Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 6: le politiche di PERCEZIONE (già promo-pubblicità).

Anche il post di oggi parte in teoria un po’ in discesa perchè sul futuro di questa parte del marketing ho già riflettuto sempre lo scorso 19 maggio, quando ho introdotto le’evoluzione di “distribuzione” in “presenza” e “promo-pubblicità” in “percezione” (per amor di precisione ricordo che i termini inglesi originali nella teoria kotleriana classica sono “place” e “promotion”).

Dei due termini frutto delle riflessioni nate dalla voglia di mantenere la “4P” anche in italiano “Presenza” è quello che è sembrato generalmente più indovinato per descrivere i nuovi contesti di mercato, mentre “Percezione” è stato spesso giudicato più una forzatura formale per amor di “P” piuttosto che l’espressione di un diverso punto di vista.

Confesso che la cosa un po’ mi ha stupito perchè in realtà già il termine inglese “Promotion” mi è sempre sembrato il meno efficace dei quattro (pro memoria: gli altri tre sono product, price e place) per l’aderenza solo parziale alle attività che contiene.

Sempre seguendo l’enunciato del Kotler in “Marketing Management” all’interno di “Promotion” ci sono le attività di comunicazione che forniscono al consumatore ragioni d’acquisto, tipicamente pubblicità e PR+passaparola, le attività di promozione che forniscono al consumatore incentivi all’acquisto, promozioni di prezzo, concorsi, ecc…, e le attività di vendita diretta che argomentano l’acquisto con un mix di comunicazione e promozione, come le vendite telefoniche per esempio.

Proprio perchè “promozione” mi sembrava un termine riduttivo a rappresentare questa varietà di concetti strategici e tattici, io in italiano ho sempre utilizzato il (brutto) termine “promo-pubblicità”.

PERCEZIONE però e me è sembrato un sostanziale passo in avanti nel significare il risultato ultimo dell’integrazione di tutte le attività intraprese dalla marca, non solo quelle appartenenti alla funzione Promo-pubblicitaria.

Come ho già scritto in più di una occasione, tutti gli elementi che determinano la forza di una marca si possono ridurre e sintetizzare nelle due dimensioni della PERCEZIONE e del grado di CONOSCENZA che il mercato ha della marca.

E’ evidente l’influenza sulla percezione che ha dell’aspetto del prodotto/servizio nel suo senso più ampio che comprende materiali e forma della confezione, dell’etichetta, la caratterizzazione grafica e tipografica, ecc..

E’ altrettanto assodato il ruolo del prezzo nel far percepire l’esclusività e la qualità di un prodotto/servizio ed il conseguente ruolo delle promozioni, di prezzo e non, nel rafforzare o indebolire la percezione suggerita dal prezzo.

Forse meno evidente, ma sicuramente chiaro il peso che gioca nella percezione la scelta dei modi e canali distributivi. Il tipo di presenza suggerisce delle preconfigurazioni in termini di qualità, esclusività, accessibilità, ecc…

Da tutto questo preambolo deriva che le politiche di comunicazione/promozione, ossia Percezione, nel marketing futuro dovranno necessariamente tener conto dell’INTEGRAZIONE tra tutti gli elementi del sistema della marca (ok oggi ho deciso che parlo come quelli veri).

Ma perchè l’integrazione sia efficace è necessario che sia coerente nel tempo e nello spazio, ed il modo più efficiente per avere un’integrazione coerente è ESSERE (concetto che oramai, avrete capito, vedo alla base del marketing del futuro).

Pura teoria? Mica tanto, eccovi l’esempio di Fulvio Bressan, produttore vinicolo friulano di fascia alta.

Il 22 agosto del 2013 Fulvio Bressan fa un commento fortmente razzista sul Ministro Kyenge sul suo profilo facebook.

Immediatamente inizia la discussione sui social network tra sostenitori e detrattori di Bressan. Il giorno dopo la notizia viene coperta dai principali blog del vino italiadni e da alcuni in lingua inglese.

