Come gestire con successo l’agenzia creativa interna.

Lo so, fa un po’ strano scrivere di marketing in questi giorni, però non fa neanche bene ragionare del minchiavirus 24 ore su 24.

E poi con il tempo a disposizione sto cercando di portarmi in pari nella lettura di “Marketing News”. Sul numero di agosto 2019 ho trovato un interessante articolo su come creare e gestire agenzie pubblicitarie/creative interne all’azienda.

Personalmente non ho mai lavorato in un’azienda che avesse un’agenzia creativa interna. Ci sono andato vicino quando ho lavorato in Stock, nel senso che l’agenzia interna era stata smantellata tre anni prima della mia assunzione, per la riorganizzazione seguita all’acquisizione da parte del gruppo tedesco Eckes nel 1997.

In Stock la creazione di un’agenzia pubblicitaria interna era stata una scelta quasi obbligata, perché nei tempi pioneristici del dopoguerra era difficile trovare una casa di produzione in grado di realizzare gli “spot” per Carosello.

L’agenzia pubblicitaria della Stock riuniva le funzioni di un’agenzia pubblicitaria, di una casa di produzione e di un centro media. C’erano quindi ufficio mezzi, art director, copywriter, grafici, ecc…

Già nel 1997, quando poi venne smantellata, si trattava di un dinosauro nel panorama delle aziende italiane (e credo anche mondiali).

Avere un’agenzia creativa interna presenta sostanzialmente due problemi:

-          È un costo fisso in termini di personale, che in momenti di minor attività di comunicazione aziendale non può essere coperto aumentando il parco clienti (problema di efficienza).

-          Rischia di essere poco creativa perché chiusa nel perimetro della marca, o marche, aziendali in termini concettuali e statica in termini di personale, quindi povera di stimoli esterni (problema di efficacia).

Specularmente ha due vantaggi:

-          Dedizione totale alle esigenze aziendali, con conseguente rapidità di intervento e massima flessibilità all’allocazione delle risorse in base alle necessità stabilite dall’azienda.

-          Miglior compenetrazione con la cultura aziendale, visto che ne è parte.

Grosso modo negli ultimi cinquant’anni le aziende hanno considerato che gli svantaggi superassero i vantaggi ed hanno gestito la propria creatività e comunicazione affidandosi ad agenzie esterne.

Se oggi si torna a valutare la creazione di agenzie creative esterne è per il cambiamento dei mezzi e dei meccanismi di comunicazione. La crescita della comunicazione attraverso il web ed i social networks implica la necessità di comunicare in maniera continuativa durante tutto l’anno, rispetto alle campagne pubblicitarie “periodiche” utilizzate nelle strategie di comunicazione “Classiche”, attraverso la creazione di contenuti più articolati rispetti a quello di uno spot TV/radio o di una pagina pubblicitaria / cartellone pubblicitario.

Da qui la cresciuta importanza che viene data alla capacità di narrare storie autentiche relative alla marca.

Ecco quindi che i vantaggi di avere un’agenzia creativa interna acquistano un peso maggiore, tale da portare a considerare la creazione di una agenzia creativa interna.

Crearla non significa automaticamente farla funzionare con efficacia ed efficienza, quindi vale la pena di individuare gli elementi critici per gestirla con successo.

Dimensione aziendale:

Per giustificare i costi di un’agenzia creativa interna è necessario che l’azienda abbia una dimensione medio-grande e/o sviluppi un volume di comunicazione elevato.

Io personalmente consiglio di avere la posizione di social media manager interna appena possibile, quindi anche in aziende relativamente piccole. Questo perché il social media manager esterno non potrà mai avere la stessa velocità di reazione ed interiorizzazione della cultura aziendale.

 

Ruolo dell’agenzia interna nell’organizzazione aziendale:

L’agenzia interna dovrebbe essere in staff alla Direzione Marketing, quindi giocare un ruolo strategico nell’organizzazione aziendale.

Dal mio punto di vista inserire l’agenzia interna nell’organigramma aziendale all’interno della Direzione Marketing invece che funzione a sé permette di “proteggerla” meglio dalle richieste tattiche e destrutturate che possono arrivare da tutte le funzioni aziendali sulle iniziative più disparate (dal folder di vendita alla carta intestata dell’Amministratore Delegato).

Prendere coscienza di questo aspetto è cruciale perché passare da avere “servizi creativi” a “servitori creativi” è un attimo. Questo rischio negli ultimi anni si è acuito già con le agenzie esterne, che indebolite economicamente sono sempre più deboli nel dialogo proposito con i clienti, figuriamoci quando l’agenzia è direttamente alle dipendenze dell’azienda.

 

Il lavoro di un’agenzia creativa interna equivale a quello di agenzia esterna e quindi va gestito con la stessa cura.

Secondo la ricerca condotta su 550 professionisti di marketing e creatività alla base dell’articolo di Marketing News il 72% diceva che la raccolta delle informazioni necessarie per iniziare a lavorare sui progetti creativi era l’attività che assorbiva la maggior parte del loro tempo. Il 79% affermava di non ricevere mai, o raramente, un feedback sui risultati della propria creatività.

Le agenzie creative esterne richiedono da parte dell’azienda il rispetto di una serie di processi, essenziali per poter svolgere il lavoro con efficacia (per il cliente) ed efficienza (per l’agenzia).

Questi stessi processi, o buona parte, sono necessari anche alle agenzie interne per lavorare con efficacia ed efficienza.

Sembra incredibile nel 2020 si debba ancora scrivere per sottolineare la necessità di definire un brief creativo, come base di partenza per ogni progetto creativi (ed ancora più incredibile che in 13 anni di biscomarketing non abbia mai scritto un post al riguardo!).

Altra cosa che l’articolo consiglia di fare periodicamente è la registrazione del tempo speso nelle diverse attività, in modo da evidenziare quanto tempo dell’agenzia (interna) è dedicato al lavoro non creativo.

 

Alimentare la creatività.

Forse la cosa più difficile da fare in un’agenzia interna rispetto a quella esterna.

L’agenzia interna infatti si occupa sempre grosso modo degli stessi mercati e delle stesse marche, fatica ad accedere e confrontarsi con best practices in settori diversi dal proprio, possiede meno appeal per attirare, trattenere e ruotare talenti creativi.

Si può ovviare a questi problemi adottando alcuni accorgimenti:

-          Integrare l’agenzia interna con quella esterna: ad esempio nel caso di un social media manager interno, può essere utile dotarlo del supporto di un’agenzia esterna per lo sviluppo degli aspetti più strategici e la misurazione dei risultati.

Avvalersi periodicamente di un’agenzia esterna con cui confrontarsi permette di vedere le cose da un punto di vista diverso, libero dalle distorsioni che si possono creare, ed accumulare, guardando le cose dall’interno.

