L’importanza della focalizzazione per costruire e consolidare marchi di successo: l’esempio di Campari.

adv campari 2016

Questa è la pubblicità di Campari che si trova sulla rivista Millemiglia di Alitalia. volendo ci sarebbe molto da scrivere in termini di comunicazione.

A me però quello che ha colpito di più è una cosa che deriva (suppongo) da una scelta strategica più a monte: l’indicazione tra gli ingredienti del Negroni di un generico “Red Vermouth”.

Il Campari è (ri)diventato un prodotto iconico grazie alle campagne di comunicazione dei primi anni 2000.

E’ sostanzialmente un prodotto-marchio, nel senso che il marchio si identifica sostanzialmente al 100% con l’apertivo Campari riprodotto nella pubblicità, ed è l’unico prodotto-marchio tra gli ingredienti originale ufficiali del cocktail Negroni.

Intendo dire che il manuale dei cocktails a e long drinks classici IBA (International Bartenders Association) nella ricetta del Negroni riporta proprio il Campari e non un “aperitivo italiano” generico. Di conseguenza tutte le volte che trovate descritta la ricetta del Negroni, in qualsiasi pubblicazione off line oppure on-line troverete indicato il Campari e chiunque stia dietro il bancone di un bar sa che il Negroni si fa con il Campari.

Quindi se mettiamo insieme l’immagine della marca con la sua imprenscindibilità per la realizzazione di uno dei cocktail più famosi e di moda, ne viene fuori una posizione piuttosto forte.

Perchè allora non sfruttarla ed indicare tra gli ingredienti del Negroni nella proprio pagina pubblicitaria il Vermouth Cinzano, di proprità del Gruppo Campari?

In fin dei conti Cinzano è comunque un marchio importante ed è il secondo vermouth più venduto a livello mondiale (a dirla tutta Campari ha anche un gin, il Bankes London Dry Gin).

Si creerebbe una sinergia sia in termini economici di ottimizzazione del budget pubblicitario che di traino del Vermouth Cinzano (e volendo anche dal Bankes Londo Dry Gin) da parte del Campari.

Però io concordo (per quello che vale) con la scelta dei signori di Campari Group di non inquinare l’immagine, pur forte, del Campari Aperitivo.

Per mantenere ed incrementare la forza di un marchio la sua imamgine va concentrata, non diluita.

Io però voglio credere che dietro a questa strategia ci sia una considerazione più sottile: il rispetto per il bartender come primo cliente e testimonial del Campari.

Evitando di suggerire ai consumatori i propri marchi per gli altri ingredienti, Campari rispetta la professionalità e lo stile di ogni singolo bartender e li tratta come pari.

Illusioni di marketing? Forse, però la stessa strategia è adottata anche nella comunicazione dell’Aperol spritz (altro marchio del Gruppo Campari) dove viene citato il “prosecco” generico e non il Prosecco Cinzano.

 

 

Native advertising: gli esempi di “One” sul sito di “El Pais” e di “Ulisse” di Alitalia.

“Native advertising” è uno dei recenti termini di moda nell’ambito della comunicazione e quindi di (parte) del marketing.

Cos’è il native advertising? Copio e incollo da Wikipedia.

Native advertising è una forma di advertising online che assume l’aspetto dei contenuti del sito sul quale è ospitata, cercando di generare interesse negli utenti. L’obiettivo è riprodurre l’esperienza utente del contesto in cui è posizionata, sia nell’aspetto che nel contenuto. Al contrario della pubblicità tradizionale che distrae il lettore dal contenuto per comunicare un messaggio di marketing, il native advertising cala completamente la pubblicità all’interno di un contesto senza interrompere l’attività degli utenti, poiché assume le medesime sembianze del contenuto, diventandone parte, amplificandone il significato e catturando l’attenzione del consumatore.

Nello specifico, il Native Advertising è un metodo pubblicitario contestuale che ibrida contenuti e annunci pubblicitari all’interno del contesto editoriale dove essi vengono posizionati (sia dal punto di vista grafico sia dal punto di vista della linea editoriale), indicando chiaramente chi è l’inserzionista che ‘sponsorizza’ tale contenuto. È distante dal Pubbliredazionale, che invece cerca di mascherare contenuti pubblicitari come articoli editoriali su prodotti o servizi.

In un articolo sulla prestigiosa Harvard Business Review, l’esperto di marketing Mitch Joelha definito la Native Advertising come “un formato pubblicitario creato specificatamente per un determinato media sia dal punto di vista del formato tecnico sia dal punto di vista del contenuto (la creatività)”. L’obiettivo finale è quello di rendere l’annuncio pubblicitario meno intrusivo in modo che non interrompa la fruizione del contenuto che l’utente sta guardando, così da aumentare la percentuale di click e interazioni sull’annuncio

I formati più noti di Native Advertising sono probabilmente i cosiddetti In-Feed Units quali i promoted tweets di Twitter o i promoted posts di Facebook.

