Ma questa pubblicita’ Lavazza e’ adeguata all audience de “L’Internazionale”?

adv Lavazza Italia

Oggi pubblico da smartphone, quindi saro’ breve per forza.

Venerdi’ su l’ultimo numero de “L’Internazionale” c’era questa pubblicita’ delle capsule Lavazza (spero che voi la vediate dritta, perche’ io la vedo storta). Realizzata come sempre da Armando Testa.

La cosa che mi ha colpito e’, giustamente, l’immagine centrale che comunica con chiarezza e forza il concetto di italianita’.

Tanto forte che partendo dal pattriottismo puo’ arrivare al militarismo, passando per il nazionalismo.

Per questo mi e’ venuto da chiedermi: questa creativita’ e’ adatta alla audience de “L’Internazionale”?.

Nell’era del marketing totale, vedi i vari post dei mesi scorsi, dove i prodotti di massa personalizzano le etichette per i singoli consumatori e’ corretto NON porsi la questione di realizzare una creativita’ adeguata per ogni mezzo utilizzato. Fatta salva ovviamente l’identita’ della marca?

Paranoie da fanatici del marketing?

 

Ineedcoffee di Lavazza: opportunità e problemi della comunicazione nell’era digitale.

Doverosa premessa: questo spot non è stato sponsorizzato da Lavazza (ben triste per l’informazione in generale e per il blogging in particolare doverlo specificare, ma così è).

Nelle migliori tradizioni di biscomarketing analizzo la campagna Ineedcoffee di Lavazza con un buon mese di ritardo dalla sua conclusione (a meno che non riparta) perchè mi è sembrata una cosa ben fatta e quindi sono particolarmente interessanti i problemi irrisolti collegati.

Non è che in rete si trovi granchè che spieghi la campagna nella sua articolazione. Vedo di ricostruirla per esperienza diretta.

In primavera estate Lavazza ha lanciato con una campagna radio di sponsorizzazione del programma del Trio Medusa su radio Dee Jay la campagna #Ineedcoffee sul concetto della necessità di un caffè per iniziare la giornata ed invitando a condividere sui social i propri momenti #Ineedcoffee.

Probabilmente la campagna è stata lanciata anche sui social networks, ma io non l’ho vista (e questo è strano). Forse la comunicazione ha coinvolto altri programmi di radio Dee Jay o altri mezzi, ma io non l’ho vista nè sentita (se qualcuno ha maggiori infomazioni, prego commentare ed integrare).

Ad un certo punto Lavazza ha analizzato i luoghi da cui provenivano le interazioni sui social network ad ha scoperto, direi sorprendentemente, che la città dove (in proporzione?) c’era più bisogno di un caffè era Portogruaro in provincia di Venezia.

Quindi ha realizzato un evento Ineedcoffee Portogruaro edition, il cui video è stato pubblicato su youtube.

Perchè mi è piaciuta, marketingamente parlando, questa campagna?

1. Nell’era digitale la separazione on e off line non esiste: vedo ancora moltissime campagne di comunicazione basate esclusivamente sui social network, come se il mezzo facesse il messaggio. E’ almeno 10 anni che non è più così. Ricordo nel 2005 che le interazioni al sito “Your Fun” Keglevich erano del tutto indipendenti ai flight della campagna radio, ma era appunto il 2005. Oggi la scelta di ridursi solamente ai social/web può essere dettata solamente da limiti di budget, non dai target (che fino almeno ai 60 anni sono multimedia) nè dal tono (che può e deve essere declinato sui diversi mezzi).

2. La cosa più difficile in una campagna che punta a coinvolgere le persone sui social media è stimolare effettivamente un’azione (call to action volendo parlare come quelli veri). Esiste il grande rischio di ritrovarsi senza niente, ovvero con profili social pieni di aggiornamenti di stato e commenti palesemente finti. Tristezza. Lavazza ha ovviato a tutto questo organizzando (prevedendo) l’evento sul territorio. Che i commenti/interazioni fossero 100.000, 1.000, 100 o 10 comunque ci sarebbe stata una conclusione eclatante e notiziabile.

3. Il taglio popolare della campagna. Che non significa nazionalpopolare, ma vicino alle persone reali, senza elitismi e snobismi. L’esemplificazione di quello che intendo è la scelta di servire ai partecipanti all’evento di Portogruaro il caffè fatto con la moka, per un prodotto ed un momento di consumo per cui sembrava esistessero oramai solo le capsule.

