La tonnara del social media marketing.

La scorsa settimana esprimevo i miei dubbi sul fatto che la comunicazione sui social media creasse più coinvolgimento di quella classica, concludendo però con la certezza che i social media diano migliori risultati per portare le persone direttamente a comprare qualcosa on-line.

Questo sostanzialmente perché da un post su un social media si può passare direttamente ad un e-shop, cosa impossibile con la pubblicità sui media classici.

Tra il dire (il principio generale di cui sopra) ed il fare (concludere la vendita), c’è in mezzo un affascinante mare di attività che riportano il termine “marketing” all’essenza più cruda del verbo “to market” (ossia vendere) da cui deriva.

Cose che più o meno intravedevo o intuivo, ma che non avrei potuto conoscere con precisione vista la mia età se non grazie a Pier Luca Santoro (sempre lui) ed al post “The Strange Brands in Your Instagram Feed” che ha condiviso all’interno di un gruppo facebook di cui faccio parte (così adesso sapete che potete smettere di leggere biscomarketing e seguire invece Pier Luca nelle sue molteplici presenze ed attività on e off line).

Consiglio vivamente a tutti di leggere il post originale, ma per i più pigri e/o per chi non ha dimestichezza con l’inglese ne faccio una sintesi ragionata e commentata. 

Tutto comincia quando l’autore si imbatte su Instagram in una pubblicità per un cappotto proprio del colore che cercava lui e molto economico. Lo compra, il cappotto arriva dalla Cina e la sua qualità (colore a parte) è tanto bassa quanto era basso il prezzo.

Di lì fa un po’ di ricerche sul web e scopre che lo stesso cappotto è venduto da diversi negozi on line che usano tutti la piattaforma Shopify.

Le nuove frontiere della vendita al dettaglio sono spiegate in una serie di video su Youtube da Rory Ganon, in cui racconta la sua sfida di creare un negozio on line da 0 e portarlo a 1.000 $ di fatturato in una settimana. Rory Ganon è un imprenditore diciasettenne che vive in una cittadina alla periferia di Dublino.

La prima cosa da fare è definire un target e questa è stata la cosa per me più affascinante perché quando insegno marketing suggerisco sempre di individuare il proprio target in base ai vantaggi (benefit) che le persone ricercano nella fruizione dei servizi contenuti nel prodotto. Poi da li ricondurlo alle caratteristiche socio-demografiche necessarie per poterlo raggiungere con la comunicazione.

E’ quello che fa anche Rory, ma portandolo all’estremo: lui ha scelto come target i leoni. In un primo momento ho pensato che si trattasse del nome dato da un istituto di ricerca ad un profilo psicografico (chi tra i miei vecchi lettori si ricorda dei “Delfini” della mappa Sinottica di Eurisko negli anni ’90?).

Invece Rory intende proprio i leoni in quanto animali, ossia il suo target saranno quelli a cui piacciono i leoni. Benefit semplice, preciso e quindi efficace per definizione.

Ha fatto dei grandi ragionamenti per scegliere i leoni? Non sembra, invece è entrato in Audience Insight di facebook (per farlo dovete avere un account pubblicitario su facebook) ed ha visto che scrivendo “lions” ci sono da 5 a 6 milioni di persone attive al mese nel mondo. Se poi si aggiunge “wildlife” l’audience cresce a 10-15 milioni di persone attive al mese.

Come insegnano i manuali di marketing un’audience (o target se preferite) per essere rilevante deve essere “azionabile”, ossia poter essere raggiunta, avere la volontà e la capacità di spendere, ecc… Ma un’audience sul web è azionabile per definizione perché, come spiega Rory nei suoi video:

1: ci sono influencer in Instagram a cui posso collegarmi.

2: si possono sviluppare le vendite attraverso pubblicità su facebook.

Altre ragioni non servono.

Prima però Rory deve aprire il suo negozio, non è molto difficile (per un diciassettenne, per me sarebbe molto complicato) va su Shopify ed apre “Lions Jewels”.

Per l’assortimento invece va su AliExpress, un’azienda del sito cinese Alibaba, e tramite una app collegata direttamente a Shopify (anni fa qualcuno mi ha detto “c’è una app per tutto” e già gli ho creduto quella volta, figuriamoci oggi) cerca degli oggetti legati ai leoni tra i negozi presenti su AliExpress.

