Cristiano Ronaldo, la Coca Cola ed il new normal.

New normal è un termine che suona bene.
A memoria la prima volta che si è cominciato ad usare diffusamente è stato dopo la crisi economica del 2008.
Dopo un paio di anni però le cose sono tornate a funzionare, e le persone a comportarsi, più o meno come prima.
L’altro momento in cui “new normal” è diventato popolare è quello del COVID che stiamo vivendo. Anche in questo caso i “è cambiato il mondo” oppure “Niente sarà più come prima” si sono sprecati. Rientrata, un’altra volta, l’emergenza sembra però che tutto questo cambiamento sia più a parole che nei fatti.
Invece il mondo è veramente cambiato con un processo evolutivo in corso da qualche anno; solamente che non l’avevamo notata fino a quando non si manifesta una crisi e per questo la scambiamo per rivoluzione.
Conviene rendersene conto per capire quali sono i cambiamenti destinati a rimanere anche dopo la soluzione dell’emergenza.
Immagino che molti sapranno della querelle tra Cristiano Ronaldo e la Coca Cola durante la conferenza stampa del pre partita di Portogallo – Ungheria agli Europei di calcio.
Riassumo brevemente per i pochi che ne siano all’oscuro.
All’inizio della conferenza stampa Cristiano Ronaldo ha platealmente spostato le due bottigliette di Coca Cola, messe lì perché sponsor degli Europei, fino a portarle fuori dall’inquadratura della telecamera.
Dopodiché ha alzato la bottiglia di acqua dicendo con enfasi “Acqua!” e poi “Coca Cola” con espressione infastidita.
La UEFA ha ricordato alle squadre ed ai calciatori partecipanti agli Europei l’importanza degli sponsor per tutto il movimento ed ha raccomandato di non spostare le bottiglie collocate per le conferenze stampa (dopo Ronaldo, hanno fatto qualcosa di simile, un po’ meno plateale, Pgba con una bottiglia di birra Heineken, analcolica, e Localtelli, sempre con le bottiglie di Coca Cola).
Nei giorni seguenti al gesto di Ronaldo, le azioni della Coca Cola sono calate arrivando a perdere anche oltre il -3%, facendo scendere la capitalizzazione in borsa dell’azienda americana di qualche miliardo di dollari.
Il giorno dopo la conferenza stampa, la Coca Cola ha emesso un comunicato che in cui dichiara che “… ognuno ha il diritto alle proprie preferenze in termini di gusti ed esigenze …”
Cosa ho imparato da questo piccolo aneddoto.

Oggi le persone sono delle marche.
Ovviamente quanto più popolari, tanto più importanti come marca.
Non necessariamente forti, perché per le persone, come per le marche commerciali, la forza si misura nelle due dimensioni di popolarità ed immagine.
Da qui il gesto di Ronaldo: rafforzare la propria immagine di marca ipersalutistica e fisicamente efficiente.

La forza delle persone come marche si basa sulla disintermediazione della comunicazione.
La disintermediazione è uno dei grandi fenomeni sociali resi possibili dalla rivoluzione digitale.
Come tutte le tendenze di fondo, agisce trasversalmente nei diversi contesti della società.
Dall’acquisto dei biglietti aerei alla prenotazione dei taxi, dalle consegne a casa (o dove si vuole) di qualsiasi cosa alle vendite dirette on-line, ecc…
Nel caso di Ronaldo significa che per sapere cosa fa / pensa / crede il pubblico non deve più affidarsi ai mezzi di comunicazione, ma può farlo direttamente dai suoi canali social. Informazioni di prima mano dalla viva voce del protagonista: una fonte imbattibile, nella misura in cui mantiene la propria credibilità (e si torna al punto sopra).
In molti settori gli intermediari hanno imparato a proprie spese che si può diventare rapidamente superflui e non ci sono barriere in grado di fermare questo cambiamento. Nell’ambito del giornalismo sportivo un recente esempio lampante è stato quello della tennista giapponese Naomi Osaka, ritiratasi dal Roland Garros 2021 proprio per non dover reggere lo stress delle conferenze stampa post-partita.
Ovvero, gli intermediari superflui o ritrovano una dimensione utile oppure diventano dannosi.

Gli individui prevalgono sulle comunità e le organizzazioni.
L’individualizzazione della società viene da lontano ed il suo paradigma può essere ritrovato nella frase pronunciata da Margaret Thatcher nel 1987: “… la società non esiste. Esistono gli uomini e le donne, individui, ed esistono le famiglie …”
Sono passati 35 anni, è crollata l’URSS, sono spariti i regimi comunisti nell’Europa dell’est, ci sono state (almeno) due crisi economiche mondiali e la peggiore pandemia degli ultimi 100 anni, eppure questa visione (politica) della società (scusate il gioco di parole) non ha mai smesso di diffondersi ed affermarsi.
Qualche decennio fa Cristiano Ronaldo sarebbe stato ampiamente criticato per non rispettare le regole degli impegni presi dalla UEFA.
Oggi l’individuo è chiaramente più importante del gruppo / organizzazione.
Ci si aspetta che le singole persone prendano posizione, non che si riuniscano in una comunità per creare un insieme di valori condivisi che guidi i comportamenti.
Le comunità di follower non partecipano all’elaborazione di una visione comune, ma approvano (applaudono) quella del leader.
Ma se oggi le persone sono marche, vale anche il contrario: per avere successo le marche devono essere persone, prima che contenitori di idee.

Gestire i corporate brands è difficile e complicato: il, cattivo, esempio Coca Cola. 2° e ultima puntata.