A questo punto la viralità diventa inarrestabile, la presa di posizione di Bressan su un tema politicamente caldo come il razzismo in generale e quello nei confronti del ministro Kyenge in particolare trova spazio in un articolo di “Repubblica” che viene poi ripreso dal Guardian e via via fino a testate negli U.S.A., Svizzera, Francia, Sudafrica, Nuova Zelanda, India.

La guida dei vini Slow Food, i cui valori sono “buono, pulito e giusto”, decide di non recensire il vini di Bressan per la suo prossima edizione e lo stesso fa Monica Larner, una delle principali e più seguite critiche enologiche statunitensi per i vini italiani.

Non ci sono notizie precise sulle reazioni di importatori/distributori/consumatori dei vini di Bressan.

Qui il link al post con la sintesi della vicenda pubblicata a suo tempo dal blog Intravino.

L’esempio è particolarmente interessante per la sua chiarezza dovuta a diversi aspetti:

- l’automatica coincidenza tra l’essere Fulvio Bressan e la marca Bressan, sia per la piccola dimensione aziendale sia per la voluta e ricercata identificazione del viticoltore ed enologo con i sui vini. L’essere è unico, senza distinzioni e separazioni tra il Bressan viticoltore, il Bressan enologo ed il Bressan che parla (scrive) ai sui amici (contatti) di facebook.

- di conseguenza la percezione è il risultato dell’integrazione della comunicazione nei diversi modi, tempi e stili dell’essere unico. Il pubblico tirerà le somme di eventuali distonie ed incoerenze, arrivando ad una percezione “netta” e su questa base si rapporterà con la marca.

- il contenuto, in questo caso il razzismo, è il principale fattore che determina l’interesse relativamente al messaggio, più che la sua forma/stile.

- l’estensione e la profondità che può raggiungere il passaparola tramite i social, che a loro volta rimbalzano sui mezzi di comunicazione ufficiali (tradizionali e non) rende sostanzialmente incontrollabile già oggi la diffusione della comunicazione. Per il futuro possiamo solo aspettarci una ulteriore riduzione della capacità/potere delle organizzazioni nel controllare il contesto comunicativo in cui operano.

Dite che questo esempio è da manuale proprio perchè relativo ad una realtà semplice, come una piccola azienda vinicola?

In realtà le stesse considerazioni si potevano fare relativamente alle dichiarazione di Guida Barilla e la presenza di famiglie gay negli spot della sua azienda (“mai uno spot con i gay”). Qui in realtà c’è un elemento nuovo: fino a che punto è giusto identificare l’essere del marchio Barilla con l’essere dei suoi azionisti?

Oppure si potevano fare riflettendo sull’effetto che ha avuto la morte dell’orsa Daniza nell’immagine del Trentino come ESSERE un  territorio vocato alla natura.

Allora la gestione efficace della percezione nel marketing del futuro dovrà partire da una profonda ed onesta introspezione che definisca in modo chiaro e condiviso l’essenza dell’organizzazione/marca.

Da questo sarà possibile sviluppare contenuti rilevanti perchè coerenti e forti perchè integrati in tutte le espressioni dell’organizzazione/marca.

Di conseguenza discenderanno anche gli stili, più che le modalità, delle diverse attività che veicolano la percezione.

Credo sia giusto sottolineare come questo processo abbia molto a che fare con l’interno dell’organizzazione/marca e pochissimo a che vedere con il consumatore o target market.

Parlando di marketing sembra strano, però non è voluto a priori: è semplicemente la conseguenza della linearità del ragionamento, ma probabilmente si giustifica pensando alla crescente frammentazione dei segmenti di mercato.

Nel momento in cui diventa difficile/impossibile definire le caratteristiche che identificano un segmento di mercato sufficentemente grande da avere un senso economico saranno più le persone ad intercettare le marche e non viceversa.

