PAM PAM! Bersaglio mancato?

Qualche settimana fa un mio amico mi citava la campagna radio della PAM. Sul momento avevo altro da fare ma, per motivi miei, la cosa mi incuriosiva e quindi oggi sono andato sul sito ad ascoltarli.

A parte il fatto che in programmazione non li ho mai sentiti perchè (pare) siano stati pianificati su una sola emittente.

A parte che non capisco che senso abbia con una pressione così limitata investire tempo e soldi a fare quattro soggetti: anche se gli speacker si pagano a chiamata, una certa confusione è assicurata.

A parte il fatto che la musica tipo Guerre Stellari è, ad essere buoni, un po’ vintage (deve essere una caratteristica delle catene distributive, oltre che dei detersivi, perchè anche Interdis con Bugs Bunny gioca la carta retrò, di quando eravamo giovani e felici).

A parte che ho sempre bene in mente un decalogo di Lintas visto più di 20 anni fa che diceva che la pubblicità deve concentrarsi su una sola idea, quella individua come più rilevante per il target dalle ricerche di mercato.

A parte tutti i discorsi su benefit e reason why (confesso che non ho mai capito bene la differenza tra le due cose e se c’è un pubblicitario all’ascolto sarei curioso di scoprirla dopo 16 anni che faccio questo lavoro).

A parte tutto, perchè non c’è nemmeno un briciolo di tentativo di costruire/rafforzare un minimo di posizionamento per dare dei motivi alle persone di andare a fare la spesa alla PAM? E non venitemi a dire che l’obiettivo della campagna è tattico, perchè non comunica una promozione/offerta/concorso ma comunica una concetto (leggi posizionamento) di convenienza.

A parte tutto, uno slogan/pay off/claim finale ci stava non solo per dichiarare e rendere più facile da ricordare il concetto di convenienza, ma anche solo per rendere meno monco lo spot.

Oggi mi sento generoso, come dimostrano due post nello stesso giorno, ne suggerisco uno io che esrpime al 100% il concetto della campagna: PAM: Più a Meno.

Strano che non ci abbiano pensato loro? Forse vi sembrerà ancora più strano sapendo che, a quanto mi risulta, “Più a Meno” è esattamente lo slogan da cui i fondatori del gruppo hanno creato l’acronimo PAM e che a capo dell’azienda ci sono i loro discendenti (che quindi dovrebbero conoscerne storia ed anima).

Ogni tanto la marginalizzazione del marketing non porta solo dei risparmi espliciti (di personale di investimenti), ma anche degli (elevati) costi impliciti.

Viva Felipe Gonzalez

L’altro giorno leggevo sul supplemento domenicale di “El Pais” un intervista a Felipe Gonzalez. Al di là dell’evidente ed ovvio tono amichevole (un po’ stile vite dei Santi), l’articolo conteneva una serie di fatti e considerazioni estremamente interessanti, anche perchè lo spessore della persona è tanto, molto di più di quanto non si percepisca dal profilo su wikipedia (lo sottolineo solo per chi magari non conoscesse più di tanto quello che ha realizzato Felipe Gonzalez, non sono certo io che posso dare patenti di competenza/importanza a personaggi di questo calibro).
Comunque quello che voglio riportare qui oggi sono le sue considerazioni sulla leadership e prima che si pensi che la cosa riguardi solo chi ricopre posizioni gerarchicamente rilevanti, ricordo che chiunque si trovi nella situazione di dover gestire l’attività di altre persone (anche una sola) è in una posizione di leadership. Non importa se sia stato messo dall’alto (dall’ dall’organizzazione), dal basso (dalle persone che deve gestire) o se ci si è voluto mettere da solo. Una volta che ci trova ad avere la responsabilità di altre persone ci si trova in una posizione di leadership, che piaccia o meno, che la si voglia esercitare o meno (creando in questo caso difficoltà per tutti). Se non si vuole questa responsabilità l’unica alternativa è quella di chiamarsi fuori in modo chiaro e palese, sempre che si possa. In sintesi si tratta di considerazioni che, in misura maggiore o minore, prima o poi, riguardano tutti.
Ecco quello che ha detto Don Felipe Gonzalez (tra parentesi la mie note del traduttore, quando ho aggiunto qualcosa per rendere meglio il concetto):
Nell’ (esercizio) della leadership ci sono alcune regole fondamentali:
Uno: non può essere un leader chi non ha la capacità e/o la sensibilità per farsi carico dello stato d’animo degli altri. Se non ci si fa carico dello stato d’animo dell’altro, l’altro non ti sente vicino, sente che non lo capisci e non ti accetta come leader.
Due: non c’è leadership se non cambi lo stato d’animo degli altri, da negativo a positivo oppure da positivo a più positivo, il che implica credere veramente nel progetto che proponi (come leader), credere nel modo meno mercenario possibile, perchè (questo) ti dà più forza.
(Tre): la capacità di trasmettere quel progetto come un progetto che (attragga e) leghi gli altri, che implichi (impegni) gli altri, cambiandogli quello stato d’animo di cui prima ti sei fatto carico. Però deve essere un progetto che permetta alla gente di pensare che, malgrado tu gli richieda degli sforzi, questi sforzi hanno un senso e li convinci perchè vedono che ci credi (tu per primo). E che ci credi davvero, non in modo mercenario. Uno deve credere in quello che sta facendo.
(Quattro): un’ (altra) delle caratteristiche fondamentali della leadership, alla quale per di più ci si può allenare, è la forza/saldezza emotiva. Non l’intelligenza emotiva di cui parlano i nord americani, quanto la capacità di mantenere la centralità tanto quando le cose vanno molte bene come quando vanno molto male.