Domenica scorsa vi avevo lasciati con la domanda: la campagna #cocacolarenew sarà in grado di riposizionare l’immagine di “Coca Cola” (bevanda) in senso più salutistico per ridurre l’effetto negativo dei nuovi comportamenti di consumo nei confronti delle bibite gassate zuccherate?
La risposta è: dubito fortemente, almeno per due ragioni:
• La campagna è Coca Cola centrica: vero che la voce fuori campo parla di “Coca Cola Company” però l’ashtag è #cocacolarenew.
• Gli altri prodotti sani (thè biologico, acqua di cocco, acqua minerale, integratori, ecc…) appartengono a categorie profondamente diverse dalle “cole” per ingredienti, caratteristiche organolettiche e motivazioni di consumo. Il trasferimento di percezione, immagine e competenze è quindi limitato, se non nullo. Mi spiego meglio: se mi piace il Pandoro Bauli e lo considero migliore rispetto ai concorrenti, è probabile che ritenga di poter trovare la stessa qualità anche nei croissants. Si tratta sempre di prodotti dolciari da forno, la cui produzione richiede le stesse competenze e, festività a parte, soddisfano motivazioni e momenti di consumo simili (alzi la mano chi non ha mai fatto colazione con un pezzo di pandoro avanzato dal giorno prima).
Detto in sintesi la campagna #cocacolarenew rimane soprattutto una campagna di Coca Cola (bevanda).
Per questo io vedo più probabile un trasferimento del percepito di Coca Cola sugli altri marchi “sani” che appartengono a Coca Cola Company, che non viceversa.
Nella misura in cui questo si dovesse realizzare, la campagna diventerebbe un boomerang nei confronti delle, più deboli, marche del gruppo. Soprattutto per quei consumatori che ad oggi non erano coscienti del fatto che thè biologico, acqua di cocco, acqua minerale, integratori, ecc… appartenessero alla multinazionale di Atlanta.
Spesso si tende a sottovalutare la forza del marchio originario riflettuto nel corporate brand e della deriva/influenza che ha sugli altri marchi.
Ma c’era qualcosa che Coca Cola Company poteva fare niente per riflettere nella propria immagine la propria evoluzione?
Sì e l’avevano sotto gli occhi, ma era un salto troppo grosso e (probabilmente) non hanno avuto il coraggio di farlo.
E’ lo stesso sito di Coca Cola Italia a riportare le parole dell’Amministratore Delegato di Coca Cola Company, James Quincey:
“The Coca-Cola Company è diventata più grande del marchio Coca-Cola. Il brand Coca-Cola costituirà sempre il cuore e l’anima di The Coca-Cola Company, ma l’azienda oggi è molto di più rispetto al suo brand principale.”.
Lo dice ancora più chiaro il testo dello spot, quando in apertura la voce fuori campo recita: We may be one of the world’s most familiar company, but we make more than our name suggest. (Probabilmente siamo una delle aziende più conosciute al mondo, ma facciamo di più di quello che suggerisce/indica il nostro nome).
Ergo, cambiate il nome.
E’ evidente lo strabismo di marketing per cui la notorietà della marca Coca Cola bevanda viene, scorrettamente, attribuita a Coca Cola Company azienda.
E’ probabile che un rinnovamento della percezione di Coca Cola Company in grado di rispecchiare l’evoluzione che ha portato l’azienda ad essere quello che è oggi fosse necessario, sia per guidare le strategie e l’operatività interna che nei confronti dei clienti del trade e degli investitori.
Il problema è che secondo me è possibile farlo solamente con un cambio radicale del marchio/nome aziendale che abbandoni il marchio Coca Cola. O, se volete fare le cose per gradi, che lo mantenga marginalmente durante un primo periodo, per poi eliminarlo successivamente (attenzione però che, come diceva mia mamma, “il medico pietoso fa la piaga pustolosa”).
E’difficile? Certo, nessuno si dovrebbe aspettare che gestire uno dei più grandi marchi mondiali sia una cosa facile.
E’ rischioso? Secondo me meno della strategia #cocacolarenew in corso, per le ragioni spiegate sopra.
E’ inutile? Forse si, per le ragioni spiegate domenica scorsa. Ma, evidentemente, non sono nelle condizioni di poter valutare la necessità di un allargamento dello scopo aziendale di Coca Cola Company per mantenere la massima efficacia ed efficienza nello sviluppo del gruppo (cosa che può valutare solo chi è all’interno dell’azienda).
Deciso però che questo allargamento dello scopo aziendale fosse necessario, andava fatto fino in fondo, staccandosi dal marchio Coca Cola, che intrinsecamente lo restringe.
Come definire questo nuovo scopo? Non dovrebbe essere difficile per un’azienda che rappresenta uno degli emblemi della cultura americana in tutto il mondo.
E anche qui devo ammettere che la nuova visione sviluppata da Quincey di Coca Cola Company come una “Total Beverage Company” è deludente.
Possibile che Coca Cola Company non trovi di meglio per definire se stessa del semplice atto di consumo e che il massimo comun denominatore che ispira il suo modus operandi sia la purezza dell’acqua utilizzata per tutti i suoi prodotti? Forse qualcuno aveva il dubbio che i prodotti di Coca Cola Company fossero realizzati con acqua inquinata?
Se è una Total Beverage Company significa che nel proprio scopo aziendale rientrano anche superalcolici, vino e birra?
Nel definire dei valori comuni che collegano tutti i prodotti, e quindi così avvantaggiarsi sia dell’equity costruita nel tempo dal marchio Coca Cola bevanda che dalla percezione più sana dei nuovi prodotti, Coca Cola Company potrebbe essere una:
• “happiness company”: dove “wellness” è una componente dell’”happiness”.
• “togheterness company”: sia come filosofia di condivisione sia come comunità mondiale grazie alla globalizzazione dell’azienda.
• “opportunity company”: per la moltiplicità delle scelte, per la creazione di opportunità alle persone all’interno dell’azienda, nelle comunità in cui opera, ecc…
Questi sono solo i primi esempi che mi vengono in mente senza alcuna conoscenza dell’azienda, le sue caratteristiche, la sua cultura, oltre a quelle che mi vengono dall’essere un affezionato consumatore.
Concludo sottolineando come questi due post non siano stati sostenuti dalla voglia/soddisfazione di far vedere che sono più furbo di Coca Cola.
E’ invece un profondo dispiacere, da consumatore dei prodotti dell’azienda e da professionista di marketing, vedere come anche Coca Cola Company abbia difficoltà ad operare con una visione complessiva di marketing strategico e temo non sia slegato al fatto che il suo attuale Amministratore Delegato è un inglese, laureato in ingegneria informatica.

Gestire i Corporate Brands è difficile e complicato: il, cattivo, esempio Coca-Cola. 1a puntata.

L’altro giorno ho letto su Data Media Hub un interessante post dal titolo “Il riposizionamento di The Coca Cola Company”, relativo al nuovo corso strategico di Coca Cola per enfatizzare l’ampiezza e la maggiore salubrità dell’assortimento aziendale, al di là della Coca Cola intesa come specifica bevanda, nelle sue diverse versioni. Per chiarezza da qui in avanti userò “The Coca Cola Company” per riferirmi all’azienda e “Coca Cola” per riferirmi alla bevanda specifica (o all’Area Strategica di Affari rappresentata dal marchio specifico se preferite).

In sintesi quello che sta succedendo è che il cambiamento dell’atteggiamento dei consumatori e delle istituzioni nei confronti delle bevande gassate ricche di zucchero, molti comuni statunitensi applicano tasse basate sul contenuto di zuccherino, ha causato un forte calo dei consumi.
I dati del 2016 relativi al consumo delle bibite gassate negli USA registrano i valori più bassi degli ultimi trent’anni, sostituite da acqua minerale gassata, caffè freddo in bottiglia ed energy o sport drinks.

us-per-capita-consumption-of-soft-drinks_large
Questa tendenza di consumo quindi viene da lontano, ed infatti da anni la Coca Cola Company ha allargato il proprio assortimento ai diversi tipi di bevande e lavorato sulla riduzione del contenuto di zucchero delle bevande esistenti (o l’aggiunta nell’assortimento di versioni di versioni meno zuccherine) per cercare di continuare a sviluppare fatturato e profitti.
Malgrado questa strategia però tanto l’uno come gli altri sono in costante calo dal 2012 (Fonte: Forbes).

Coca Cola Company revenue - Forbes
A marzo di quest’anno il Presidente ed Amministratore Delegato della Coca Cola Company James Quincey ha annunciato il rafforzamento di questa strategie con la “messa al centro del consumatore” (sigh)  e la conseguente evoluzione di Coca Cola Company verso una “Total Beverage Company” (doppio sigh)
Coerentemente con questa strategia/visione sintetizzata dall’ashtag #cocacolarenew, a settembre The Coca Cola Company ha trasmesso un nuovo spot negli orari di maggior ascolto televisivo, e quindi più costosi, degli U.S.A..
Qui di seguito trovato le tre versioni: 30”, 60” e 90”. Le ho riportate tutte perché spesso nel realizzare e pianificare una campagna pubblicitaria capita di sottostimare l’effetto della diversa durata nel messaggio che viene effettivamente trasmesso e quindi presumibilmente percepito. Voglio dire che l’articolazione e la completezza del messaggio che c’è nello spot di 90” si perde in quello di 30”. Poiché entrambi nascono dalla stessa idea creativa e sono realizzati dalle stesse persone, si rischia che lo spot da 30” vengo considerato semplicemente una versione più breve di quello da 90”, mentre in realtà ne è una versione in buona parte diversa.
Per questo ho riportato per ogni spot anche il numero di visualizzazioni che aveva su youtube alle 12:30 del 22-10-17.

30″ – 438.346 visualizzazioni.

60″ – 3.920.816 visualizzazioni.

90″ – 21.124 visualizzazioni.

Servirà tutto questo a migliorare le performances dei marchi di Coca Cola Company?