I negozi possono essere sia di produttori che vendono quello che producono o semplici rivenditori, magari che comprano anche loro su AliExpress dai primi, non ha importanza. L’importante è che forniscano anche il servizio di spedizione e consegna al cliente finale, così Rory non deve gestire né magazzino né logistica. Qui un link interessante che apre una finestra nel mondo del dropshipping

A questo punto Rory ha il suo negozio con il suo assortimento e può cominciare la sua strategia di comunicazione rivolta a quelli a cui piacciono i leoni.

Apre l’account Lions Jewels su Instagram pubblicando un po’ di foto ed inserendo un link al suo negozio on line.

Poi fa un minimo investimento pubblicitario su un account che pubblica foto di natura e così attraverso il suo account Instagram porta alcune centinaia di persone sul suo negozio on line. Chi arriva nel negozio trova l’offerta per un ricevere gratis un braccialetto placcato in oro con l’immagine di un leone (l’articolo che Rory prevede farà le maggiori vendite).

Il negozio on line è corredato di alcuni elementi che favoriscono la conversione da visita ad acquisto

-          un orologio che mostra un finto conto alla rovescia indicando che il tempo per approfittare dell’offerta del braccialetto gratis sta scadendo (questa app di Shopify si chiama Hurrify, e a me suona sia “fretta” che “orrore”).

-          Dei pop-up che dicono “Lorenzo da Trieste ha appena comprato …”. Anche questi non sono necessariamente veri, la app Sales Pop permette infatti al proprietario del negozio on line di creare le proprie notifiche scegliendo la città, i nomi e gli articoli a suo piacimento (quindi quelle più di tendenza).

In realtà però non è importante che le persone che arrivano sul sito approfittino o meno dell’offerta e persino che comprino durante questa prima visita. L’importante è che arrivino perché così Rory riesce a taggarle su facebook e quindi potrà re-targetizzarle.

Per i meno avvezzi di digital marketing forse conviene spiegare che il re-targeting è quella tecnica/strumento per se voi avete cercato su internet, ad esempio, uno schiaccianoci ogni volta che andrete su facebook, google, ecc… vi mostreranno pubblicità di schiaccianoci e siti che vendono schiaccianoci fino alla fine dei vostri giorni (beh non proprio, ma per un bel po’).

A questo punto quindi Rory si dedica a creare annunci per il suo braccialetto con il leone su facebook e testarne l’efficacia analizzando le statistiche fornite da facebook riguardo al pubblico raggiunto, le interazioni, le conversioni, ecc…

Suppongo che si possano panificare le campagne su facebook rivolgendole non solo a quelli che sono entrati nel negozio on line, ma anche al loro network di amicizie. Lo darei per certo nel caso in cui il negozio on-line richieda una registrazione e questa sia fatta dalle persone attraverso il loro profilo facebook (la richiesta di registrarsi ci può stare a fronte dell’offerta del braccialetto gratis).

Come insegnano i (nuovi) manuali di digital marketing, sul web si costruisce la reputazione delle marche attraverso la generazione di contenuti (content marketing), quindi Rory va sul sito Buzzsumo per trovare le cose più popolari relativamente ai leoni ed aprire il blog “cose curiose e divertenti sui leoni” collegato al suo negozio on line.

Anche in questo caso non è importante quello che c’è scritto nel blog, nel momento in cui arrivano al blog attraverso il loro profilo facebook, ossia “sto guardando la mia timeline – mi piacciono i leoni – vedo una notizia curiosa sui leoni – clicco sul link”, possono poi essere targettizzati dalla pubblicità di Rory.

Arriviamo alla fine del processo ossia all’acquisto on-line da parte di una persona. A questo punto il nome e l’indirizzo del compratore vanno inseriti in AliExpress in modo che il fornitore spedisca il braccialetto al compratore (pare che, stranamente, la cosa non sia automatizzabile).

Per non distrarsi dalla promozione del negozio Rory esternalizza il lavoro amministrativo contrattando “lavoratori digitali” qualunque cosa significhi, a 3-5 dollari l’ora sulla piattaforma UpWork.

La fine della storia è che Rory non ha raggiunto l’obiettivo di fatturare 1.000 dollari in una settimana, ma direi che poco importa. Volendo sarebbe più rilevante capire quant’è il guadagno per 1.000 dollari di fatturato. Ma anche questo è marginale rispetto all’ “ecosistema di business” che si sta sviluppando nella società digitale

Tanti anni fa ho scritto che per capire il futuro del marketing si sarebbe dovuto guardare a come lo facevano in Cina www.biscomarketing.it/marketing-allosso/. Qualche anno dopo sono andato in Cina e qualcuno mi ha detto che “i cinesi fanno affari come fosse un gioco d’azzardo e giocano d’azzardo come fossero affari”.

