasare Neil Young. Gestire delle marche ai tempi del marketing totale significa ricordarsi di essere sotto scrutinio costantemente, ovunque e per sempre. E cercare di ricordarsi che le persone (i consumatori) sono bravi almeno quanto te, se non di più.

Da professionista di marketing (forse) è questa la causa del mio bruxismo, ma da cittadino non posso che esserne contento.

Le conseguenze della crisi economica: il ritorno del lusso.

Più ci penso e più questo post diventa complicato. Non tanto perchè nessuno a raccolto il mio appello per segnali a sostegno del ritorno del lusso lanciato lo scorso 24 febbraio, ma perchè mi viene difficile parlare delle conseguenze della crisi senza fare un’analisi della crisi stessa.

Che però è un argomento troppo tosto per affrontarlo alle 10 di sera, cercando di non dire banalità, stupidaggini e di scrivere 10 cartelle.

Cerco allora di circoscriverlo ai fini dell’argomento lusso e poi magari continuerò la serie “Le conseguenze della crisi economica…” su altri aspetti.

La premessa generale è che la crisi è strutturale. Che sia conseguenza di un’accelerazione di cambiamenti socio economici strutturali che erano già in atto o che la crisi economica li abbia generati tout-court, non importa. Il risultato non cambia, ed il risultato è che la conclusione di questa crisi avverra in seguito a modifiche dell’attuale struttura socio-economica.

Mi scuso se sembro banale e tautologico, però l’enunciazione “la crisi è strutturale” l’abbiamo sentita tante di quelle volte da dimenticare l’ovvia conseguenza che se ne esce (non è detto che positivamente) solo attraverso un cambiamento altrettanto strutturale. Ce lo siamo dimenticati anche perchè la grandissima maggioranza delle soluzioni proposte sono state congiuntutali, tese ad aumentare afficacia ed efficienza delle attuali strutture (materiali ed immateriali) più che a definirne delle nuove.

Uno di questi cambiamenti strutturali in atto è il ritorno del lusso. Non del lusso accessibile o del lusso democratico, che anzi tendono a ridimensionarsi, ma del lusso lusso.

Tutta una serie di prodotti e servizi tornano ad essere appannaggio di una minoranza della popolazione e quindi riacquistano la loro valenza apirazionale.

Uno dei segni che cercavo per confermare questa cosa che mi frullava nella testa l’ho trovato sullo scaffale del supermercato sabato facendo la spesa: sulla confezione di una nota marca di tigella (finiti i bei tempi di quando avevo il tempo di farmi le crescentine in casa, a Modena) si annunciava il concorso che metteva in palio 60 crociere nel Mediterraneo.

Dubito che solo 5 anni fa avrebbe avuto lo stesso appeal sul consumatore. Dieci anni fa dovevamo trovare il premio per un concorso della Vodka Keglevich e ci mettemmo un po’ a deciderci per il New Beetle Volkswagen, uscito da poco. A parte la coerenza tra lo “stile di vita” della Kegleviche del New Beetle, l’esclusività derivava anche dal fatto che per comprarla in concessionaria le attese erano lunghe.

Quello che voglio dire è che solo 5 anni fa il premio di una crociera nel Mediterraneo avrebbe fatto sognare un segmento limitato dei consumatori italiani. Tolti quelli a cui una crociera non interessa, la maggior parte degli altri o l’aveva già fatta oppure se la poteva comprare quando voleva.

In termini di marketing strategico e operativo le implicazioni sono parecchie. Diventa inutile tutto il castello teorico che avevo costruito nel 2008 sul concetto di “lusso inclusivo”, mentre diventano più importanti per i beni di largo consumo i concetti di bare bones marketing e di marketing democratico.

Il linkare vecchi post non è solo stanchezza, è che nei momenti di confusione vale la pena andare a ricercare i vecchi paletti su cui trovare qualche ancoraggio.