Dubito fortemente, perché secondo me si è adottato un approccio semplicistico ad una situazione aziendale complessa, come spesso accade quando si tratta della gestione dei corporate brands (o marchio aziendale) e/o di marchi ombrello.
La situazione in cui il marchio aziendale corrisponde anche ad una delle marche-prodotto dell’assortimento è sempre una situazione delicata. Quando poi la marca a cui corrisponde il marchio aziendale è una grande marca per personalità, volumi, reddività, ecc… la delicatezza della situazione cresce in proporzione.
Ovviamente non c’è alcun problema nel caso in cui il marchio aziendale corrisponde all’unica marca-prodotto dell’assortimento. E’ però una situazione molto più rara di quanto si pensi e, soprattutto, è una situazione che tende a cambiare con la crescita dell’azienda. Quindi la corrispondenza tra marchio aziendale e marca-prodotto è sempre potenzialmente complicata.
Alla complicazione ed ai rischi corrispondono però dei benefici: se io costruisco una reputazione per il marchio Ferrero, tutte le volte che sviluppo strategie riguardanti una delle singole marche-prodotto ottengono degli effetti sinergici su tutte le altre. Per fare un esempio semplice, nel momento in cui lancio l’Estathè Ferrero la buona reputazione del marchio aumenta l’attenzione ed il ricordo della campagna pubblicitaria e facilita la prova e l’adozione del prodotto.
Il tutto però funziona solo nel caso in cui il marchio aziendale venga associato a quello Estathè, Nutella, Fiesta, Kinder, ecc…, come effettivamente è stato fatto dalla Ferrero. Da notare anche che non esiste un prodotto / linea della Ferrero che non abbia una marca propria. In altre parole l’architettura della marca è sempre “marca-prodotto” di Ferrero (marchio aziendale).
Viceversa nel caso di Coca Cola Company il marchio aziendale si sovrappone interamente a quello della marca-prodotto “Coca Cola”, mentre l’associazione è debole, o nulla, con gli altri marchi aziendali come Bon Acqua, Aquarius, Fuze Teq, ecc …
Il punto è che il consumatore dei prodotti più “sani” dell’assortimento di Coca Cola Company il marchio aziendale non lo vede, né lo percepisce perché l’azienda non glielo mostra.

Coca Cola assortment
Nella campagna #cocacolarenew c’è quindi innanzitutto un sostanziale strabismo di marketing nell’identificazione del target di “Coca Cola Company. Sono principalmente gli investitori finanziari e non i consumatori quelli ai quali è importante comunicare che Coca Cola Company negli anni ha allargato il proprio assortimento è un’azienda.
Si potrebbe pensare però che l’obiettivo della campagna #cocacolarenew sia riposizionare in termini salutistici le marche dell’azienda. La domanda quindi sarebbe: è in grado di raggiungerlo?
Le mie risposte a domenica prossima …

C’è confusione nella strategia di comunicazione 2015 della Coca Cola?

emma coca cola_small.jpg.ashxUn post estivo che parla di bibite ci sta. Guardare poi cosa fa la Coca Cola per chi si occupa di marketing è doveroso prima ancora che interessante (o viceversa) come ho già detto più volte in questo  blog. I numerosi link non li metto, se siete curiosi basta che digitiate “coca cola” nell’apposita casella “search” e scoprirete che gli ultimi 2 post erano, se non negativi, critici.

Potrei quindi dire che non c’è due senza tre, perchè anche oggi mi trovo perplesso davanti alla strategia della comunicazione messa in atto da Coca Cola.

Comincio dalla fine, perchè i dubbi sono cresciuti quando l’altro giorno ho sentito il nuovo spot radio, che cito a memoria perchè non trovo sul web da nessuna parte.

Un ragazzo entra in un bar e si rivolge al “suo” barista, che si autodefinisce immediatamente come suo “confessore”, con il quale si confronta sulle sue (dis)avventure sentimentali: “E’ quella giusta?”, “Sì anche questa è quella giusta”. Nello spot viene spiegato come servire una Coca Cola “tre cubetti di ghiaccio, una fetta di limone” e si invita cercarla “nei migliori bar”, nel “nuovo formato in vetro”. Tutta l’atmosfera è da american bar d’antan, con il bar di fiducia a rappresentare un centro di gravità permanente in cui i (ri)trovarsi, sicuri di poter contare sul proprio fratello maggiore-barman (termine fintamente inglese che si usa solo in Italia) e dell’uso di mondo che ha acquisito in tanti anni dietro al bancone nel (ri)affrontare con fiducia le piacevoli sfide della vita.

Detto in sintesi è una spot che (forse) potrebbe andare bene per la vodka Grey Goose. Vederlo utilizzato per la Coca Cola è per me stupefacente.

Ho capito che la Coca Cola sta vivendo una crisi di consumi, soprattutto sul mercato USA, ma davvero si è così indebolita che serve spiegare nello spot radio come servire una Coca Cola? Che poi risulta ovviamente banale: ghiaccio e limone.

Per lo stesso motivo suona strano l’invito a cercarla “nei migliori bar”: la forza della Coca Cola è che è OVUNQUE ed è sempre lei INDIPENDENTEMENTE dal livello del locale in cui è servita.

Anche il “nuovo formato in vetro” è un’affermazione che stride perchè per la grandissima maggioranza dei consumatori al bar la Coca Cola è sempre stata in vetro e, piuttosto avevano sopportato il cambiamento alla bottiglia di plastica come inevitabile cambiamento dei tempi (comunque dalla mia esperienza personale il vetro da 20 cl non è mai completamente sparito dal mercato).

Queste le cose più macroscopiche. Con un’analisi più sottile/approfondita vale la pena notare che lo spot appare segmentante sia in termini di tipologia di punto vendita che di consumatore, in contrapposizione (o quanto meno con inversione di tendenza) rispetto all’universalità che caratterizza la Coca Cola almeno da 30 anni, se non di più.

Il “bar di fiducia” infatti è solo una delle tipologie di punto vendita in cui si acquista/consuma la Coca Cola. Lo spot quindi esclude, chioschi, pizzerie, distributori automatici, ecc..

Peggio ancora la connotazione fortemente maschile del target, quasi sessista, data dallo spot.

Per principio non credo che siano scelte casuali, ma per onestà intellettuale fatico a vederci dei vantaggi nel posizionamento a medio-lungo termine.

La mia perplessità sulle strategie di comunicazione della Coca Cola sono aumentato quando, per cercare lo spot radio, sono andato sul sito e sfogliando la home ho trovato nella sezione “Da non perdere” lo spot “mangiamo insieme” dello scorso gennaio (che personalmente non avevo mai visto prima), ma non quello “Bacia la felicità”, in onda dallo scorso aprile per lanciare la promozione estiva 2015 con i nomi da baciare sulle etichette delle bottiglie e sulle lattine.

In realtà le due strategie “Mangiamo insieme” e “Bacia la felicità” godono ognuna di una sezione specifica nel sito di Coca Cola Italia, ma lo spot della prima è anche in home page, mentre quello della seconda più recente, no.

E volendo dirla tutta anche la campagna “Bacia la felicità” non mi è sembrato il massimo della strategia. Criticità del lancio con le PR digitali a parte (qui il mio post a riguardo) è comunque una versione più debole della BELLISSIMA campagna “Condividi una Coca Cola” del 2013.

Perchè più debole? Perchè il concetto “Dai un bacio a …” di quest’anno è comunque più “stretto” rispetto al “condividere”. Tutti vogliono/possono sempre condividere, non tutti possono/vogliono sempre baciare.

Secondo me valeva più la pena ripetere pari pari la campagna “Condividi una Coca Cola” facendolo diventare un appuntamento estivo.

Tutti questi ragionamenti pongono una domanda, per me, da brividi: la Coca Cola sta seguendo una rotta strategica o segue tatticamente il vento? E se ha una strategia, quale mai sarà?

Domande sufficienti per un’intera estate, ci vediamo (probabilmente) dopo ferragosto.

#bacialafelicità: l’ultima campagna di Coca Cola diventerà l’esempio del declino delle PR digitali?

Chi segue questo blog sa che segue con naturale attenzione quello che fa la Coca Cola.