 

-          Stabilire un programma strutturato per far entrare in contatto l’agenzia creativa con gli altri reparti aziendali, la rete vendita, i fornitori, i clienti ecc…

La creatività ne sarà avvantaggiata sia perché i creativi interni conosceranno meglio la cultura aziendale nel suo complesso che le problematiche ed i vincoli (anche per la realizzazione delle proposte creative) delle diverse funzioni aziendali e del mercato.

Stabilite un programma, una procedura, e siate disciplinati nel rispettarla, perché altrimenti le urgenze del quotidiano vi daranno ogni giorno delle scuse per rimandarlo e disattenderlo.

Ricordatevi sempre che le cose importanti non sono urgenti, perché proprio la loro importanza implica che vengano affrontate con la cura necessaria. Di conseguenza le cose urgenti non sono importanti. Ed ecco che, come per magia, sono sparite le urgenze.

 

-          Prevedete un budget e del tempo per la formazione, perché in questo modo i creativi possono confrontarsi con situazioni diverse.

Attenzione che queste considerazioni valgono pari pari anche per i componenti dell’ufficio marketing.

C’è poi un modo per mantenere più vivace, stimolante e trasparente l’ambiente lavorativo, così banale che quasi quasi nemmeno lo scrivevo: prendete regolarmente degli stagisti.

Coinvolgeteli veramente nel lavoro del reparto, il che significa fargli fare anche le fotocopie, ma non solo. E’ probabile che vi daranno qualche buona idea ed è sicuro che ne faranno venire a voi.

Calano i consumi di birra Corona: assurdo. Calano i consumi di birra Corona: ovvio.

Sto cercando, con alterni successi, di non esprimermi su temi collegati al corona virus per non aggiungere ulteriore rumore di fondo a quello, già grande che c’è.

L’altro giorno però su twitter ho avuto uno scambio di idee con Makkox, al secolo Marco Dambrosio, fumettista, disegnatore, vignettista e autore televisivo come lo definisce Wikipedia.

Per me semplicemente genio visto che ha fatto cose come “La Grande Opera” (ma ne avrei potute linkare decine, anche molto più leggere ed ugualmente geniali)

Lo scambio è nato da un suo post che, sintetizzo, trovava fuori luogo le reazioni al finto spot sulla pizza Corona con il pizzaiolo che scatarra sulla pizza appena sfornata trasmesso in Francia da Canal Plus e dalla mia conseguente risposta che proprio quel giorno un cliente francese che aveva chiesto ad una cantina italiana la tracciatura del prodotto riguardo al coronavirus e che le vendite di birra Corona negli Usa continuano a calare, quindi, sensato o meno il danno rimaneva.

Al quale Makkox mi rispondeva incredulo che a seguito dello spot si sarebbe venduta meno pizza.

Per i più curiosi gli screenshots della conversazione che ne è seguita tra me, Makkox ed i suoi follower di twitter li trovate in calce a questo post.

Questo scambio di battute mi ha convinto a scrivere un post che mi frullava in testa da diversi giorni (dalla notizia del calo dei consumi della birra Corona) sul comportamento del consumatore riguardo ai prodotti alimentari e le conseguenti linee guida per la comunicazione.

Lavoro nel settore dei prodotti agro-alimentari dal 1994 ed ho vissuto in prima persona almeno 3 situazioni di crisi di vendita legate a cose che non avevano direttamente a che fare con l’azienda.

  1. Nel 1995 le minacce di boicottaggio dei salumi Levoni da parte dei negozianti del sud Italia in seguito all’istituzione a Mantova del “Parlamento della Padania” da parte della lega;
  2. Nel 1997 il crollo dei consumi dei wurstel di pollo a seguito della scoperta che l’influenza aviaria si può trasmettere dagli animali all’uomo quando lavoravo al salumificio Principe;
  3. Nel 2008 lo stop delle esportazioni di vino per alcune settimane a seguito dell’inchiesta “Velenitaly” pubblicata da “L’Espresso” quando lavoravo al Gruppo Vinicolo Santa Margherita.

Nessuna di queste crisi aveva alcuna fondatezza oggettiva.

Che la Lega Nord decidesse di mettere il proprio “Parlamento della Padano” a Mantova non aveva niente a che vedere con il fatto che la sede del salumificio Levoni si trovasse, ed ancora è, a pochi chilometri, nel paese di Castellucchio.

Anzi Levoni era, ed è, fortemente radicata nelle regioni meridionali da aver brevettato in Sicilia un salame, la Paisaniella, da talmente tanto tempo che molti consumatori ritengono un salame della tradizione contadina siciliana.

La carne di pollo che si usa per i wurstel è di provenienza nazionale e, anche se fossa, la cottura dei wurstel uccide il virus.

Velenitaly, al di là del titolo usato da L’Espresso, riguardava delle frodi per cui del vino da tavola veniva venduto come DOC, senza rischi per la salute.

Però queste crisi mi hanno insegnato che le persone hanno spesso (normalmente) un comportamento estremamente emotivo, o se preferite irrazionale, riguardo ai loro comportamenti alimentari.

Perché? Di preciso non lo so, ma ho un paio di ipotesi.

  1. Anni fa ho letto un articolo di antropologia dei consumi che sottolineava come gli alimenti e le bevande sono qualcosa che mettiamo dentro al nostro corpo e questo determina un rapporto molto stretto e profondo tra noi e quello che mangiamo e beviamo. Diciamo che era una visione scientifica del proverbio “siamo quello che mangiamo”.

Se io sono quello che mangio, evito di mangiare qualsiasi cibo che mi generi fastidio, anche lieve, anche lontanamente.

  1. I cibi e le bevande sono prodotti facilmente fungibili / sostituibili in termini di marca. Evitare di bere birra Corona non è un gran problema visto che posso bere birre di altre marche, invece di wurstel di pollo posso mangiare quelli di carne di maiale ed invece di vino italiano posso bere vino prodotto in altri paesi.

Per dire, uno può essere assolutamente consapevole che bere birra Corona non comporta alcun rischio di contagio, ma decidere per un po’ di bere birre di altre marche perché ne ha abbastanza di sentire parlare del coronavirus e non vuole qualcosa che glielo ricordi anche quando si beve una birra per rilassarsi. Oppure è stufo di sentire battute sceme.

La consapevolezza del dato di fatto dell’emotività delle persone nei loro comportamenti di consumo alimentare, più ancora di quali ne siano le ragioni, implica alcune linee guida che è bene tenere a mente nella comunicazione delle marche alimentari.

Linee guida che varrebbero anche per la satira, se non fosse che per definizione la satira le regole, giustamente, se le salta. Le conseguenze però rimangano.