Ora io non so se è la definizione di Wikipedia ad essere imprecisa oppure è solo un termine più smart (espressione che non sopporto per come è normalmente adottata nei discorsi in italiano) per indicare qualcosa che concettualmente è sostanzialmente identico ad un pubbliredazionale (le eventuali differenze pratiche sono solo tecnicismi di poca o nulla importanza strategica).

Pubbliredazionali che strutturalmente hanno la stessa scarsa efficacia dei promoted tweets di Twitter o dei promoted post di Facebook.

Qui la differenza tecnica permette di generare sui mezzi social un maggiore bombardamento di messaggi a costi più bassi rispetto ai vecchi pubbliredazionli, però secondo me impostare la propria strategia di comunicazione sull apressione dei messaggi i sembra una strategia sorpassata e che le persone (consumatori) stanno già eludendo attraverso i propri comportamenti cognitivi e/o strumenti informatici (un approfondimento di come vedo la questione lo trovate sul post dello scorso 31 gennaio “L’ANTIMARKETING: bloccare gli ad blockers”).

Ci sono invece delle attività che (alcune) aziende  stanno realizzando partendo dalla consapevolezza che qualsiasi attività economica oggi si muove nel campo dell’editoria e che l’interesse per un messaggio risiede dalla rilevanza dei contenuti e dalla credibilità della fonte rispetto all’audience a cui si rivolge.

Rilevanza e credibilità dei contenuti non sono mai stati appannaggio esclusivo dei mezzi di comunicazine istituzionali, ma oggi lo sono ancora meno (analizzare i motivi di questa tendenza sarebbe interessante, ma troppo lungo ed esula dall’obiettivo di questo post).

In un continuum che va dalle Pubbliche Relazioni alla marca che si fa editore tout-court si trovano quelle attività che io, sbagliando, chiamerei native advertising e che mi piacerebbe avessero un nome.

L’altro giorno ho trovato due esempi interessanti sul numero di maggio di “Ulisse”, la rivista di bordo dell’Alitalia.

Ulisse maggio 2016

Nelle interviste a Roberto Bolle e Jude Law si dava uno spazio rilevante alla loro attività di testimonial per due marche, rispettivamente Acqua di Parma per Bolle e Lexus per Law. Le domande relativa ai due marchi erano 2 o 3 e lo spazio era circa 1/5 di tutta l’intervista. Quindi non così lungo da trasformare l’intervista in un pubbliredazionale, ma nemmeno così piccolo da passare inosservato o poter essere saltato durante la lettura.

Anche perchè non era la marca a parlare direttamente per bocca del giornalista, ma la voce arrivava dal testimonial attraverso le domande del giornalista. Secondo me in questo modo le dichiarazioni del testimonial, che al di là del compenso ha scelto di collaborare con una marca piuttosto di un’altra per i valori che condivide, acquistavano più credibilità proprio perchè mediate.

Ai professionisti di comunicazione più smaliziati non sorprenderà che Acqua di Parma e Lexus fossero presenti sul quel numero di Ulisse anche con una pagina pubblicitaria (e presumo lo saranno anche nei prossimi).

Ancora più vicino al concetto di marca come editore che non parla direttamente di sè ma si fa creatore e/o curatore di contenuti affini alla propria immagine è la sezione di “One” sul sito della versione on line del quotidiano spagnolo “El Pais” (non non c’è la colonna di destra con gattini e freaks vari).

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Sbaglierò, ma nel futuro della comunicazione io vedo ancora la pubblicità classica come generatore della conoscenza della marca abbinata alla creazione (editoriale) dei contenuti per rafforzarne la reputazione.

Del native advertising come è inteso adesso, non saprei cosa farmene.

L’importanza della gestione del prezzo dei prodotti “loss leader” della distribuzione da parte dei produttori.

Loss Leaders TagQuesto post si prospetta particolarmente tecnico, anche per gli standard di biscomarketing.

Quindi cercherò di essere particolarmente chiaro, in modo da renderlo comprensibile anche a quei lettori che non sono dei professionisti del marketing (so che ce ne sono, bontà loro).

Innanzitutto cos’è un prodotto “loss leader“.

Si definiscono “loss leader” quei prodotti che le catene della Grande Distribuzione Organizzata (super e ipermercati per capirsi) vendono a prezzi particolarmente bassi, riducendo o annullando il proprio margine di profitto.

L’estremo della strategia “loss leader” è la vendita sottocosto, quando il supermercato vende il prodotto ad un prezzo inferiore di quello a cui l’ha acquistato dal fornitore. In Italia, come in molti altri Paesi, la vendita sottocosto è regolamentata, quindi va dichiarata sul punto vendita e deve essere limitata ad un determinato periodo di tempo e/o determinato numero di pezzi.