“Naturale” perchè sono un vecchio affezionato consumatore prima ancora che per ovvie ragioni personal-professionali di marketing nei riguardi di uno dei principali, e più innovativi, marchi mondiali.

Queasi sempre ne ho parlato inntermini positivi, quando non entusiastici. Nei rari casi in cui le strategie non mi convincevano, c’era sempre una sospensione di giudizione che dava il benefecio del dubbio che avessero ragione loro, che, non a caso, sono la Coca Cola.

Oggi è uno di quei rari casi.

Lo scorso 12 aprile è partita in Italia (negli USA era partita il 25 febbraio) la nuova campagna Coca Cola che celebra i 100 anni dalla creazione della bottiglia “contour”.

Ovviamente la campagna ha il suo bel hastag #bacialafelicità e si sviluppa anche sui social networks oltre che (o forse più che) sui media classici.

A quasi un mese dal lancio però io non ho notato granchè attraverso i miei profili social e quindi per curiosità ho digitato #bacialafelicità su twitter ed ho guardato cosa usciva.

L’impressione è che la grandissima maggioranza dei tweet siano stati fatti da opinion leaders digitali più o meno professionisti (bloggers, ecc…) in seguito alla campagna di PR realizzata da Coca Cola (vedi foto del kit di PR) e siano molto pochi quelli spontanei. Guardo instagram (circa 200 immagini) e la situazione è più o meno la stessa.

La mia impressione è che le PR digitali siano arrivate ai meccanismi delle “classiche”PR analogiche, nel senso che puntano a raggiungere quanti più opinion leaders possibili, che di conseguenza genereranno un numero elevato di contatti/impressions potenziali.

Tutti questi tweets / post servono a qualcosa. Qual’è lo scopo dell campagna? Rafforzare / modificare il posizionamento della marca per aumentaerne il valore? Creare passaparola? Veicolare determinati contenuti? Aumentare i consumi?.

Niente di tutto questo si verifica se non si ottiene l’attenzione e non si crea il coinvolgimento di chi riceve il messaggio.

Una volta attenzione e coinvolgimento nelle PR digitali erano assicurati automaticamente dalla relazione tra l’opinion leader “attivato” dalla campagna aziendale e le persone che lo seguono, ma dubito che questo automatismo esista ancora.

Non dimentichiamo che alla base della “forza” di un opinion leader (analogico o digitale non importa) c’è sempre la credibilità. E nei compartamenti digitali le bugie hanno le gambe cortissime.

Negli ultimi 5 anni le aziende hanno sviluppato le competenze per gestire e reclutare gli opinion leader (digitali), che più si prestano a queste operazioni e meno sono credibili, quindi rilevanti.

Inoltre, o magari come conseguenza dell’intensificarsi delle PR digitali, nel comportamento delle persone nelle reti sociali si nota uno spostamento dalle interazioni basate sulle relazioni alle interazioni basate sugli interessi condivisi (basta utilizzare un po’ instagram per accorgersene in prima persona). Quest’ultima frase rileggetela, perchè esprime un concetto importante.

Un altro segnale dell’importanza crescente e cruciale che ha oggi il contenuto per sviluppare una comunicazione (dialogo) tra marche e persone (consumatori).

La campagna #bacialafelicità è stata ottimamente pensata ed eseguita, come ci si aspetta da un’azienda con la forza e la professionalità di Coca Cola.

Proprio per questo (l’assenza di errori di impostazione e di esecuzione§), la scarsa viralità organica sviluppata  dalla campagna #bacialafelicità a me sembra il paradigma del declino delle PR digitali di massa, così come si sono evolute da qualche anno a questa parte.

Concludo con una nota a margine: in termini di autenticità e ricchezza dei contenuti non mi sembra una bella cosa che il testo del comunicato di presentazione della campagna non ricordi il nome di Earl R. Dean, che 100 anni fa disegnò la bottiglia della Coca Cola.

 

Le lacune della strategie di digital PR di Coca Cola Italia.

Lo so che avevo promesso le 4P del marketing nel 2024 però l’argomento di oggi non avrebbe senso rimandato alla prossima settimana ed un po’ di riposo con un post leggero, dopo quello di domenica scorsa mi fa solo che bene.

In questo blog ho tessuto più volte le lodi della Coca Cola e quindi penso di essere credibile quando dico che non ho pregiudizi nei confronti della marca, anzi.

Anzi mi è un po’ spiciuto toccare con mano le lacune con cui viene realizzata la srategia di PR digitali in Italia.

Giovedì 5 giugno la Coca Cola mi manda una mail con oggetto “Ecco il nuovo video CocaCola: pubblicalo anche tu” e con questo contenuto:
Stappa la felicità con Cocacola! CocaCola vi invita a vedere il suo nuovo video: La felicità del movimento, più ti muovi e più sarai felice. Un invito a rinunciare per quanto possibile alla vita sedentaria per dedicarsi al movimento, in tutte le sue forme: ridere, giocare, ballare, correre! Pubblica anche tu il nuovo video della CocaCola, così anche i tuoi follower lo potranno vedere e renderemo virale il messaggio!
Grazie! CocaCola
” – LINK ALLO SPOT SU YOUTUBE – “Il mondo è in costante movimento, tutto attorno a noi si muove, e noi?
Come esprimiamo la nostra felicità? Saltando dalla gioia! Ridendo così tanto da non riuscire a fermarci! “scoppiando” di felicità! Più ci muoviamo e più siamo felici! Prova anche tu! Abbandona la vita sedentaria e dedicati all’atività fisica, di qualunque tipo: corri con gli amici, gioca con i tuoi bambini, balla fino all’alba, ridi a crepapelle! l’importante è essere in movimento!
Sii felice con Coca Cola! E non scordarti di visitare il nostro sito …
“.

Confesso che la cosa mi ha un po’ lusingato perchè l’ho visto come una sorta di “riconoscimento” al fatto che biscomarketing in passato si sia spesso occupato delle iniziative della Coca Cola (visto che come diffusione non sono certo un blog da grandi numeri).

Se non l’ho pubblicato è un po’ perchè non mi sono ancora dato una politica chiara riguardo a post sponsorizzati o stimolati dalle aziende, un po’ perchè in questo ultimo spot vedevo qualche ombra strategica rispetto al solito scintillio delle iniziative Coca Cola (tale è il rispetto che preferivo tacere piuttosto che esrpimere dei dubbi), un po’ perchè biscomarketing ha oramai una sua cadenza settimanale ed un po’ perchè questa iniziativa mi sembrava oramai in ritardo rispetto alle iniziative “Friendly twist” e dei 16 tappi che trasformano le bottiglie di plastica di Coca Cola in oggetti utili (strategie che in effetti sono state riprese sul web la settimana successiva).

Mercoledì 11 giugno la Coca Cola mi manda un un’altra mail dall’oggetto “Richiesta quotazione per pubblicazione redazionale a pagamento” (niente da dire sulla correttezza) con questo contenuto “La presente per richiedervi la quotazione per la pubblicazione nel vostro sito o blog del seguente redazionale con inclusione del frame del video.
La pubblicazione dovrebbe avvenire entro venerdì 13 giugno. Restiamo in attesa di un vostro sollecito riscontro.
” a cui seguiva il medesimo link + testo della mail del 5 giugno.

Io ho risposto dando una quotazione che comprendeva anche il mio commento sulla strategia. Presumo che alla Coca Cola la proposta economica non sia piaciuta e (forse) il fatto che avrei commentato la strategia ancora meno. Me lo aspettavo, ma devo ancora entrare nell’ordine di idee che nel giro di 2 mesi non ho più un lavoro e che quindi anche 50 euro per la benzina, per cui ho fatto una quotazione basata sul valore del mezzo (ovviamente percepito da me) e non sul (nullo) costo di produzione.

La falla della startegia di PR digitali della Coca Cola sta in quel “presumo”, ossia nel fatto che nessuno mi abbia risposto.