 

I contenuti hanno un valore in sé, indipendentemente dal contesto.

Uno che mangia una tartina di caviale e immediatamente la sputa, tipo Tom Hanks in “Big”, nel fondo rimane uno a cui il caviale fa schifo. Se siete dei produttori di caviale non aiuta.

 

Non fate troppo affidamento sul contesto per l’interpretazione del contenuto.

Se già i contenuti possono essere potenzialmente fraintesi, codifica-emissione-ricezione-decodifica e tutto il resto che insegna la semiotica, i contesti per loro natura ancora di più.

Perchè i contesti restano spesso in secondo piano, perché i contesti richiedono di essere interpretati più di quanto non succeda per i contenuti, ecc…

Ad esempio il post di facebook del Partito Democratico che segnalava lo spot della Pizza non diceva che lo spot era “finto”, inserito in un programma satirico.

Meno che meno si comprendeva il contesto (satirico) dalla visione del solo spot che circolava sui siti e sui social. Ossia che nella società digitale in cui viviamo, i contenuti si diffondono spesso spezzetati e separati dal contesto complessivo in cui sono stati creati.

Cosa quindi che peggiora l’ulteriore rischio di fraintendimento legato al fatto che non sempre i contesti sono univoci. Ad esempio “Propaganda live” è un programma di informazione oppure un programma satirico?

 

Rispettate le persone / consumatori.

Tenere conto delle paure e delle idiosincrasie delle audiences a cui si comunica, per una marca significa rispettarle.

E’ stato David Ogilvy, uno dei più famosi pubblicitari americani, a dire “Il consumatore non è stupido, il consumatore è tua moglie”. Immagino si riferisse a quello che ogni tanto accade nelle agenzie pubblicitarie e negli uffici marketing delle aziende: trattare i consumatori/persone come se fossero stupide quando si realizzano i contenuti (messaggi) o, peggio pensare che siano stupidi perché non capiscono il nostro messaggio.

Un atteggiamento che, oltre ad essere concettualmente discriminatorio, è sostanzialmente inutile in termini di business.

Avrà anche ragione MOIMEME quando commenta la discussione su twitter scrivendo “Per non andare al ristorante cinese, a causa del coronavirus, bisogna essere un cretino. Esattamente come quello che non beve più Corona”, ma se tu sei il produttore di birra Corona sapere che i consumatori che stai perdendo sono dei cretini non risolve il problema.

Il parallelo con il marketing politico è talmente lampante che neanche lo spiego. E se non lo capite vuol dire che siete cretini.

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Bravi, ma basta: perché le marche continuano ad utilizzare il content marketing come fosse pubblicità?

Come in qualsiasi altra cosa anche nella gestione aziendale e nel marketing ci sono le mode e oggi vige quella del “content marketing”.

Basta pubblicità ma contenuti comunicati direttamente dalle marche ai propri pubblici di riferimento (chiamateli audiences, targets o come più vi piace) attraverso i propri profili sui social networks.

Il problema è che è il messaggio che fa il messaggio non (più) il mezzo.

Quindi i profili social della stragrande maggioranza delle marche sono pieni di contenuti “pubblicitari” (quando non sono “morti”, lasciati mesi interi senza aggiornamenti).

La foto dei titolari davanti alla nuova sede o quella del nuovo prodotto sono contenuti “pubblicitari”

Il post del venerdì con scritto “Finalmente è arrivato il week-end, ci beviamo un bicchiere del nostro XYZ. E voi con cosa brindate?” è un contenuto pubblicitario. E nemmeno tanto originale. Neanche a Pasqua, Natale, Hallowen, ecc..

Il risultato è che l’engagement dell’attività di content marketing si riduce ad amici e parenti.

E’ un problema? Dipende dalla dimensione della marca e dai costi (di risorse e di tempo) che dedicate alla comunicazione sui social, ma in linea di massima sì perché amici e parenti la marca la conoscono e la preferiscono comunque.

Da quando esistono gli sms gli esperti di marketing e comunicazione si interrogano periodicamente su cosa bisogna fare perché un contenuto abbia maggiori probabilità per diventare virale. Qui trovate un mio post del 2013 che spiega l’approccio STEPPS.

Oggi la faccio ancora più facile per i colleghi che si occupano a vario titolo di marketing e comunicazione. Basta che pensiate a cosa hanno in comune le marche che seguite sui social, esclusi concorrenti, amici, parenti e conoscenti, o cos’hanno i contenuti che condividete.

Nella grandissima maggioranza dei casi si tratta del fatto che non parlano della marca, prodotto ecc…, ma parlano di cose che riguardano le persone. Detto ancora più in sintesi, le persone non condividono i contenuti che parlano di voi, ma quelli che parlano di loro.

Gli affezionati lettori di biscomarketing e chi partecipa alle lezioni che tengo ai vari corsi in cui hanno la bontà di chiamarmi sa che non solo concordo sul fatto che oggi siamo tutti nel business dell’editoria, intesi come creazione di contenuti, ma anche che sostengo che lo siamo sempre stati.

Con questo intendo dire che anche ai tempi della comunicazione monodirezionale (che poi era un’illusione perché le persone tra di loro parlavano anche prima ed il passaparola poteva determinare il successo o il fallimento di una marca, solo che le aziende non potevano sentirlo come lo sentono oggi) la pubblicità più efficace nel posizionare una marca nel periodo medio lungo era quella che comunicava contenuti.

Per una volta invece di tediarvi con lunghe disquisizioni, mi spiego con alcuni esempi.

Il primo è la campagna pubblicitaria che Aldi ha fatto sui social per l’apertura dei suoi punti vendita in Italia. E’ stata una campagna pubblicitaria di successo perché il messaggio parla una cosa che interessa alle persone: una nuova opportunità per risparmiare sulla spesa.

La campagna si è articolata in due fasi: prima con degli spot con protagonisti italiani che vivono all’estero e poi con protagonisti famiglie italiane di cognome Aldi che provavano i prodotti della catena. Una modalità interessante, quindi metto i due esempi:

Il secondo esempio è un video, non so se si può definire una campagna pubblicitaria ma spero che a questo punto abbiate capito che la differenza ha (secondo me) poca importanza, realizzato dalla compagnia aerea scandinava SAS.

Il terzo esempio è il video dell’esperimento fatto dalla catena di supermercati tedesca Edeka che ha tolto dagli scaffali di uno dei suoi supermercati tutti prodotti non tedeschi per mostrare gli effetti tangibili della visione nazionalista di chiusura verso gli altri (paesi).

Prima che vi lamentiate perché sono troppo teorico ed astratto, concludo linkando il post di Pier Luca Santoro su Data Media Hub sui “12+1 errori da NON fare sui social” (no, non ho cointeressenze; solo stima).