Che il mondo si stia cinesizzando è scoprire l’acqua calda.

Non mi permetto di dare giudizi di valore, dico solo che il marketing che faccio io è una cosa diversa e credo sia utile per un gran numero di marche in svariate categorie merceologiche. O almeno spero.

Fino a quando continuerà ad esistere la pubblicità nell’era del marketing totale?

white noise

L’altra domenica Pier Luca Santoro nel suo gruppo pubblico di facebook “I giornali del futuro il futuro dei giornali” ha inserito il collegamento all’articolo di Luca De Biase “La partita della pubblicità è tecnologica” dove l’autore sostiene la tesi che “l’editoria ha biso­gno di ridi­ven­tare un busi­ness fon­da­men­tal­mente tec­no­lo­gico. Inno­va­ti­va­mente tecnologico.”, chiedendo al gruppo cosa ne pensava.

Confesso che normalmente non non entro in questo tipo di discussioni su fb, perchè non mi sembra una piattaforma adatta a confrontarsi in modo articolato. Però questa volta, un po’ per la stima nei confronti di Pier Luca, un po’ per l’interessante del tema (le due cose sono collegate), ho commentato andando un po’ oltre al tema dell’articolo e della domanda, chiedendomi (e chiedendo) se la pubblicità continuerà ad esistere strutturalmente, indipendentemente dalle soluzioni di media e/o di tecnologia che si possono inventare.

Non ho approfondito il concetto perchè sono partiti alcuni commenti (semi-ideologici) sull’ineluttabilità della pubblicità, sulla pubblicità buona e quella cattiva (non esiste pubblicità cattiva, esiste solo pubblicità indisposta, come ci ha insegnato la pubblicità della Dolce Euchessina.

L’argomento però continuava a ronzarmi nella testa ed è stato di nuovo Pier Luca a riportarlo in superfice ieri con questa considerazione su adbloking e dintorni: “È una que­stione di lin­guaggi, di modo di por­gere e di rispetto nei con­fronti delle per­sone, in anti­tesi all’attuale inva­si­vità anche della pub­bli­cità online. O, come dicevo, l’advertising ces­serà di essere ciò che inter­rompe gli inte­ressi della gente per diven­tare il più pos­si­bile quel che gli inte­ressa oppure le imprese ricer­che­ranno auto­no­ma­mente, come già avviene con il brand jour­na­lism, nuove forme, nuovi for­mat di comu­ni­ca­zione e di rela­zione con i pro­pri pub­blici di rife­ri­mento. Non c’è scelta.“.

Condivido “O l’advertising cesserà di essere ciò che interrompe gli interessi delle persone per diventare quello che gli interessa oppure non sarà.“, quindi sostengo che “non sarà”.

Attenzione, non ne faccio una questione ideologica (da professionista del marketing ci mancherebbe altro) e voglio sottolineare che la comunicazione delle aziende e/o dei marchi è cosa ben diversa dalla pubblicità.

Dico che la pubblicità, intesa come “ogni forma di presentazione e/o promozione non personale di idee, beni o servizi realizzata a pagamento da uno sponsor chiaramente identificabile.” (mia traduzione dal Kotler, Marketing Management) è strutturalmente destinata ad interrompere gli interessi delle persone. Non c’è tecnologia o contenuto che tenga.

Già nel 2008 scrivevo come la pubblicità fosse già il rumore di fondo della nostra vita e quindi fatalmente destinata all’irrilevanza. Credo che ci siamo arrivati molto vicini.

Mi guardo intorno e mi sembra evidente che le persone hanno sviluppato una sorta di “adblocking mentale” per cui nè vedono nè sentono la pubblicità, meno che meno le marche che la realizzano. Le persone non hanno più interesse nel ricevere (questo tipo) di informazioni non richieste perchè si sono abituate che le informazioni le cercano e le trovano autonomamente quando gli servono ed interessano.

Forse in questo scenario l’unica pubblicità che si salva è l’affissione, perchè spesso non interrompe nessun interesse specifico delle persone che la vedono, e la comunicazione di promozione/offerte speciali, meglio se fatte al momento e nel posto giusto sul cellulare tramite la geolocalizzazione.

Nell’ottobre 2012 mi chiedevo quale sarebbe stato il futuro della pubblicità in termini di modalità. Oggi ho l’impressione (convinzione?) che la pubblicità manchi di un futuro tout court.

