ebuzzing: ti conosco mascherina

Questo post non è così lungo come sembra. Consiste infatti in queste poche prime righe perchè la parte in corsivo è non è indispendabile leggerla, benchè sia all’origine del post.
La parte in corsivo infatti è un comunicato stampa che riporta i risultati di uno studio sui contenuti riguardanti al moda nei social network condotta a livello europeo dall’agenzia di social media marketing ebuzzing.
Ora però, siccome noi sappiamo che ebuzzing paga i blogger perchè pubblichino post sulle campagne dei loro clienti, sappiamo automaticamente che questo studio non vale niente e quindi neabche il comunicato. Almeno è tutto digitale così non è stata speciata della carta.
Il tutto per ribadire la necessità di denuciare in modo circostanziato i comportamenti scorretti di cui si viene a conoscenza.
Spero di non essere troppo noioso, ma la velocità e voracità di contenuti del web rischia di far passare a nuovi argomenti solamente perchè, appunto, nuovi e non perchè più rilevanti. Per la credibilità di tutti (del sistema) credo sia fondamentale che su questo argomento sia necessario tenere il punto.
ebuzzing: La moda anima il passaparola online.

Giorgio Armani, Gucci, Dolce e Gabbana i brand italiani più discussi su blog e social media, H&M è in testa alle classifiche europee.

(IMMEDIAPRESS) – Il 4% dei contenuti pubblicati nei Social Media si riferisce al settore moda. Il dato è emerso da uno studio condotto, durante il primo semestre 2011, da ebuzzing (primo social media marketing group europeo) in collaborazione con la company francese Ykone. Sono stati analizzati 50 milioni di articoli pubblicati da oltre 3 milioni di fonti, in 5 lingue differenti. Dall’indagine è emerso come sia molto diffusa l’esigenza, da parte delle grandi case di moda, di essere presenti su blog, social network e community online e come questa sia legata all’obiettivo di fidelizzare la clientela e creare con essa un legame affettivo. Il passaparola online, in definitiva, è diventato un vero e proprio media attraverso cui veicolare valori, tendenze e style.

Giorgio Armani, Gucci, Dolce e Gabbana sono i tre brand italiani più discussi su blog e social network.
Dai 50 milioni di articoli analizzati è emerso il 12% sul totale dei contenuti relativi al mercato italiano si riferiscono ad Armani. Il brand, infatti, grazie a questo valore si aggiudica la prima posizione della classifica Italia per la categoria “abbigliamento di lusso”.

L’analisi condotta su gli “share of voice”, cioè sulla qualità e quantità del passaparola attivato nella Rete attorno ai principali brand di moda della piazza italiana, ha evidenziato che nell’ambito del pret-à-porter, H&M domina blog e media: oltre il 22% delle conversazioni online si riferiscono infatti al brand di abbigliamento svedese. A seguire Zara (17%), Mango (11%) e Diesel (10%). E’ interessante, infine, notare che H&M campeggia in cima anche alla classifica europea.
“Moda e Social Network” ha anche stilato la classifica delle pagine Facebook delle principali case di moda. Davvero curioso notare che, con oltre 10 milioni di fan in Francia, Zara supera H&M assicurandosi una vera e propria “vetrina comunitaria” per la sua immagine.
Molta attenzione è stata data ovviamente anche alla blogosfera. I blogger, infatti, sono spesso considerati il punto su cui fare leva per “creare il buzz”. “I lettori che seguono il mio blog sono alla ricerca delle novità, delle occasioni e delle promozioni legate ai brand” ha dichiarato – Sonia Tiffany Grispo blogger di Trand & The City – 12esima posizione della classifica mondiale Wikio. Style&Fashion Blogosfere, Why Moda Blogosfere, Think Big Chief sono, invece, i nomi dei blog europei più autorevoli in ambito moda.
24 gennaio 2011 è, infine, una data da ricordare. In questo giorno si è svolta la sfilata di lingerie di Etam. E’ singolare come un evento in particolare abbia condizionato blog e media del settore moda. Per quest’occasione Etam ha magistralmente orchestrato la crescita ed il mantenimento del buzz attorno alla sua sfilata. Il brand si è appoggiato ai/alle trend setter per raggiungere un pubblico il più ampio possibile. Risultato: un bell’impatto mediatico accompagnato da una crescita del numero di pubblicazioni che menzionavano il brand Etam intorno a tale data e un’impennata di conversazioni anche l’indomani dalla sfilata.

Per interviste o ulteriori informazioni
Antonella La Carpia | PR & Marketing Executive| antonella.lacarpia@wikiogroup.com

Tel: + 39 02 49 80 114 – 25
Fax: + 39 02 4989885
Mob: + 39 393.9486644
Adr: Via vittoria colonna, 17 – 20149 – Milano

A proposito di ebuzzing: Diretto da imprenditori esperti, ebuzzing è il gruppo di Social Marketing leader in Europa. ebuzzing accompagna i brand nella loro strategia di comunicazione al cuore dei social media. ebuzzing è anche editore di OverBlog, la prima piattaforma di blog europei, e di Nomao, il motore di suggerimenti locali. Il gruppo è composto da 170 collaboratori in Europa (Parigi, Tolosa, Milano, Roma, Madrid, Amburgo, Dusseldorf, Bali e Londra) 60 dei quali lavorano al suo dipartimento R&D.

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Antonella La Carpia | PR & Marketing Executive| antonella.lacarpia@wikiogroup.com

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A proposito di Ykone: Ykone è una start-up creata nel 2008 da Olivier Billon e Mathieu Lebreton (ex L’Oréal Luxe), appassionati di moda e di comunità web. Ykone pubblica varie riviste online specializzate in moda ed accompagna oltre 70 società nelle loro strategie social media. Il team di Ykone è composto da 15 persone basate a Parigi.

per maggiori informazioni: www.ebuzzing.it

link per scaricare la ricerca:

