“Chiedi all’esperto”: Arexons inventa l’acquisto selfsevice …. assistito

Una decina di giorni fa ero nel mio supermercato di fiducia (non è uno slogan, c’è davvero) e cercavo una cosa da comprare. Non mi ricordo cosa fosse, forse l’additivo anticalcare per il ferro da stiro, comunque un prodotto che non acquisto di frequente.

Anche così, considerate che stiamo parlando di un supermercato piccolo con 6 casse (e non ne funzionano mai più di 4), dove faccio la spesa tutte le settimane. Eppure non riuscivo a trovarlo. Giravo tra le poche corsie cercando di immaginare i ragionamenti di category management (parola grossa) che potevano aver fatto nel disporre i prodotti, ma niente.

Allora mi sono ricordato della distribuzione pre-supermercati di quando ero piccolo, diciamo un po’ più di 40 anni fa: sarei entrato in un negozio specifico (ai tempi nessuno si sarebbe sognato di chiamarlo “specializzato”) ed avrei chiesto a chi stava dietro il banco (c’era sempre un banco) di darmi “il” prodotto per la quello che mi serviva. Raramente avrei chiesto una marca, normalmente avrei espresso un’esigenza.

Quella che oggi si chiama “vendita assistita” era la norma e, perso tra 4 corsie di un supermercato (grazie Clash!), mi sono reso conto di quanto l’esperienza di acquisto fosse più semplice.

Più limitata in termini di scelta? Sicuramente. Più costosa? Certo. Più dispersiva in termini di tempo? Forse si forse no. Ma sicuramente più facile per il consumatore (oltre che probabilmente più ecologica, se non altro per la riduzione del packaging).

Poi dopo un paio di giorni ho sentito per radio la nuova campagna Arexons “Chiedi all’esperto”. In sostanza la Arexons ha messo a disposizione dei consumatori un numero verde ed una chat sul sito, attraverso cui le persone potranno chiedere consiglio su quale prodotto Arexons comprare a seconda del problema che devono risolvere.

In pratica l’Arexons punta a fare una vendita assistita attraverso i canali distributivi self service.

L’idea mi sembra bella ed interessante e mi ha stimolato una serie di riflessioni che riporto sostanzialmente a ruota libera.

I prodotti Arexons sono tipicamente prodotti a bassa frequenza di acquisto e quindi prodotti con cui mediamente i potenziali consumatori hanno una bassa familiarità.

D’altra parte l’assortimento è piuttosto vasto, proprio perchè copre tutti gli aspetti della pulizia, lavaggio e manutenzione di auto, moto, nautica, ecc….

D’altra parte questa iniziativa di Arexons, soprattutto se avrà successo, evidenzia un grande limite dell’attuale struttura distributiva. 10 anni sarebbe stato impensabile che un consumatore di fronte allo scaffale chiamasse la Arexons per farsi consigliare su che prodotto acquistare, non tanto per limiti tecnologici, ma perchè avrebbe chiesto al personale del negozio.

La campagna “Chiedi all’esperto” sottolinea come oggi riuscire a trovare un addetto con cui parlare nei negozi della grande distribuzione, anche specializzata, sia difficile e come, quando finalmente lo si trova, spesso non sia particolarmente esperto sulle caratteristiche dei prodotti che ci sono in negozio.

Da un certo punto di vista la campagna “Chiedi all’esperto” segnala alle azienda della distribuzione la possibilità di acquisire un grande vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, rispondendo alla richiesta di servizio che i loro clienti, oggi abbandonati, non trovano.

A meno che altre marce non seguano l’esempio Arexons e scavalchino la distribuzione nel servizio al consumatore. Mi chiedo come mai Arexons non abbia messo la chat in un app (magari tecnicamente non si può, scusate l’ignoranza).

Questa visione apre la strada verso il negozio a marchio, strada già consolidata nell’abbigliamento. Nel momento in cui io Arexons mi sono consolidato come “l’esperto” della pulizia, lavaggio e manutenzione di auto, moto, nautica, ecc…., cosa mi impedisce di valorizzare al massimo questo posizionamento del marchio utilizzandolo per aprire dei punti vendita, oltre che per i prodotti?