Vero che io sono uomo del secolo scorso, però nella mia attività aziendale quando chiedo un preventivo ad un potenziale fornitore gli dò sempre una risposta. Con la stessa logica per cui dò sempre una risposta a chi mi chiede una quotazione, anche solo per dire che non riesco a soddisfare la loro richiesta.

Allora ho cominciato a farmi una serie di domande:
- Se avete visto che non ho pubblicato il comunicato dopo il primo invio, perchè mi avete poi richiesto la pubblicazione a pagamento?
- Perchè quando mi avete richiesto la pubblicazione a pagamento non avete fatto riferimento alla prima richiesta? Significa che non monitorate gli effetti delle iniziative di PR digitali e sparate nel mucchio oppure che nella valutazione dei costi (di tempo)/ benefici (di rapporto) avete comunque preferito utlizzare un formato standard?
- Se avessi pubblicato il comunicato gratis dopo l’invio della prima mail, avrei perso l’occasione di essere pagato per fare la stessa cosa una settimana dopo? Attenzione perchè questa è una strategia antifidelizzazione che penalizza i comportamenti positivi. E comunque in termini di “politica editoriale”, dal mio punto di vista sarebbe stato difficile pubblicare lo stesso contenuto a distanza di una settimana.

Sono io che sono troppo pignolo? Fatto sta l’offerta (rifiutata) di pubblicazione a pagamento mi ha portato sicuramente a non pubblicare un contenuto che ero disposto a pubblicare gratis. Non è ripicca, è evitare di farsi dell’auto dumping.

Secondo me possono fare di meglio. Anche perchè secondo me la Coca Cola non ha bisogno di pagare redazionali sui blog per avere visibilità in rete, come dimostra quella ottenuta da “Friendly twist” e dai 16 tappi che trasformano le bottiglie di plastica di Coca Cola in oggetti utili.

Forse basterebbe osservare/stimolare/rilanciare quello che già succede in rete, senza preoccuparsi troppo della perdit adi controllo (del contesto).

E forse bisognerebbe anche che si ricordassero che sono una grande marca multinazionale per cui quello che fanno in Vietnam viene osservato anche in Italia (sovrapponendosi alle attività realizzate qui).

P.S. Il fatto che in questo post non ci sia alcun link alle iniziative della Coca Cola citate non è un caso. Comunque potete facilmente trovarle con una semplice ricerca su qualsiasi motore di ricerca.

Nutella copia Coca Cola e Coca Cola si sdoppia.

In questo post volevo scrivere di due promozioni che mi hanno lasciato perplesso, però facendo le solite ricerche/verifiche che accompagnano ogni post ho scoperto qualcosa di molto più interessante: la Coca Cola schizofrenica.

Andiamo con ordine. La prima promozione a lasciarmi perplesso è quella della Nutella con il proprio nome.

Non so se sia stata copiata da quella di “Condividi una Coca Cola” oppure è semplicemente una corrispondenza temporale (anni fa ho letto di un fisico teorico che aveva teorizzato la spiegazione del perchè alcuni concetti maturino contemporaneamente in posti e luoghi diversi in una specie di pensiero cosmico).

Poco importa, come non è sbagliato in assoluto copiare da quelli bravi. Dipende però da chi copia e come. Se sei un leader del peso della Nutella direi che non puoi copiare (quasi) da nessuno, sicuramente non da un’altro grande marchio dell’alimentare. Poi diranno che la promozione ha avuto un grande successo di partecipazione, ma secondo me resta una perdita netta di immagine.

Riguardo al “come” si copia, secondo me il concetto di “condividi questa Coca Cola con tizio” è molto più forte di “questa è la mia Nutella” e sono rimasto stupito di come invece tutti i commenti ed articoli che ho trovato in rete assimilino invece le due promozioni (paranoie da maniaco di marketing?)

L’altra promozione che mi ha lasciato perplesso è quella di Coca Cola e Vodafone che vedete qui sotto.

2013-10-13 20.52.24

I motivi della perplessità sono diversi:
- non ha alcun legame con la precedente nè con un concetto di posizionamento. E’ semplicemente un premio Vodafone per tutti. E’ quindi una promozione che potrebbe fare qualsiasi marca/prodotto.
- oltre che dall’etichetta, la bottiglia promozionata viene identificata da un tappo giallo che rischia di far percepire una variante di gusto (tipo la Coca Cola al limone realizzat anni fa, inseguendo il successo della Pepsi lime).
- è una promozione escludente per una marca universale come Coca Cola, perchè se io consumatore non ho vodafone sono in qualche modo penalizzato.

in una parola non sebrava neanche una promozione Coca Cola …. ed infatti, leggendo bene l’etichetta, non lo è.

Il regolamento del concorso infatti si trova su www.coca-colahellenic.it, ossia Coca Cola HBC Italia, ossia il principale (attenzione non l’unico) imbottigliatore italiano di prodotti The Coca Cola Company.

A questo punto la domanda (retorica?) è: questa operazione nasce da Coca Cola Italia, il cui sito è comunque riportato sull’etichetta della bottiglia promozionata, è almeno stata concordata oppure è stata fatta in totale autonomia?

In realtà qualunque sia la risposta, la domanda vera è: come si fa a gestire unm marchio con (almeno) due identità pubbliche?

Per quanto in Coca Cola siano bravi, la vedo una situazione rischiosa. Peggio che copiare le promozioni dalla Nutella.

Coca Cola: l’avanguardia sempre e comunque.

Nella mia carriera professionale non ho mai voluto creare un reparto/funzione di trade marketing autonomo, separato dal brand management come ho spiegato molto sinteticamente in questo vecchio post.

Ieri al supermercato ho visto che Coca-Cola ha realizzato una bellissima strategia che conferma e allo stesso tempo smentisce questa mia scelta. Ecco le foto.

Espositore Coca Cola ortofrutta
Espositore Coca Cola gastronomia
buon appetito con Coca Cola

La realiazzazione della strategie risponde alla difficoltà che incontrano tutte le aziende (persino la Coca Cola) quando si tratta di avere del display fuori scaffale nei punti vendita di (relativamente) piccole dimensioni, come i supermercati. Se si considera che il supermercato è comunque la tipologia di negozio più importante a livello sia di numerosità che di vendite e che perde meno dell’ipermercato (dove invece lo spazio abbonda) si capisce l’interesse delle aziende a superare il problema.

Coca Cola l’ha fatto offrendo un servizio che risolve (o quantomeno riduce) il vincolo di spazio del cliente, incorporando all’espositore della Coca Cola le strutture che servona al punto vendita (il dispenser dei saccheti di plastica nel reparto ortofrutto e il distributore dei numeri al reparto panificio).
Conferma così la mia considerazione che i principi del trade marketing sono i medesimi di quelli del consumer marketing, sintetizzabili nel fornire servizi (che si possono concretizzare sotto le diverse forme di prodotti, strutture o servizi propriamente detti) che offrano vantaggi significativi al cliente.

Allo stesso tempo mi smentisce perchè sono (quasi) sicuro che Coca Cola ha una funzione di trade marketing (forse anche di più: una per canale) che si occupa di queste cose.

Due note a margine:
- incorporando attrezzature che servono al punto vendita Coca Cola si è messa nella posizione di ottenere uno spazio espositivo extra scaffale permanente. sono curioso di vedere cosa succederà dopo l’estate.
- continuando a dare visibilità al claim “Buon appetito con Coca Cola” sta rafforzando il proprio posizionamento nel momento di consumo di bevande (pasti nelle loro diverse forme) che genera il maggior consumo quantitativo (mentre il vino continua il suo inesorabile (?) declino abbandonando i suoi valori di convivialità e genuinità.

Ancora una volta Coca Cola conferma di essere un’azienda ricca di idee, prima ancora che di soldi.

A proposito della Coca Cola…..

