Le conseguenza della crisi economica: occupazione e disoccupazione in Italia – 1.

Confesso che questo post continuavo a rimandarlo perchè l’argomento contiene in sè una dose di tragedia che rende difficile e cinico trattarlo con la necessaria astrattezza.

Però mi è sembrata la naturale conclusione della serie di considerazioni sulle conseguenze della crisi economica, visto che il calo dei consumi in un economia consumistica non può che portare ad un calo dell’occupazione. Quindi, per una (strana) forma di onestà intellettuale mi sembrava scorretto sottrarmi a questo post.

C’è poi un altro motivo che mi ha portato a riflettere sull’argomento: se c’è una questione per cui si arriverà a cercare e formulare il nuovo paradigma economico di cui si parla del 2008, questa è quella del lavoro.

Riguardo alla vergogna di dire delle stupidaggini su un tema cruciale per la vita di tante persone, ho quanto meno la tranquillità che non potrò far peggio dei docenti di Harvard teorici della regola che un debito oltre al 90% del PIL frena la crescita delle nazioni: uno studente di dottorato ha dimostrato che il loro studio si basa su dati lacunosi e sbagliati per gli errori nel definire l’intervallo delle celle in alcune somme del foglio excel utilizzato nei calcoli (chiedo scusa se i riferimenti sono in spagnolo, ma ovviamente la stampa italiana era troppo occupata a tessere le lodi dell’abilità negoziatoria che ha permesso di formare il governo più golpista della storia repubblicana per occuparsi di notizie così marginali).

Comincio allora dai freddi numeri, cercando di fare attenzione.

Secondo quando riportato dallo studio dell’Istat sulle serie storiche di occupati e disoccupati in Italia dal 1977 al 2012 durante questi 35 anni:
- il numero medio degli occupati annui è cresciuto di oltre 3 milioni (da 19.551.000 a 22.899.000).
- il tasso di occupazione era del 54,6% nel 1977, ha raggiunto il minimo del 52,5% nel 1995, il massimo con il 58,7% nel 2008 ed era del 56,8% nel 2012.
- il numero dei disoccupati è cresciuto nel periodo di circa 1,5 milioni di persone (non è in contrasto con l’aumento degli occupati, perchè dipende dal numero di persone in cerca di lavoro) da 1.340.000 nel 1977 a 2.744.000 nel 2012.
- il tasso di disoccupazione (misurato sul totale della forza lavoro e non della popolazione) era del 6,4% nel 1977, ha raggiunto il massimo nel 1998 con 11,3%, il minimo nel 2007 con il 6,1% ed era del 10,7% nel 2012.
- il numero della popolazione inattiva tra i 15 ed i 64 anni è diminuito di circa 600.000 persone, passando da 15.000.000 a 14.386.000. Questo è il risultato di due tendenze contrapposte: aumento degli uomini inattivi e calo delle donne inattive.
- la % di lavoratori dipendenti è cresciuta dal 68,8% al 75,2%, fenomeno interamente riconducibile al lavoro dipendente femminile aumentato dal 66,9% all’81,7%, mentre per gli uomini l’aumento è inferiore all’1%.
- in termini territoriali il tasso di disoccupazione è cresciuto dal 5,8% al 7,4% al Nord, dal 5,5% al 9,5% al Centro e dall’8% al 17,2% al Sud (dato prevedibile ma non per questo meno grave).
- la disoccupazione giovanile a livello nazionale è cresciuta dal 21,7% al 35,3% (tra l’83 e l’87 oscillava comunque intorno al 32%-34%). Anche qui grandi le differenze territoriali con il dato 2012 che vede il 26,6% al Nord, 34,7% al Centro ed il 46,9% al Sud.

Questi quindi i trend di lungo periodo, quali quelli a breve?

Il dato più aggiornato disponibile è quello relativo al IV trimestre 2012, confrontato con lo stesso periodo dell’anno precedente.