http://tinyurl.com/63nhpps

I PRezzolati delle webPR scrivono per e-buzzing

Con mio sommo sconcerto e rammarico, chi mi ha scritto la mail relativa al post di domenica scorsa non si è manifestato entrando nella discussione che si è creata (grazie per i commenti). Non so se pensare che non abbiano visto il post oppure che abbaino la coda di paglia. Sinceramente non saprei quale delle due opzioni sia la peggiore per una agenzia che vuole fare PR sul web.
Non svelo l’omissis della persona perchè si tratta di un modus operandi che l’agenzia ebuzzing utilizza in tutti i paesi in cui opera (come dimostra la totale corrispondenza di contenuti dei siti nelle varie lingue), e quindi prescinde da chi mi ha scritto.
Mantenuto il mio impegno, questo post potrebbe anche finire qui. Però ne approfitto per alcune considerazioni sui commenti e dalla discussione che era già in corso su questo argomento.
DENUNCIARE COMPORTAMENTI SCORRETTI SIGNIFICA FARE NOMI E COGNOMI (indifferente se le persone sono fisiche o giuridiche)
Ovviamente io non sono stato il primo blogger a ricevere proposte di questo genere, nè il primo a parlarne. Fino ad oggi però le segnalazioni sono rimaste sul generico, più per discutere dell’argomento che per contribuire a mantenere il più sana possibile la comunicazione on-line. Perfino il blogger americano che ha affrontato questo argomento pochi giorni fa ha scelto di non mettere in imbarazzo chi gli ha proposto un comportamento che ritiene scorretto.
Ripeto la banalità detta una settimana fa: il web rispetto all’off line permette la condivisione immediata nel tempo e nello spazio delle informazioni ed il coinvolgimento di tutti nelle discussioni, anche quelle controverse. Ribadisco quindi la NECESSITA’ di denunciare in modo circostanziato i comportamenti chiaramente non etici da parte delle agenzie e degli operatori (leggi bloggers), con serenità e non animosità nel rispetto di tutti.
Se qualcuno si sentirà in imbarazzo potrà sempre replicare e spiegarsi.

LA COMUNICAZIONE IN GENERALE E LE PR IN PARTICOLARE NON SONO IL DIAVOLO E NON SI PUO’ FARE DI OGNI ERBA UN FASCIO
Senza entrare in discorsi troppo ampi (la comunicazione è la base della concorrenza) le PR sono una componente dello scenario della comunicazione ed in questo scenario svolgono un ruolo nella diffuzione di notizi/informazioni. Non ha senso quindi considerare TUTTE le attività di PR come un tentativo di irretire il pubblico quanto piuttosto distinguere tra quelle fisiologiche e quelle patologiche. Io ad esempio non ci vedo nulla di censurabile ad invitare un opinion leader ad un evento (dove presumibilmente non verrà preso a pesci in faccia), sempre che gli si lasci assoluta libertà di scelta su come e se parlarne.
Se qualcuno avesse dei dubbi sul metro di valutazione, si può sempre riferire alcodice etico della WOMMA..
IL MODO IN CUI SI CERCA DI DIFFONDERE CONTENUTI A PAGAMENTO SUL WEB E’ (MOLTO) PEGGIO DELLE PATOLOGIE DELLE PR OFF LINE
Leggendo i post ed i commenti relativi all’argomento dei blog sponsorizzati appare spesso il concetto si stratta semplicemente delle classiche tecniche delle PR off line, trasferite sul web. E’ un concetto che non condivido assolutamente per diverse ragioni:
1. Quello di pagare gli opinion leaders per promuovere/parlare direttamente di un prodotto è sempre stata considerata una patologia, non come una pratica normale da annunciare sul proprio sito internet (vedi ebuzzing).
2. Per quanto ne so, anche gli opinion leaders che si prestano a queste pratiche non si sottopongono a censura da parte dello sponsor.
3. Un post a pagamento NON equivale ad un publiredazionele, che viene chiaramente identificato, anche attraverso una diversa impaginazione, dal resto del giornale/testata.

L’AFFERMARSI DI CONTENUTI A PAGAMENTO SUL WEB NON E’ L’INELUTTABILE CONSEGUENZA DELLA CORRUZIONE DEI TEMPI
Anche questo concetto torna con una certa frequenza nelle discussioni su questo argomento.
E’ ovvio che con il diffondersi del web e dei blog, la comunità dei blogger si è allargata e non è più così omogenea nei principi e nei comportamenti come poteva esserelo 5 anni fa (tanto per dire una data).
Proprio per questo è necessaria una vigilanza attiva, anche a tutela della reputazione di chi agisce con etica e correttezza.
Una vigilanza che non va fatta solamente nei riguardi delle agenzie, ma anche, soprattutto, nei confronti degli altri bloggers.
Viceversa lamentarsi ricordando i bei tempi andati è poco meno di un falso ideologico.
Lo ripeto una volta di più: dipende solo da noi.
I miei rispetti a chi se li merita.

I PRezzolati delle webPR

Premetto che questo sarà un post un po’ lungo, ma posso già sbilanciarmi sul fatto che sarà interessante.
Premetto che da quando lavoro ho sempre creduto nella comunicazione attraverso le Pubbliche Relazioni, anche negli anni ’90 della crescita vertiginosa della pubblicità televisiva e quando la frammentazione delle audience non rendeva così difficile, come oggi, raggiungere ampi target di persone.
Il motivo di questa mia preferenza per le PR rispetto alla pubblicità tabellare (quella degli spot e delle pagine dei gionali per capirsi) è che ho sempre ritenuto che il rischio legato al minor controllo dei contenuti della comunicazione fosse più che compensato dall rilevanza e credibilità intrinseca che questi contenuti ricevono quando sono interpretati e diffusi da una terza persona, indipendente dall’azienda, che decide di parlare di un determinato argomento per libera scelta.
In altre parole non è più comunicazione aziendale, ma diventa comunicazione di quella persona (giornalista, opinion leader, etc..).
Probabilmente questa serenità nell’accettare la perdita di controllo dei contenuti mi viene dalla convinzione/presunzione che le attività ed iniziative che diffondevo attraverso le PR fossero interessanti per il pubblico a cui mi rivolgevo e che si basassero su fatti sostanziali e veri, evitando di blandire il pubblico con argomenti preconfezionati in base a quello che presumibilmente sarebbe stato bello dire.
In sintesi non ho mai pensato che la sigla PR stesse per Pranzi e Ricevimenti, come diceva una mia ex collega e non ho mai nemmeno immaginato (ingenuità) che rappresentare le due lettere iniziali della parola prezzolati.
Poi l’altro giorno ho ricevuto la mail che riporto qui sotto integralmente (per evitare che la sintesi mi porti magari a dare interpretazioni sbagliate).

Ciao Lorenzo,
sono omissis, Publisher Manager per l’Italia di nome società agenzia pan europea attiva nel Social Media Marketing.
Ti contatto perchè vorrei offrirti un tipo di collaborazione con la nostra agenzia per delle campagne video e content sul blog http://www.biscomarketing.it
Due parole su nome società. Ci muoviamo su due piani:
1) content seeding: ogni nostra campagna che va online ti arriva una mail con un brief, scegli se attivarti sulla campagna scrivendo un post su quell’argomento. Una volta scritto le nostre community manager l’approvano e il vostro post è online. Per questa attività percepirai un compenso dai 50€ in su a seconda del budget. Sei quindi tu che scegli se fare quella campagna e come farla.
2) video seeding: anche in questo caso ti arriva una mail per ogni campagna video che viene attivata e scegli se postare quel video sul blog. Ovviamente ti arriveranno le notifiche solo delle campagne del target che hai scelto al momento della registrazione. Per i video non c’è nessun post da scrivere ma solo il postare il video. Per questa attività le remunerazione variano tra click e visualizzazioni.
Secondo me il fatto che sei tu a scegliere se fare le campagne e come farle rappresenta un buon modo per non interferire con la tua linea editoriale.
Se sei interessato ti mando le informazioni su come iscriversi (molto easy, 2 minuti) e sei pronto a partire.
In attesa di una tua risposta ti auguro buon lavoro e ti ringrazio per l’attenzione
Cordialmente,
omissis

Preciso che non è la prima volta che come biscomarketing vengo contatto da agenzia di web PR e, malgrado Freud abbia affermato che le differenze dei comportamenti sono quantitative e non qualitative (credo), non ho mai trovato nulla di riprovevole alla mail che mi segnalava un’iniziativa/campagna e/o mi invitava a partecipare ad un appuntamento/evento in cui veniva presentata una determinata cosa. Ognuno decide chi invitare a casa propria e come accogliere gli ospiti. Quanto gli ospiti si sentano poi in obbligo con chi gli ha invitati sta alla sensibilità ed al libero arbitrio di ognuno.