Nell’ultima frase mi sarebbe sembrato di dare più correttamente il senso traducendo “centralidad” con “serenità” e non letteralmente, però siccome è anni che dico che la principale qualità di un leader è quella di trasmettere serenità, non vorrei far dire a Felipe Gonzalez quello che ho in testa io. Traduttore – traditore.

Magic Italy!

Il giorno dopo che il Ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla ha affermato che il recente crollo di Pompei non avrà ripercussioni sul turismo, ho visto questa foto di un pezzo di una “falla” di Valencia di quest’anno (specie di carri mascherati che vengono fatti per festa del patrono San Giuseppe. (da notare la posizione della pupazza in basso a destra di cui si vedono solo i capelli perchè la testa e sott’acqua).

La mia mente perversa ha fatto 1+1 e, pensando che l’affermazione della Brambilla possa essere dovuta anche allo splendido spot di quest’anno in cui Berlusconi faceva da speaker, non ho potuto fare a meno di pensare: MAGIC ITALY!

Conegliano Valdobbiadene: dove il prosecco è superiore

Lo slogan/pay off/claim (chiamatelo come più vi piace) che dà il titolo a questo post l’ho fatto io (ho prove e testimoni) alla fine del primo dei tre seminari organizzati all’inizio dell’anno dal Consorzio per confrontarsi con le aziende su come comunicare la nuova DOCG.

Non è che chiedo niente e mi fa molto piacere che il Consorzio e l’agenzia di pubblicità abbiano deciso di utilizzarlo.

E’ solo che vedendolo utilizzato in più occasioni dal Vinitaly 2010 in poi mi sembrava giusto dirlo (e chissenefrega se chi si loda si imbroda).

La marginalizzazione del marketing e la crisi economica mondiale

BUUUUMM! E’ il mio ego che è esploso, sarà l’effetto Al Bano. Però questo post mi è venuto in mente mentre scrivevo la serie sulle terapie e quindi non scriverlo sarebbe stato un po’ (sana) modestia ed un po’ disonestà intellettuale. alla fine la vanità ha prevalso e quindi eccolo qui.
Senza avere la pretesa di affrontare l’argomento delle cause e soluzioni dell’attuale crisi economica mondiale (un minimo di sanità mentale mi è rimasta), ho l’impressione che se la funzione marketing nelle aziende avesse mantenuto almeno il peso che aveva una decina di anni fa, FORSE la crisi non avrebbe raggiunto la gravità che stiamo vivendo.
Al di là delle cause tecniche (come le precondizioni di rischio create dalla riforma del sistema finaziario dei tempi di Reagan, la velocità degli scambi finanziari, i mancati controlli, la politica sui tassi di cambio ecc…), la mega bolla è stata gonfiata da un atteggiamento del sistema, finanziario innanzitutto, concentrato esclusivamente sul COME, tralasciando completamente il cosa e meno che meno il perchè.
Una visione legata al portato culturale delle funzioni che attualmente giocano il peso maggiore nelle aziende: finanza e vendite.
E’ fisiologico che la finanza sia favorevole ad elevati ritorni a breve sugli investimenti e che supporti quindi l’altrettanto naturale orientamento delle vendite di dare al mercato quello che si vende meglio.
D’altra parte la misura dei risultati della funzione finanziaria è il ritorno (scegliete voi se preferite ROI, ROE o EBIT) e quello della funzione vendite è il numero di contratti chiusi/di ordini consegnati.
Questo modus operandi rischia però di diventare patologico (come in realtà è stato), se non è bilanciato da una visione del business anche nel periodo medio-lungo, di fidelizzazione del cliente, di soddisfazione articolata dei suoi desideri nell’intero processo di fruizione del prodotto (mutuo, salame, o bicicletta che sia), al di là della semplice vendita.
Tutti elementi tipici della cultura di marketing strategico, o almeno di quella che dovrebbe essere il contributo culturale che il marketing strategico porta in azienda.
Allora, forse, una delle terapie contro la marginalizzazione del marketing (poi giuro che chiudo l’argomento) potrebbe essere anche la necessità di un rinnovamento della cultura aziendale, dove le esigenze e richieste degli stakeholders trovano maggiore considerazione rispetto ad oggi, al di là delle dichiarazioni che si scrivono nelle relazioni di bilancio e sui siti aziendali.