Riporto integralmente dal dosumento dell’Istat

Il mercato del lavoro nel IV trimestre 2012 (dati grezzi)
- Nel quarto trimestre 2012 il numero degli occupati (dati grezzi) diminuisce di 148.000 unità rispetto a un anno prima. Il risultato sintetizza il nuovo andamento negativo dell’occupazione maschile (-196.000 unità), a fronte del moderato incremento di quella femminile (+48.000 unità). Peraltro, al persistente calo degli occupati più giovani e dei 35-49enni si contrappone l’aumento di quelli con almeno 50 anni.
- La riduzione tendenziale dell’occupazione italiana (-246.000 unità) si accompagna alla crescita di quella straniera (98.000 unità). In confronto al quarto trimestre 2011, tuttavia, il tasso di occupazione degli italiani segnala una riduzione di 0,3 punti percentuali e quello degli stranieri di 0,9 punti percentuali.
- Nell’industria in senso stretto si accentua la flessione avviatasi nel primo trimestre 2012, con un calo tendenziale del 2,5% (-117.000 unità), concentrato nelle imprese di media dimensione. Continua la riduzione degli occupati nelle costruzioni (-4,6%, pari a -81.000 unità). Il terziario continua a mostrare una crescita dell’occupazione (+0,5%, pari a +76.000 unità), dovuta all’aumento delle posizioni lavorative sia dipendenti sia autonome.
- L’occupazione a tempo pieno continua a diminuire (-2,3%, pari a -441.000 unità), soprattutto tra i dipendenti a carattere permanente. Gli occupati a tempo parziale aumentano ancora in misura sostenuta (+7,9%, pari a 293.000 unità), ma si tratta nella quasi totalità dei casi di part-time involontario.
- Si arresta la crescita dei dipendenti a termine, cui si accompagna la diminuzione dei collaboratori (-4,8%, pari a -20.000 unità rispetto a un anno prima).
- Il numero dei disoccupati manifesta un ulteriore forte aumento su base tendenziale (+23,0%, pari a 559.000 unità). L’incremento, diffuso su tutto il territorio nazionale, interessa entrambe le componenti di genere e in oltre la metà dei casi persone con almeno 35 anni. La crescita è dovuta in un caso su due a quanti hanno perso la precedente occupazione.
- Il tasso di disoccupazione trimestrale (dati grezzi) è pari all’11,6%, in crescita di 2,0 punti percentuali rispetto a un anno prima; per gli uomini l’indicatore passa dall’8,7% del quarto trimestre 2011 all’attuale 10,7% e per le donne dal 10,8% al 12,8%. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni sale al 39,0% (6,4 punti percentuali in più nel raffronto tendenziale), con un picco del 56,1% per le giovani donne del Mezzogiorno.
- Si riduce la popolazione inattiva (-3,2%, pari a -465.000 unità), principalmente a motivo della discesa di quanti non cercano e non sono disponibili a lavorare. All’aumentata partecipazione delle donne e dei giovani si accompagna la riduzione degli inattivi tra 55 e 64 anni, presumibilmente rimasti nell’occupazione a seguito dei maggiori vincoli introdotti per l’accesso alla pensione.

Integro il “cibo per la mente” con alcune citazioni:
da “L’Internazionale” del 22 marzo 2013 l’estratto di un discorso di Enrico Berlinguer (il fatto che fosse per storia e cultura uomo di apparato e lo ritenga il legittimatore della partitocrazia, non significa che tutto quello che ha detto fosse sbagliato)
“L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l’austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è così per noi.

Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi si manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata. (…)

L’austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo, per un rigoroso risanamento dello stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell’uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate”.

Enrico Berlinguer, 15 gennaio 1977. Conclusioni al convegno degli intellettuali, teatro Eliseo di Roma.

Gianroberto Casaleggio: “La vita non è lavorare 40 ore alla settimana in un ufficio per 45 anni. Stavano meglio gli irochesi e i boscimani che dovevano lavorare un’ora al giorno per nutrirsi.”

Elsa Fornero, quando era Ministro del lavoro e delle politiche sociali: «Stiamo cercando di proteggere le persone, non i loro lavori. L’attitudine della gente deve cambiare. Il lavoro non è un diritto; dev’essere guadagnato, anche con il sacrificio»

Bersani e Berlusconi trovano l’accordo per Marini Presidente; io mi sono iscritto al M5S

Avevo in mente un post ficcante, lucido nella diagnosi e convincente sul da farsi.