Nuova campagna dell’Asti Secco Docg: potrebbe anche funzionare, magari.

Ho pubblicato oggi un post su Vinix che analizza la strategia di marketing e la campagna pubblicitaria per il lancio dell’ Asti Secco Docg.

Al di là di riportare sul mio blog originario quello che scrivo è un post più di marketing che di vino. Mentre lo scrivevo a me sembrava buono, lo trovate qui.

Torno regolare tra due giorni parlando di shopping bots.

Il marketing della controversia.

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Tipicamente e storicamente le marche evitano le controversie. Anche quando prendono posizioni su temi sociali lo fanno in termini positivi, PER qualcosa e non CONTRO qualcosa.

Più che pusillanimità è una questione di rispetto: chi sono io marca per giudicare i comportamenti delle persone?

Anche portando avanti i miei valori di marca, credo sia giusto lasciare a chiunque il diritto di scegliermi, ossia comprarmi (escluso ovviamente l’utilizzo illegale dei prodotti).

In sintesi è il concetto de “il cliente ha sempre ragione”, in parte anche quando non ce l’ha perché un po’ se la compra pagando il prezzo del prodotto/servizio.

Nell’era digitale però il rapporto tra marche e persone passa da essere un rapporto asimmetrico ad uno rapporto tra pari (personificazione delle marche e brandizzazione delle persone), creando uno spazio per l’utilizzo della controversia come strumento di marketing.

Un esempio eclatante è quello della campagna “Are you beach body ready” realizzata nel 2015 dall’azienda inglese Protein World.

La campagna ha scatenato a suo tempo una reazione di sdegno sia nel Regno unito che negli Stati Uniti, accusata di promuovere un’immagine falsa della bellezza femminile, un’immagine che colpevolizzava la normalità del fisico delle donne.

Praticamente l’opposto della campagna “Real buty” di Dove (mi tolgo il cappello davanti al copy che ha scritto il claim “Every body is beautiful”).

A fronte di questa polemica, che ha data alla campagna una visibilità amplissima, Protein World invece di ridimensionare la polemica, l’ha rilanciata definendo i critici come “pigri e deboli”, affermando che “(il Regno Unito) è una nazione che simpatizza per i grassi” e lanciando due ashtag: “#fitshaming” in contrapposizione a quello “#bodyshaming” lanciato dai suoi critici e “#GrowUpHarriet” in risposta ad una donna che aveva chiesto pubblicamente se poteva essere ammessa in spiaggia.

La cosa interessante è che la presa di posizione dell’azienda ha attivato la discussione tra chi si sentiva discriminato dal messaggio e chi invece condivideva l’esortazione ad avere un fisico più in forma (e quindi più sano?).

Attraverso la publicity generata dalla campagna, la marca ha quindi aumentato la sua conoscenza e guadagnato simpatizzanti, migliorando il proprio posizionamento nel target fitness/salutista.

La contrapposizione dei due concetti “fitshaming” vs. “bodyshaming”, al di là dei toni, era una discussione focalizzata, strutturata e costruttiva.

Giocare con il fuoco però è pericoloso per definizione e Protein World ha cominciato a bruciarsi quando tra i propri supporter nella discussione sono entrati il Daily Mail e Breitbart ed altri opinion leaders conservatori (per usare un eufemismo), che hanno spostato il focus dal “fitness” al “politicamente corretto” e coinvolto i propri seguaci nella discussione.

Dopo una settimana nella discussione si è arrivati alle minacce di violenza sessuale e Protein World ha lasciato cadere l’ashtag “#GrowUpHarriet”.

A completamento della storia va ricordato che al termine delle 3 settimane di affissione nella metropolitana di Londra, la campagna è stata proibita dall’autodisciplina della pubblicità inglese perché potenzialmente ingannevole rispetto al messaggio di perdita di peso grazie all’utilizzo dei prodotti Protein World.

Se adesso andate sul sito della Protein World o sui suoi profili twitter ed Instagram, non trovate nessun riferimento a “Are you beach body ready”, ma su twitter ci sono ancora oggi post relativi alla campagna ed è un riferimento, negativo quando si discute degli stereotipi di genere nella pubblicità, ma anche positivo in ambito fitness.

Un esempio ancor più interessante, perché ruspante, di gestione attiva delle critiche viene dalla responsabile della pensione “La Ferroviaria” di Saragozza (Spagna), che offre stanze a 15-20 euro a persona a notte.

Milagros Aguirre, la signora responsabile della pensione, risponde a tutti i commenti relativi alla pensione su booking perché ritiene che tutti i clienti meritino una risposta.

Di seguito quelle che si è meritato qualcuno:

Commento: “positivo il parking gratuito; negativo: dormire da solo”

Risposta: “Ok, la prossima volta invitiamo a quelli di “Apriti Sesamo” così non ti senti solo o meglio ancora andiamo allo stadio ed annunciamo per il megafono che ti senti solo, sicuro che ti cantano qualche coro degli ultras. Bye.”

Commento: “positivo: il personale; negativo: le pareti sono troppo sottili”.

Risposta: “Caro Tizio, lamentarsi per lamentarsi non ha senso, per il resto una pensione non ha l’obbligo di insonorizzare niente, la prossima volta il convento delle Carmelitane Scalze ti darà la pace necessaria, amen. Grazie”

Commento: “positivo: ottima posizione; negativo: il personale è sgradevole e maleducato. Non hanno voluto darmi un altro asciugamano per il viso malgrado la doccia sia separata dal bagno.”

Risposta: “Mi aspettavo questo commento. Se per 25 eurini vuoi portarti il tuo amichetto, meglio che lo lasci a casa tua e lo tieni nascosto. Se per non poter fare quello che vuoi siamo maleducati e sgradevoli. In più enti ed esageri, ma noi continuiamo ad essere affabili”

Qui mi fermo, ma nell’articolo de “El Pais” ne trovate molti altri

Da notare che la signora Aguirre risponde anche a molti commenti su tripadvisor, ma non a tutti perché qui può mettere i commenti anche chi non è stato alla pensione e la cosa le sembra veramente orribile (concordo).

Sicuramente con questi commenti La Ferroviaria ha perso alcuni clienti (immagino con piacere) ma probabilmente ne ha guadagnati altri (ha molti fan su twitter pur non avendo un account). Soprattutto ha trattato tutti i clienti con coerenza e soprattutto ha comunicato/chiarito/difeso quella che è la sua proposta/promessa.

Come sempre nell’era digitale sono l’autenticità e l’onestà che fanno la differenza.

InspiringPR 2017: cosa ho visto, cosa mi è piaciuto, cosa no e cosa mi ha lasciato perplesso.