Questa mail però è una cosa diversa. Intanto dubito che rientri nel codice etico dell’attività di PR e o marketing.
Secondo non condivido l’opinione di chi mi ha scritto che la collaborazione proposta non impatta sulla mia linea editoriale (parole grosse), visto che comunque il mio post prima di eesere pubblicato deve passare il loro controllo/censura. Non credo che se si aprisse con un bel INFORMAZIONE PUBBLICITARIAverrebbe approvato.
Per assurdo se l’argomento della campagna mi fosse sembrato tanto interessante da farci un post, nel momento in cui per quel post vengo pagato, cade tutta la mia credibilità. E la credibilità nella comunicazione è tutto.
Mi direte che cose di questo tipo si sono sempre fatte nelle PR off-line senza che si sapessero, ma la differenza sta proprio qui.
E’ evidente che negli ultimi 5 anni (o forse 10) il web è passato da rappresentare un pezzo di società (abbastanza omogeneo) a rappresentare LA SOCIETA’ semplicemente grazie alla sua diffusione ed è quindi evidente che on-line si ritrovano oggi le stesse patologie che esistono off-line (le persone sono le stesse).
L’on line mantiene però una grande differenza rispetto all’off-line costituita dal fatto che si tratta di un ambiente condiviso, dove tutti possono interagire in tempo reale. Sembrano frasi fatte, ma condividere in modo virale le informazioni è molto diverso che scrivere una lettera al direttore che (forse) verrà pubblicata un mese dopo. E’ questo che permette al web di auto correggersi.
Come dimostrano i post di Il Giornalaio, minimarketing, OLMR, non sono (ovviamente) il primo blogger che riceve una proposta di questo tipo, anzi.
Però fino ad oggi chi ci si è imbattuto ha mantenuto la discussione sui termini generali, tra l’accademico ed il rassegnato nel vedere che anche il sul web si stanno riproponde le stesse patologie dell’off-line. Ma il web può sviluppare gli anticorpi, scoprendo pubblicamente i comportamenti scorretti. Basta volere! Ed è questo l’invito che faccio in primis a tutte le persone serie che scrivono un blog.
Allora perchè i miei omissis nel riportare la mail? Proprio perchè il bello del web è che dà a tutti la possibilità di confrontarsi e quindi di spiegarsi. Non mi interessa fare il tribuno della plebe e non è giusto dare del filibustiere a qualcuno con leggerezza.
Quindi invito la società che mi ha inviato la mail a manifestarsi e spiegare le proprie ragioni con un commento a questo blog.
Hanno tempo fino a domenica prossima (intervallo settimanale classico di biscomarketing) viceversa gli omissis li svelerò io.
I miei rispetti a chi se li merita.

Quale futuro per il prosecco negli USA?

Recenetemente in Bosco Viticoltori ho realizzato una ricerca sull’atteggiamento del consumatore USA nei confronti del Prosecco.

Credo che possa essere non solo di interesse, ma anche di utilità generale e quindi l’ho pubblicata su slideshare. Questo è il link

Di seguito il comunicato stampa che l’accompagna:
Comunicato stampa

L’ATTEGGIAMENTO DEI CONSUMATORI U.S.A. NEI CONFRONTI DEL PROSECCO: UN’INDAGINE DI BOSCO VITICOLTORI E DOXA ADVICE.

Quale sarà il futuro del Prosecco?

La crescita dei consumi continuerà ai ritmi che ne hanno decretato il successo nell’ultimo decennio?

Che effetto avrà sul mercato l’entrata in produzione dei nuovi vigneti piantati durante gli ultimi tre anni?

E’ proprio nelle fasi favorevoli del mercato che le aziende più attente pianificano lo sviluppo.

Per questo la Bosco Viticoltori ha commissionato a Doxa Advice una ricerca sugli atteggiamenti e comportamenti di consumo di Prosecco da parte del consumatore statunitense.

“Negli U.S.A. il consumo di Prosecco sta crescendo a ritmi vertiginosi” secondo Lorenzo Biscontin, direttore Generale della cantina di Salgareda (TV) “il punto è capire in che misura questo trend continuerà anche nei prossimi anni ed i risultati della nostra ricerca sono molto promettenti.”

Dall’indagine risulta infatti che solo il 50% dei consumatori statunitensi di vino conosce oggi il prosecco, ma oltre la metà di quelli che conoscono il prodotto ne sono anche consumatori.

Da sottolineare poi che a fronte di un 61% di consumatori che dichiara un consumo costante, ben il 36% dichiara di aver aumentato il consumo di prosecco negli ultimi 6 mesi.

A confermare le prospettive positive per il Prosecco negli U.S.A. anche la penetrazione superiore alla media che si riscontro nei segmenti giovani e con i più alti livelli di reddito ed istruzione.
“Il Prosecco negli U.S.A.” commenta Massimo Sumberesi, Direttore Generale di Doxa Advice, “appare come una scelta di stile guidata dai consumatori più moderni ed evoluti e non un’alternativa economica a vini spumanti più prestigiosi. La sua crescita quindi sarà determinata dalla diffusione della sua immagine di convivialità ed informalità piuttosto che da strategie di prezzo, che rischierebbero anzi di banalizzarne il percepito qualitativo.”