Come caso di studio però sono forse ancora più interessanti i problemi collegati alla campagna:

Credibilità: non è questione di essere malfidenti, ma Portogruaro suona molto strano. Abbiamo già visto gli spot finti di Telecom e PIF (tu quoque) sui milioni di passioni degli italiani. Qualche dettaglio in più su come è stata fatta l’analisi non avrebbe guastato. Se invece il risultato è stato pilotato, mi complimento per la scelta di una cittadina di Provincia in termini di originalità e quindi notiziabilità da una parte e coinvolgimento dell’audience dall’altra, ma questa è un’altra storia.

Genericità: con l’eccesso di comunicazione che contraddistingue l’era digitale trovare una frase allo stesso tempo memorabile ed originale sta diventando estremamente difficile. Ineedcoffee è un messaggio estremamente efficace per la marca, però è già di uso comune. Su fb ci sono tre pagine e nessuna è collegata all’iniziativa, su twitter ed istagram i post sono innumerevoli legati ai contesti più diversi. Vero che questo in teoria rappresenta un’opportunità per l’azienda di appropriarsi di un modo di dire già diffuso e conosciuto, ma temo che per farlo ci vogliano investimenti in comunicazione troppo elevati per rendere questa opportunità concreta.

Mi rendo conto che in parte sono pensieri buttati lì, ma dopo 8 anni e 439 post pubblicati ricominciare quest’anno è un po’ più dura del solito (ma la mia equitazione migliora)

Faccio anch’io una call to action ai miei lettori::io metto gli spunti, lo svolgimento fatelo voi .

 

 

 

 

Social media marketing: cacciatori di scalpi!