Concludo ricordando che se siamo, e lo siamo, tutti nel mercato dei contenuti più che di segmenti di consumatori, sarebbe opportuno parlare di audiences di ascoltatori. Ad ogni modo sempre di persone si tratta.

Social media marketing: cacciatori di scalpi!

L’altro giorno arriva una mail in azienda ricordando di rinnovare l’iscrizione ad un data base on line e sottolineando che allo stesso costo del 2011 avremmo avuto piu’ visibilita’ perche’ le visite al sito erano aumentate di 300.000 visitatori.
Telefonata all’agenzia che ci gestisce il sito, chiesto quanti visitatori avevamo ricevuto da quel data base, risposta “0″, risparmiati 100 euro.
Morale: come sanno oramai anche i sassi (che comunque sono vivi, solo ad un ritmo incredibilmente piu’ lento del nostro) il web ha il grande vantaggio di poter misurare buona parte dei risultati di quello che si. Bisogna pero’ averne il tempo, la voglia e la capacita’ (un po’ come per le catene di supermercati utilizzare i dati delle carte fedelta’ dei consumatori per realizzare strategie piu’ efficaci del 3×2 a tutti).
Invece anche nel web, come in ogni settore, valgono le mode e adesso siamo nel clou della moda del social media marketing.
Ecco quindi tutti a fare a gara per il numero di likes su facebook o di followers su twitter. I termini ufficiali sono fan, amici, followers, ma per me nella stragrande maggioranza dei casi la parola giusta è … scalpi.
Nel senso che finiscono per essere trofei da mettere in mostra senza diventare dei veri rapporti tra la marca/azienda e le persone/consumatori-trici.
Un po’ di numeri di fan presi da facebook pescando nel settore alimentare,senza nessuna pretesa di correttezza del campionamento:
Coca-Cola (pagina ufficialmente NON creata dall’azienda, ci credo fino a lì): 36.492.100 likes.
Starbucks: 26.517.529 likes (che diventano parecchi di più se si sommano quelli delle fan page nazionali dei diversi Paesi).
Nutella: 11.887.333 likes (poi ci sono tutti gli altri marchi della Ferrero che hanno altri svariati milioni, mentre quella della Ferrero come azienda che ha solo le informazioni, non ha nemmeno la bacheca e tra quella in inglese e quella in italiano non arriva nemmeno a 10.000 likes. Coerenti fino in fondo nella loro strategia di branding, come sempre giù il cappello davanti ai signori di Alba).
Illy: come tale non c’è. C’è come illyssimo e come espressamente illy rispettivamente con 11.229 e 3.202 likes (????).
Lavazza: 53.995 likes (??).
Barilla: 42.267 likes (???).
Qui mi fermo ed aggiungo il link ad una mia analisi sui risultati facebook delle cantine italiane presentata un anno fa al wine camp di Firenze Wine Town.
La domanda, oggi come allora, è: al di là delle mode qualcuno si è soffermato ad analizzare i dati quanti-qualitativi deilla propria attività di social media marketing?
Perchè la quantità di Coca Cola o Starbucks può fare da sola anche la qualità, per gli altri esempi di grandi aziende italiane, ma i commenti per Illy e Lavazza vengono anche dall’estero, direi che proprio non ci siamo (siccome è quasi Natale non vado a guardare quelle piccole). Ricordo che nel 2010 (dati più recenti non ne ho trovati) gli utulizzatori di facebook in Italia erano 16.000.000.
Non siamo in termini di efficenza perchè facendo una stima per difetto un’azienda come Barilla tra struttura delle piattaforme, loro gestione e gestione delle relazioni almeno 60.000 € all’anno sul social media marketing li mette. Quindi parliamo di 1,5 €/contatto. Che è un enormità.
La replica delle agenzie che si occupano di web a vario titolo è che però sono contatti qualificati, che costruiscono una relazione tra la marca e le persone, che a loro volta diventano ambasciatori della marca. Benissimo!
Signori brand managers quand’è l’ultima volta che siete andati a guardare le statistiche di attività dei fan della vostra pagina facebook? Scoprirete che, come accade tra gli “amici” della vostra pagina personale, l’80% dell’attività è fatto dal 20% degli iscritti (se va bene) e quindi i numeri di cui sopra diventano ancora più piccoli.
Anche perchè per creare una relazione bisogna avere dei valori forti ed impegnarsi poi a costruirla ed a mantenerla, magari, come insegna l’ABC del (web) marketing coinvolgendosi in prima persona e non facendo gestire le attività social al personale dell’agenzia di PR. Sarà un caso che Starbucks 2 anni fa aveva 16 dipendenti a tempo pieno per seguire le proprie pagine facebook?
Invece prevale il delirio narcisistico da onnipotenza che porta le aziende a credere alle agenzie quando gli dicono “noi creiamo lo spazio, per un po’ tempo attiviamo l’interesse e la discussione con i nostri contenuti e poi la comunità si muove e cresce da sola”. Non è necessaria una grande umiltà, basterebbe un po’ di buon senso per chiedersi se davvero i valori, la qualità e credibilità dei contenuti che esprime la marca siano così forti e rilevanti da portare le persone a coinvolgersi così tanto personalmente. In altre parole la maggior parte delle persone ha per la maggior parte delle marche poco più di una preferenza (ed è giusto che sia così), cosa che non è sufficente per accendere forti affinità con le altre persone che condividono questa preferenza e meno che meno per coinvolgersi personalmente attivimanete in quello che la marca fa on e off line. Detto in altre parole ancora, se voglio creare uno spazio sul web in cui trovarmi con i miei amici o trovare degli “amici”, ci sono un sacco di posti migliori.
Sto implicando che il social media marketing è un non-senso per la maggioranza delle aziende? Nemmeno per sogno. Sto implicando che vanno definiti obiettivi sensati e strategie coerenti agli obiettivi in termini dei risultati da conseguire e delle risorse da investire.
Quando mi occupavo di queste cose preferivo reclutare di APOSTOLI più che di ambasciatori della marca.
Preferivo avere 100 contatti in meno (tanto tra averne 1.000 o 1.500 sempre pochi sono).
Preferivo riuscire a seguirli in modo da arricchire la relazione ogni giorno.
Preferivo rivolgermi aglli opinion leaders pubblici e privati (ossia quelli che sono opinion leaders nel loro ambiente) per ottenere un effetto alone (o virale come si dice oggi).
E periodicamente c’era qualcuno che diceva si … ma … quel concorrente ha 100 – 200 -500 fan più di noi, mentre la vera domanda dovrebbe essere: non è che questi soldi possono essere investiti meglio in altre cose, al di là delle mode?
Trascorrete un Natale di pace perchè, come diceva lo spot della Coca Cola, la felicità non va mai in crisi. Oppure se preferite Tolstoi “Se vuoi essere felice, siilo”, che il concetto non cambia.
Per la befana prometto la terza,e ultima, puntata sul calo dei consumi nazionali di vino e la microeconomia.