Terapie contro la marginalizzazione del marketing 4 (ed ultimo)

Riguardando l’ultimo post mi sono accorto che sono andato un po’ per le spicce, lasciando una indeterminatezza probabilmente eccessiva.
La scelta di cosa e come misurare i diversi fenomeni aziendali e di mercato per migliorare efficenza ed efficacia delle attività di marketing rappresenta infatti la formalizzazione e quantificazione della visione strategica teorica.
Dal percorso teorico che disegno/immagino per arrivare agli obiettivi stabiliti e quindi dai meccanismi con cui ipotizzo che le attività che andrò a realizzare si ripercuoteranno sull’equazione del profitto, deriva la definizione di cosa misurare e come misurarlo.
Quanto più il percorso teorico sarà preciso, tanto più conseguente sarà la definizione delle diverse metriche necessarie.
Tanti anni fa, prima di entrare in azienda (era il 1994) ho scritto un articolo in cui sostenevo che la forza di un marchio più essere descritta riconducendo tutte le sue caratteristiche a due soli descrittori: conoscenza e reputazione. Dopo quindici anni di marketing aziendale continuo ad essere della stessa opinione.
La differenza sta nella direzione del processo:
- in una logica analitica si lavora di sintesi partendo dalla complessità della realtà per ridurla alle due dimensioni di cui sopra, – - in una logica di sviluppo strategico si lavora di espansione, partendo dalle due dimensioni della conoscenza e della reputazione ed esplode in tutte le loro componenti per definire dove e come agire.
Credo sia abbastanza evidente che si tratta di situazioni piuttosto complesse, quindi mi permetto di consigliare di non spaventarsi se le metriche da utilizzare dovranno/potranno essere diverse da quelle usuali e se i metodi sono un po’ più complessi della media aritmetica (potete spaziare dall’analisi statistica multivariata alla neurofisiologia cognitiva).
Chiudo con questo blog la serie sulle terapie contro la marginalizzazione del marketing, sperando, sia per me che per chi legge, di alleggerire un po’ i contenuti dei prossimi post.