I pagliacci di vodafone business 2

Si è conclusa con una specie di lieto fine la storia iniziata la settimana scorsa.
Come immaginavo la cosa non era molto complicata. E’ bastato chiamare l’assistenza clienti, che ha ipotizzato che la sim fosse danneggiata, ed andare in un punto Vodafone One dove un digital native nel giro di 10 minuti ha disattivato la mia scheda precedente (la micro sim che avevo nell’i-phone) ed attivato una nuova sim.
Quello che avevo chiesto io dall’inizio, senza complicarsi la vita con dual sim o servizi bis. Forse però l’attivazione del servizio bis non è stata proprio casuale, visto che ho scoperto, come sospettavo, che la sim principale era abbinata al contratto business mentre la secondaria era abbinata al contratto personale. Il risultato sono state 123 euro inattesi di traffico dati.
In tutto questo l’agente Vodafone Business con cui ho sottoscritto il contratto è definitivamente sparito (ma io avanzo ancora un torch ed un bold).
Sarei potuto andare direttamenta in un punto Vodafone One? Certo, ma allora cosa ci stanno a fare gli agenti Vodafone Business?
Prendo spunto da qui per non fare di questo post una puntata di “mi manda Biscomarketing”.
Come si legge nel mio profilo io sono diplomato perito agrario ed il mio primo colloquio di lavoro è stato con la Purina per fare l’assistenza tecnica ai clienti. In agricoltura infatti fina dagli anni ’80 del secolo scorso le principali aziende di mangimi e sementi hanno cominciato ad affiancare la rete vendita ad una rete di assitenza tecnica che visitava la clientela. Se non mi sblaglio, ma poi sono finito a lovarora in altri settori, con il tempo hanno eliminato la rete vendita, mantenendo solamente quella di assistenza tecnica, che si occupava anche della raccolta degli ordini.
Che sia stato effettivamente fatto o meno in realtà ha poca importanza. Il punto è che sarebbe assolutamente logico strutturarsi in questo modo in settori dove il prodotto è quasi una perfetta commodity e quindi l’aspetto differenziante diventa il servizio.
L’idea di trasformare gli agenti in consulenti tra azienda e clienti mi frulla in testa fin dai tempi in cui lavoravo in Levoni, dove l’allora direttore vendite mise in piedi dei corsi di formazione per la clientela. Non è proprio la stessa cosa, ma comuqnue la direzione è quella e credo che, a distanza di 16 anni, Levoni continui a farli con successo (in realtà, per la serie non si inventa niente, il dottor Chizzoni si era ispirato alla sua precedente esperienza in Wella, che operava con una rete di clienti-formatori per i suoi corsi di aggiornamento).
Il diffondersi dell’e-commerce, che in Italia nelle vendite BtoC (business to consumer) è in realtà ancora agli albori, sta già mettendo in discussione la professione dell’agente di commercio.
Come sempre a determinarne la sopravvivenza sarà la capacità di portare un valore aggiunto superiore al costo.
Considerando che quasi sicuramente gli agenti di Vodafone Business sono monomandatari, io se fossi in loro comincerei a preoccuparmi.

I pagliacci di Vodafone Mobile

Questo post non ho proprio nessuna voglia di scriverlo, però devo.
I motivi per cui non ne ho voglia sono diversi:
numero A) Mi sembra improprio fare un uso personale del blog (anche se credo ci siano poche cose più personali di un blog) e non lo farò nemmeno con lo stile divertente del precedente.

numero B) Probabilmente aumenterà la fama di presuntuoso che mi perseguita (ma oramai probabilmente mi precede) da anni. Almeno lasciatemi dire che sono ben cosciente di non essere l’unico ad aver affrontato i problemi che racconto qui di seguito.

numero C) Soprattutto il motivo per cui non ho voglia di scrivere questo post è che significa che domani al lavoro dovrò affrontare una rogna in più, che speravo tanto si fosse risolta, anche perchè non credo che sia una cosa molto complicata. Come sempre quando manca la volontà, i disguidi diventano montagne insormontabili.

Ecco la storia.
Quando si è concluso il rapporto di lavoro con la mia precedente azienda, il modo più rapido e sicuro per mantenere la portabilità del numero di cellulare (alquanto indispensabile dal punto di vista professionale) era tramutare il contratto Vodafone Business che aveva l’azienda con un contratto personale intestato a me. Questo perchè la mia attuale azienda utilizzava un altro gestore. Già qui non è che fossi del tutto convinto, ma tant’è …
Arrivato in Viticoltori Bosco mi sono comprato un I-phone (confesso che sapevo che mi prendevo i miei rischi, ancor di più quando mi hanno fatto presente che l’I-phone utilizza micro sim invece di quelle standard, ma tant’è …) ed, insieme alla collega che si occupa dell’amministrazione abbiamo valutato le proposte dei diversi gestori, visto che io arrivavo con Vodafone.
La proposta più vantaggiosa ci è sembrata proprio quella di Vodafone e quindi abbiamo cambiato il gestore per tutte le cinque utenze aziendali.
Devo dire che dal momento in cui abbiamo firmato il contratto sono cominciati i problemi?
Nel contratto Vodafone Business è prevista anche la fornitura dei telefono in comodato gratuito. Io avevo scelto un Samsung, mentre i colleghi dei Blackberry. Il Samsung è arrivato, dei Blackberry 2 su 4, non è arrivato il torch promesso e sono arrivati invece dei telefoni Vodafone (che ho mandato indietro).
Il Samsung l’avevo scelto perchè, ovviamente, l’I-phone non si sincronizza con rubrica, attività e calendario di Outlook.
Tutto questo avveniva la settimana prima di ferragosto, peccato che la mia nuova sim si sia rivelata un inutile pezzo di plastica e non una vera sim. Non chiedetemi dettagli, l’agente Vodafone Business, raggiunto al cellulare dopo numerosi tentativi, mi ha solo detto che ovviamente la sim che era arrivata con il telefono non era attiva, perchè avrei dovuto usare quella che già avevo, a cui veniva semplicemente abbinato un nuovo contratto. Quando gli ho ricordato che avendo un I-phone non potevo spostare la sim sul Samsung anche volendo, mi ha detto di non preoccuparmi che ci avrebbe pensato lui, ovviamente dopo ferragosto.
Arriviamo così al 19 agosto quando finalmente viene fatto il passaggio del contratto e mi arriva una dual sim. Piccolo problema: la sim principale rimane quella dell’I-phone, che però con il contratto Business non può navigare in internet. Non c’è problema mi dice l’ineffabile agente Vodafone Business: basta che lei spenga l’I-phone e tutte le telefonate arrivano sul Samsung. Peccato però che gli sms invece no, e così dopo due giorni riaccendo l’I-phone e mi trovo tutti i messaggi persi.
Secondo piccolo problema (di cui mi rendo conto mentre scrivo): l’ultima bolletta del mio contratto personale registra telefonate fino al 31 agosto e, soprattutto, 123 euro di traffico dati. Visto che da quando mi hanno comunicato che nel contratto personale il traffico dati aveva una tariffa diversa dal voce non ho più navigato con l’I-phone, vuoi vedere che la dual sim significa che la sim principale è collegata al contratto business e l’altra al contratto personale? Altra rogna da sistemare, ma soprattutto devo ricordarmi di revocare l’addebito in conto.
L’ineffabile agente Vodafone mi dice di non preoccuparmi, che mi chiederà al suo responsabile come rendere principale la sim del Samsung. Dopo alcuni giorni di silenzio lo contatto via mail, niente. Allora lo chiamo e lui mi fa “Ma come non l’ha chiamata?” (pagliaccio sì, ma professionista).
Solita rassicurazione e dopo due giorni mi manda un mail con un codice da digitare nel telefono per fare lo switch. (Ovviamente) il codice non funziona, “E’ proprio strano. Comunque non si preoccupi, venerdì sono con il responsabile di zona e passiamo da lei così sistemiamo”.
Quel venerdì alle 19:00, dopo non aver nè visto nè sentito nessuno, IO lo chiamo e lui mi risponde che il responsabile aveva un impegno ed è dovuto tornare su Vicenza, subito dopo pranzo. E’ notorio che mentre i fornitori hanno impegni, i clienti si girano i pollici tutto il giorno e che il cellulare lo portano solo perchè fa figo.
Comunque non devo preoccuparmi perchè il martedì dopo sono nella mia zona tutto il giorno e quindi passano sicuramente.
Devo dire che martedì non è passato nessuno, nessuno ha chiamato per cancellare l’appuntamento (e che comincio a dubitare dell’esistenza del fantomatico responsabile)?
Mercoledì l’ho chiamato, non ho ascoltato nessuna scusa e gli ho solo detto che aveva tempo fino a venerdì per risolvere la questione altrimenti io mi cercavo un’altro gestore ed in più gli davo pubblicamento dei pagliacci sul mio blog (ecco il perchè della presunzione e della necessità di scrivere questo post).
Ovviamente nel frattmepo non sono nemmeno arrivati i telefoni che stiamom ancor aspettando.
Che dire? Che ci saranno centinaia di storie come questa per tutti i gestori sul mercato? Probabile.
Da parte mia posso solo raccomandare di stare molto attenti ai signori di Vodafone Business perchè anche se si presentano in giacca e cravatta, sotto sotto (neanche tanto) possono rivelarsi dei pagliacci e di valutare bene prima di fare un contratto sulla base di tariffe vantaggiose, perchè la volta che perdet un cliente perchè non vi è arrivato un sms, il risparmio ve lo siete più che giocato.
il bello è stavo aspettando di valutare come funzionava Vodafone per proporre il passaggio anche alle altre aziende collegate a Bosco Malera.
Qualcunoi ha un gestore di telefonia mobile da consigliare?