Logo Barilla: evoluzione-rivoluzione e ritorno

Premessa: in questi anni di lavoro ho realizzato più volte cambiamenti di immagine di marchi/prodotti in senso evolutivo. Keglevich (2 volte), Limoncè, Brandy Stock, Grappa Julia, Santa Margherita sono i primi che mi vengono in mente. La questione è sempre di modificare l’aspetto dei marchi/prodotti in modo che le persone le percepiscano “meglio” rispetto al posizionamento voluto (più prestigio, più genuinità, più contemporaneità, più freschezza ecc.) senza quasi rendersi conto del cambiamento. In altre parole il prodotto diventa più “bello”, ma se non metto di fianco le due versioni (prima e dopo) difficilmente riesco a dire cosa è cambiato.
Visto che oramai sono vecchio del mestiere ho realizzato anche cambiamenti in senso rivoluzionario. I wurstel Principe sono diventati Wulevù, il Wapping Gin, l’amaro Radis, la grappa Goccia, i vini della Cantina Torresella e quelli della Tenuta Sassoregale. In questi casi l’aspetto delle marche/prodotti è talmente distonico rispetto al posizionamento voluto, che diventa necessario creare una rottura, nei casi estremi facendo un prodotto totalmente nuovo anche in termini di nome e di caratteristiche organolettiche (visto che ho sempre lavorato nell’alimentare).
Pensavo a queste cose oggi quando mi è arrivato l’invito per un convegno organizzato da Barilla, su una carta intestata che riportava il nuovo logo corporate che vedete qui sotto