Terapie contro la marginalizzazione del marketing 3

Oggi quello schifo di programma che risponde al nome di power point mi si è piantato di punto in bianco (presentazione fatta apporta senza NESSUN elemento grafico per evitare problemi) e così ho perso due ore di pensiero sulle strategie di marketing per il 2011. D’altra parte c’è poco da aspettarsi da un software che non è ancora in grado di fare alcune cose come le faceva harvard graphics vent’anni fa. Lo stesso si può dire comunque anche di word nei confronti di word perfect.
Grazie a Bill Gates quindi non sono proprio nello spirito giusto per scrivere questo post, però una promessa è una promessa e quindi sono andato a rileggermi i due precedenti per recuperare un po’ il filo di questo discorso, che si sta un po’ stiracchiando settimana dopo settimana.
SOLUZIONE N.2: L’EFFETTO DELLE STRATEGIE E TATTICHE DI MARKETING DEVE ESSERE MISURATO.
La misurazione delle attività di marketing, il che implica renderle misurabili, è necessaria principalmente per due motivi:
1. guadagnare maggiore credibilità all’interno dell’organizzazione aziendale.
2. migliorare la propria efficacia ed efficienza attraverso l’applicazione del metodo sperimentale del provare e riprovare ossia l’attivazione del ciclo PIANIFICAZIONE-ESECUZIONE-VALUTAZIONE-RIPIANIFICAZIONE.
Va sottolineato che il primo è un motivo esterno mentre il secondo è un motivo interno. Questo implica che per raggiungere il primo obiettivo non è indispensabile che la misurazione sia effettivamente efficace, è sufficente che l’organizzazione abbia la PERCEZIONE che le attività di marketing non sono arbitrarie, bensì sottoposte ad un qualche tipo di valutazione oggettiva. Può sembrare strano, ma si è visto nel post n.2 come la misurabilità dei risultati delle azioni di altre funzioni aziendali sia più presunta che effettiva.
Il raggiungimento del secondo obiettivo, su cui si fonda nel lungo termine l’effettiva crescita e consolidamento della credibilità richiede invece che il sistema di controllo sia realmente funzionante.
Il primo passo in questo senso è definire COSA dobbiamo misurare e la risposta, in ambito aziendale è abbastanza automatica: dobbiamo misurare gli effetti delle attività di marketing sull’equazione del profitto:
Profitto= Ricavi-Costi; volendo dettagliare ulteriormente
Profitto= ((Ricavo netto unitario-Costi Variabili)* Quantità vendute)-Costi fissi).
Non credo sia il necessario dettagliare ulteriormente l’equazione, ma forse val la pena di ricordare che il ricavo netto unitario è determinato dalla combinazione dei prezzi di listino, degli sconti in fattura e fuori fattura, nonchè dalla quantità di prodotto contenuto nell’unità di vendita.
Più importante è forse ricordare che le unità vendute dipendono dalla diffusione del prodotto nel mercato (distribuzione numerica e ponderata), dalla frequenza di acquisto (occasioni di acquisto) e dalla quantità acquistata in ogni occasione.
Per amor di precisione, ricordo che in realtà non c’è perfetta corrispondenza tra costi variabili/fissi e costi diretti/indiretti.
Infine sottolineo che basta sostituire le quantità vendute con quelle consumate per ottenere l’equazione del consumo invece di quella di vendita.
Potreste anche dire che non serviva che arrivassi io per darvi una lezione di economia elementare, ma, a parte dire che il marketing è la scienza dell’ovvio a posteriori, vi chiedo: quante voltre avete visto definire gli obiettivi aziendali (di qualsiasi funzioni, marketing a parte) legandoli a questi parametri?
Eccoci quindi al COME dobbiamo misurare.
Per il marketing infatti le cose sono un po’ più complicate perchè deve trovare il modo di misurare l’effetto mediato delle proprie attività su quei parametri che determinano l’equazione del profitto. La campagna pubblicitaria che modifica awareness e reputazione della marca che effetto avrà sulle vendite di baseline (fatte in assenza di promozioni) e quindi sui volumi sul ricavo medio unitario?
D’altra parte il grande vantaggio di definire gli obiettivi in base a parametri misurabili legati all’equazione del profitto è la possibilità di seguire lo sviluppo delle strategie mana mano che si realizzano e quindi di poter prendere eventuali azioni correttive. Le quantità vendute sono inferiori al previsto perchè è un problema di distribuzione, di occasioni d’acquisto/consumo o di quantità acquistate/consumate per occasione? Evidentemente le strategie da intraprendere cambiano a seconda dei casi.
Mi spiace dire che non ho (ancora) la risposta deterministica su come misurare. Il marketing agisce in ambiti complessi è cambianti, su fattori interconnessi, spesso in relatione additiva tra loro (esempio banale: la promozione sul punto vendita il cui effetto è moltiplicato dalla contemporanea campagna pubblicitaria e ridotto della riduzione della cpacità di spesa del consumatore). E’ quindi necessario che ogni azienda determini i contorni delle proprie situazioni e definisca le proprie metriche di conseguenza.
Non nascondo che magari ci si troverà a misurare le distanze con i chili oppure i pesi con i metri, me questo è l’unico percorso per arrivare ad individuare le metriche corrette e raggiungere il secondo degli obiettivi esplicitati all’inizio. Il primo nel frattempo l’avremmo raggiunto, ed è già qualcosa.
Per non chiudere lasciando troppo amaro in bocca, ricordo che c’è una misura abbastanza generale, pur senza essere la pietra filosofale della metrica di marketing, ed è il breack-even. Da quanto tempo non lo calcolate quando intraprendete un investimento di marketing? E’ vero che non può essere l’unico parametro di giudizio, ma almeno pianta un paletto da cui partire.
Chiedo venia se i concetti sono un po’ disconnessi, ma la stanchezza è tanta. Magari tornerò in forma quando tornerò ad Apple.