Servizi web per la piccola impresa

Oggi mi è successa una cosa sconcentartemente divertente. La racconto allo stile del Persichetti di Enogea (così ne approfitto per salutare Alessandro Masnaghetti).

Impiegata: Direttore c’è al telefono quell’agenzia che ha chiamato ieri per presentarsi

biscomarketing: va bene me la passi pure

Signorina dell’agenzia:Buongiorno sono xxx dell’agenzia yyyy di zzzz (paese a circa 30 km dalla sede della mia azienda) e chiamavo per presentare i nostri servizi nel web. Noi facciamo siti internet ex novo, la manutenzione di quelli esistenti per sistemare quello che ogni tanto va messo a posto(il tono era assolutamente da discorso a memoria ed il ritmo non permetteva, neanche ad uno come me, di inserirsi o interrompere). Inoltre facciamo in modo che il suo sito appaia sempre tra i primi 4/5 nelle ricerche sul web ….

biscomarketing:Quindi fate del sio …

Signorina dell’agenzia::scusi non ho capito …

biscomarketing:sì dico del sio, Search Engine Optimization, oppurre fate ….(stavo per dire del sem, ma la signorina mi ha interrotto).

Signorina dell’agenzia::guardi su questo non posso risponderle, io sono solamente la persona che si occupa degli appuntamenti e siccome oggi un nostro incaricato è in zona …..

biscomarketing:ma, vede signorina noi un sito l’abbiamo già quindi al momento siamo coperti. Se vuole mi invii una presentazione (che poi non si dica che sono cattivo) ed eventualmente fissare un nuovo appuntamento non sarà un problema.

Signorina dell’agenzia::… non so, il nostro incaricato non è disponibile tutti i giorni …

biscomarketing:come vuole, però se non vi interessa neanche fare 30 km, allora può anche fare a meno di mandarmi la presentazione.

Signorina dell’agenzia:: va bene, qual’è la sua mail?

Il bello è che gliela ho anche data. La presentazioone però deve ancora arrivare.

Bare bones marketing 2

All’inizio dell’anno ho fatto un posto sul marketing all’osso o, in inglese, “bare bones” marketing (alla fine del post capirete perchè stavolta uso la terminologia inglese).

Non arrivava ad essere un concetto razionalizzato e formalizzato come quello del lusso inclusivo e nemmeno al livello di idea. Era più un’impressione, una sensazione a livello quasi inconscio (si lo so che avere “sensazioni” di marketing è preoccupante, ed in effetti ogni tanto mi preoccupo).

Non mi sono quindi preoccupato di pensarci in modo specifico, ma l’ho lasciata lì libera di maturare ed evolvere per conto suo. Ahimè però non è che abbia fatto grandi progressi, quindi l’altro giorno ho deciso di passare dalla teoria (inesistente) ai fatti (concreti per definizione) ed ho mandato a due buyers stranieri una mail di presentazion e dell’azienda senza la classica presentazione power point con luci, colori ed animazioni che rischiano di far perdere tempo e distrarre dal contenuto/messaggio.

Al suo posto ho allegato un documento word di una pagina che riportava le caratteristiche essenziali dell’azienda ed i conseguenti benefit nel valutarci come business partner . In realtà avrei voluta fare un testo più corto ed inserirlo nella mail invece che allegarlo (due click in meno), ma non ci sono riuscito. Ecco la dimostrazione che chi mi dice che mi sopravvaluto (talvolta) ha ragione.

Se funziona ve lo dico. Intanto godetevi Luois Amstrong bare necessity (se qualcuno mi insegna ad inserire i video in modo che si vedano anche nel post e non solo come link, lo ringrazio).

Perchè tutti vogliono George Clooney?!

Confesso che non sono mai stato un fautore dell’utilizzo dei testimonial nella pubblicità.
Un testimonial apporta sostanzialmente due vantaggi:
1. Aumenta la visibilità/attenzionalità della campagna (sempre).
2. Rafforza il posizionamento della marca/prodotto (nel caso in cui il suo percepito pubblico sia coerente con quello della marca/prodotto a cui è associato e/o che la sua presenza nella comunicazione sia funzionalmente inserita in una creatività che avrebbe comunque funzionato anche senza la sua presenza).

Ho sempre pensato che i soldi del compenso di un testimonial sia meglio spenderli aumentando la pressione della campagna (equivalente in parte al punto 1) e concentrarsi nel lavoro dell’agenzia per arrivare ad una comunicazione rilevante, aumentandone di conseguenza l’attenzioanlità e la capacità di rafforzare il posizionamento.