L’altro giorno arriva una mail in azienda ricordando di rinnovare l’iscrizione ad un data base on line e sottolineando che allo stesso costo del 2011 avremmo avuto piu’ visibilita’ perche’ le visite al sito erano aumentate di 300.000 visitatori.
Telefonata all’agenzia che ci gestisce il sito, chiesto quanti visitatori avevamo ricevuto da quel data base, risposta “0″, risparmiati 100 euro.
Morale: come sanno oramai anche i sassi (che comunque sono vivi, solo ad un ritmo incredibilmente piu’ lento del nostro) il web ha il grande vantaggio di poter misurare buona parte dei risultati di quello che si. Bisogna pero’ averne il tempo, la voglia e la capacita’ (un po’ come per le catene di supermercati utilizzare i dati delle carte fedelta’ dei consumatori per realizzare strategie piu’ efficaci del 3×2 a tutti).
Invece anche nel web, come in ogni settore, valgono le mode e adesso siamo nel clou della moda del social media marketing.
Ecco quindi tutti a fare a gara per il numero di likes su facebook o di followers su twitter. I termini ufficiali sono fan, amici, followers, ma per me nella stragrande maggioranza dei casi la parola giusta è … scalpi.
Nel senso che finiscono per essere trofei da mettere in mostra senza diventare dei veri rapporti tra la marca/azienda e le persone/consumatori-trici.
Un po’ di numeri di fan presi da facebook pescando nel settore alimentare,senza nessuna pretesa di correttezza del campionamento:
Coca-Cola (pagina ufficialmente NON creata dall’azienda, ci credo fino a lì): 36.492.100 likes.
Starbucks: 26.517.529 likes (che diventano parecchi di più se si sommano quelli delle fan page nazionali dei diversi Paesi).
Nutella: 11.887.333 likes (poi ci sono tutti gli altri marchi della Ferrero che hanno altri svariati milioni, mentre quella della Ferrero come azienda che ha solo le informazioni, non ha nemmeno la bacheca e tra quella in inglese e quella in italiano non arriva nemmeno a 10.000 likes. Coerenti fino in fondo nella loro strategia di branding, come sempre giù il cappello davanti ai signori di Alba).
Illy: come tale non c’è. C’è come illyssimo e come espressamente illy rispettivamente con 11.229 e 3.202 likes (????).
Lavazza: 53.995 likes (??).
Barilla: 42.267 likes (???).
Qui mi fermo ed aggiungo il link ad una mia analisi sui risultati facebook delle cantine italiane presentata un anno fa al wine camp di Firenze Wine Town.
La domanda, oggi come allora, è: al di là delle mode qualcuno si è soffermato ad analizzare i dati quanti-qualitativi deilla propria attività di social media marketing?
Perchè la quantità di Coca Cola o Starbucks può fare da sola anche la qualità, per gli altri esempi di grandi aziende italiane, ma i commenti per Illy e Lavazza vengono anche dall’estero, direi che proprio non ci siamo (siccome è quasi Natale non vado a guardare quelle piccole). Ricordo che nel 2010 (dati più recenti non ne ho trovati) gli utulizzatori di facebook in Italia erano 16.000.000.
Non siamo in termini di efficenza perchè facendo una stima per difetto un’azienda come Barilla tra struttura delle piattaforme, loro gestione e gestione delle relazioni almeno 60.000 € all’anno sul social media marketing li mette. Quindi parliamo di 1,5 €/contatto. Che è un enormità.
La replica delle agenzie che si occupano di web a vario titolo è che però sono contatti qualificati, che costruiscono una relazione tra la marca e le persone, che a loro volta diventano ambasciatori della marca. Benissimo!
Signori brand managers quand’è l’ultima volta che siete andati a guardare le statistiche di attività dei fan della vostra pagina facebook? Scoprirete che, come accade tra gli “amici” della vostra pagina personale, l’80% dell’attività è fatto dal 20% degli iscritti (se va bene) e quindi i numeri di cui sopra diventano ancora più piccoli.
Anche perchè per creare una relazione bisogna avere dei valori forti ed impegnarsi poi a costruirla ed a mantenerla, magari, come insegna l’ABC del (web) marketing coinvolgendosi in prima persona e non facendo gestire le attività social al personale dell’agenzia di PR. Sarà un caso che Starbucks 2 anni fa aveva 16 dipendenti a tempo pieno per seguire le proprie pagine facebook?
Invece prevale il delirio narcisistico da onnipotenza che porta le aziende a credere alle agenzie quando gli dicono “noi creiamo lo spazio, per un po’ tempo attiviamo l’interesse e la discussione con i nostri contenuti e poi la comunità si muove e cresce da sola”. Non è necessaria una grande umiltà, basterebbe un po’ di buon senso per chiedersi se davvero i valori, la qualità e credibilità dei contenuti che esprime la marca siano così forti e rilevanti da portare le persone a coinvolgersi così tanto personalmente. In altre parole la maggior parte delle persone ha per la maggior parte delle marche poco più di una preferenza (ed è giusto che sia così), cosa che non è sufficente per accendere forti affinità con le altre persone che condividono questa preferenza e meno che meno per coinvolgersi personalmente attivimanete in quello che la marca fa on e off line. Detto in altre parole ancora, se voglio creare uno spazio sul web in cui trovarmi con i miei amici o trovare degli “amici”, ci sono un sacco di posti migliori.
Sto implicando che il social media marketing è un non-senso per la maggioranza delle aziende? Nemmeno per sogno. Sto implicando che vanno definiti obiettivi sensati e strategie coerenti agli obiettivi in termini dei risultati da conseguire e delle risorse da investire.
Quando mi occupavo di queste cose preferivo reclutare di APOSTOLI più che di ambasciatori della marca.
Preferivo avere 100 contatti in meno (tanto tra averne 1.000 o 1.500 sempre pochi sono).
Preferivo riuscire a seguirli in modo da arricchire la relazione ogni giorno.
Preferivo rivolgermi aglli opinion leaders pubblici e privati (ossia quelli che sono opinion leaders nel loro ambiente) per ottenere un effetto alone (o virale come si dice oggi).
E periodicamente c’era qualcuno che diceva si … ma … quel concorrente ha 100 – 200 -500 fan più di noi, mentre la vera domanda dovrebbe essere: non è che questi soldi possono essere investiti meglio in altre cose, al di là delle mode?
Trascorrete un Natale di pace perchè, come diceva lo spot della Coca Cola, la felicità non va mai in crisi. Oppure se preferite Tolstoi “Se vuoi essere felice, siilo”, che il concetto non cambia.
Per la befana prometto la terza,e ultima, puntata sul calo dei consumi nazionali di vino e la microeconomia.