Poi mi è venuta in mente l’amaca di ieri dove Michele Serra spiegava con la consueta (spocchiosa) arguzia invitava il M5S a non osteggiare la candidatura di Rodotà sulla base di un “pregiudizio così ridicolo da assomigliare a una supersistizione” (cito testualmente) e l’articolo di fondo del Corriere di oggi dovo l’articolista (mi scuso ma sul web non lo trovo ed il nome proprio non lo ricordo) spiegava che i deputati non possono sottostare ad un vincolo di mandato, viceversa rischiano di trasformarsi in semplici portavoce dei capi di partito (ma quest’uomo qui vede cosa succede nel pase, qui un piccolo esempio, o vive nel Principato di Freedonia?

Allora mi sono detto che di raffinati smartasses (scusate, ma la traduzioen “furbacchioni” non mi piaceva) in giro ce ne sono anche troppi, molto più titolati di me.

Niente più di utile da dire, meglio lasciar parlare i fatti: mi sono iscritto al Movimento 5 Stelle.

Le conseguenza della crisi economica: l’evoluzione dei canali distributivi in Italia – 3

Dunque, dopo aver passato lo scorso fine settimana al Vinitaly e quello prima al ProWein, il prossimo sono a Chicago. L’unico fine settimana in un mese in cui sono a casa arriva finalmente la primavera ed io d avenerdì ho un fortissimo raffreddore con conseguente afonia ed eruzione cutanea (???). Niente cavallo, niente orto, niente di niente. volendo vedere il bicchiere mezzo pieno (o forse solo 1/4), la situazione ideale per concludere la saga sull’evoluzione dei canali distributivi. Spero di non aver preso qualche strano virus asiatico, con tutti i cinesi che ho visto, e parto.

Nei due post precedenti in sintesi volevo dire che in una fase di strutturale stagnazione demografica e (quindi) economica non sarà la convenienza fine a se stessa a far ripartire i consumi. Non sarà nemmeno quello che permettera di aumentare le quote di mercato, perchè nel momento in cui diventa la base dell’offerta di tutti, automaticamente non è più differenziante. L’unico risultato certo sono l’aumento medio del surplus del consumatore, in seguito all’offerta generalizzata di prezzi inferiori rivolta ad un paniere più ampio di prodotti ed a segmenti più ampi di consumatori, e la simmetrica riduzione dei margini della distribuzione. Di per sè ptrebbe anche essere una cosa positiva, fino al giorno in cui la ferramenta che vi faceva il colore che vi serviva non è costretta a chiudere.
L’esempio più emblematico di questa eccessiva corsa allo sconto è il diffondersi delle svendite di fine stagione negli outlet, format che basa la sua essenza sulla vendita di capi delle stagioni passate a prezzi di svendita. Quante paia di scarpe può avere un uomo o un donna (niente battute sessiste)?. Quanti divani, poltrone e sofà può comprare una persona in vita sua?
Per capire quale potrà essere l’evoluzione dei canali distributivi in Italia credo sia utile innazitutto recuperare un concetto di marketing di qualche anno fa e poi passato di moda: il ciclo di vita del consumatore. E’ passato di moda talmente presto che non ho trovato riferimenti in italiano e quelli in inglese si riferiscono in realtà a due aspetti diversi: i diversi stadi del rapporto del consumatore con l’azienda e i diversi comportamenti di spesa delle persone a seconda della fase del ciclo di vita in cui si trovano. Questo secondo me è l’aspetto più autentico ed interessante, soprattutto perchè i comportamenti di acquisto vengono associati alla fase relativa del ciclo di vita delle persone a non alle loro caratteristiche demografiche assolute. Detto in altre parole le coppie che hanno il primo figlio mostrano comportamenti di acquisto simili, indipendentemente dall’età dei componenti, mentre persone con profilo demografico simile hanno comportamenti di acquisto diversi se si trovano ad uno stadio diverso del loro ciclo di vita.
Mi aspetto quindi che l’evoluzione dei canali distributivi in Italia andrà nella direzione di maggior efficenza che porterà a:
- crescita dell’e-commerce che unisce minori costi di gestione e di usufruizione all’ampiezza dell’assortimento. Questo può rappresentare un’opportunità per reti di negozio esistenti che possono diventare punti di ritiro degli ordini fatti on-line (alternativa più pratica rispetto alla consegna a domicilio per vari segmenti di consumatori).
- crescita dei punti vendita di prossimità (ed infatti i supermercati tengono), con una trasformazione degli assortimenti che aumenteranno in ampiezza (per dare maggior servizio) e si ridurranno in profondità per essere meglio gestibili sia da parte del negozio che del consumatore che ci fa la spesa dentro.
- trasformazione delle reti vendita in reti di consulenti. Questo fenomeno si è già verificato circa vent’anni fa nell’industria mangimistica e credo che sia un esempio interessante. A seguito della sempre minor differenziazione del prodotto (la valutazione di un mangime si basa sui suoi componenti nutritivi, il cui contenuto è facilmente confrontabile tra le diverse marche) le aziende hanno potenziato la propria rete di vendita. Quando anche questa è diventata una caratteristica comune di tutte le aziende, le reti di vendita sono state affiancate da reti di consulenti, a quel punto la scelta di lavorare con un’azienda piuttosto che con un altra è determinata dalla capacità del consulente di far rendere di più i propri mangimi nell’allevamento dei clienti e quindi il passaggio successivo è stata l’eliminazione delle reti di vendita (poichè sono uscito dal mondo della zootecnia vent’anni fa, non so quale sia la situazione oggi. Sarebbe interessante scoprirlo, magari si trovano indicazioni interessanti per il futuro).
- crisi dei category killers secondo l’andamento delle categorie in cui operano: esaurito il drenaggio di clientela dalla piccola distribuzione tradizionale o saranno capaci di trasformarsi oppure seguiranno l’andamento delle categorie. Non c’è dubbio che le vendite di libri fisici diminuiranno (è una questione di tecnologia), o le librerie saranno in grado di ventare qualcosa di diverso, oppure chiuderanno.