I prodotti “loss leader” quindi non sono venduti a prezzi bassi perchè hanno un basso prezzo all’origine, ma per una decisione autonoma ed indipendente del negoziante (una catena di supermercati in essenza è un negoziante) che rinuncia in tutto o in parte al suo guadagno (se vende sottocosto sostiene addirittura una perdita).

Perchè una catena di supermercati decide di adottare questa strategia? Per attirare clienti. L’ipotesi di base infatti è che l’aumento di vendite complessive generato dal maggior numero di clienti generi un margine aggiuntivo superiore a quello perso sui singoli prodotti loss leader.

Quindi la catena di supermercati aumenta le proprie vendite e guadagni ed il produttore del prodotto loss leader pure, per cui tutti contenti. Non proprio.

Ci sono almeno 3 ragioni per cui un produttore deve preoccuparsi della gestione del prezzo a scaffale dei suoi prodotti che i supermercati usano come loss leader:

1. il posizionamento di prezzo influenza l’immagine (di qualità) percepita del prodotto. I prodotti scelti come loss leader sono normalmente prodotti di immagine medio alta all’interno della loro categoria merceologica perchè è proprio questa immagine superiore che crea “l’affare” per il consumatore. Trovare spesso il prodotto/marca ad un prezzo (più) basso sullo scaffale può indebolirne l’immagine nel medio lungo periodo.

2. il posizionamento di prezzo a scaffale come loss leader genera un aumento di vendite “anomalo”. Il rischio è che l’azienda si strutturi per produrre volumi di vendita “fragili” perchè basati sulla scelta dei supermercati di vendere ad un prezzo incoerente con il valore del prodotto (e con il suo costo di acquisto).

3. nel caso in cui a consuntivo la catena di supermercati abbia una marginalità inferiore a quella prevista, chiederà ai produttori di coprire (almeno in parte) i mancati guadagni. Le dinamiche commerciali sono fatte (anche) di rapporti di forza, quindi non mi metto neanche a discutere se la cosa sia giusta o meno: è un dato di fatto.

Ricordo il mio stupore quando per la prima volta in Stock ho visto i miei colleghi delle vendite calcolare la marginalità lorda che i vari clienti della GDO ottenevano ai diversi livelli di prezzo a scaffale del Limoncè (ai tempi tipico prodotto loss leader natalizio). Calcoli che poi condividevano con i loro interlocutori delle catene di supermercati. Per me era una questione che riguardava i buyers e category manager, in cui mi sembrava improprio ingerire.

In realtà però la cultura aziendale della distribuzione è spesso focalizzata sul fatturato, di cui la marginalità è conseguenza. Regola valida in termini generali, ma che può subire importanti eccezzioni quando il fatturato viene generato da prodotti loss leader.

Tutto questo mi è tornato in mente l’altro giorno, quando ho scritto su Vinix.it un post sulle vendite di Prosecco nel Regno Unito. In quel post segnalavo che il Prosecco DOC spumante in UK oggi è utilizzato come loss leader da quasi tutte le catene inglesi. Nei commenti c’è stato chi ha detto “…. che problema c’è se i supermercati vendono a prezzi bassi, se tanto il prezzo all’origine (in cantina) continua a crescere?”. Beh il problema è che la frenata potrebbe essere molto brusca. Tenete le cinture ben allacciate.

La fondamentale differenza tra artefici ed esecutori.

“… la nostra prima priorità dovrebbero essere le persone che lavorano per l’azienda, poi i clienti, poi gli azionisti. Perchè se i dipendenti sono motivati, i clienti saranno contenti e quindi gli azionisti guadagneranno attraverso il successo dell’azienda.”
- Richard Branson, Chairman, Virgin

Tempo fa quando sono uscito dopo aver visitato un’azienda mi è venuta in mente questa frase di Richard Branson.

E’ un’azienda che fa risultati, organizzata bene, ma mentre ero lì avevo la sensazione che c’era qualcosa che non mi convinceva del tutto. Andando via ho capito che era la mancanza di energia. Non si percepiva dalle persone nessuna tensione, nessuna spinta nel fare al meglio il proprio lavoro.

Non che ci fossero degli scansafatiche che cercavano di evitare di fare il loro lavoro. E’ che per la maggior parte dei dipendenti il lavoro non era il “loro”, era qeullo che l’azienda gli chiedeva di fare. Erano degli esecutori che aspettavano che qualcuno gli dicesse cosa dovevano fare, per farlo al meglio delle proprie competenze.

Più passano gli anni e più mi convinco che il siccesso duraturo delle organizzazioni passa (anche) dal generare artefici invece che esecutori.