Sarà per questo che fino dall’inizio della mia carriera in azienda nel 1994 ho sempre considerato le Pubbliche Relazioni e la pubblicità specializzata B2B come le componenti minime ed irrinunciabili del mio budget di comunicazione?

Ancora sul futuro delle agenzie pubblicitarie

Oggi due post (è festa).

In realtà questo era quello previsto ed è una specie di seguito di quello dello scorso 11 novembre (il tempo non corre, galoppa).

In qurl post c’erano due concetti che mi sembravano meritassero un approfondimento. Il primo è come opera il modello AIDA nell’attuale scenario di frammentazione dei mezzi di comunicazione e dei luoghi/occasioni di consumo/acquisto.

Mi chiedo se non ho liquidato troppo sbrigativamente la questione “tecnica” sull’altere della solidità teorica dei frlussi mentale attraverso i 4 stadi attenzione-interesse-desiderio-azione.

Riflettendoci in queste settimane ho l’impressione che gli attivatori dell’AIDA (i triggers per parlare come i profesionisti) derivino sempre meno dalla specifica attività pubblicitaria ed anche dalla comunicazione in generale. Questo probabilmente implica la necessità della presenza di un substrato di percezione della marca/prodotto su cui si innestino gli attivatori provenienti dall’ambiente. Ha un senso? Mi sto avvicinando all’idea dei persuasori occulti dopo aver passato anni a contestare le tesi di Packard?

L’altra concetto che credo meriti un’ulteriore riflessione è il rapporto tra marketing e vendite, anche perchè una definizione sintetica, semplice ed elegante del marketing è sempre utile.

Le strategie di marketing hanno l’obiettivo di far sì che sia il consumatore a comprare e non l’azienda a vendere.

Nuovamente persuasione occulta? Sicuramente una cosa diversa da quanto fanno oggi la grandissima magigoranza delle aziende.

Un’ultima considerazione dettata dai dati sul mercato pubblicitario in Italia usciti in queste settimane (li trovate riportati ed ottimamente commentati nel blog Il Giornalaio di Pier Luca Santoro): nel periodo gennaio-settembre 2012 gli investimenti pubblicitari in Italia sono calati di 720 milioni di euro. Questo significa circa 35 milioni in meno di fatturato delle agenzie.

Una cifra, che al di là di tutti i ragionamenti, deve spingere le agenzie di pubblicità a trovare nuove strade.

Quale futuro per le agenzie pubblicitarie?

Dopo l’ennesimo intermezzo sul sistema del vino dello scorso 4 novembre, eccomi come promesso con il seguito del post sul futuro della pubblicità, pubblicato lo scorso 28 ottobre.

Salterò a piè pare l’interessante questione del futuro del giornalismo, buttata lì come nota di colore e che ha suscitato il commento di Diego. Opinioni ed informazioni più qualificate delle mie le potete trovare sul blog “Il Giornalaio” di Pier Luca Santoro e l’articolazione del il mio punto di vista l’ho data in un post del 2008 (non so perchè, ma ho come la sensazione di aver già scritto questa cosa da qualche parte).

Vado quindi all’argomento del futuro delle agenzie pubblicitarie in uno scenario di declino (dei consumi) di pubblicità, e lo faccio partendo dal modello AIDA (Attention-Interest-Desire-Action). Dopo aver letto il post un’amico (sempre lui) mi ha detto che nell’attuale contesto di frammentazione dell’uso dei mezzi di comunicazione il modello AIDA non vale più perchè gli stimoli che attivano i diversi livelli del processo non arrivano più alle persone in modo univoco e lineare. Io concordo con lui solo sull’ultima parte del ragionamento.
Dal punto di vista dei processi di comportamento continuo a credere che le persone debbano passare attraverso i livelli del modello AIDA quando fanno qualcosa e se abbiamo l’impressione che si tratti di un modello lineare ad imbuto è solo perchè nella pratica del marketing è stato applicato in tempi in cui gli scenari competitivi (la società) era più semplice e quindi le risposte agli stimoli più dirette.
Esempio 1: confeziono il formaggio Philadelphia Kraft in una scatolina di legno grezzo ed “automaticamente” aumento le vendite. La scatolina mi porta ad avere maggior visibilità sullo scaffale (attention), dare una percezione di genuinità (interest), farmi venir voglia di mangiarlo (desire) e comprarlo (action).
Questo però non significa che anche in passato il modello AIDA potesse realizzarsi anche in assenza di pubblicità, attraverso il passaparola, vedere una cosa per strada ecc.., con tempi indeterminati e magari circolari che tornavano ad attivare i diversi livelli AIDA rimasti sospesi.
E oggi? Oggi la norma sta diventando/è ricevere stimoli da fonti diverse su mezzi diversi ed è per questo che nel mio post precedente parlavo del fatto che la pubblicità non è più in grado di esaurire tutto il processo del modello AIDA, ma può svolgere un ruolo di attivatore (o ri-attivatore) dei vari livelli. Dovrà quindi articolarsi con gli altri (nuovi) strumenti.
Attenzione, ho detto “strumenti”, perchè i principi non cambiano. Ed analizzare la combinazione principi/strumenti è fondamentale per non fare errori.
Esempio 2: La pubblicità di un’azienda nella colonna di destra di facebook (ovvio che finivo lì) è una fonte diversa dal pensiero sullo stesso prodotto/servizio scritto da un nostro amico che appare di fianco. Allo stesso tempo però condividere lo stesso mezzo, dà a quella pubblicità un valore diverso rispetto ad un annuncio sul giornale, se non altro perchè mi permette immediatamente di approfondire il mio interesse per quello che viene pubblicizzato, aumentare il desiderio attraverso le informazioni che posso raccogliere e passare all’azione di acquisto tramite l’e-commerce.
E mi sono limitato solo ad un media del digitale, senza allargarmi a QR codes, Groupon e simili, Twitter, ecc…