Avrò ragione? Chissà! Spero solo che chi si occupa di politiche distributive si ponga queste domande e lo faccia con un minimo di progetto per evitare inutili consumi di suolo (questa sì una risorsa limitata). E’ di poche settimane fa l’inaugurazione del nuovo casello di Villesse (Gorizia) per servire quello che diventerà il più grande parco commerciale del Nordest con un bacino di utenza stimato di 1.300.000 clienti. Ora considerato che c’è già un outlet a Palmanova (10 minuti in macchina), che tutto il Friuli Venezia Giulia ha 1.236.103 abitanti e che tutta la Slovenia ne ha poco più di 2.000.000, più che il “primo tassello di un progetto importante per l’isontino” mi sembra l’ennesimo, inutile, stupro ambientale. Una volta lì era tutta campagna.

Cara Debora (Serracchiani, n.d.a.) …

…. mi permetto di darti del tu, come fai tu con me nella lettera che mi hai mandato ieri.

Confesso che l’ho ricevuta con dispiacere perchè avrei preferito ricevere una mail, come altre che mi hai già mandato: meno costi per te, meno aggravio per le poste costrette ad applicare la tariffa agevolata, meno spreco di carta (anche se io riciclo, questa è solo l’ultima opzione nel trittico riduci-riusa-ricicla). Anche da queste cose passa il cambiamento che porta all’eliminazione del finanziamento pubblico dei partiti e dei contributi ai gruppi parlamentari e consiliari, pratiche che già in linea di principio determinano un ingiustificato vantaggio per le forSe politiche già presenti nelle istituzioni a scapito di quelle che cercano di entrarci (per tacere ovviamente dell’uso disgustoso che ne è stato fatto dagli eletti, nel complice silenzio politico di tutti i partiti).
Però oramai il danno era fatto e così, visto che in passato ti ho anche votato (alle Europee, quando hai preso più preferenze di Bossi), ho aperto la busta ed ho cominciato a leggerla.
Si vede che non era la mia/tua giornata perchè già il tondo (con la minuscola mi raccomando, questa la capiscono solo gli elettori del Friuli Venezia Giulia) con la scritta “Debora Serracchiani – Torniamo ad essere speciali” è di una tristezza comunicativa sconsolante. Oramai (quasi) tutti abbiamo un’immagine che ci rappresenta nella nostra pagina twitter e tu non riesci a trovare niente che ti rappresenti? A dirla proprio tutta l’assenza del simbolo e di qualsiasi altro riferimenti al PD, mi sembra un trucco intellettualmente disonesto per staccarsi dal percepito del partito di cui fai parte. Sono in molti ad essere convinti che l’essenza del marketing e della comunicazione sia quella di ingannare le persone, però chi lo fa di professione sa che non è mai stato così ed oggi lo è sempre meno. Non a a caso il motto di una delle più grandi agenzie di pubblicità americane è “La verità, detta bene”. Aggiungo, cosciente che si tratta di una mia mania che mi trascino dai tempi della campagna di Rutelli candidato alla presidenza del consiglio, che mi piacerebbe prima o poi vedere il centro-sinistra segnare la propria diversità e capacità di cambiamento rispetto al centro-destra abbandonando questo approccio individualista e personalistico secondo cui viene proposto un leader da seguire. C’è una base teorica in termini di marketing politico a supporto di questa mia affermazione, ma senza perdere tempo in oziosi ragionamenti, credo che i risultati delle elezioni degli ultimi anni siano sufficienti a consigliare un cambio di strategia.