E’ evidente, magari anche logico e condivisibile, che Barilla abbia voluto cercare di darsi un logo che possa rappresentare meglio l’allargamento del suo ambito di business, eppure non posso fare a meno di chiedermi perchè abbia abbandonato il suo logo storico:

Il nuovo logo corporate sarà anche graficamente è più pulito ed ha proporzioni che ne rendono sicuramente più semplice l’utilizzo sui più diversi materiali, però è artificiale. Sembra la copia fredda (non solo per il colore blu) di quello originale. Non so se è solo questione che quello originale (mantenuto per la pasta) sono abituato a vederlo da quando sono nato, argomento comunque non banale. Secondo mè è soprattutto dovuto al fatto che è troppo uguale, senza essere lui. Una volta qualcuno mi ha raccontato che l’ovale bianco contornato di rosso che fa da sfondo alla scritta Barilla è la stilizzazione di un uovo (che tra l’altro è l’esempio del packaging design perfetto) per richiamare la genuinità e la ricchezza degli ingredienti con cui veniva fatta la pasta Barilla. Non ho mai saputo se la storia fosse vera o meno, però è sicuramente bella ed altrettanto sicuramente poco conosciuta. Se proprio devo decidere che devo mettere una didascalia al mio logo (non proprio un sintomo di forza di marchio) almeno che sia affascinante.
Il logo corporate avrà (forse) guadagnato qualcosa in stile, ma ha perso molto in anima.
Chiudo rispondendo alla prevedibile obiezione che uno è il logo corporate e l’altro è quello di un’azienda (o strategic business unit che dir si voglia): non ho mai creduto alle aziende ed alle marche schizofreniche con personalità dissociata. Una marca è un insieme di segni a cui le persone attribuiscono un determinato significato, quindi o le varianti di marchio sono abbastanza simili da trasmettere lo stesso significato (Barilla corporate o Barilla pasta che sia) oppure sono abbastanza diverse da trasmettere due significati diversi (di conseguenza non capiscono più di cosa si sta parlando).
L’impressione guardando la cosa totalmente dall’esterno è che in Barilla abbiano quello che il mio maestro di scherma rumeno chiamava un attacco a coda di pesce, quando volendo fare una cosa, senza però esserne convinto fino in fondo, veniva fuori una cosa a metà, che andava un po’ da una parte ed un po’ dalla parte opposta.
Il 99% delle volte uno prendeva la stoccata, ma non è detto che questo succeda anche ai signori di Barilla perchè il mondo degli affari perdona molto di più degli avversari in pedana.