Il marketing democratico

Durante il mese di giugno ho dedicato un po’ di tempo alla lettura dei numeri arretrati di Marketing Management e Marketing News (le riviste dell’American Marketing Asocciation).
Ovviamente non sono riuscito a portarmi in pari, ed e’ un peccato perche’, come sempre, ho trovato dei concetti che mi sarebbero stati di grande utilita’ per i progetti realizzati. Meno male che comunque sono riuscito in buina parte ad arrivarci da solo quando mi e’ servito ed ho trovato anche cose che mi verranno buone per i progetti futuri.
Ad ogni modo un numero particolarmente ricco di Marketing Management e’ stato quello del novembre-dicembre 2008, dove c’era un articolo su motivi del declino del marketing all’interno delle organizzazioni e relativi rimedi (argomento fondante di biscomarketing) ed uno sul marketing democratico. Oggi volevo riportare una seintesi di quest’ultimo.
L’analisi prende le mosse dal successo della campagna “Evolution” realizzata nel 2006 per il sapone DOVE dell’Unilever dall’agenzia Ogilvy & Mather, nella quale in un minuto si mostra l’evouzione di una normale ragazza in una modella da copertina attraverso il make-up e l’uso di photoshop per concludere con lo slogan “Non c’è da stupirsi se la nostra percezione della bellezza è distorta”.
Alla base della campagna c’era una nuova definzione della mission della marca: “la missione di DOVE è far sì che più donne si sentano belle ogni giorno allargando la ristretta definizione di bellezza ed inspirandole a prendersi cura di sè stesse”.
Detto in altre parole, quelle di Philippe Harousseau, Direttore dello sviluppo della marca: “Se tu non sei adamantino riguardo alla mission della marca non puoi controllare cosa succede quando le persone la amplificano. Tutti coloro che lavorano in Dove le conoscono a memoria. La nostra nozione di bellezza non è elitaria, è celebrativa, inclusiva e democratica.”
Con il termine democratico gli autori intendono il fatto che i consumatori giocano un ruolo maggiore nel mercato e di conseguenza l’aspettativa che il marketing porti benefici anche alla società in generale.
Si basa innanzitutto sul rispetto per il consumatore; come dice Leonard Marsh, uno dei fondatori della Snapple Beverage Company, “Noi non abbiamo mai pensato di essere meglio dei nostri consumatori”. Può sembrare una banalità, ma chi ha frequentato le aziende sa quanto spesso si propongano (e talvota si realizzino) strategie basate sul presupposto che tanto il consumatore è, in qualche misura, ignorante.
Gli autori quindi definiscono i 6 principi del marketing democratico:
Scambio: lo scambio tra un compratore ed un venditore può creare valore per ognuno ed anche aggiungere valore alla società. Gli scambi sono giusti, equi e socialmente responsabili.
Consumo: il marketing offre ai consumatori l’opportunità di consumare prodotti e servizi innovativi che migliorano la qualità della vita. Non promuove il consumo di beni e servizi che danneggiano i cosnumatori.
Scelta: la scelta segna un equilibrio tra diversità e confusione. Esistono significative differenza tra scelte e benefici, reali e percepiti, che nascono dalla disponibilità di scelte diverse.
Informazione: gli operatori del mercato informano i consumatori con la minima intrusione. Forniscono informazioni interessanti e rilevanti. Proteggono scrupolosamente le informazioni relative ai consumatori che raccolgono nella loro attività.
Partecipazione: gli operatori del mercato danno ai consumatori il potere di realizzarsi, li coinvolgono nello sviluppo dei beni e servizi, li sollecitano ed ascoltano e si comportano di conseguenza alle informazioni fornite dai consumatori.
Inclusione: gli operatori del mercato si rivolgono a tutti i consumatori, rispettando i diversi valori e le diverse culture.
Quest’ultimo punto può essere descritto anche come universitalità del marketing democratico, che tratta tutti gli individui come potenziali clienti.
Evidentemente si può vedere tutta questa analisi con gli occhi del cinismo e dire che si tratta solo di belle parole che hanno l’obiettivo di far apparire il marketing sotto una luce positiva, che in realtà non ha.
Io però, a parte l’esempio di DOVE riportato nell’articolo, se penso ad alcuni casi di successo negli ultimi anni (il primo che mi vien in mente è Diesel e prima ancora Benetton, per rimanere nel tessile) ritrovo questo tipo di approccio.
Leggendo poi ho anche ritrovato il concetto di lusso inclusivo sviluppato a suo tempo ed un supporto alla mia sparata sulla marginalizzazione del marketing come una delle concause della crisi economica mondiale.
Infine la scarsa diffusione del marketing democratico si può collegare anche al suo declino nelle aziende e nella società.
Il prossimo post quindi sarà dedicato all’articolo che analizza qesta situazione.

La marginalizzazione del marketing e la crisi economica mondiale

BUUUUMM! E’ il mio ego che è esploso, sarà l’effetto Al Bano. Però questo post mi è venuto in mente mentre scrivevo la serie sulle terapie e quindi non scriverlo sarebbe stato un po’ (sana) modestia ed un po’ disonestà intellettuale. alla fine la vanità ha prevalso e quindi eccolo qui.
Senza avere la pretesa di affrontare l’argomento delle cause e soluzioni dell’attuale crisi economica mondiale (un minimo di sanità mentale mi è rimasta), ho l’impressione che se la funzione marketing nelle aziende avesse mantenuto almeno il peso che aveva una decina di anni fa, FORSE la crisi non avrebbe raggiunto la gravità che stiamo vivendo.
Al di là delle cause tecniche (come le precondizioni di rischio create dalla riforma del sistema finaziario dei tempi di Reagan, la velocità degli scambi finanziari, i mancati controlli, la politica sui tassi di cambio ecc…), la mega bolla è stata gonfiata da un atteggiamento del sistema, finanziario innanzitutto, concentrato esclusivamente sul COME, tralasciando completamente il cosa e meno che meno il perchè.
Una visione legata al portato culturale delle funzioni che attualmente giocano il peso maggiore nelle aziende: finanza e vendite.
E’ fisiologico che la finanza sia favorevole ad elevati ritorni a breve sugli investimenti e che supporti quindi l’altrettanto naturale orientamento delle vendite di dare al mercato quello che si vende meglio.
D’altra parte la misura dei risultati della funzione finanziaria è il ritorno (scegliete voi se preferite ROI, ROE o EBIT) e quello della funzione vendite è il numero di contratti chiusi/di ordini consegnati.
Questo modus operandi rischia però di diventare patologico (come in realtà è stato), se non è bilanciato da una visione del business anche nel periodo medio-lungo, di fidelizzazione del cliente, di soddisfazione articolata dei suoi desideri nell’intero processo di fruizione del prodotto (mutuo, salame, o bicicletta che sia), al di là della semplice vendita.
Tutti elementi tipici della cultura di marketing strategico, o almeno di quella che dovrebbe essere il contributo culturale che il marketing strategico porta in azienda.
Allora, forse, una delle terapie contro la marginalizzazione del marketing (poi giuro che chiudo l’argomento) potrebbe essere anche la necessità di un rinnovamento della cultura aziendale, dove le esigenze e richieste degli stakeholders trovano maggiore considerazione rispetto ad oggi, al di là delle dichiarazioni che si scrivono nelle relazioni di bilancio e sui siti aziendali.