Pensando alla realtà dei fatti, la tua definizione delle primarie del centrosinistra come “uno dei momenti più positivi della recente politica italiana” mi ha strappato un sorriso (amaro, ma pur sempre sorriso).
Nella lettera mi chiedi di impegnarmi a fare del proselitismo a tuo favore, in termine tecnico si chiama “call to action” e quella che chiedi tu implica un forte coinvolgimento emotivo. Ora delle due l’una: o ero già convinto, e quindi la tua richiesta è superflua, oppure avrei bisogno di qualche ideale che vada al di là delle dichiarazioni di intenti elencate nel testo. In termine tecnico si chiama “engagement” e la sua base è prima emotiva che razionale.
L’unico tentativo che fai di instaurare questa comunione di spirito, prima che di intenti, è mettendola sul personale (le frasi in grassetto non bastano) però il palco casca quando si arriva all’artificialità della firma stampata. Sarà che sono un precisetti, sarà che il diavolo è nei dettagli, ma questa mancanza di autenticità mi ha fatto apparire tutta la lettera come un tentativo di irretirmi.
Ora tu mi dirai che sono naif e che non puoi firmare 40.000 lettere. A parte l’ovvio e facile “perchè no?” sarebbe stato sufficiente ripartire le lettere tra i collaboratori che si occupano della campagna (magari scegliende solo le donne per motivi calligrafici). Noi non conosciamo la tua firma ed avremmo apprezzato l’intenzione di un legame/impegno personale e la professionalità nel fare il proprio lavoro. A te però sarà sembrato invece ancora più ingannatorio …..
Cordialmente.
Lorenzo.

Le conseguenze della crisi economica: l’evoluzione dei canali distributivi in Italia – 2

Sono al Vinitaly è quindi ho pochissimo tempo, però questo flash non potevo evitarlo perchè ho sentito in radio il nuovo spot Lidl (secondo me su questo mezzo risulta ancora più forte dello spot TV che trovate qui).

In un momento in cui tutta la comunicazione e quasi tutta la proposta di prodotto/assortimento della Grande Distribuzione è appiattita sul concetto di convenienza, quando non di prezzi bassi tout-court, LIDL se ne esce con una campagna basata sulla qualità al giusto prezzo.

D’altra parte possono permettersi di dare la propria convenienza come un fatto acquisito sia per le loro politiche di prodotto (e parlando di prodotto relativamente alla grande distribuzione io intendo il punto vendita nel suo complesso di accessibilità, arredi, servizi alle casse, assortimento, prezzi dei singoli prodotti e valore del carrello complessivo) sia per gli anni di campagne “volantino” basate unicamente sulla comunicazione dei prezzi dei prodotti (ne ho già parlato nel 2012 qui e qui).