InspiringPR 2017

Lo scorso sabato 20 maggio si è svolta a Venezia, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, la IV edizione di inspiringPr, “Un momento di incontro e d’ispirazione aperto ai comunicatori e a tutti coloro che operano nelle e per le organizzazioni, pubbliche o private, ma anche a chi, seppur non del settore, influenza sensibilmente la professione.”

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“Vivere il vino in armonia”, fatti non parole.

Premessa: questo post è (in parte) un post di autopromozione perchè è un post dove spiego un’operazione di marketing strategico e tattico che stiamo realizzando al Feudo di Santa Tresa, azienda viti-vinicola di Vittoria per cui lavoro.
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Se la cosa non vi piace, liberissimi, fermatevi qui e arrivederci al prossimo post.

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La forza dell’astrazione ed i rischi dell’assurdo (nel marketing).

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Mercato Markthal di Rotterdam, progettato dallo studio MVRDV a cui appartiene l’architetto Winy Maas.

Recentemente mi sono dedicato in modo particolare a ragionare sull’impostazione della marca, visto che dovevo tenere due giorni di lezione su questo argomento alla Scuola di Specializzazione in marketing del vino.

Di conseguenza mi sono trovato a ragionare specificatamente sulla comunicazione ed in particolar modo a quella grafica, poiché nel vino (italiano) per la maggior parte delle aziende il principale elemento di comunicazione rimane l’etichetta, che ne siano coscienti o meno.

In sostanza di tutte le componenti della proposta di un’azienda / marca che ne formano la percezione, concetto che nella mia visione del marketing totale (link non ne metto, se non siete lettori assidui del blog cercate “Marketing Totale” nella finestra in alto a destra) sostituisce quello di promotion.

Ho quindi passato in rassegna decine e decine di etichette diverse, dalle più didascaliche alle più astratte ed ho visto la perplessità dei partecipanti al corso nei confronti di queste ultime (tenete presente che il vino in Italia è uno dei settori più tradizionalisti o, come dico io, uno dei più noiosi).

Eppure io so per esperienza che un messaggio astratto, quando riesce a “passare”, è un messaggio più forte che colpisce di più l’audience. Sia in termini di rilevanza (ampiezza e profondità) che per memorabilità (lunghezza).

Non essendo un teorico, e meno che meno un filosofo, della comunicazione ho avuto la sensazione di non essere riuscito a spiegare con la sufficiente chiarezza i vantaggi dell’astrazione.

Per questo mi ha colpito la risposta che l’architetto olandese Winy Maas ad una domanda dell’intervista pubblicata su El Pais dello scorso 7 gennaio, che riporto di seguito nella mia libera traduzione:

 

Come si può misurare la qualità di umorismo/divertimento nell’architettura?

A partire da una certa astrazione. Se uno è troppo letterale e perde la sottigliezza non coinvolge lo spettatore. L’astrazione è una chiave riduzionista, un utensile / strumento per la convivenza perché permette di dialogare con altre idee e formalizzazioni.

 

Vedrò di segnarmela per i prossimi corsi. Con l’avvertenza di ricordare che un messaggio quanto più è astratto e tanto meno è immediato, quindi richiede maggiori risorse (denaro e/o tempo) per “passare”. Se non “passa” l’astratto diventa assurdo, che probabilmente è anche peggio del banale.

Sul web si crea la reputazione, non la conoscenza di marca.

 

Diapositiva1Avverto che questo è un post scritto con un approccio manicheo, bianco o nero, con considerazioni tagliate con l’accetta piuttosto che cesellate con il bulino.

Dietro non c’è nemmeno granchè di ricerche, piuttosto un po’ di pensiero speculativo, un po’ di esperienze dirette, un po’ di annusare l’aria e scambio di idee con un paio di amici.

Se trovate qualcosa che vi sembra utile bene, viceversa avrete perso un po’ di tempo (almeno sarà yn post corto).

Veniamo al dunque.

Continuo ad imbattermi in persone/aziende insoddisfatte dei risultati delle loro strategie web (basate principalmente sui social networks). Però continuo ad imbattermi anche in persone/aziende che continuano a credere che le strategie web (basate principalmente sui social networks) siano la pietra filosofale, capace di trasformare il ferro in oro.

Di entrambe le cose hanno una buona dose di responsabilità i professionisti della comunicazione e/o gli opinion leaders che appaiono sui mezzi di comunicazione specializzati e generalisti, che continuano a dipingere il web come il futuro (radioso) ed invece è il presente (ricco di opportunità per le persone, ma complesso).

Ai tempi della comunicazione “classica”, diciamo vent’anni fa, si insegnava che i diversi mezzi dovevavo essere utilizzati in modo da sfruttare in pieno le loro caratteristiche specifiche. Quindi evitare di pianificare sulla radio una campagna per un concetto di comunicazione/marca/prodotto basato sul visuale (se vi sembra ovvio, non avete idea di quante ne ho viste fare con la scusa che non c’era budget per fare la campagna in TV) oppure pianificare le campagne di esterna (leggi cartellonistica stradale) nei mesi estivi che hanno più ore di luce (sempre che non dobbiate fare la campagna dei pandori).

Se guardo a come si muovono tante aziende, ma recentemente anche i partiti ed i candidati in campagna elettorale, sembra che nessuno si sia preoccupato di capire quale sia la specificità del web come mezzo di comunicazione.

Bene, io sono parecchio convinto che il web per sua natura sia il mezzo ideale per costruire reputazione/immagine di marca e sia piuttosto debole se si vuole ottenere conoscenza di marca (o awareness se volete parlare come i veri esperti di comunicazione).

Questo perchè sul web, come al bar, la persone ci vanno per informarsi, divertirsi ed interagire con altre persone.

Se quando siete a bere un aperitivo con i vostri amici e quando questi vi stanno raccontando cosa gli è successo o cosa faranno, ogni tanto si intromettesse uno che vi dice di comprare la marca X, voi cosa fareste? Se l’esempio vi sembra surreale, beh è esattamente quello che succede con i post sponsorizzati che appaiono nella vostra timeline di facebook. E quello che fate voi, come tutti (adblockers a parte) e non fare attenzione all’intruso.

Stesso discorso, anche peggio, per i banner.

Viceversa essere citati nelle conversazioni oppure essere ricercati per i contenuti dà una credibilità ed una forza di immagine che nessuna pubblictà può eguagliare.

E’ quello che in inglese si chiama leadership di pensiero (thought leadership). Per acquisirla bisogna avere delle cose interessanti da dire, dirle bene e dirle con continuità.

Se siete fortunati da esser una marca di nicchia, ma nicchia nicchia, la conoscenza che viene come conseguenza della visibilità data dalla creazione di reputazione potrà bastare.

Se invece ricadete nella grandissima maggioranza dei casi, dovrete costruire la conoscenza dell’azienda/marca/prodotto con della pubblicità, in larga misura classica.