Secondo me per fare questo passo il limite è più mentale che non di competenze. Mentre la distribuzione è diventata anche produttore decenni fa con i prodotti a marchio proprio, i produttori faticano a fare il salto concettuale per diventare anche distributori.

Soprattutto nei mercati, come probabilmente quello di Arexons, dove non funzionerebbe un negozio monomarca, ma un negozio con un assoertimento adeguato potrebbe comunque sfruttare la forza del marchio Arexons.

Nella mia esperienza professionale ho provato almeno un paio di volte a portare l’azienda a fare esperienze nella distribuzione con modelli non monomarca, per la necessità di offrire un assortimento completo e rilevante al consumatore. I miei colleghi / superiori mi hanno sempre guardato perplessi e mi hanno chiesto se avevo considerato che in questo modo avremmo rischiato di sviluppare le vendite dei concorrenti.

Io ho sempre risposto che comunque la gestione del punto vendita e dell’assortimento rimaneva sotto il nostro controllo e che la distribuzione sarebbe stata una grandissima e preziosissima fonte di informazioni sul comportamento del consumatore.

Soprattutto aggiungevo che non vedevo nessun rischio, anzi se i prodotti di aziende concorrenti si sarebbero venduti meglio significava che il consumatore trovava la loro proposta migliore. Quindi comunque avrebbe finito per “batterci” sul mercato, però se noi ne eravamo i distributori avremmo imparato direttamente dalle loro strategie ed avremmo guadagnato sulle loro vendite. In sintesi più i miei concorrenti vendevano e più io avrei guadagnato: meglio di così, impossibile.

E’ a questo punto che lo sguardo da perplesso diventava allibito.

Sarà per questo che oggi io tifo Arexons.

#bacialafelicità: l’ultima campagna di Coca Cola diventerà l’esempio del declino delle PR digitali?

Chi segue questo blog sa che segue con naturale attenzione quello che fa la Coca Cola.

“Naturale” perchè sono un vecchio affezionato consumatore prima ancora che per ovvie ragioni personal-professionali di marketing nei riguardi di uno dei principali, e più innovativi, marchi mondiali.

Queasi sempre ne ho parlato inntermini positivi, quando non entusiastici. Nei rari casi in cui le strategie non mi convincevano, c’era sempre una sospensione di giudizione che dava il benefecio del dubbio che avessero ragione loro, che, non a caso, sono la Coca Cola.

Oggi è uno di quei rari casi.

Lo scorso 12 aprile è partita in Italia (negli USA era partita il 25 febbraio) la nuova campagna Coca Cola che celebra i 100 anni dalla creazione della bottiglia “contour”.

Ovviamente la campagna ha il suo bel hastag #bacialafelicità e si sviluppa anche sui social networks oltre che (o forse più che) sui media classici.

A quasi un mese dal lancio però io non ho notato granchè attraverso i miei profili social e quindi per curiosità ho digitato #bacialafelicità su twitter ed ho guardato cosa usciva.

L’impressione è che la grandissima maggioranza dei tweet siano stati fatti da opinion leaders digitali più o meno professionisti (bloggers, ecc…) in seguito alla campagna di PR realizzata da Coca Cola (vedi foto del kit di PR) e siano molto pochi quelli spontanei. Guardo instagram (circa 200 immagini) e la situazione è più o meno la stessa.

La mia impressione è che le PR digitali siano arrivate ai meccanismi delle “classiche”PR analogiche, nel senso che puntano a raggiungere quanti più opinion leaders possibili, che di conseguenza genereranno un numero elevato di contatti/impressions potenziali.

Tutti questi tweets / post servono a qualcosa. Qual’è lo scopo dell campagna? Rafforzare / modificare il posizionamento della marca per aumentaerne il valore? Creare passaparola? Veicolare determinati contenuti? Aumentare i consumi?.

Niente di tutto questo si verifica se non si ottiene l’attenzione e non si crea il coinvolgimento di chi riceve il messaggio.

Una volta attenzione e coinvolgimento nelle PR digitali erano assicurati automaticamente dalla relazione tra l’opinion leader “attivato” dalla campagna aziendale e le persone che lo seguono, ma dubito che questo automatismo esista ancora.

Non dimentichiamo che alla base della “forza” di un opinion leader (analogico o digitale non importa) c’è sempre la credibilità. E nei compartamenti digitali le bugie hanno le gambe cortissime.