Terapie contro la marginalizzazione del marketing 2

L’altro giorno, dopo aver letto il mio (ennesimo), cahier de dolances, una persona mi ha chiesto: “Ma allora se il marketing è marginalizzato, quali sono le funzioni aziendali che contano?”.
La domanda è più che legittima e trovare una risposta risulta sicuramente importante per individuare le terapie del titolo. Per pfarlo però credo sia indispendabile prima definire cosa si deve intendere per centralità di una funzione (un po’ come per fare strategie di marketing di successo va capito cosa si intende per potere di mercato).
La centralità o marginalizzazione di una funzione e/o di una persona all’interno di una organizzazione dipende dall’importanza/peso che hanno le sue necessità e la sua visione delle cose rispetto alle altre funzioni (persone) nell’allocazione delle risorse economiche, di tempo (quantità e qualità dello staff) e di strumenti per svolgere il compito assegnato.
In questa ottica le funzioni attualmente centrali nella generalità delle aziende (ci sono sempre le eccezioni) sono l’amministrazione-finanza-controllo di gestione e le vendite.
L’altra domanda chiave è come sempre: perchè (queste due funzioni sono centrali)?
Io, ma non solo io, credo che debbano molto della propria centralità alla (presunta) misurabilità delle attività che svolgono.
La misurabilità dell’amministrazione-finanza-controllo di gestione non è messa in discussione per definizione in quanto è la funzione che misura le performances aziendali mentre le vendite sono misurabili grazie alla relazione diretta che si può stabilire tra le azioni (tattiche) di vendita ed il fatturato.
Però io ho scritto tra parentesi che la misurabilità di queste funzioni è presunta. Perchè? (sembro un bambino di due anni).
I dubbi nel caso dell’amministrazione-finanza-controllo di gestione mi nascono dalla semplice constatazione della quantità di analisi et similia, sia ad hoc che routinarie, gestite su foglio elettronico in tutti gli uffici di tutte le aziende. Credo siano una dimostrazione del gap di efficacia ed efficenza che la funzione amministrazione-finanza-controllo di gestione ha nel fornire al resto dell’azienda le informazioni di cui le diverse funzioni hanno bisogno, nel formato necessario. Nella prima azienda in cui ho lavorato, la Levoni S.p.A., il direttore amministrativo ogni anno passava a tutti gli uffici un’analisi dell’andamento delle vendite in volume, valore e prezzo medio dei principali prodotti e dei principali mercati negli ultimi cinque anni. Non l’ho visto fare in nessun’altra azienda, dove normalmente ci si limita al confronto anno precedente e budget. Mi viene quindi da dire che la situazione generale non è di soddisfacimento da parte della funzione amministrazione-finanza-controllo di gestione delle esigenze del resto dell’azienda, bensì che la centralità di questa fa sì che le sue esigenze/punto di vista siano prevalenti su quelle delle altre, che quindi si arrangiano come possono (dedicando tempo prezioso allo sviluppo e gestione di fragili files excel). Ulteriore indizio al riguardo è la tranquillità con cui nelle aziende si accetta che l’implementazione di un nuovo programma gestionale che costa svariati milioni di euro, richieda svariate centinaia di migliaia di euro in consulenze e lasci l’azienda con una disponibilità limitata di dati (quando non nel buoi totale) per un periodo che va dai 6 mesi ad un anno. Avendo sempre lavorato nei beni di largo consumo dove un ritardo di un giorno nella consegna rischia, giustamente, di farmi perdere il cliente, devo dire che questa cosa mi affascina.
La presunzione della misurabilità delle vendite è ancora più evidente, basta considerare l’effetto moltiplicatore delle vendite (volumi e prezzi) di una campagna pubblicitaria/comunicazione o solo di un forte posizionamento della marca. Probabilmente solo le promozioni basate sullo sconto sono l’unico strumento di vendita dove l’influenza delle politiche di marca e poca o nulla. Però sempre più rapidamente promozioni di questo tipo portano ad un riposizionamento del proezo di vendita, in un circolo vizioso che spesso si rivela insostenibile.
La conclusione più importante che ho tratto da queste riflessioni è però il rafforzamento della mia convinzione della necessità di individuare e sviluppare reali parametri di misura per le attività di marketing. Viceversa continueremo ad essere marginali rispetto a quelle, presuntamente, misurabili e non riusciremo a dare il nostro apporto in azienda.
Aspettative quindi, non prometto quando, una terza (e forse anche quarta) puntata.

Terapie contro la marginalizzazione del marketing 1

Dopo la sommaria anamnesi e diagnosi dei giorni scorsi vediamo quali possono essere le soluzioni/azioni per ridare al marketing il necessario ruolo strategico all’interno delle aziende. Non mi dilungo sul perché questo sia necessario, perché il tema è stato l’argomento del primo post di questo blog (in realtà è la questione da cui tutto il blog ha preso le mosse oramai alcuni anni fa), che consiglio di leggere, se non l’avete già fatto.
La premessa ovvia ma doverosa è che la soluzione le possibili soluzioni non sono facili, né da formulare né da realizzare. Per questo ho deciso di scriverle a puntate: 1 post per soluzione, con considerazioni che derivano in parte dal solito “Marketing Management” ed in parte dalle mie riflessioni.
SOLUZIONE N. 1: IL MARKETING DEVE TORNARE AD ESSERE TEORICO
Il marketing deve tornare ad essere una scienza (sociale) di gestione delle organizzazioni. Deve tornare a sviluppare ipotesi teoriche strutturate con rigore (non sovrastrutture) relativamente a come le strategie e tattiche di marketing impattano la realtà (di mercato).
Esempio di vita vissuta (tanto oramai nessuna delle aziende e persone coinvolte sono più quelle che erano): primi mesi del 2004, riunione dei direttori marketing del Gruppo Eckes-Stock (tipo barzelletta: ci sono un italiano, un boemo, un’austriaca ed una tedesca). La mia collega tedesca presenta con giusta soddisfazione la crescita di vendite dell’anno precedente e passa a presentare COSA è stato fatto, con una tipica presentazione di condivisione di best practice. Per valutare se e cosa poteva valer la pena di trasferire sul mercato italiano, quando finisce gli chiedo una sua analisi sul PERCHE’ quelle cose avessero funzionato. Lei mi dà spiegazioni semi-tautologiche tipo con questa “sponsorizzazione abbiamo ottenuto un aumento di awareness” e mi dà ulteriori dettagli sul COME hanno realizzato le diverse cose. Io me ne torno a casa perplesso, anche perché non condividevo molto il focus dato dal top management tedesco: “stiamo perdendo vendite, dobbiamo sforzarci a FARE QUALCOSA per invertire la tendenza”.
Primi mesi del 2005, solita riunione dei direttori marketing del Gruppo Eckes-Stock di inizio anno, la mia collega tedesca è piuttosto abbattuta perché nell’anno appena trascorso le vendite sono calate, tornando sotto ai livelli del 2002. Soprattutto è preoccupata nel 2004 hanno confermato le stesse strategie che avevano funzionato così bene nel 2003 e quindi non capisce il motivo della perdita di fatturato, né sa cosa fare per affrontare il problema.
Mancava un quadro teorico di riferimento che fornisse una comprensione al di là del meccanismo stimolo-risposta, grazie a delle ipotesi sui motivi di quella risposta a quello stimolo. In altre parole mancava l’idea del percorso che portava dallo stimolo alla risposta.
Elemento fondamentale del rigore teorico è l’approccio sperimentale, nel senso galileiano del termine. Se infatti un quadro teorico è indispensabile nelle fasi di pianificazione ed esecuzione delle strategie, diventa poi cruciale la valutazione dei risultati per ripianificare con maggiore efficacia ed efficienza. Si va così a creare il circolo virtuoso PIANIFICAZIONE-ESECUZIONE-VALUTAZIONE-RIPIANIFICAZIONE.
Per realizzare l’approccio sperimentale ed evitare di fermarsi alla pura teoria, col rischio di riportare il marketing nella torre d’avorio dell’astrazione, sono quindi necessari dei metodi di analisi. Che saranno quindi l’argomento della prossima puntata.