Rispetto ad una volta magari meno televisione e stampa e più esterna e presenza del marchio sul territorio (eventi, sponsorizzazioni, ecc…). Però sempre pubblicità.

Unica (?) eccezione, secondo me, gli spot in apertura ai video su youtube. E’ come la buona vecchia pubblicità televisiva, con in più il “vantaggio” che non posso cambiare canale, almeno per un bel po’ di secondi. Non a caso è un mezzo costoso.

Perchè questa è l’altra amara verità: ottenere conoscenza di marca è costoso.

Tutto come una volta quindi, come se la rivoluzione digitale non fosse esistita.

Non proprio. E’ possibile rendere più efficiente l’investimento, quindi ottenere un livello più alto di conoscenza con lo stesso più budget oppure lo stesso livello di conoscenza con un budget più basso, affinando la targetizzazione.

Però quante aziende hanno una definizione precisa e dettagliata del loro target principale e di quelli allargati in termini di comportamenti, atteggiamenti nei confronti della categoria di prodotto e della marca e di caratteristiche socio-demografiche.

A poco mi serve avere un cannocchiale più potente se non so dove puntarlo.

L’importanza della focalizzazione per costruire e consolidare marchi di successo: l’esempio di Campari.

adv campari 2016

Questa è la pubblicità di Campari che si trova sulla rivista Millemiglia di Alitalia. volendo ci sarebbe molto da scrivere in termini di comunicazione.

A me però quello che ha colpito di più è una cosa che deriva (suppongo) da una scelta strategica più a monte: l’indicazione tra gli ingredienti del Negroni di un generico “Red Vermouth”.

Il Campari è (ri)diventato un prodotto iconico grazie alle campagne di comunicazione dei primi anni 2000.

E’ sostanzialmente un prodotto-marchio, nel senso che il marchio si identifica sostanzialmente al 100% con l’apertivo Campari riprodotto nella pubblicità, ed è l’unico prodotto-marchio tra gli ingredienti originale ufficiali del cocktail Negroni.

Intendo dire che il manuale dei cocktails a e long drinks classici IBA (International Bartenders Association) nella ricetta del Negroni riporta proprio il Campari e non un “aperitivo italiano” generico. Di conseguenza tutte le volte che trovate descritta la ricetta del Negroni, in qualsiasi pubblicazione off line oppure on-line troverete indicato il Campari e chiunque stia dietro il bancone di un bar sa che il Negroni si fa con il Campari.

Quindi se mettiamo insieme l’immagine della marca con la sua imprenscindibilità per la realizzazione di uno dei cocktail più famosi e di moda, ne viene fuori una posizione piuttosto forte.

Perchè allora non sfruttarla ed indicare tra gli ingredienti del Negroni nella proprio pagina pubblicitaria il Vermouth Cinzano, di proprità del Gruppo Campari?

In fin dei conti Cinzano è comunque un marchio importante ed è il secondo vermouth più venduto a livello mondiale (a dirla tutta Campari ha anche un gin, il Bankes London Dry Gin).

Si creerebbe una sinergia sia in termini economici di ottimizzazione del budget pubblicitario che di traino del Vermouth Cinzano (e volendo anche dal Bankes Londo Dry Gin) da parte del Campari.

Però io concordo (per quello che vale) con la scelta dei signori di Campari Group di non inquinare l’immagine, pur forte, del Campari Aperitivo.

Per mantenere ed incrementare la forza di un marchio la sua imamgine va concentrata, non diluita.

Io però voglio credere che dietro a questa strategia ci sia una considerazione più sottile: il rispetto per il bartender come primo cliente e testimonial del Campari.

Evitando di suggerire ai consumatori i propri marchi per gli altri ingredienti, Campari rispetta la professionalità e lo stile di ogni singolo bartender e li tratta come pari.

Illusioni di marketing? Forse, però la stessa strategia è adottata anche nella comunicazione dell’Aperol spritz (altro marchio del Gruppo Campari) dove viene citato il “prosecco” generico e non il Prosecco Cinzano.

 

 

Native advertising: gli esempi di “One” sul sito di “El Pais” e di “Ulisse” di Alitalia.

“Native advertising” è uno dei recenti termini di moda nell’ambito della comunicazione e quindi di (parte) del marketing.

Cos’è il native advertising? Copio e incollo da Wikipedia.

Native advertising è una forma di advertising online che assume l’aspetto dei contenuti del sito sul quale è ospitata, cercando di generare interesse negli utenti. L’obiettivo è riprodurre l’esperienza utente del contesto in cui è posizionata, sia nell’aspetto che nel contenuto. Al contrario della pubblicità tradizionale che distrae il lettore dal contenuto per comunicare un messaggio di marketing, il native advertising cala completamente la pubblicità all’interno di un contesto senza interrompere l’attività degli utenti, poiché assume le medesime sembianze del contenuto, diventandone parte, amplificandone il significato e catturando l’attenzione del consumatore.

Nello specifico, il Native Advertising è un metodo pubblicitario contestuale che ibrida contenuti e annunci pubblicitari all’interno del contesto editoriale dove essi vengono posizionati (sia dal punto di vista grafico sia dal punto di vista della linea editoriale), indicando chiaramente chi è l’inserzionista che ‘sponsorizza’ tale contenuto. È distante dal Pubbliredazionale, che invece cerca di mascherare contenuti pubblicitari come articoli editoriali su prodotti o servizi.

In un articolo sulla prestigiosa Harvard Business Review, l’esperto di marketing Mitch Joelha definito la Native Advertising come “un formato pubblicitario creato specificatamente per un determinato media sia dal punto di vista del formato tecnico sia dal punto di vista del contenuto (la creatività)”. L’obiettivo finale è quello di rendere l’annuncio pubblicitario meno intrusivo in modo che non interrompa la fruizione del contenuto che l’utente sta guardando, così da aumentare la percentuale di click e interazioni sull’annuncio

I formati più noti di Native Advertising sono probabilmente i cosiddetti In-Feed Units quali i promoted tweets di Twitter o i promoted posts di Facebook.

Ora io non so se è la definizione di Wikipedia ad essere imprecisa oppure è solo un termine più smart (espressione che non sopporto per come è normalmente adottata nei discorsi in italiano) per indicare qualcosa che concettualmente è sostanzialmente identico ad un pubbliredazionale (le eventuali differenze pratiche sono solo tecnicismi di poca o nulla importanza strategica).

Pubbliredazionali che strutturalmente hanno la stessa scarsa efficacia dei promoted tweets di Twitter o dei promoted post di Facebook.