Non sono d’accordo con i due commenti che Daniele Zanette e Diego Illeterati hanno fatto al mio ultimo post (questo ovviamente NON significa che io abbia ragione).
Troppo comodo pensare che le attività della Coca Cola hanno successo sempre e comunque grazie all’ampiezza dei budget. Almeno per 4 motivi:
1. I budget di cui dispone la Coca Cola sono commisurati all’ampiezza dell’audience, alla portata degli obiettivi da raggiungere ed alla forza dei concorrenti.
2. Le strategie mal pensate e peggio realizzate portano ai flop clamorosi di cui è pieno il mercato; e più grandi i budget, maggiori le perdite. Lo dico perchè viceversa le grandi multinazionali non sbaglierebbero mai un lancio (restando alla Coca Cola, ricordo il disastroso lancio della New Coke nel 1985, indipendentemente dal fatto che siano poi riusciti a trasformarlo in un successo), lo dico perchè l’ho visto succedere, anche sotto il mio naso. E questo è tanto più vero oggi perchè la frammentazione dei media, il moltiplicarsi dei messaggi, il conseguente abbassarsi dell’attenzione e la fruizione attiva del mezzo web hanno alzato il livello di investimento in mezzi e risorse umane per coprire in modo effettivamente massiccio l’audience.
3. Anche nel caso di una pressione comunicativa che permette di far passare comunque il messaggio (esempi emblematici Ferrero e Mulino Bianco in TV), una strategia concettualmente forte e chiara, ben realizzata renderà l’investimento nei mezzi più efficace di una strategia debole, mal realizzata. Lo so che sembra (è) una tautologia, però proprio il fatto che un grande budget porta spesso comunque qualche risultato, rischia di mascherare innefficacia ed inefficienza nello definizione della strategia e nella sua realizzazione.
4. Soprattutto è troppo comodo ridurre l’efficacia delle strategie di Coca Cola al budget nel momento in cui il diffondersi della fruizione del web per le attività più diverse (informative, ludiche, sociali, ecc….) ha abbassato enormemente i costi di accesso alla propria audience.

La differenza la fanno sempre di più le idee e la capacità di realizzarle/trasferirle in modo coerente, trasparente ed efficace alla propria audience.

Oggi efficace significa anche che le strategie devono avere una componente tattica (essere un moltiplicatore dei risultati a breve) e le tattiche una componente strategica (supportare e rafforzare il posizionamento/l’identità della marca).

Però misurare le strategie di pubblicità e PR in base agli effetti sul breve è una miopia di breve periodo che porterà giocoforza a ridurre gli investimenti sulle fondamenta della marca e quindi ad indebolirla nel medio periodo. Credo che l’evoluzione del settore nel mobile del manzanese sia emblematico in questo senso. Chi ha avuto la capacità di sviluppare una visione del proprio business è sopravvissuto (e magari prospera), chi ha cercato di resistere nel breve con una concetto di produzione o, bene che andasse, con una concetto di vendita sofre (o purtroppo è sparito).

E’ per questo che è importante imparare da quelli bravi, indipendentemente dal fatto che siano grandi o meno. Spesso però i grandi hanno la necessità e la mentalità di misurare gli effetti di quello che fanno per le ragioni di cui sopra, quindi fanno più ricerche ed analisi.

Tornando alla Coca Cola, giovedì ero in giro, mi fermo in autogrill e vedo le bottiglie della Coca Cola con i nomi di persona, mentalmente mi tolgo il cappello davanti all’idea che hanno avuto che uno possa prendersi la Coca Cola con il suo nome, mi avvicino per prendere la MIA Coca Cola e quando leggo l’etichetta vedo che gli strateghi della Coca Cola sono andati oltre le mie aspettative (always try to exceed consumer expectations diceva il mio professore di Marketing Management in Canada).
.
Non si tratta, egoisticamente, di comprare la MIA Coca Cola, ma di condividere una Coca Cola, un momento di felicità, con una persona ben precisa. Non vi piacerebbe che qualcuno comprasse per voi una Coca cola con il vostro nome? Oppure non vi sembra una buon sistema di rompere il ghiaccio con qualcuno appena conosciuto quello di dargli una Coca Cola con il suo nome? Oppure con un aggettivo che lo rappresenta (a me sono sembrati in sincerità un po’ artificiali, ma magari è perchè sono fuori target)?
Sottolineo l’uso della parola “condividere”, che 10 anni fa sarebbe stata obsoleta e troppo aulica, ma oggi è assolutamente familiare nel linguaggio del web. D’altra parte il claim globale è o non è “share the happiness“.
Qui non si tratta di budget, qui si tratta di sviluppare una strategia che fa evolvere la marca, declinando i valori universali su cui si basa la sua identità in modo da mantenerne la vicinanza ad un target sempre più ampio in una logica additiva e non sostitutiva. Più che spostarsi, la personalità della marca si allarga.
Strategia di comunicazione sul pack (già ai tempi della Keglevich ho sostenuto ed utilizzato il fatto che 1,5 milioni di bottiglie sugli scaffali sono un media, figuriamoci 350) che si integra egregiamente con la campagna di comunicazione sui media “classici” in cui il Presidente 17enne della Coca Cola (in un paese gerontofilo, messaggio forte) annuncia a tutti, in special modo alle mamme (ampiezza del target) la sua decisione di regalare 1 bicchiere di felicità (non sconti, tagli prezzo o 3×2).
Un percorso forte e coerente inziato nel 2009 con la campagna della semplicità in tavola, proseguito nel 2010 con quella della formula della felicità e nel 2012 con la campagna “Ceniamo insieme” con protagonista Simone Rugiati.

Quindi secondo me la strategia della Coca Cola ha successo innazitutto per la validità dei concetti, la coerenza della strategia e la bontà della realizzazione.

Dopodichè nessuno è perfetto: nello scirvere questo post sono andato sul sito www.cocacola.it e non è bello trovare la scritta “stappa la felicit” senza la “a”, nè la finestra di fb bianca.

Per concludere, e non lasciare Diego senza risposta, la ricerca di Facebook e Datalogix non dava un risultato della pubblicità su fb 3 volte superiore ai media tradizionali. Dava, nel 70% dei casi, un ritorno pari almeno a 3 volte l’investimento media.

Comunque se penso alla multicanalità nella fruizione dei media ed ai canali di acquisto (mi informo sul web anche per gli acquisti off line) non mi stupisce che la pubblicità su fb abbia dei meccanismi simili a quelli dei media tradizionali. D’altra parte anche youtube alla fine non altro che una TV. Solo che posso targettizzare l’esposizione allo spot molto peglio che con tutti i mezzi off line.

E’ tardissimo, buonanotte.

Teoria e tecnica della comunicazione (digitale) 2.

Quando il primo maggio ho scritto il primo post su questo argomento non prevededo una seconda puntata.

Poi però mi sono accorto che gli interessanti stimoli forniti dalle pubblicazioni dell’American Marketing Association, mi avevano fatto dimenticare lo spunto da cui originariamente avevo avuto l’idea di scrivere su questo argomento.

Lo spunto in questione è stata la notizia dello scorso 19 marzo secondo cui uno studio condotto dalla Coca Cola rilevava che il livello di buzz della marca aveva un effetto praticamente nullo sulle vendite a breve termine.

Ora al di là dei distinguo fatti dal management della Coca Cola già nel comunicare i dati della ricerca e dall’innegabile moda per cui molte aziende investono (investivano) in attività web, social, buzz etc.. senza darsi degli obiettivi precisi nè dotarsi di strumenti di misurazione dei risultati, la notizia mi è sembrata fin da subito una s…tupidaggine.

Per la serie le ricerche bisogna saperle scrivere ogni analisi deve essere realizzata con un obiettivo di ricerca relativo ad un’ipotesi sul fenomeno analizzato. E l’ipotesi che il buzz abbia un rilevante effetto sulle vendite a breve termine mi sembra, quanto meno, sorprendente.