Questo anche per evitare i due rischi intrinseci all’uso di un testimonial:
3. Catalizzazione dell’attenzione del pubblico sul testimonial a detrimento della marca/prodotto.
4. Appiattimento creativo sulla presenza del testimonial, sviluppando la creatività sulle sue caratteristiche e non su quelle della marca/prodottorischi di rilassamento creativo che (quasi) automaticamente implica l’utilizzo del testimonial.

Fin qui la fisiologia. Volendo c’è anche la patologia/sfiga che il testimonial faccia o gli succeda qualcosa di inadeguato rispetto al posizionamento della marca/prodotto durante la campagna.

Credo che un eccellente esempio di cattivo uso del testimonial sia rappresentato dalle campagne delle compagnie di telefonia mobile, che, tra l’altro, un giorno mi spiegheranno perchè l’unico modo di comunicare l’uso dei telefonini sia entrando nel tunnel del divertimento (cfr. Caparezza). Divertimento che, volendo aprire un’altra parentesi, è cosa ben diversa dalla felicità, come ha ben capito la Coca Cola ed anzi potrebbe perfino essere antitetico (pensiero mio).

Tornando ai testimonial, come sempre nel marketing, disciplina analitica e non deterministica basata quindi più sui principi che su regole, ci sono anche esempi di grande efficacia.
uno l’ho vissuto in prima persona ed era la canzone “Lemon tree” nello spot del Limoncè. Non credo sia una caso l’assoluta coerenza tra testimonial, messaggioe e prodotto, nè il fatto che si sia trattato di un long seller, trasmesso ogni tanto ancora oggi a quasi 15 anni di distanza (probabilmente aiutato anche dalle campagne pubblicitarie). il fatto che l’attuale management Stock abbia deciso un paio di anni fa di non usarla più per il nuovo spot spiega tante cose, ma se continuo ad aprire parentesi questo post diventerà un labirinto in cui tutti si perderanno.

Un’altro esempio perfetto di utilizzo del testimonial sono state le prime due campagne Martini con George Clooney. Lo spot stava in piedi ugualmente, ma la presenza di Clooney dava immediatamente ed implicitamente, quindi con la massima efficacia, una dimensione di eleganza internazionale alla marca. La stessa delle precedenti campagne Martini (se il mio pubblico femminile sta sognando dall’inizio del post con il fascino di George, adesso il mio pubblico maschile è acceso dal ricordo di Charlize Theron che si alza e se ne va, incurante del vestito impligliato nella sedia).
In più lo slogan “No Martini non party”, con tanto di porta sbattuta in faccia, affermava una superiorità dalla marca anche rispetto ad una star di Hollywood. Chapeau alla creatività!

L’efficacia di quelle campagne ha creato un legame talmente forte tra Martini e Clooney che avrebbe dovute da dissuadere chiunque altro ad utilizzarlo come testimonial.

E invece l’altro giorno me lo sono trovato nello spot di Fastweb (c’era già da un po’, ma la prima serie mi erano sembrati spot di una banca), dopo averlo visto in quella di Nespresso (magari quella era una comunicazione mondiale), e prima della Fiat.

Allora ripeto la domanda del titolo: perchè? Possibile che a nessuna di queste aziende/agenzie venga il dubbio che la figura di Clooney non solo non sia in grado di differenziare il prodotto, ma anzi tenda ad indifferenzialo?.

Le agenzie sono davvero così a corto di idee e le aziende così cariche di soldi?

La pubblicità perfetta può essere sbagliata?

Perfetto target per la pubblicità radiofonica, da qualche settimana ce n’è una che mi ha colpito particolarmente, ma non ricordo di che prodotto si tratta.
Il motivo di questa contraddizione in termini è che è una pubblicità insopportabile e quando la sentivo all’inizio semplicemente mi distraevo, mentre da un po’ di giorni a questa parte zittisco proprio la radio.
Allora perchè il titolo di questo post? Perchè probabilmente la realizzazione è perfetta, sia tecnicamente che in termini di rispondenza al brief.
Si tratta infatti della pubblicità del deodorante per auto Ambipur car (l’ho scoperto cercandola su internet), nella quale l’agenzia Grey di milano è riuscita nella difficile operazione di rendere per radio il fastidio dei deodoranti per auto troppo intensi. Uno spot perfetto, soprattutto se si considera che comunica attraverso l’udito sensazioni che nella realtà sono olfattive. Con tutta probabilità questo era il risultato richiesto dal brief.
Proprio perchè riuscito nel suo obiettivo, nel mio caso è uno spot completamente inefficace perchè il fastidio mi porta a spegnere la radio.
Sono l’unico? Di sicuro nel web ho trovato un po’ di fans e nessuna critica.
Dopo tanti anni di lavoro ho perso il contatto con la normalità del consumatore?
Una volta ho letto da qualche parte che scrivendo un post è sbagliato chiedere la partecipazione dei lettori, ma in questo caso sarei proprio curioso di sentire la vostra.

The CEO’s Marketing Manifesto

Come promesso eccomi di nuvo qui dopo un po (poche) ferie e parecchio lavoro nuovo.
Purtroppo non sono riuscito a dedicare molto tempo alle letture di marketing durante queste ferie, quindi continuo ad approfittare delle letture fatte a giugno del numero di novembre-dicembre 2008 di Marketing Management.
Oltre a quello sul marketing democratico c’era un interessantissimo articolo con il titolo di questo post, che contiene, circostanziandole, parecchie conferme al tema di fondo di questo blog e diversi spunti di sviluppo.
Ecco la sintesi fatta pescando dalle mie sottolineature a margine.
Già nel 2001 uno studio sulle aziende che compongono il FTSE 100 index (circa l’80% della capitalizzazione della borsa di Londra) rilevava come solamente 13 amministratori delegati avessero un background di marketing, contro 26 che provenivano dalla finanza. Il numero di A.D. provenienti dal marketing era diminuito negli ultimi tre anni ed anche nella aziende che operavano nei beni di consumo gli A.D. con provenienza dalla finanza superavano quelli di provenienza dal marketing.
Questo ha provocato un declino del peso del marketing a livello di comitati di direzione, tanto che nel 2008 si stimava che il tempo dedicato al marketing durante le riunioni dell’alta direzione si aggirava intorno al 10%
Come dire: il declino del marketing nella definizione delle strategie aziendali non è solo un amia impressione.
La cosa curiosa è che conteporaneamente alla perdita di importanza della FUNZIONE MARKETING, l’importanza del marketing come approccio strategico non è assolutamente messa in discussione.
La vecchia storia che la creazione di valore per i propri clienti può realizzarsi davvero solamente integrando l’attività delle funzioni aziendali. Cosa tanto più vera tenuto conto dei cambiamenti in atto nelle aziende:
1) approccio organizzativo ed operativo basato più sui processi che sulle funzioni.
2) da strutture gerarchiche a gruppi di lavoro.
3) da partnership a transazione a “portata di mano” (“arms-length” nell’originale inglese) con fornitori e distributori.
Ergo le aziende (gli A.D., perchè alla fin fine le aziende sono fatte di persone e funzionano attraverso queste) terrenna in considerazione solamente iniziative che siano strategiche, interfunzionali ed orientate al risultato. Ho già detto tante volte in questo blog che la funzione (le persone) naturalmente più indicate per formazione, approccio e posizione all’interno dell’azienda è il marketing (ovviamente quello fatto bene).
Come fare a mettere in piedi iniziative di questo tipo?
1) da segmenti di mercato a segmenti strategici.
2) da vendere prodotti a fornire soluzioni.
3) dai canali distributivi in declino a quelli in crescita.
4) da bulddozer di marca (“branded buldozzer” in inglese) a partner globali delle catene distributive.
5) soprattutto da essere guidati dal mercato (“market-driven” a guidare il mercato (“market driving”) attraverso vera e significativa (per il cliente) innovazione.