Qui la differenza tecnica permette di generare sui mezzi social un maggiore bombardamento di messaggi a costi più bassi rispetto ai vecchi pubbliredazionli, però secondo me impostare la propria strategia di comunicazione sull apressione dei messaggi i sembra una strategia sorpassata e che le persone (consumatori) stanno già eludendo attraverso i propri comportamenti cognitivi e/o strumenti informatici (un approfondimento di come vedo la questione lo trovate sul post dello scorso 31 gennaio “L’ANTIMARKETING: bloccare gli ad blockers”).

Ci sono invece delle attività che (alcune) aziende  stanno realizzando partendo dalla consapevolezza che qualsiasi attività economica oggi si muove nel campo dell’editoria e che l’interesse per un messaggio risiede dalla rilevanza dei contenuti e dalla credibilità della fonte rispetto all’audience a cui si rivolge.

Rilevanza e credibilità dei contenuti non sono mai stati appannaggio esclusivo dei mezzi di comunicazine istituzionali, ma oggi lo sono ancora meno (analizzare i motivi di questa tendenza sarebbe interessante, ma troppo lungo ed esula dall’obiettivo di questo post).

In un continuum che va dalle Pubbliche Relazioni alla marca che si fa editore tout-court si trovano quelle attività che io, sbagliando, chiamerei native advertising e che mi piacerebbe avessero un nome.

L’altro giorno ho trovato due esempi interessanti sul numero di maggio di “Ulisse”, la rivista di bordo dell’Alitalia.

Ulisse maggio 2016

Nelle interviste a Roberto Bolle e Jude Law si dava uno spazio rilevante alla loro attività di testimonial per due marche, rispettivamente Acqua di Parma per Bolle e Lexus per Law. Le domande relativa ai due marchi erano 2 o 3 e lo spazio era circa 1/5 di tutta l’intervista. Quindi non così lungo da trasformare l’intervista in un pubbliredazionale, ma nemmeno così piccolo da passare inosservato o poter essere saltato durante la lettura.

Anche perchè non era la marca a parlare direttamente per bocca del giornalista, ma la voce arrivava dal testimonial attraverso le domande del giornalista. Secondo me in questo modo le dichiarazioni del testimonial, che al di là del compenso ha scelto di collaborare con una marca piuttosto di un’altra per i valori che condivide, acquistavano più credibilità proprio perchè mediate.

Ai professionisti di comunicazione più smaliziati non sorprenderà che Acqua di Parma e Lexus fossero presenti sul quel numero di Ulisse anche con una pagina pubblicitaria (e presumo lo saranno anche nei prossimi).

Ancora più vicino al concetto di marca come editore che non parla direttamente di sè ma si fa creatore e/o curatore di contenuti affini alla propria immagine è la sezione di “One” sul sito della versione on line del quotidiano spagnolo “El Pais” (non non c’è la colonna di destra con gattini e freaks vari).

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Sbaglierò, ma nel futuro della comunicazione io vedo ancora la pubblicità classica come generatore della conoscenza della marca abbinata alla creazione (editoriale) dei contenuti per rafforzarne la reputazione.

Del native advertising come è inteso adesso, non saprei cosa farmene.

E’ la strategia che fa il messaggio, non il mezzo: l’esempio di #EcorNaturasì su L’@Internazionale.

Quota post ha una base fattuale inusualmente imprecisa.

Ma non importa, perchè anche se quello su cui si basano i ragionamenti non fosse vero (e lo è), sarebbe comunque reale. E questo rende i ragionamenti comunque validi ed interessanti. Diciamo che è un post di ispirazione Malapartiana, intesa come Curzio

Questa premessa solo perchè dal servizio abbonati del L’Internazionale non mi hanno risposto su come recuperare i pdf dei vecchi numeri e quindi non ho potuto verificare se, come ricordo, in un numero di due/tre mesi fa tutte (o quasi) le pagine pubblicitarie avevano annunci di Ecor Naturasì.

Visto che il mio ricordo è piuttosto chiaro, prendiamolo per buono perchè nell’era digitale in cui viviamo, fornisce un ottimo esempio di utilizzo strategico di un mezzo analogico nella comunicazione di un marchio emergente.

Il mio ricordo è piuttosto chiaro anche perchè quando ho letto quel numero de L’Internazionale mi è tornato in mente che nel 1990 in Canada avevo visto il caso della strategie applicata da (forse) IBM o Pepsi Cola che avevano coperto tutta la pubblicità del numero di Time (o era Newsweek?) uscito in occasione dell’elezione di George Bush (o era il secondo mandato Reagan?).

Dettagli a parte è una strategia che da quella volta mi èsempre rimasta nel fondo della memoria perchè prima o poi avrei voluto utilizzarla anch’io. E ad oggi purtroppo non ci sono ancora riuscito.

Quindi quando l’ho trovata realizzata da Ecor Naturasì su L’Internazionale, mi è sembrata una mossa particolarmente intelligente.

Per chi non lo sapesse Ecor Naturasì è la più grande catena italiana di negozi e supermercati di prodotti biologici e biodinamici.

Il settore è in crescita ed Ecor Naturasì è in una fase di espansione della rete dei negozi, che sta portando il marchio in zone nuove (la catena è originaria del Veneto) e quindi a toccare nuovi potenziali consumatori.

L’acquisto di tutta la pubblicità del L’Internazionale mi è sembrata una mossa particolarmente intelligente perchè:;

- garantisce che il marchio sarà visto dai i lettori perchè la sua ripetizione pagina dopo pagina rende impossibile non notarlo prima della fine del giornale.

- permette di comunicare l’ampiezza dell’assortimento biologico e biodinamico dei negozi Ecor Naturasì. Per la strategia di comunicazione questo implica vantaggi tattici e strategici.

Tatticamente mostra a quelli che sono già consumatori di prodotti biologici che attualmente acquistano in piccoli negozi la comodità rappresentata dai supermercati Ecor Naturasì. Inoltre può intercettare consumatori potenziali, inclini ad acquistare prodotti biologici, ma non ancora acquirenti (o acquirenti sporadici) grazie all’interesse suscitato da una specifica categoria merceologica di cui sono forti consumatori (o a cui sono particolarmente interessati). Se pensate, come succedeva a me, che i prodotti biologici coprano solo alcune categorie merceologiche vi sbagliate. In un supermercato biologico ci sono esattamente le stesse che trovate un un supermercato tradizionale, dai soft drinks alle merendine.

Strategicamente poter presentare l’assortimento permette allo stesso tempo di evitare la “monotonia comunicative” e di ribadire marchio e posizionamento. La varietà del contenuto deriva dalla presentazioen di prodotti diversi, che però si inseriscono in una grafica costante e coerente che veicola il marchio ed il posizionamento.