Secon l’approccio, che a questo punto definirei classico, del Kotler il Promotion mix che compone la “P” di promotion delle “4 P” marketing è formato da pubbiclità (advertising), pubbliche relazioni (publicity), promozioni alla vendita (sales promotion) e vendita diretta (personal selling). I primi due strumenti hanno prevalentemente la funzione di fornire alle persone ragioni per l’acquisto mentre gli ultimi due svolgono la funzione di fornire incentivi all’acquisto.

E’ evidente che l’effetto di pubblicità e PR si realizza nel periodo medio-lungo mentre promozioni e vendita diretta agiscono nel breve.

Ora, mantenendo l’approccio per cui l’avvento del web ha influenzato prevalentemente le modalità operative del marketing e della comunicazioni, non i concetti, io assimilerei il buzz alle PR. Ecco quindi che scoprire che non c’è una forte correlazione tra buzz e vendite a breve termine non mi stupisce.

C’è poi l’altra questione della difficoltà di misurazione degli effetti delle diverse attività di marketing sulle vendite, soprattutto di quelle che hanno il compito di creare il posizionamento della marca, ossia una predisposizione favorevole da parte del mercato (a quanto ne so le tecniche quantitative più efficaci sono ancora le regressioni doppio log con le vendite come variabile dipendente e gli investimenti nelle varie attività di marketing come variabili indipendenti, analisi sui cui limiti non mi sembra il caso di entrare qui).

Restando a livello concettuale è chiaro che l’effetto di un taglio prezzo (promozione alle vendite) o di una attività di telemarketing (vendita diretta) è fortemente influenzato dalla conoscenza e dall’immagine della marca creata dalle attività di pubblicità e PR realizzate non solo nel momento in cui taglio prezzo e telemarketing vengono realizzati, ma anche nei periodi precedenti. La difficoltà però sta nel separare l’effetto di pubblicità e PR dal resto.

In Coca Cola ne sono ovviamente ben coscienti, come dimostra questo intervento di Wendy Clarck, Direttore di Comunicazione di Marketing integrata della Coca Cola.

Ma c’è un altro motivo per aspettare prima di cantare il de profundis della comunicazione (in senso ampio) sul web. In base alle ricerche condotte dalla Datalogix sulle campagne pubblicitarie realizzate su Facebook risulta che i banner pubblicati sulla colonna di destra del nsotro schermo hanno un ritorno che, nel 70% dei casi, è superiore di tre volte rispetto al costo dell’investimento. Secondo queste ricerche le modalità con cui agiscono questi banner sono assimilabili a quelle degli spot TV (si torna al modello teorico kotleriano classico).

Quelo che invece è sorprendente è che secondo questi dati non c’è alcuna correlazione tra l’efficacia della campagna banner ed il numero di clik sul banner stesso. E questo mette un forte dubbio sul Sacro Graal della misurazione dell’effecicia della comunicazione on line.

Consiglio vivamente di leggere il breve articolo sull’argomento pubblicato su l’Internazionale n. 993.

La prossima volta concludo le disquisizioni su occupazione e disoccupazione, promessa.

Rassegna pubblicitaria, ovvero Carosello.

Ho come l’impression che quest’anno ilreintro all’attività post vacanze sia un po’ più rallentato del solito. Forse perchè le vacanze si sno ridotte (se non eliminate) e siamo tutti più stanchi.
Ad ogni modo vedo di contribuire ad un rientro soft con un post leggero di segnalazione/commento di alcune campagne pubblicitarie che ho sentito e visto recentemente.

CERULISINA: premetto che non sono molto amico del marketing farmaceutico, meno che meno quando la strategia di fondo è quella di “curare i sani”, cosa molto diversa dalla prevenzione.
Però credo che anche se fossi un fervente sostenitore dell’industria farmaceutica difficilmente potrei giudicare meno che terribile questo spot cantato sulla musica di “Bididi Bodidi Bu” del film Cenerentola di Walt Disney. La cigliegina sulla torta, si fa per dire, è l’introduzione della bambina che chiede alla mamma di raccontarli una storia. C’è davvero un target per una comunicazione con questo stile e questi contenuti ed io dopo tanti anni sono diventato uno snob pubblicitariamente parlando? Per completezza dell’informazione l’agenzia è la ADV Activa di Milano.

PROCTER & GAMBLE E LE MAMME: è da qualche mese che la Procter & Gamble si sta posizionando come “sponsor delle mamme”. In occasione delle olimpiadi ha trasmesso due spot. Il primo non l’avevo visto mentre il secondo è quello che mi ha colpito negativamente per la banalità. Sugli spot ho poco da aggiungere alla precisione dell’analisi fatta da Giovanna Cosenza nel suo blog, segnalo solo che gli spot che trovate ai link di cui sopra sono quelli della versione director’s cut, ben più lunga dei 30″ e 15″ che vanno in onda in TV.
Il posizionamento invece mi stupisce un po’ almeno in Italia (va ricordato che si tratta di una campagna mondiale). Se la domanda sul target dello spot Cerulisina era poco retorica, in questo caso lo è anche meno, ma davvero è efficace questo posizionamento da mamma anni ’50. Ossia io mamma mi sento gratificata dal riconoscimento che le marche P&G fanno al mio essere mamma e quindi acquisto quei prodotti? Mi sembra di essere tornato ai tempi di Beniamino Gigli (già ai suoi tempi “quelle parole non si usavano più”). Per completezza in termini di marketing, va sottolineata la novità della scelta di P&G di utilizzare il marchio corporate come marchio ombrello. Un cambio di strategia non da poco per l’azienda che ha fatto la storia del brand management, seguito (o forse anticipato) dal loro principale competitor Unilever.

ACQUA LETE E POLTRONE E SOFA’: cosa mi fa accumunare due spot così diversi sia in termini di realizzazione che di prodotto? Il cambio di posizionamento che spreca gli investimenti precedenti invece di sfruttarli (vedi il mio post della settimana scorsa). Sono infatti convinto che le strategie efficaci si basino su un’evoluzione dei posizionamenti delle marche che crescono aggiungendo nuovi valori e stili a quelli precedenti.
A parte che “amigo sei figo” mi sembra un tentativo mal riuscito di creare un tormentone tipo “o così o pomì” o “chi c’è c’è, chi non c’è non c’è”, ma cosa c’entra con la particella di sodio solitaria? Magari quello non funzionava, però non c’era il modo di sfruttare un po’ di anni di pianificazione pubblicitaria? Lo stesso discorso vale per la nuova campagna di Poltrone & Sofà che è passata da un posizionamento “Beato che se lo fà ..er sofà” (appena un scalino sopra a “la patatina tira” di Amica Chips”) al nuovo “Artigiani della qualità”. Il fatto che non abbiano cambiato testimonial indebolisce ulteriormente la credibilità del nuovo posizionamento, ma forse su questa scelta pesa la vertenza tra la Ferilli e l’azienda (come sia finita non lo so, ma certo che risolvere un problema da eccessivo sfruttamento di immagine, legandosi ad una nuova campagna dello stesso prodotto non mi sembra una gran soluzione).

COCA COLA – CENIAMO INSIEME: quando la Coca Cola fa un nuovo spot, chiunque si occupi di marketing deve drizzare le orecchie, ed infatti ho già parlato a suo tempo della campagna 2010. Se ci aggiungete che già nel 2006 in Stock volevo fare una concorso rivolto al consumatore basato sul concetto di “uno chef a casa tua” (realizzato quest’anno da Santa Margherita) e che nel 2010 in santa Margherita avevamo contatto Simone Rugiati per una nostra iniziativa (tutta la parte femminile del mio staff era d’accordo, ma i costi erano troppo elevati), capite perchè l’ultima campagna della Coca Cola non poteva sfuggirmi.
In termini strategici è il contrario degli esempi Lete e Poltrone e Sofà perchè costruisce sul concetto della felicità in tavola costruito nella campagna precedente. Sarà (l’ennesimo) successo? L’unico rischio che vedo è la perdità di semplicità nel legarsi ad un concetto di pasto troppo sofisticato. Vero è che l’ambientazione stressa il divertimento e la convivialità, mentre Rugiati ha un’alone di simpatia unico tra gli chef celebri. In questo caso confesso un po’ di invidia di budget.