Il nodo del punto 5 è l’equilibrio tra soddisfare meglio le richieste attuali dei clienti attraverso i processi guidati dal mercato e soddisfare nuove/latenti richieste attarverso processi di guida del mercato, senza essere troppo avanti rispetto ai clienti. Anche se ho il dubbio che oggi come oggi il rischio di essere troppo avanti sia minimo, se anche questo può significare delle inefficenze nel breve (quindi risultati economici inferiori a quelli che si avrebbero con un equilibrio più spostato sul presente), nel medio-lungo sar à sicuramente vantaggiose grazie alla differenziazione che creata dall’innovazione, sia in termini oggettivi che di percezione. L’esempio Apple è anche troppo banale.
Diventa quindi necessario attivare degli indicatori che misurino la salute dell’azienda nel futuro da affiancare a quelli tradizionalmente utilizzati per misurare la salute dell’azienda nel presente (vendite e profittabilità). Indicatori legati alla brand equity, alla fedeltà dei clienti ed alla loro soddisfazione. Io ci agggiungerei anche alla propensione all’acquisto dei prodotti della marca/azienda.

L’articolo conclude indicando che gli A.D. hanno bisogno di managers che pre-VEDANO il futuro piuttosto che conoscano i meccanismi causa-effetto (“foresight vs. insight” nell’originale inglese), di INNOVATORI e non di tattici, di STRATEGHI DI MERCATO e non pianificatori di mercato (“market strategists vs. marketing planners” nell’originale inglese).
In altre parole i professionisti di marketing devono imparare a condurre con un’immaginazione guidata dalla conoscenza del consumatore-cliente e non basarsi sulle previsioni delle ricerche di mercato.
Detto con parole mie aggiungendo una piccola postilla alla serie dei post sulle ricerche di mercato, le ricerche di mercato sono uno strumento analitico, non deterministico.
Detto in un altro modo ancora, che forse ho letto da qualche parte, ma non mi ricordo dove: tutto quello che viene fatto è stato prima immaginato.
Concludo io ricordando che un po’ di tempo fa in un post dicevo che probababilmente il marketing del futuro è quello fatto dai BRICS. A chi mi chiedeva di che tipo di marketing si trattava ho risposto che non lo sapevo perchè non ho frequentato abbastanza quei Paesi (ok qualche pista ce l’avevo, abbastanza per accendere una spia, ma non per mettere niente nero su bianco). Forse adesso un inizio di risposta ce l’ho perchè l’autore dell’articolo è il prof Nirmalya Kumar, indiano che insegna alla London Business School.

Il marketing democratico

Durante il mese di giugno ho dedicato un po’ di tempo alla lettura dei numeri arretrati di Marketing Management e Marketing News (le riviste dell’American Marketing Asocciation).
Ovviamente non sono riuscito a portarmi in pari, ed e’ un peccato perche’, come sempre, ho trovato dei concetti che mi sarebbero stati di grande utilita’ per i progetti realizzati. Meno male che comunque sono riuscito in buina parte ad arrivarci da solo quando mi e’ servito ed ho trovato anche cose che mi verranno buone per i progetti futuri.
Ad ogni modo un numero particolarmente ricco di Marketing Management e’ stato quello del novembre-dicembre 2008, dove c’era un articolo su motivi del declino del marketing all’interno delle organizzazioni e relativi rimedi (argomento fondante di biscomarketing) ed uno sul marketing democratico. Oggi volevo riportare una seintesi di quest’ultimo.
L’analisi prende le mosse dal successo della campagna “Evolution” realizzata nel 2006 per il sapone DOVE dell’Unilever dall’agenzia Ogilvy & Mather, nella quale in un minuto si mostra l’evouzione di una normale ragazza in una modella da copertina attraverso il make-up e l’uso di photoshop per concludere con lo slogan “Non c’è da stupirsi se la nostra percezione della bellezza è distorta”.
Alla base della campagna c’era una nuova definzione della mission della marca: “la missione di DOVE è far sì che più donne si sentano belle ogni giorno allargando la ristretta definizione di bellezza ed inspirandole a prendersi cura di sè stesse”.
Detto in altre parole, quelle di Philippe Harousseau, Direttore dello sviluppo della marca: “Se tu non sei adamantino riguardo alla mission della marca non puoi controllare cosa succede quando le persone la amplificano. Tutti coloro che lavorano in Dove le conoscono a memoria. La nostra nozione di bellezza non è elitaria, è celebrativa, inclusiva e democratica.”
Con il termine democratico gli autori intendono il fatto che i consumatori giocano un ruolo maggiore nel mercato e di conseguenza l’aspettativa che il marketing porti benefici anche alla società in generale.
Si basa innanzitutto sul rispetto per il consumatore; come dice Leonard Marsh, uno dei fondatori della Snapple Beverage Company, “Noi non abbiamo mai pensato di essere meglio dei nostri consumatori”. Può sembrare una banalità, ma chi ha frequentato le aziende sa quanto spesso si propongano (e talvota si realizzino) strategie basate sul presupposto che tanto il consumatore è, in qualche misura, ignorante.
Gli autori quindi definiscono i 6 principi del marketing democratico:
Scambio: lo scambio tra un compratore ed un venditore può creare valore per ognuno ed anche aggiungere valore alla società. Gli scambi sono giusti, equi e socialmente responsabili.
Consumo: il marketing offre ai consumatori l’opportunità di consumare prodotti e servizi innovativi che migliorano la qualità della vita. Non promuove il consumo di beni e servizi che danneggiano i cosnumatori.
Scelta: la scelta segna un equilibrio tra diversità e confusione. Esistono significative differenza tra scelte e benefici, reali e percepiti, che nascono dalla disponibilità di scelte diverse.
Informazione: gli operatori del mercato informano i consumatori con la minima intrusione. Forniscono informazioni interessanti e rilevanti. Proteggono scrupolosamente le informazioni relative ai consumatori che raccolgono nella loro attività.
Partecipazione: gli operatori del mercato danno ai consumatori il potere di realizzarsi, li coinvolgono nello sviluppo dei beni e servizi, li sollecitano ed ascoltano e si comportano di conseguenza alle informazioni fornite dai consumatori.
Inclusione: gli operatori del mercato si rivolgono a tutti i consumatori, rispettando i diversi valori e le diverse culture.
Quest’ultimo punto può essere descritto anche come universitalità del marketing democratico, che tratta tutti gli individui come potenziali clienti.
Evidentemente si può vedere tutta questa analisi con gli occhi del cinismo e dire che si tratta solo di belle parole che hanno l’obiettivo di far apparire il marketing sotto una luce positiva, che in realtà non ha.
Io però, a parte l’esempio di DOVE riportato nell’articolo, se penso ad alcuni casi di successo negli ultimi anni (il primo che mi vien in mente è Diesel e prima ancora Benetton, per rimanere nel tessile) ritrovo questo tipo di approccio.
Leggendo poi ho anche ritrovato il concetto di lusso inclusivo sviluppato a suo tempo ed un supporto alla mia sparata sulla marginalizzazione del marketing come una delle concause della crisi economica mondiale.
Infine la scarsa diffusione del marketing democratico si può collegare anche al suo declino nelle aziende e nella società.
Il prossimo post quindi sarà dedicato all’articolo che analizza qesta situazione.