Negli ultimi 5 anni le aziende hanno sviluppato le competenze per gestire e reclutare gli opinion leader (digitali), che più si prestano a queste operazioni e meno sono credibili, quindi rilevanti.

Inoltre, o magari come conseguenza dell’intensificarsi delle PR digitali, nel comportamento delle persone nelle reti sociali si nota uno spostamento dalle interazioni basate sulle relazioni alle interazioni basate sugli interessi condivisi (basta utilizzare un po’ instagram per accorgersene in prima persona). Quest’ultima frase rileggetela, perchè esprime un concetto importante.

Un altro segnale dell’importanza crescente e cruciale che ha oggi il contenuto per sviluppare una comunicazione (dialogo) tra marche e persone (consumatori).

La campagna #bacialafelicità è stata ottimamente pensata ed eseguita, come ci si aspetta da un’azienda con la forza e la professionalità di Coca Cola.

Proprio per questo (l’assenza di errori di impostazione e di esecuzione§), la scarsa viralità organica sviluppata  dalla campagna #bacialafelicità a me sembra il paradigma del declino delle PR digitali di massa, così come si sono evolute da qualche anno a questa parte.

Concludo con una nota a margine: in termini di autenticità e ricchezza dei contenuti non mi sembra una bella cosa che il testo del comunicato di presentazione della campagna non ricordi il nome di Earl R. Dean, che 100 anni fa disegnò la bottiglia della Coca Cola.

 

I sogni son desideri, chiusi in fondo al cuor: #illydreamers.

Giusto l’altro giorno riflettevo che è da un po’ che non facevo un post dedicato all’attività di una marca e mi chiedevo se fosse dovuto al fatto al essere malato di troppa esperienza (né ho già viste troppo?), alla stanchezza creativa delle marche oppure perché non so più cosa succede, visto che non leggo i giornali, non guardo la TV né ascolto più la radio (grazie alla drastica riduzione delle ore passate in auto).

Poi un mio amico (e lettore di biscomarketing) mi ha chiesto cosa ne pensavo della nuova campagna illy, lanciata in grande stile su stampa, radio e web e che io non avevo visto per i motivi di cui sopra.

Allora per curiosità sono andato a cercarla su web. Ho trovato alcuni degli annunci stampa, alcuni degli spot su youtube (certi si caricavano e certi no), nessuno spot radio.

Non pensavo però di dedicarci un post, per diversi motivi. Innanzitutto mi straniava un po’ partire da uno stimolo esterno, poi perché ho già trattato di illy in numerosi post di questo blog, il più delle volte con toni (costruttivamente) critici. Volevo, e vorrei, evitare l’impressione di un accanimento specifico, magari con lo scopo di sfruttare la notorietà del marchio, tanto più nei confronti di un’azienda dove lavorano alcuni amici e di cui ho ammirato l’approccio strategico dagli anni ’90 in poi.

Per di più non mi dispiacerebbe avere anche un cliente un po’ più vicino a casa, visto che al momento sono tutti sparsi per il nord Italia, e non sono convinto che la critica, seppur costruttiva, sia il modo migliore per stimolare una eventuale collaborazione.

Poi però ho cambiato idea e quindi spero mi credano quando dico che è perché gli voglio bene.

Ho cambiato idea perché nel frattempo ho letto un paio di articoli di Marketing Insight dell’anno scorso ed ho trovato nella campagna #illydreamers una serie di spunti per riflessioni di marketing più generali.

Estraggo e traduco al volo dall’articolo “Storytelling and Marketing: The Perfect Pairing?”:

“L’arte della narrazione è vecchia come il Mondo e rappresenta forse una delle più antiche forme di comunicazione tra le persone: trasmettere dei messaggi e condividere la conoscenza e la saggezza accumulate per aiutare a gestire e spiegare il mondo intorno a noi”.

“Secondo i risultati di uno studio del 2010 realizzato da ricercatori di Harvard e presentati nell’articolo “What Sex, Food And Selfies Have To Do With Effective Social Marketing”, condividere i nostri pensieri e le nostre esperienze attiva i sistemi di gratificazione del cervello, causando la medesima scarica di dopamina che si genera in conseguenza al sesso, al cibo o all’attività fisica.”