Da una breve analisi tecnica della campagna si notano:
- la durata dello spot di 60′ che è doppia rispetto alla norma e quindi permette di comunicare una storia più articolata con il giusto respiro (a fronte di un calo, probabile, dei costi di acquisto degli spazi pubblicitari, LIDL invece di risparmiare ne approffitta per comunicare meglio)
- l’utilizzo di un concetto di comunità in contrapposizione all’individualismo imperante nella maggior parte della comunicazione in ogni contesto

Soprattutto se ne esce con un claim finale che io non ricordo di aver mai sentito prima in Italia che invita a cambiare supermercato “Non cambiare stile di vita, cambia supermercato”.

In realtà un claim simile l’aveo già sentito: nel 1990 quando vivevo in Canada era quello utlizzato dalla catena Loblows, in assoluto la miglior catena di grande distribuzione che mi sia mai capitato di vedere, sia come consumatore che come professionista di marketing. A dimostrazione non è così difficile trovare le buone idee se uno sta con occhi, orecchie e, soprattutto, cervello aperti ed accesi.

Forse sarà per questo che mi sto convincendo che il vero limite dell’Italia è la diffusione, direi quasi la prevalenza, in tutti i settori ed a tutti i livelli dell’incompetenza a causa della sua generale accettazione sociale, pur di evitare di mettersi in discussione ed alterare lo status quo.

Buonanotte

Le conseguenze della crisi economica: l’evoluzione dei canali distributivi in Italia – 1.

Continuo la serie delle conseguenze della crisi economica. Come buona norma, partiamo dai freddi numeri.

Secondo la rilevazione ISTAT a dicembre 2012 delle vendite del commercio al dettaglio lo scorso anno le vendite al dettaglio a prezzi correnti (quelli pagati dai consumatori in sostanza) sono diminuite del -2,2% con un -0,9% per la GDO ed un -3,1% per le piccole superfici. L’alimentare è calato del -0,8% ed il non alimentare del -2,8%.
In termini di canali gli ipermercati hanno fatto -1,6%, i supermercati +0,1%, i discount alimentari +1,6%, i grandi magazzini -2,5% (tecnicamente la categoria è “imprese non specializzate a prevalenza non alimentare”), i category killer -1% (tecnicamente “imprese specializzate”). Questa è la sintesi, consiglio comunque di guardare il flash ISTAT linkato per una visione più completa.

Questi numeri mi hanno ricordato il 2007 quando in Stock analizzando i dati Nielsen sulle vendite della GDO si evidenziava un calo degli ipermercati, una tenuta dei supermercati, la crescita dei superstore (tipologia di punto vendita introdotta in Italia sostanzialmente da Esselunga, con una metratura tra i 1.500 ed i 3.500 m2, che quindi nella rilevazione ISTAT può ricadere o nei super o negli iper) e la crescita del discount.

Uno scenario non molto diverso da quello attuale, a conferma che la crisi economica sta soprattutto intensificando tendenze che erano già in atto, legate ad altri fattori. Quali?

Secondo me il calo dell’iper è dovuto al fatto che è diventato un formato di negozio troppo faticoso. E’ faticoso da raggiungere, è faticoso farci la spesa dentro perchè troppo dispersivo, è faticoso gestire una famiglia in un ambiente così grande ed è faticoso, a causa dell’ampiezza dell’offerta, controllare la spesa complessiva, anche se i prezzi sono/fossero mediamente più convenienti rispetto ad altri formati.
Visto in termini più “sociologici”, l’iper è un formato che si basa sul concetto di “andiamo a passare il pomeriggio al centro commerciale” e quando per l’evoluzione socio-demografica questo concetto diventa spesso un incubo, l’iper entra in crisi. Non voglio dilungarmi troppo in approfondimenti e spiegazioni, ricordo solo che una delle cose che caratterizzano le società occidentali e la carestia di tempo.