- fornisce rilevanza e credibilità al marchio. Indipendentemente dall’efficacia delle pagine pubblicitarie realizzate, l’acquisto di tutta la pubblicità di un numero di una rivista comunica e posiziona di per sè la marca come forte, credibile e rilevante.

Aggiungeteci che il target dei lettori de L’Internazionale è probabilmente perfettamente allineato (io i dati di readership non li ho, ma Ecor Naturasì, sì) con clienti attualie potenziali di Ecor Naturasì e l’operazione appare ancora più … perfetta.

Aggiungeteci ancora che il numero tutto Ecor Naturasì è stato precedeto e seguito da alcuni numeri dove counque la presenza pubblicitaria della marca era piuttosto massiccia, quindi aumentando e prolungando l’effetto dl numero “evento” e … ho finito gli aggettivi.

A me quello che ha colpito è soprattutto che dimostra come degli obiettivi ed una strategia chiara, realizzata bene permettano di fare dell’ottimo marketing al di fuori delle pianificazioni classiche (la “paginetta” pubblicitaria su un certo numero di riviste per due/ tre mesi, magari ripetendo la campagna due volte all’anno) o delle mode di chi pensa che oggi si possa/debba pianificare solo sul web.

Invece le regole classiche della pubblicità valgono ancora ed una di queste insegna che la pubblicità efficace va pensata e realizzata in modo da sfruttare pienamente il mezzo, qualunque esso sia.

Magari se ne ricordassero tutti quelli che pianificano comunicazione sul web in un approccio di push.

 

 

L’ANTIMARKETING: bloccare gli ad blockers.

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Uno dei temi di analisi e discussione più caldi nella comunità dei professionisti marcom (marketing e communication) negli U.S.A. oggi è quello degli ad blockers.

In sintesi gli adblocker sono sostanzialmente dei programmi (chiedo scusa ai nerds) che evitano il caricamento delle diverse forme di pubblicità durante la navigazione su pc, tablet e smartphone. L’utilizzo di adblockers da parte delle persone secondo Wikipedia è in forte crescita e tra il 2014 e 2015 è cresciuto del 41% a livello mondiale e del 48% negli USA. Si stima che nel 2015 circa 45 milioni di cittadini USA utilizzasero ad blockers.

In realtà concettualmente gli ad blockers non sono niente di nuovo, visto che i primi televisori con un sistema di videoregistrazione incorporato che permettevano di saltare la pubblicità risalgono al 1999. Praticamente il televisore registra i programmi eliminando automaticamente la pubblicità che quindi non appare quando poi i programmi vengono visti dall’utente. Il sistema più diffuso, esistente ancora oggi, è TiVo.

Ossia: i professionisti di marketing, comunicazione e pubblicità hanno la conferma del “sospetto” che le persone se possono preferiscono evitare la pubblicità da oltre 15 anni.

Eppure non hanno modificato di una virgola il loro approccio strategico basato sul rincorerre (perseguitare) le persone in ogni momento possibile. Invece di cambiare strategia di comunicazione (contenuti e media) nel 2002 i principali network televisivi americani per proteggere i propri investitori (e quindi i propri profitti) hanno fatto causa a Replay TV (concorrente di TIVO poi fallito) sulla considerazione che saltare la pubblicità viola i diritti di copyright.

Allucinante. Allucinante perchè più che “miopia di marketing” è un comportamento da “autismo di marketing” che non vuole accettare la realtà. E la realtà è che le persone non guardano la pubblicità, se gli togliete TIVO, si alzeranno e andranno a fare altro durante gli spot oppure semplicemente non gli daranno attenzione.

Il parametro classico che si è utilizzato per misurare l’efficacia della pubblicità nei media classici (televisione, giornali, radio, ecc…) è il GRP o Gross Rating Point. Io l’ho studiato per la prima volta nel 1989 durante il mio corso di Marketing Management all’università di Guelph in Canada. Sul testo di Philip Kotler il GRP viene definito come Reach x Frequency x Attention, ossia il numero di persone che sono raggiunte dal messaggio x il numero di volte che lo vedono x per l’attenzione che gli danno. Perfetto.

Peccato che poi quando sono entrato in azienda ed ho cominciato a lavorare con le agenzie di pubblicità e con le concessionarie che vendevano spazi pubblicitari (grandi quotidiani e riviste, RAI, Canale 5, Rete 4, Italia 1, grandi emittenti radio nazionali), di fatto il GRP veniva misurato solo come Reach (spesso in % sul totale del mercato obiettivo) x Frequenza. Io chiedevo lumi riguardo alla componente di “Attenzione” e loro mi guardavano come un alieno che crede di sapere come va il mondo solo perchè a letto un libro. Non è che non considerassero il parametro l’Attenzione per partito preso, è che si tratta di un parametro difficile da determinare e poi non era così importante partendo dal presupposto che tanto le persone si “bevono” tutto quello che i media gli propinano.

Questa stessa logica di spinta (push) è stata applicata all’attuale realtà di proliferazione e frammentazione dei media, con la crescita dei media digitali e dei social network.

Ecco quindi l’uso del big data così da (per)seguire il consumatore sempre più da vicino grazie a strumenti come il re-marketing (la tecnica di cui tutti siamo stati vittime grazie alla quale se cerco on line informazioni su una polizza auto, continuerò a ricevere pop up pubblicitari delle diverse compagnie assicurative fino alla morte; se volete provare qualche brivido guardate la spiegazione che ne dà la guida di adwords di Google)

Con un atteggiamento dello struzzo che mette la testa sotto la sabbia, l’industria della pubblicità ha fatto finta di non sapere che questo modo di operare infastidiva le persone, tanto da creare un’attenzione negativa che danneggia la percezione dei marchi troppo invadenti.

Come se la rivoluzione digitale fosse solo tecnologica e non culturale.

Con l’uso degli adblockers le persone stanno dando un’informazione importantissima ai professioni del marketing e della comunicazione: il modo in cui vi rivolgete a noi non ci piace nè ci interessa.

Incapaci di adattarsi alla nuova realtà, la  risposta dell’industria della comunicazione è: “ed io trovo il modo di mostrarti comunque la mia pubblicità”. Anche ammesso che ci riesca (cosa di cui dubito) questo non renderà la pubblicità più piacevole ed interessante per le persone. E quindi sarà fatica sprecata.

Il motto dell’Università di Guelph riportato sul logo che apre questo post dice “Rerum Cognosere Causas”, ossia conoscere la ragione delle cose.

Resto sconcertato vedendo come professionisti seri e preparati a fronte della scoperta di cose sgradevoli che li riguardano direttamente rispondano facendo semplicemente finta di niente.

Forse sono troppo abituati a (credere di) essere loro quelli che le determinano. La realtà vi seppellirà.

Colonna sonora per questo post: “Nessuno mi può giudicare” di Caterina Caselli.