LA SETTIMANA ENIGMISTICA: il mondo cambia ed i tempi sono duri per tutti, anche per la settimana enigmistica che si trova costretta a farsi pubblicità (cosa impensabile solo 5 anni fa). La campagna 2012 è un egregio esempio di eccellente comunicazione sia in termini di posizionamento che di realizzazione. Ammiro le idee creative così forti e chiare da poter essere realizzate con produzioni economiche. Ancora di più quando funzionano perfettamente in un 15″, così si riesce a risparmiare anche nella pianificazione.
L’unico dubbio che mi è venuto guardando questo spot è: sotto i 35 anni capiranno il concetto del filo tirato che “dà la carica”?.

Come quelle precedenti è una domanda vera, non retorica. Perchè in generale vedo poche campagne che possano interessare il pubblico sotto i trent’anni. e’ vero che il più difficile, ma è anche (banalmente) vero che è quello su cui si costruirà il successo futuro di ogni marca.

Fare comunicazione dando per scontato che tutti sappiano cos’è Carosello può portare risultati immediati, ma dubito ne porterà in futuro.

Social media marketing: cacciatori di scalpi!

L’altro giorno arriva una mail in azienda ricordando di rinnovare l’iscrizione ad un data base on line e sottolineando che allo stesso costo del 2011 avremmo avuto piu’ visibilita’ perche’ le visite al sito erano aumentate di 300.000 visitatori.
Telefonata all’agenzia che ci gestisce il sito, chiesto quanti visitatori avevamo ricevuto da quel data base, risposta “0″, risparmiati 100 euro.
Morale: come sanno oramai anche i sassi (che comunque sono vivi, solo ad un ritmo incredibilmente piu’ lento del nostro) il web ha il grande vantaggio di poter misurare buona parte dei risultati di quello che si. Bisogna pero’ averne il tempo, la voglia e la capacita’ (un po’ come per le catene di supermercati utilizzare i dati delle carte fedelta’ dei consumatori per realizzare strategie piu’ efficaci del 3×2 a tutti).
Invece anche nel web, come in ogni settore, valgono le mode e adesso siamo nel clou della moda del social media marketing.
Ecco quindi tutti a fare a gara per il numero di likes su facebook o di followers su twitter. I termini ufficiali sono fan, amici, followers, ma per me nella stragrande maggioranza dei casi la parola giusta è … scalpi.
Nel senso che finiscono per essere trofei da mettere in mostra senza diventare dei veri rapporti tra la marca/azienda e le persone/consumatori-trici.
Un po’ di numeri di fan presi da facebook pescando nel settore alimentare,senza nessuna pretesa di correttezza del campionamento:
Coca-Cola (pagina ufficialmente NON creata dall’azienda, ci credo fino a lì): 36.492.100 likes.
Starbucks: 26.517.529 likes (che diventano parecchi di più se si sommano quelli delle fan page nazionali dei diversi Paesi).
Nutella: 11.887.333 likes (poi ci sono tutti gli altri marchi della Ferrero che hanno altri svariati milioni, mentre quella della Ferrero come azienda che ha solo le informazioni, non ha nemmeno la bacheca e tra quella in inglese e quella in italiano non arriva nemmeno a 10.000 likes. Coerenti fino in fondo nella loro strategia di branding, come sempre giù il cappello davanti ai signori di Alba).
Illy: come tale non c’è. C’è come illyssimo e come espressamente illy rispettivamente con 11.229 e 3.202 likes (????).
Lavazza: 53.995 likes (??).
Barilla: 42.267 likes (???).
Qui mi fermo ed aggiungo il link ad una mia analisi sui risultati facebook delle cantine italiane presentata un anno fa al wine camp di Firenze Wine Town.
La domanda, oggi come allora, è: al di là delle mode qualcuno si è soffermato ad analizzare i dati quanti-qualitativi deilla propria attività di social media marketing?
Perchè la quantità di Coca Cola o Starbucks può fare da sola anche la qualità, per gli altri esempi di grandi aziende italiane, ma i commenti per Illy e Lavazza vengono anche dall’estero, direi che proprio non ci siamo (siccome è quasi Natale non vado a guardare quelle piccole). Ricordo che nel 2010 (dati più recenti non ne ho trovati) gli utulizzatori di facebook in Italia erano 16.000.000.
Non siamo in termini di efficenza perchè facendo una stima per difetto un’azienda come Barilla tra struttura delle piattaforme, loro gestione e gestione delle relazioni almeno 60.000 € all’anno sul social media marketing li mette. Quindi parliamo di 1,5 €/contatto. Che è un enormità.
La replica delle agenzie che si occupano di web a vario titolo è che però sono contatti qualificati, che costruiscono una relazione tra la marca e le persone, che a loro volta diventano ambasciatori della marca. Benissimo!
Signori brand managers quand’è l’ultima volta che siete andati a guardare le statistiche di attività dei fan della vostra pagina facebook? Scoprirete che, come accade tra gli “amici” della vostra pagina personale, l’80% dell’attività è fatto dal 20% degli iscritti (se va bene) e quindi i numeri di cui sopra diventano ancora più piccoli.
Anche perchè per creare una relazione bisogna avere dei valori forti ed impegnarsi poi a costruirla ed a mantenerla, magari, come insegna l’ABC del (web) marketing coinvolgendosi in prima persona e non facendo gestire le attività social al personale dell’agenzia di PR. Sarà un caso che Starbucks 2 anni fa aveva 16 dipendenti a tempo pieno per seguire le proprie pagine facebook?
Invece prevale il delirio narcisistico da onnipotenza che porta le aziende a credere alle agenzie quando gli dicono “noi creiamo lo spazio, per un po’ tempo attiviamo l’interesse e la discussione con i nostri contenuti e poi la comunità si muove e cresce da sola”. Non è necessaria una grande umiltà, basterebbe un po’ di buon senso per chiedersi se davvero i valori, la qualità e credibilità dei contenuti che esprime la marca siano così forti e rilevanti da portare le persone a coinvolgersi così tanto personalmente. In altre parole la maggior parte delle persone ha per la maggior parte delle marche poco più di una preferenza (ed è giusto che sia così), cosa che non è sufficente per accendere forti affinità con le altre persone che condividono questa preferenza e meno che meno per coinvolgersi personalmente attivimanete in quello che la marca fa on e off line. Detto in altre parole ancora, se voglio creare uno spazio sul web in cui trovarmi con i miei amici o trovare degli “amici”, ci sono un sacco di posti migliori.
Sto implicando che il social media marketing è un non-senso per la maggioranza delle aziende? Nemmeno per sogno. Sto implicando che vanno definiti obiettivi sensati e strategie coerenti agli obiettivi in termini dei risultati da conseguire e delle risorse da investire.
Quando mi occupavo di queste cose preferivo reclutare di APOSTOLI più che di ambasciatori della marca.
Preferivo avere 100 contatti in meno (tanto tra averne 1.000 o 1.500 sempre pochi sono).
Preferivo riuscire a seguirli in modo da arricchire la relazione ogni giorno.
Preferivo rivolgermi aglli opinion leaders pubblici e privati (ossia quelli che sono opinion leaders nel loro ambiente) per ottenere un effetto alone (o virale come si dice oggi).
E periodicamente c’era qualcuno che diceva si … ma … quel concorrente ha 100 – 200 -500 fan più di noi, mentre la vera domanda dovrebbe essere: non è che questi soldi possono essere investiti meglio in altre cose, al di là delle mode?
Trascorrete un Natale di pace perchè, come diceva lo spot della Coca Cola, la felicità non va mai in crisi. Oppure se preferite Tolstoi “Se vuoi essere felice, siilo”, che il concetto non cambia.
Per la befana prometto la terza,e ultima, puntata sul calo dei consumi nazionali di vino e la microeconomia.