Il supermercato viceversa è diventato il punto vendita di prossimità sia in termini fisici che di “esperienza di acquisto (semplicità degli assortimenti, conoscenza del personale, ecc…) , sostituendo in questo i negozi tradizionali che sono andati via via sparendo. In più ha intensificato la convenienza di prezzo con lo strumento delle promozioni, strumento che ha acquistato più forza in seguito alla banalizzazione delle marche e quindi alla parcezione da parte del consumatore di una determinata categoria di prodotto come sostanzialmente omogenea. In altre parole ogni settimana il consumatore può trovare una merendina, un prosciutto, un vino, un olio, ecc. in offerta.

Il discount abbandona la marca (quello italiano non del tutto) per spingere al massimo sul convenienza, grazie anche ad un assortimento ridotto (che significa anche semplicità) ed una praticità della localizzaizone dei punti vendita simile al supermercato.

In questa situazione, che ripeto esisteva già nel 2007, si inserisce la crisi economica e la risposta praticamente di tutte le catene distributive e di tutti i formati è quella di puntare esclusivamente sulla convenienza, con i deludenti risultati che abbiamo visto.

La ragione di questo insuccesso si potrebbe ricondurre alla perdita di senso di cui parlavo in questo blog nel 2008 analizzando le strategie dei produttori.

Secondo me però c’è qualcosa di più profondo ed è il fallimento della visione aziendale guidata dalla finanza e sostenuta dalle vendite che ha caratterizzato le aziende negli ultimi 5-10 anni.

Ne ho già parlato nel 2010 in una serie di post inziata a settembre e terminata ad ottobre, però nel nuovo scenario attuale vale la pena di approfondire.

Oggi ho pubblicato un post che aveva nel titolo il termine autismo. Prima di usarlo ho fatto un brevissimo approfondimento su wikipedia per essere sicuro che fosse attinente. con tutto il dovuto rispetto per chi veramente soffre della malattia, ragionando in senso lato in ambito socio-economico mi ha colpito la descrizione di due sintomi: l’ecolalia, ossia la ripetizione di parole, suoni o frasi sentite dire, senza che queste si trasformino in apprendimento da utilizzare in modo costruttivo in situazioni diverse da quelle in cui sono state generate, e la marcata resistenza al cambiamento, consegfuenza dell’importanza per l’ordine.

Ecco, sempre senza voler mancare di rispetto a chi è malato, credo che per descrivere spiegare l’incapacità di rispondere all’attuale afasia economica (termine rubato ad un amico) sia necessario andare oltre al concetto già noto di “miopia di marketing” e conio il termine di “autismo di marketing”.

Rispetto al tema questo post non è nemmeno a metà, però è già tardi ed è il secondo in un giorno. La mente si sta sfuocando e quindi rimando ad una prossima puntata. Non garantisco quando, perchè il prossimo fine settimana c’è il Vinitaly. salute!

Ho visto un Re! Come l’autismo della casta politica ha avvitato la crisi e portato allo scempio della Repubblica

Tra i vantaggi di scrivere un blog c’è anche quello che la mia posizione riguardo all’attuale situazione politica è nota e, spero, chiara.

Dopo aver dichiarato il mio voto per “Fare per fermare il declino”, ed aver brutalmente perso, lo scorso 26 febbraio scrivevo che era evidente che la cosa tatticamente migliore per il PD di Bersani era dichiararsi apertamente per un incarico ad un premier del Movimento 5 Stelle.

Non ci credevo, ma speravo che Bersani, se non altro per interesse proprio e del suo partito, avrebbe dato una mano al Presidente Napolitano per imporre un cambiamento al Paese.

Invece, malgrado dalla crisi economica del 2008 tutti a parole invochino un cambio dei paradigmi socio-economici su cui si basano le società occidentali, si è dato alle cose il solito corso tradizionale con il pre-incarico esplorativo a Bersani, in quanto leader della coalizione di maggioranza relativa. Il tentativo è fallito (ma và?) ed il Presidente Napolitano, responsabile della nomina del Presidente del Consiglio, ha creato due commissioni di persone da lui nominate (???) per definire un programma (??????) su cui trovare la convergenza della maggioranza parlamentare.