“Secondo un articolo della società di ricerca Nielsen sulla diffusione dell’interazione degli spettatori televisivi con il programma che stanno guardando attraverso i commenti sui social, l’audience su twitter è pari a 50 volte il numero degli autori dei tweets. Ad esempio se 2.000 persone fanno un tweet su un certo programma televisivo, questi tweet saranno visti da 100.000 persone”

Estraggo e traduco al volo dall’articolo “With a purpose”:

“Quello che definisce il successo di lungo periodo di una marca, più dei semplici risultati finanziari attuali, è l’abilità di creare connessioni significative (nel senso che per essere rilevanti devono essere portatrici di un significato specifico, n.d.a.) con i consumatori (i direi meglio con le persone, n.d.a.)”

“… la nostra strategia dovrebbe essere di un coinvolgimento di scopo in tutte le nostre interazioni con i consumatori.”

“Per essere presa in considerazione una marca deve fornire al consumatore qualcosa di utile, per essere credibile ed ottenerne la fiducia deve essere autentica e coerente ai propri obiettivi ed ai propri ideali.”

“Il comportamento di una marca diventa il suo messaggio tanto quanto quello che dice (io direi DI PIU’ di quello che dice o, parafrasando Forrest Gum: marca è quello che la marca fa, n.d.a.).”

“….. è necessario definire e tenere a mente qual è il vantaggio (payoff) emotivo che il consumatore riceve dall’acquisto della marca.”

“Nell’universo digitale e sociale, la comunicazione unidirezionale della marca è rimpiazzata dalle conversazioni.”

Aggiungo a quanto letto su marketing management una considerazione mia, che ho sottolineato anche venerdì durante la mia lezione-seminario all’Università di Cà Foscari a Treviso: il rischio di cambiamenti eccessivamente frequenti nel posizionamento delle marche rispetto alla necessità di reiterazione.

E’ rischio connaturato nell’attività di marketing, che richiede di essere sempre un passo avanti al mercato, ai concorrenti e magari anche alle aspettative dei consumatori. E’ un rischio acuito dal fatto che chi si occupa del marketing e della comunicazione della marca, lo fa tutti i giorni, 365 giorni all’anno e quindi percepisce come “vecchio” un posizionamento che ha appena iniziato a sedimentare nel consumatore.

Permettetemi una considerazione grossolana: se durante l’anno la marca comunica per 1 mese, due anni del Brand Manager equivalgono a 24 anni per il consumatore.

La mission va definita come se fosse eterna e per servire allo scopo di indirizzare e far crescere la marca in una determinata direzione dovrebbe essere mantenuta almeno 5 anni. Il positioning statement (sempre che sia una cosa diversa) dovrebbe derivare dalla mission e quindi avere (almeno) la stessa durata.

Medesimo discorso per il payoff che, secondo me, deve essere l’essenza del positioning statement/mission/scopo della marca.

Modificare con troppo frequenza il payoff impedisce che questo si sedimenti nel percepito del consumatore, diventando un punto di forza e di ancoraggio della marca, anche in grado di accompagnare il consumatore nell’evoluzione del posizionamento della marca.

Queste considerazioni le ho sperimentate in prima persona sul campo con Keglevich che ha mantenuto il payoff “Keglevich la vodka ke volevich” per almeno un decennio, dalla fine degli anni ’90 alla fine degli anni 2000, con crescente successo ed attraverso 3 riposizionamenti della marca. Non credo sia stato un caso che l’unico anno in cui è stato cambiato sia stato quello con le peggiori performances.

Se questo era vero 15 anni fa, secondo me lo è ancora di più oggi, quando la frammentazione e la moltiplicazione di media, messaggi e targets rende ancora più importante il rafforzamento dell’identità della marca.

Torno a bomba, ossia alla campagna #illydreamers riportando qui sotto due annunci stampa e linkando la sezione #illydreamers nel sito dell’azienda.

HenriqueChristophe

Mi/vi pongo quindi alcune domande sulla campagna

-          Stimola la condivisione/il commento?

-          Coinvolge l’audience (consumatori/persone)?

-          Stimola la conversazione della marca con l’audience (consumatore/le persone)?

-          Qual è il payoff emotivo che si aspetta o propone all’audience (consumatore/consumatore)?