Alixir di Barilla

regularis_barretta_nocciola Qualche tempo fa avevo visto sulla stampa specializzata la notizia del lancio da parte di Barilla della nuova linea Alixir e la cosa mi aveva incuriosito. Quando poi un paio di settimana fa ho visto la pubblicità in televisione, la mia curiosità è cresciuta ancora di più ed ho quandi pensato di condividere nel mio (rinato blog) i miei pensieri.
Primo motivo di curiosità è stato il packaging perchè non lo capisco nè in senso assoluto, nè in quello relativo. In senso assoluto la combinazione nero/giallo (arancio) è, almeno nelle società occidentali, quella utilizzata (e quindi associata) ai segnali di pericolo. In senso relativo perchè assolutamente distonica rispetto alla categoria. E’ vero che, ad esempio, Muller è riuscito a distinguersi cambiando i codici colore di riferimento della categoria degli yogurt con il suo blu, e nella stessa categoria Activia ha fatto del verde un elemento importante del suo posizionamento. Però erano colori appunto coerenti con il posizionamento distintivo, piacere e salutarietà, con cui si proponevano le marche. Il nero è sicuramente disntivo nella categoria specifica e nell’alimentare in genere, ma non è detto che lo sia in positivo.
Poi sempre in termini relativi la scelta dei codici colori non ha niente a che vedere con quelli della marca Barilla. Niente impedisce ad un’azienda, specie se grande, di lanciare una nuova marca indipendente, però in questo caso la pubblicità di apre con lo speaker che dice “Barilla presenta …”.
Ecco quindi il secondo motivo di curiosità, perchè mi sono guardato tutto lo spot aspettando che in qualche momento apparisse la firma Barilla, ma ho aspettato invano. Dove sta quindi il vantaggio di spendersi il valore del marchio Barilla se l’aspetto del prodotto non lo richiama in alcun modo ed il marchio nemmeno appare. Che ci sia forse il tentativo di dare comunque il supporto di un grande marchio ad una nuova linea in una nuova categoria merceologica, senza però volerlo far apparire troppo per evitare eventuali indebolimenti dovuti ad eccessiva distonia merceologica e/o eventuale insuccesso della nuova linea? Non vorrei essere troppo drastico per un’analisi fatta a tavolino con informazioni che definire parziali è già troppo, ma sento puzza di quella che il mio maestro di scherma romena chiamava una strategia a “coda di pesce”: ho deciso di fare una cosa, ma non sono del tutto convinto e quindi la lascio a metà senza andare nè da una partenè dall’altra. avrete già intuito che il risultato più probabile, almeno a spada, è quello di subire la stoccata.
La mia sorpresa però è aumentata ancora quando sono andato sul sito e mi sono trovato un’immagine coerente con il packaging dei prodotti firmata in calce da quello che defineri un abbozzo di logo Barilla (nel senso che c’è il nome scritto con il suo specifico carattere, ma senza la stilizzatione dell’uovo intorno.
A questo punto il fatto che i diversi prodotti non appaiano sullo schermo quando si passa mouse sui nomi delle 4 linee che compongono la gamma mi è sembrato un dettaglio (non banale direi per una linea nuova che deve farsi conoscere dal consumatore).
L’ultima delusione (perchè comunque Barilla è un’azienda che merita ed ha tutto il mio rispetto) mi è venuta dallo strumento per trovare con cui trovare i punti vendita dove sono distribuiti i prodotti Alixir. Quando ho inserito Trieste mi sono venuti fuori numerosi supermercati (a dimostrazione della forza distributiva di Barilla), peccato però che fossero indicati con la ragione sociale e non con il nome dell’insegna e quindi, a parte PAM e Coop, irriconoscibili per il consumatore. E’ vero che uno può sempre andare all’indirizzo preciso e li troverà un supermercato, ma non mi sembra il massimo del servizio al consumatore indicargli la TM 2004 srl – via Battisti 22.
Ad onor del vero devo ammettere che nelle quattro aziende per cui ho lavorato nei miei quindici anni di professione solo nella prima le anagrafiche dei clienti riportavano sia la ragione sociale che l’utilissima informazione del nome del negozio/supermercato/locale ed in tutte le altre ho faticato (anche perchè è un lavoraccio) a farlo aggiungere.
in sintesi non so come sta andando e come andrà la linea Alixir (a cui auguro ogni bene), ma se la coerenza intrinseca delle strategie è una precondizione del successo di una marca direi che non mi sembra partita con il piede giusto. Se qualcuno ha maggiori informazioni a supporto o smentita della mia analisi, sono benvenutissime.