Dico generare perchè il modo e lo stile di gestione hanno un’influenza determinante nel creare le condizioni per cui le persone si comportino come artefici oppure come esecutori.

Cosa intendo per artefice? Una persona che ha la consapevolezza delle sua posizione nell’organizzazione e quindi delle responsabilità che implica. Dalla responsabilità consegue l’autonomia nello svolgere il proprio lavoro e l’autonomia richiede un adeguato livello di informazione, strumenti e formazione.

Io personalmente tendo ad allargare l’informazione oltre al livello necessario per l’autonomia legata alla respondabilità perchè di base sono convinto che se le persone capiscono meglio il contesto in cui operano lavorano meglio, sia a livello di attività che di performances.

La gerarchia delle organizzazioni (dovrebbe) essere strutturata per responsabilità. Io ho sempre posto molta attenzione che non mi venissero assegnate (troppe) resposnsabilità che esulavano dalla mia posizione e dalle mie mansioni e che non me ne venisse tolta nessuna di quelle previste dalla mia posizione e dalle mie mansioni. Di conseguenza esigevo autonomia ed informazioni coerentemente alle responsabilità.

Se le responsabilità (e mansioni) che oltreppasavano il mio ruolo diventavano troppe e/o si prolungavano per troppo tempo, era giunto il momento di parlare di inquadramento e di stipendio.

Tutta questa lunga spiegazione in inglese si sintetizza con il termine di “empowerment“, ossia di dare al personale il potere per poter svolgere al meglio il proprio lavoro. Tra l’altro il termine inglese implica che il potere viene dato (o ceduto) da chi si trova a livelli più alti di responsabilità nell’organizzazione.

In questo modo le persone diventano artefici del proprio lavoro. Gli obiettivi aziendali diventano i loro obiettivi, o meglio vedono come gli obiettivi del loro lavoro giocano sugli obiettivi aziendali.

Attenzione che se l’empowerment, che è molto di moda, viene solo dichiarato e poi rimane nelle buone intenzioni dell’azienda, si trasforma in un boomerang perchè le persone si sentono prese in giro / truffate.

Cosa significa fare l’empowerent sul serio?

Significa creare un ambiente di lavoro basato sul rispetto e la trasparenza nei rapporti personali.

Significa garantire la libertà di parola (d’altra parte è un principio costituzionale) senza che questa venga usata contro chi ha parlato.

Significa dare alle persone la tranquillità di imparare dai propri errori.

Significa seguirle per evitare che le conseguenze degli errori siano troppo gravi (buttare le persone in acqua per vedere se e come sanno nuotare NON è empowerment).

Significa fare prendere coscienza alle persone che sono i primi responsabili della propria mansione, del modo in cui viene svolta e dei risultati ottenuti.

Ci sono alcune frase che dico sempre quando inizio a (dover) gestire un gruppo di persone:

La gerarchia è nell’organizzazione, non nell’attitudine“. Intendo che un’organizzazione funziona bene se c’è una gerarchia (piatta) basata sulle responsabilità e la capacità di utilizzare tutte le conoscenze e competenze delle persone che la compongono. Come si sul dire, non esistono domande stupide (se sono fatte in buona fede).

Non sono io che devo dirvi cosa fare, sei voi che dovete chiedermi quello che vi serve per fare bene il vostro lavoro

Il fatto che io sia responsabile anche del vostro lavoro, non vi solleva dall responsabilità di quello che fate e come lo fate” (vedi punti precedenti). Esempio: il fatto che ci sia un correttore di bozze non esime chi scrive da fare attenzione agli errori di ortografia e grammatica perchè un testo zeppo di errori costringerà il collega ad un maggior lavoro (mancanza di rispetto, vedi sopra) ed aumenta il rischio che qualche errore sfugga (peggioramento della perfomance).

Era il 1983 quando facendo il corso caporali ho scoperto che la consegna è “precisa, coincisa, tassativa”.

Oramai perfino negli eserciti hanno attenuato questi principi per migliorare efficacia ed efficienza.

Dispace vedere aziende che di fondo operano ancora con principi ottocenteschi, per di più con con consegne confuse, prolisse ed aleatorie.

 

Grande e bella notizia: l’Assemblea dei soci del Consorzio del Prosecco DOC ha approvato l’impianto di nuovi vigneti per 3.000 ettari entro luglio 2017.

Primo maggio di lavoro (ed era pure domenica, meno male che faceva un tempo da lupi), quindi non sono riuscito a fare il mio usuale post domenicale anche perchè ho “dovuto” fare un post sulle novità del Prosecco DOC per stare sulla notizia.

La pubblicazione è avvenuta come oramai consuetidine per gli argomenti vinicoli su Vinix e lo trovate qui.

Buona lettura lettori di biscomarketing