-          L’utilizzo dell’hashtag #illydreamers in contemporanea con quello #livehappilly (che è anche il payoff della campagna) rafforza la personalità della marca allargandola oppure la indebolisce confondendo? Considerando poi che da settembre 2014 a gennaio 2015 è stato utilizzato l’hashtag #buongiornoilly per il concorso relativo alla miglior colazione in casa?

-          L’utilizzo della marca negli hashtag favorisce le considivsioni oppure le frena? Ha ragione illy oppure la maggior parte delle altre marche, in tutti i settori, che utilizzano hashtag emozionali dove la marca non compare?

Concludo con due note tecniche, una positiva e una negativa (nella migliore tradizione cerchiobottista).

Della campagna stampa #illydreamers mi è piaciuto che i soggetti siano sospesi. E’ una soluzione che crea una leggera scansione rispetto alla realtà che attira l’attenzione e, soprattutto, suggerisce / sottolinea / rafforza l’aspirazione verso l’alto e verso il cielo implicita nei (grandi) sogni.

A me ha ricordato un po’ le foto che Philippe Halsam faceva alle persone famose mentre saltavano perché secondo lui “l’atto del saltare rivela la vera natura dei soggetti”. Forse sarebbe stato troppo sofisticato fare le foto delle persone veramente nell’atto di saltare, però secondo me sarebbe stato assolutamente coerente con l’autenticità e la qualità del posizionamento di illy, (e l’avrebbe quindi rafforzato) nonché con il suo legame con l’arte.

La nota negativa è che nella pagina web del sito aziendale con la storia di Christophe Locatelli c’è un errore di ortografia. Per un testo che comincia con “Amo le sfumature, ho sempre sognato di distinguermi per i dettagli” non è che sia il massimo.

Come sta scritto nell’intestazione della mia carta intestata ed in calce alla mia firma sulle e-mail:

Il marketing di successo è fatto di strategie nate dall’immaginazione più sfrenata, realizzate con disciplina maniacale.

OK, il prezzo è giusto per ciascheduno (e quindi la vita diventa più cara)!

Lo scorso 7 settembre nel mio post “Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 4: le politiche di prezzo”, teorizzavo un futuro in cui il prezzo comme lo conosciamo oggi non esisterà più, sostituito da transazioni individuali per ogni specifica trattativa.

Come spesso succede alle previsioni nell’era digitale, il futuro arriva molto più velocemente del previsto: nel numero 1096 dell’Internazionale trovo un articolo dal titolo “Prezzi su misura” che spiega come l’utilizzo della profilazione degli acquisti dei clienti attraverso le carte fedeltà o l’identificazione tramite login stia portando alla diffusione di offerte personalizzate.

Secondo l’articolo negli USA il 5% dei prezzi è già personalizzato ed oltre metà delle catene distributive stanno lavorando su progetti di price intelligence.

L’esempio europeo è quello di una start up tedesca la So1 (Segment of 1) secondo la quale 3 spese in 4 settimane sono sufficienti a fare una stima sul singolo consumatore. La sperimentazione in atto nella catena di supermercati tedeschi Kaiser’s prevede la presenza di totem all’ingresso dei punti vendita che stampano le offerte personalizzate “strisciando” la carta fedeltà, sviluppate da un algoritmo sulla base degli acquisti passati. Nella definizione dell’Amministratore Delegato della So1, la carta fedeltà non è altro che un cookie materiale (terminologia che la dice lunga sulla rilevanza che sta acquistando l’universo virtuale su quello materiale nell’era digitale).

Concepire la carta fedeltà come un cookie, forse ha facilitato il concetto di collegarla ad un numero cliente anonimo (come fosse un indirizzo IP) che, a sua volta, ha probabilmente influenzato l’accettazione della nuova carta da parte dei clienti della catena.

L’articolo poi cita altri esempi come quello del software Xtify dell’IBM, la quantità di informazioni sui comportamenti dei propri clienti raccolte dalle catene di supermercati svizzeri Migros e Coop oppure che circa la metà dei clienti della catena di supermercati Safeways utilizza già un’applicazione che propone sconti specifici basati sugli acquisti precedenti del consumatore. E’ evidente che stampare un buono con gli sconti specifici da un totem sul punto vendita oppure riceverlo sullo smartphone è un puro tecnicismo che non cambia nè il concetto nè la sua applicabilità.