Logo Barilla: evoluzione-rivoluzione e ritorno

Premessa: in questi anni di lavoro ho realizzato più volte cambiamenti di immagine di marchi/prodotti in senso evolutivo. Keglevich (2 volte), Limoncè, Brandy Stock, Grappa Julia, Santa Margherita sono i primi che mi vengono in mente. La questione è sempre di modificare l’aspetto dei marchi/prodotti in modo che le persone le percepiscano “meglio” rispetto al posizionamento voluto (più prestigio, più genuinità, più contemporaneità, più freschezza ecc.) senza quasi rendersi conto del cambiamento. In altre parole il prodotto diventa più “bello”, ma se non metto di fianco le due versioni (prima e dopo) difficilmente riesco a dire cosa è cambiato.
Visto che oramai sono vecchio del mestiere ho realizzato anche cambiamenti in senso rivoluzionario. I wurstel Principe sono diventati Wulevù, il Wapping Gin, l’amaro Radis, la grappa Goccia, i vini della Cantina Torresella e quelli della Tenuta Sassoregale. In questi casi l’aspetto delle marche/prodotti è talmente distonico rispetto al posizionamento voluto, che diventa necessario creare una rottura, nei casi estremi facendo un prodotto totalmente nuovo anche in termini di nome e di caratteristiche organolettiche (visto che ho sempre lavorato nell’alimentare).
Pensavo a queste cose oggi quando mi è arrivato l’invito per un convegno organizzato da Barilla, su una carta intestata che riportava il nuovo logo corporate che vedete qui sotto

E’ evidente, magari anche logico e condivisibile, che Barilla abbia voluto cercare di darsi un logo che possa rappresentare meglio l’allargamento del suo ambito di business, eppure non posso fare a meno di chiedermi perchè abbia abbandonato il suo logo storico:

Il nuovo logo corporate sarà anche graficamente è più pulito ed ha proporzioni che ne rendono sicuramente più semplice l’utilizzo sui più diversi materiali, però è artificiale. Sembra la copia fredda (non solo per il colore blu) di quello originale. Non so se è solo questione che quello originale (mantenuto per la pasta) sono abituato a vederlo da quando sono nato, argomento comunque non banale. Secondo mè è soprattutto dovuto al fatto che è troppo uguale, senza essere lui. Una volta qualcuno mi ha raccontato che l’ovale bianco contornato di rosso che fa da sfondo alla scritta Barilla è la stilizzazione di un uovo (che tra l’altro è l’esempio del packaging design perfetto) per richiamare la genuinità e la ricchezza degli ingredienti con cui veniva fatta la pasta Barilla. Non ho mai saputo se la storia fosse vera o meno, però è sicuramente bella ed altrettanto sicuramente poco conosciuta. Se proprio devo decidere che devo mettere una didascalia al mio logo (non proprio un sintomo di forza di marchio) almeno che sia affascinante.
Il logo corporate avrà (forse) guadagnato qualcosa in stile, ma ha perso molto in anima.
Chiudo rispondendo alla prevedibile obiezione che uno è il logo corporate e l’altro è quello di un’azienda (o strategic business unit che dir si voglia): non ho mai creduto alle aziende ed alle marche schizofreniche con personalità dissociata. Una marca è un insieme di segni a cui le persone attribuiscono un determinato significato, quindi o le varianti di marchio sono abbastanza simili da trasmettere lo stesso significato (Barilla corporate o Barilla pasta che sia) oppure sono abbastanza diverse da trasmettere due significati diversi (di conseguenza non capiscono più di cosa si sta parlando).
L’impressione guardando la cosa totalmente dall’esterno è che in Barilla abbiano quello che il mio maestro di scherma rumeno chiamava un attacco a coda di pesce, quando volendo fare una cosa, senza però esserne convinto fino in fondo, veniva fuori una cosa a metà, che andava un po’ da una parte ed un po’ dalla parte opposta.
Il 99% delle volte uno prendeva la stoccata, ma non è detto che questo succeda anche ai signori di Barilla perchè il mondo degli affari perdona molto di più degli avversari in pedana.