Trentinizzare il Pinot Grigio: commento al post di Angelo Peretti

Sul web del vino ci sono statim ultimamente un paio di post (Ziliani, Peretti) sull’affermazione di Fabio Piccoli sulla strategia di trentinizzazione del Pinot Grigio. come si sa questo blog non (dovrebbe) parlare di vino. Il fatto è che il commento che avevo scritto al post di Angelo Peretti sul suo blog Internet Gourmet era troppo lungo ed io non avevo il tempo di sintetizzarlo. Così ho pensato di pubblicarlo qui.
Non va visto quindi come un post di biscomarketing, ma come un commento di Lorenzo Biscontin al post di Peretti. Ecco di seguito quello che avevo scritto:
Caro Angelo, confesso che provo una certa soddisfazione personale a seguire le discussioni che stanno sorgendo intorno al pinot grigio, perchè da quando sono arrivato nel mondo del vino ho avuto subito l’impressione che fosse una vino bistrattato. Il mondo della promozione in primis lo considerava un vino sorpassato, quasi una boccia persa. E questo malgrado tutti nel nord-est siano assolutamente cosciente che si tratta di un vino che porta a casa la pagnotta per tanti viticoltori e tante cantine. E’ un atteggiamento che non ho mai nè condiviso nè accettato, sia perchè credo sia doveroso accudire i prodotti che sono alla base della sopravvivenza/prosperità dell’azienda/settore in cui lavoro e sia perchè credo che il pinot grigio abbia un profilo sensoriale che risponde di una vasta gamma di momenti di consumo per un’ampia fascia di consumatori.
Per questo, quando a giugno 2010 ho cominciato a sviluppare le attività per la celebrazione dei 50 anni del Pinot Grigio Santa Margherita uno dei principali obiettivi che mi sono dato è stato quello di riportare il pinot grigio all’attenzione del mondo enologico italiano. Ecco perchè non ci siamo limitati solo a far festa, ma abbiamo voluto portare gli opinion leaders in vendemmia (settembre 2010), a fargli vedere le chimere sui grappoli. Lì abbiamo scoperto che molti il pinot grigio di stile trentino-alto adige (poi ci torno) non lo assaggiavano da mesi se non da anni. Quindi ci siamo convinti ancora di più dell’utilità degli appuntamenti già programmati per il vinitaly di quest’anno: un convegno sulla situazione vitivinicola, competitiva e di gestione aziendale del pinot grigio ed una degustazione di pinot grigio da tutto il mondo, proprio a dimostrare che i diversi territori esprimono diversi stili. In quell’intenso, ai limiti del campale, venerdì di Vinitaly ho scoperto che il “disinteresse” (vendite a parte) che circonda questo varietale non riguarda solo l’Italia, ma tutto il mondo. A fine giornata l’entusiasmo dei produttori dall’Oregon, dall’Australia, dall’Alsazia, dall’Ungheria e dal Baden per aver vissuto finalmente una giornata di approfondimento su questo vino era sfociato nella proposta di fondare l’associazione mondiale dei produttori di Pinot Grigio. Magari Fabio Piccoli (che, forse non a caso, era il moderatore del convengo) può cogliere la proposta e mondializzare la trentinizzazione del pinot grigio.
Concetto che, come ha detto Ziliani, è vago, am che mi sento di condividere nel suo significato di rivalutare l’identità atesina (lasciami con questo termine accumunare le due province, è una forzatura che mi concedo ricordando la cena dello scorso marzo in cui abbiamo messo allo stesso tavolo i produttori dell’Alto Adige e quelli del Trentino) di questo vino. Attualmente infatti il pinot grigio in Italia identifica più il Collio, dove si è sviluppato con un profilo, giustamente, molto diverso da quello che aveva nel suo territorio d’origine.
Come mi sono trovato più volte a ripetere quest’anno la qualità del vino è soprattutto una questione di identità più che di caratteristiche organolettiche tout-court (che sono quasi la conditio sine qua non).
Per questo credo che il trentino (cooperativo) ci riuscirà innanzitutto se recupererà a volta la propria identità sociale. Mi spiego meglio ricordando una cosa ovvia: scopo della cooperazione è la valorizzazione del lavoro dei soci, senza finalità speculative. Questo non significa che le cooperative non debbano in assoluto partecipare a società di capitale, però va mantenuto un equilibrio per cui queste partecipazioni siano funzionali alla finalità mutualistica della cooperativa, viceversa lo scopo diventa la ricerca della miglior remunerazione del capitale rappresentato dal lavoro del socio e non del lavoro stesso (i soci cooperatori sono di fatto gli imprenditori in quanto apportatori del capitale di rischio sotto forma dei conferimenti, di conseguenza la cooperativa si basa su un capitale di rischio circolante, da cui la strutturale sottocapitalizzaizone di questa forma di impresa).
Forse nel sistema cooperativo trentino questo equilibrio si rotto, o quantomeno incrinato, e secondo me va recuperato perchè, riprendendo una massima della medicina antica, il veleno non sta nella sostanza ma nella dose.
Mi scuso se ho approfittato di tanto spazio nel tuo blog, ma, come puoi immaginare, il pinot grigio è un argomento che mi sta comunque a cuore, sia personalmente che professionalmente perchè credo che un leader abbia anche degli obblighi nei confronti del settore in cui opera (non mi riferisco ovviamente alla mia azienda attuale).