In realtà l’utilizzo dei comportamenti di acquisto passati per disegnare le offerte future è una cosa piuttosto vecchia.

Credo che fosse il 2005 o il 2006 quando, tra i primi in Italia, abbiamo utilizzato il circuito che Catalina Marketing aveva da poco realizzato in diverse catene della GDO (ricordo che l’ufficio erano 3 stanze a pianoterra di un anonimo palazzo di appartamenti milanese)

Il sistema funzionava, e forse funziona ancora, così: se al passaggio allo scanner delle casse sullo scontrino si trovava un determinato prodotto, un’apposita stampante posizionata di fianco alla cassa stampava uno sconto specifico per un determinato prodotto definito al mommento della campagna promozionale.

Lo strumento poteva essere utilizzato per romperè la fedeltà ai prodotti concorrenti, aumentare la fedeltà al proprio, per effettuare delle vendite incrociate oppure per il reclutamento di nuovi consumatori.

Esempio 1, rottura della fedeltà alla marca: il consumatore ha acquistato una bottiglia di brandy Vecchia Romagna? Riceve un buono sconto per l’acquisto di Stock 84.

Esempio 2, aumento della fedeltà alla marca: il consumatore ha acquistato una bottiglia di Limoncè? Riceve uno sconto per l’acquisto di un’altra bottiglia.

Esempio 3, vendita incrociata: il consumatore ha acquistato una bottiglia di Limoncè? Riceve un buono sconto per l’acquisto di una bottiglia di Keglevich Vodka.

Esempio 4, reclutamento consumatori: il consumatore ha acquistato una vaschetta di gelato (al limone)? Riceve un buono sconto per l’acquisto di una bottiglia di Limoncè (in base all’analisi dei panieri di consumo che aveva individuato una associazione tra i due prodotti).

Il vantaggio di questo sistema era l’assoluta libertà nella scelta dei prodotti da utilizzare nelle promozioni (l’unico vincolo pratico era la loro effettiva presenza sugli scaffali del punto vendita).

Lo svantaggio era che la stampa del buono (o dei buoni) successiva all’acquisto riduceva il loro tasso di utilizzo, soprattutto per i prodotti a bassa frequenza di acquisto.

Qualche mese dopo l’inizio dell’attività di Catalina Marketing in Italia, ricordo che una catena (Bennet? Auchan? Carrefour? Chissà) aveva realizzato un test in alcuni dei propri supermercati con un sistema di totem, sostanzialmente equivalente a quello utilizzato oggi da Kaiser’s. Perchè la cosa non si sia consolidata, non lo so. Forse il concetto era troppo avanzato per la tecnologia del tempo.

Ma torniamo ai giorni nostri. Per l’Amministratore Delegato della So1 l’adozione di una politica di prezzi personalizzati (di fatto è questo che fanno le promozioni personalizzate) porta ad una situazione di Pareto efficenza in cui tutti traggono dei vantaggi: il produttore aumenta i fatturati, il cliente ottiene sconti per prodotti che gli interessano ed il negozio aumenta la propria marginalità.

Io dubito che ci possa essere un cambiamento nel funzionamento dei mercati che porta, anche in misura diversa, vantaggi a tre categorie di soggetti economici che hanno tra loro interessi contrapposti.

Dal punto di vista del produttore, vedo difficile che le offerte personalizzate portino ad una espasione complessiva dei consumi. E’ invece ipotizzabile una situazione vicina alla somma zero, per cui se aumentano le vendite della Coca Cola, diminuiranno quelle dalle Pepsi Cola e viceversa. Mi andrà bene una volta, ma magari quella dopo sarò “vittima” della reazione del concorrente.

In termini competitivi infatti la capacità di mirare la scontistica per singolo prodotto/consumatore è un formidabile distruttore di fedeltà alla marca. E quindi può essere utilizzato solo come strumento di breve periodo mentre nel medio lungo per difendersi dalla reazione dei concorrenti (che hanno accesso ai mmedesimi strumenti) si rafforza la necessità per le marche di mantenere un posizionamento differenziante attraverso l’innovazione ed evitare così la “commoditizzazione”. Non importa se l’innovazione è di prodotto, di servizio, di comunicazione o di qualsiasi altra cosa: l’importante è mantenersi sempre un passo (anche piccolo) più avanti (a destra, sinistra, sopra, sotto) rispetto ai concorrenti. Soprattutto nei confronti dei produttori di prodotti “genereci” e/o marche dell’insegna che competono principalmente sul vantaggio di costo e quindi di prezzo.