La marginalizzazione del marketing NON ha toccato il fondo

Nell’ultimo post (lo so che è passato un po’ di tempo, ma ho avuto da fare) mi ero impegnato ad approfondire gli aspetti concettuali del supposto declino del marketing.
Nel frattempo però ho cambiato idea sull’ipotesi, che è diventata una affermazione, perchè al di là dei concetti ho messo in fila un po’ di fatti (fonte sempre gli articoli vecchi di un anno di Marketing Management):
- dal 1998 al 2007 la quota del budget dedicata al trade marketing è cresciuta dal 56% al 60%, quella per la pubblicità è passata dal 25% al 26% mentre quella per promozioni al consumatore è passata dal 19% al 14%. Ergo le aziende hanno ridotto il loro dialogo diretto con il consumatore, delegandolo in misura maggiore al trade. Anche con la più buona volontà, ipotizzare che qualcosa si sia perso nel trasferimento è il minimo.

- malgrado oggi ci sia una disponibilità di strumenti di analisi del mercato e del consumatore che non ha eguali nella storia, sotto la pressione continua della (presunta) urgenza, l’inquadramento delle situazioni aziendali viene generalmente fatta in modo approssimativo e semplicistico e le decisioni vengono quindi prese di fatto in base ad intuito/esperienza. La media è la madre di tutti i descrittori, bene che vada si fanno distribuzioni di frequenza. Poi ogni tanto qualche alieno riesce a sviluppare strategie basate sull’applicazione di tecniche di analisi multivariata ai semplici dati interni ed ottiene risultati talmente eclatanti da sembrare casuali. Questo senza parlare della mappatura neuronale o dei panel on line, perchè in realtà il punto non sono le tecniche, quanto piuttosto l’approccio focalizzato sulla mera risposta agli stimoli piuttosto che sulla comprensione dei meccanismi che attivano la risposta.

- la funzione marketing ha smesso di essere il centro della creatività aziendale come era in passato (direi oramai più 10 che 5 anni fa), con conseguente perdita della capacità di innovare significativamente e quindi banalizzazione (commodization) delle marche e dei prodotti.

Credo che la lista dei problemi adesso sia sufficentemente lunga e dettagliata. Al prossimo post (spero presto) le soluzioni.

La marginalizzazione del marketing ha toccato il fondo?

Nel suo commento al mio ultimo post Diego Illetterati mi invita ad essere ottimista sul presente e futuro del ruolo del marketing nelle organizzazioni, ricordando che dopo aver toccato il fondo, si può solo risalire.
Sarà che in questo periodo sono particolarmente pessimista, però ho visto abbastanza situazioni aziendali per sapere che toccato il fondo … si può sempre cominciare a scavare. E poi, come si dice a Venezia, el pezo no xè mai morto.
In realtà il punto è cercare di definire la situazione per trovare delle possibili soluzioni.
Buona parte del mio pessimismo mi viene, come già detto, dalle circostanziate analisi che ho letto durante le vacanze.
Particolarmente interessante un articolo di M.Carl Johonson III, senior vice president e chief strategic officer della Campbell Soup Company (non il primo mona che passa, per capirci) ed Henry Rak (consulente). Ecco in sintesi cosa dice.
Uno degli obiettivi principali delle aziende di beni di consumo (Consumer Packaged Goods) è quello dei sostenere una crescita organica e profittevole (scusate l’anglicismo, ma sul momento non mi viene niente di meglio). Non è solo, evidentemente, una delle sfide principali, ma è anche quella in cui sono più alti i fallimenti, anche da parte delle grandi aziende che, in teoria, dovrebbero avere tutti i mezzi per vincerla.
La loro ipotesi è che la ragione principale di questi fallimenti sia il declino delle competenze e capacità di costruzione delle marche, acuito dal mancato utilizzo degli strumenti di analisi del mercato che, ironia della sorte, non sono mai stati potenti come oggi.
Il marketing strategico ha il compito, e quindi deve avere l’abilità, di formulare un posizionamento strategico della marca in grado di guidare ed indirizzare con efficientemente ed efficaciemente la pianificazione di marketing, tanto nella visione di lungo periodo che nelle tattiche di breve. Deve quindi definire con precisione target, scenario competitivo, il benefit della marca, i suoi attributi e la sua personalità.
Se tutto questo può sembrare ovvio, ecco un dato di una ricerca del 2005 realizzata dall’ Association of National Advertiser americana secondo cui i 4.000 dirigenti di marketing interpellati definivano “un-healthy” l’organizzazione e le pratiche di marketing all’interno della propria organizzazione in una percentuale che oscillava dal 64% del settore energia al 31% di quello retail.
Secondo un sondaggio informale (e qui la cosa va presa con le molle) condotta dalla Henry Rank Consulting (la società di consulenza di uno degli autori) presso i dirigenti di marketing di alcune tra le principali aziende produttrici di beni di consumo, questi dichiaravano di destinare solo il 15-30% del loro tempo a fare effettivamente marketing. La maggior parte del loro tempo veniva assorbita da altre attività che afferivano in realtà ad altre funzioni (l’unico parametro serio che conosco io per attibuire effettivamente i compiti alle funzione è quello di chi possiede/genera direttamente il maggior numero di informazioni necessario per svolgere quel compito) oppure potevano essere automatizzati. Gli esempi sono: fare previsioni di vendita, sollecitare feed-backs sui progetti in corso, verificare piani di produzione. Suona familiare a qualcuno dei professionisti di marketing che leggono? Se sì, consolatevi perchè a risultati simili è arrivata anche una ricerca del 2006
Il problema non riguarda solo il presente, ma soprattutto il futuro, nel momento in cui i nuovi professionisti di marketing crescono professionalmente senza capire l’importanza cruciale che ha il posizionamento strategico nella crescita di una marca e quindi non hanno nella loro formazione le basi dell’analisi e del pensiero strategico. Il risultato sarà lo sviluppo di un visione di breve periodo da parte di persone che vengono valutate e promosse all’interno dell’organizzazione in base ai risultati che ottengono nella gestione delle limitate mansioni tattiche che gli vengono affidate.
In sintesi, prendendo l’esempio a prestito da un’altro articolo è che la moggior parte dei professionisti di marketing passa la maggior parte del proprio tempo a servire ai tavoli (prendendo le “comande” delle altre funzioni aziendali), senza guardare al menù, creare nuovi menù e stare in cucina a sviluppare nuovi piatti insieme allo chef.
Soluzioni? Forse è il caso di approfondire ancora un po l’analisi concettuale delle cause.