Quindi la prima direttrice di sviluppo futuro/sopravvivenza per le agenzie è quello di passare dalla pubblicità alla COMUNICAZIONE. Ma questo non è nè nuovo, anche se non basta cambiare “Agenzia di pubblicità” con “Agenzia di comunicazione” per cambiare il servizio offerto ai clienti, nè sufficiente.

Proprio la frammentazione dei mezzi e la perdità di efficacia della pubblicità ha fatto crescere negli utlimi anni gli investimenti in attività di Pubbliche Relazioni, a loro volta frammentate su più mezzi. Ora faccio una domanda: la sponsorizzazione del lancio con paracadute dalla stratosfera da parte della Red Bull è pubblicità o sono pubbliche relazioni? Boh! La cosa importante è che è un’attività che rafforza il posizionamento perseguito dalla marca con diversi strumenti che, nel caso della Red Bull, vanno (a scendere) dagli sport estremissimi, a quelli estremi, a quelli avventuro/ludici, alla pubblicità.
In questo scenario, se l’agenzia di pubblicità si limita solo alla pubblicità sta perdendo buona parte del business potenziale.

L’altro giorno una persona mi ha detto una cosa che gli hanno insegnato ad un corso per venditori: tu incominci a vendere da quando il consumatore dice che non gli interessa il prodotto. Viceversa non sei tu che stai vendendo, è lui/lei che sta comprando. Ovvio, ma illuminante.

Tornando al modello AIDA, la pratica del marketing l’ha legato finora esclusivamente o soprattutto all’attività pubblicitaria e comunicazione, ma la capacità di un prodotto/servizio di attivare il ciclo Attenzione-Interesse-Desiderio-Azione risiede principalmente nei benefit che è in grado di promettere (e mantenere) ai consumatori. In altri termini nella capacità di rappresentare e sostenere un pozionamento. Che è poi lo scopo del marketing.

Utilizzando la terminologia del corso per venditori, il prodotto perfetto è quello che non viene venduto dall’azienda, ma comprato dal consumatore.

Ecco perchè secondo me il futuro delle agenzie di pubblicità è il ritorno al passato dell’agenzia a servizio completo. Quella che insieme al cliente (o da sola se il cliente non era in grado) realizzava l’analisi dello scenario competitivo, definiva l’identità di marca, il concetto di prodotto, coordinava l’attività di comunicazione e di acquisto dei mezzi in modo coerente (funzione che l’attuale frammentazione dovrebbe rendere oggi più importante che in passato), indicava le linee guida distributive e realizzava le attività promozionali.

Vedo questo futuro sia guardandolo dalla parte delle agenzie (o ritornano a coprire altri ambiti oltre a quello specifico della pubblicità oppure faticheranno ad uscire dalla crisi) si guardandolo dalla parte dei clienti, che non hanno la dimensione e/o le competenze e/o il tempo per sviluppare e gestire autonomamente le strategie di marketing.

A questo punto le questioni sono due: le agenzie pubblicitarie hanno le competenze e la cultura necessaria per (tornare ad) essere agenzie di marketing? I clienti sono disposti a pagare queste competenze come facevano in passato?