Eppure un’analisi politicamente oggettiva/imparziale/aperta dei risultati delle elezioni da parte del Presidente Napolitano non poteva non rilevare che:
- tra le coalizioni di centro-sinistra e centro-destra c’è stata una sostanziale parità (la differenza a favore del centro-sinistra è di 0,37 punti percentuali alla Camera e 0,91 punti percentuali al Senato, dati defintivi dal sito del Ministero dell’Interno).
- la maggioranza dei seggi alla coalizione del centro-sinistra deriva solamente dall’artificio del premio di maggioranza della legge elettorale, legge considerata un obbrobrio da tutti i partiti politici, contraria all’indirizzo dato dalla volontà popolare con il referendum del 18 aprile 1993 ed al cui confronto la “legge truffa” del 1953 appare un apice di democrazia.
- il vero elemento di novità risultante dal voto è stata l’affermazione del Movimento 5 Stelle, che da niente è diventato il primo partito alla Camera (questione di spiccioli rispetto al PD e 4 punti percentuali rispetto al PDL) ed il secondo al Senato (-4 punti rispetto al PD e +1 rispetto al PDL).

Volendo approfondire i risultati delle urne con l’analisi dei flussi elettorali (qui propongo la sintesi degli studi dei diversi istituti di ricerca pubblicata sul sito del Partito Marxista-Leninista Italiano, stranamente il primo risultato datomi da Yahoo), si nota come il M5S sia la forza politica di sintesi dei due schieramenti avendo preso voti in modo quasi uniforme da ex elettori del centro-sinistra e del centro destra.

Credo che in termini di correttezza democratica gli elementi per dare l’incarico al M5S ci fossero tutti (lo so l’incarico può essere dato solamente ad una persona, però è grazie ai tecnicismi di forma che si impedisce il cambiamento).

Invece tutto il sistema politico e dei media tradizionali ha sempre bollato questa ipotesi come inammissibile, lamentando contemporaneamente l’ignoranza politica del M5S nella sua incapacità di negoziare per arrivare ad un compromesso.

Ora io non ho esperienza di politica politicante però occupandomi di marketing e vendita da vent’anni conosco la teoria e la pratica della negoziazione. La mia impressione è che politici e (tele)giornali abbiano sviluppato nel tempo un concetto distorto di negoziazione inteso come scambio di privilegi e non come punto di incontro tra le istanze ed esigenze delle parti. Ovvio che quando le istanze e le esigenze sono quelle personali e non dell’organizzazione che si rappresenta i due concetti corrispondono.

Se gli obiettivi del Quirinale erano quelli dichiarati di dare rapidamente un governo al Paese, possibilmente di cambiamento, dal punto di vista delle tecniche di negoziazione (questo quaderno del Centro Studi Nazionale CISL offre una buona sintesi ed un’ottima bibliografia) il pre-incarico a Bersani o a Berlusconi era a priori una scelta sbagliata, mentre quella di dare l’incarico al M5S l’unica possibile.

Grillo infatti poteva probabilmente accantonare alcuni punti del programma (referendum sull’euro, ad esempio) e forse anche accettare alcuni ministri esterni, ma avrebbe perso tutta la credibilità appoggiando un governo a guida Bersani o Berlusconi. Quello era il suo punto di resistenza.

Specularmente Bersani, o il PD, poteva probabilmente accettare di non avere la guida del governo in cambio del ruolo di moderatore delle richieste più estreme del M5S. Un punto di resistenza sicuramente più basso, ma dopo aver fatto numerose negoziazioni con la clientela vi assicuro che raramente c’è simmetria ed equilibrio. Per questo ci vuole un compromesso.

Quello che è mancato è stata la capacità del Quirinale di creare le condizioni per una negoziazione (uno spazio negoziale) che le parti non potevano evidentemente creare da sole. Invece la scelta conformista del pre-incarico a Bersani ha avuto l’effetto prevedibile di inasprire le posizioni, spostando in alto i punti di resistenza, a cui si cerca di rimediare con la deleteria prassi (della politica) italiana delle commissioni.

La Pubblica Amministrazione che non paga i propri debiti è tecnicamente ed economicamente fallita e la Repubblica con il Parlamento esautorato da un Direttorio di nomina presidenziale è politicamente ed istituzionalmente morta.

L’unica speranza è che il Paese mantenga abbastanza fede in se stesso per risorgere. Buona Pasquetta.