Marketing e democrazia

Questo non è un’altro dei miei post politici, anche perchè ogni giorno in politica succede o si dice qualcosa che lascia (se possibile) ancora più senza parole del giorno prima.

E’ invece un post che mi è stato ispirato da un commento di un collega di un’altra azienda, facendomi tornare in mente tante situazioni simili vissute durante questi anni di azienda, e di cui ho trovato concettualmente conferma nelle letture estive.

Ci siano un capo azienda (Proprietario / Presidente / Amministratore Delegato / Direttore Generale / Direttore di Divisione, fate voi), un direttore marketing, un direttore vendite, un direttore amministrativo ed un direttore tecnico riuniti nel comitato di direzione per decidere una strategia/tattica di marketing (una campagna pubblicitaria, un’etichetta, un’attività promozionale, fate voi) . Il direttore marketing presenta le diverse ipotesi sviluppate sulla base delle esigenze espresse dalle diverse funzioni e dal mercato, della situazione e degli obiettivi generali aziendali e delle capacità tecniche interne e dei fornitori, magari indicando quella che valuta la soluzione migliore.
Poi come viene presa la decisione? Oramai è la norma che la scelta di quale ipotesi perseguire avvenga secondo l’opinione del capo azienda oppure a maggioranza.
Il primo caso può anche una logica in quanto il capo azienda è il responsabile ultimo dei risultati, ma la decisione a maggioranza non sta nè in cielo nè in terra. Le competenze, e quindi la capacità di analizzare determinate situazioni aziendali e sviluppare attività che rispondano a queste situazioni valutandone la fattibilità e gli effetti nel breve-medio-lungo termine, non hanno niente a che vedere con la maggioranza.
Dite che vedo le cose con la permalosità del direttore marketing inconcludente che dalla sua torre d’avorio si occupa di attività i cui risultati sono difficilmente misurabili e che vuole sfuggire a qualsiasi controllo?
Può essere, pero a me sembra che sia come se per decidere la terapia di un paziente con problemi polmanare si decidesse a maggioranza in un comitato di medici composto da un pneumolgo, un gastroenterologo, un chirurgo e un oculista.
Pensiamo alla stessa riunione del comitato di direzione in cui si discuta di qualcosa che riguarda aspetti amministrativi, gestionali o produttivi. La norma è che il titolare della funzione preposta indichi la soluzione migliore sulla base delle analisi fatte e che questa venga adottata con i necessari adattamenti operativi.
Il sospetto che non sia solo mania di persecuzione è confermato anche da una ricerca fatta nel 2005 da Booz Allen Hamilton per conto della Association of National Advertisers americana, la quale ha rilevato che più del 50% delle decisioni prese dall’alta direzione in area marketing sono second-guesses.
La crescente debolezza del marketing come funzione strategica all’interno delle organizzazioni che è stata la considerazione alla base della nascita di questo blog, sembra ben lungi dal migliorare.