L’evoluzione logica del prezzo/promozioni personalizzati è la scomparsa/riduzione del prezzo/promozioni generalizzate. Per il consumatore questo si traduce per forza in un’aumento complessivo del suo paniere di acquisto. Personalizzando i prezzi il negozio riesce ad avvicinarsi al prezzo massimo che ogni persona è disposto a pagare per un determinato prodotto in un determinato momento, mentre oggi i prezzi sono fissati in base ad una stima della cifra media che un determinato segmento di consumatori è disposto a pagare per un determinato prodotto, in qualsiasi momento (o comunque in intervalli temporali molto ampi).

Ora, poichè per definizione, nessuno acquista prodotti che hanno un prezzo superiore a quello massimo che è disposto a pagare, oggi la maggior parte dei nostri acquisti avviene ad un prezzo inferiore rispetto al valore massimo che attribuiamo al quel prodotto (in termini scientifici la nostra utilità marginale nel consumo del prodotto e superiore al suo prezzo).

L’esempio diventa più chiaro se pensiamo a tutte le volte in cui compriamo in offerta un prodotto che avremmo acquistato ugualmente a prezzo pieno. Oppure se consideriamo il comportamento tipico della massima comoditizzazione per cui il consumatore che all’interno di una categoria merceologica (pesce, carne, frutta, succhi di frutta, pasta, ecc…) compra sempre il prodotto in offerta (ce ne sono sempre almeno un paio), tanto qualitativamente sono tutti uguali.

Nel sistema delle promozioni personalizzate questo possibilità di scegliere i prodotti più convenienti, intesi come quelli con la massima differenza tra il valore soggettivo attribuito dalla singola persona ed il prezzo, non c’è più. Quindi, ripeto, la conseguenza è l’aumento del costo complessivo del paniere dei beni acquistati.

Concludo con una problematica di natura macroeconomica che mi sembra nascere dalla personalizzazione dei prezzi (che comunque è già un pezzo di presente e sarà il futuro): la stima dell’indice dei prezzi.

Già oggi, secondo me, nel calcolo del PIL c’è il problema della sostanziale gratuità di moltissimi prodotti/servizi digitali e/o della loro riduzione di prezzo dovuta al progresso tecnologico (legge di Moore) senza che diminuisca l’utilità che ne ricavano le persone (motivo per cui non condivido tutta questa preoccupazione per l’eventuale deflazione, indicatore sostanzialmente monetario).

E’ possibile ottenere un indice dei prezzi che rispecchi effettivamente i prezzi pagati dalla persone in una situazione di generalizzazione della personalizzazione di prezzo?

Considerando l’importanza che ha questo indicatore nelle decisioni di politica economica, quali saranno gli effetti di decisioni basati su un indice distorto rispetto alla realtà?

Il mondo basato sull’individuo sta correndo, il mondo come società saprà raggiungerlo o è destinato a sparire?

Jesus Christ Superstar do you think you’re what they say you are? Ovvero l’importanza dell’identità.

Credete alle coincidenze?

4 giorni fa l’annuncio della messa in onda a breve (in Spagna) della serie televisiva “Sin Identidad” dove recita mia nipote Andrea del Rio.

2 giorni fa leggo su Marketing Insight l’intervista a Kim Larson, Responsabile del Google Brandlab, che alla domanda “Quali sono gli errori più comuni nel digital marketing e come fate in modo che i vostri clienti li evitino?” risponde che è necessario tornare ai fondamentali, assicurarsi che la propria essenza sia chiara e che proposta e comportamenti di marca siano autentici.

ieri, zappingando finisco su TeleMurcia (se non si è capito per Pasqua sono venuto in Spagna) e mi trovo gli ultimi minuti di Jesus Christ Superstar, con Giuda che canta “Superstar”: “Gesù Cristo chi sei? Cos’hai sacrificato. Gesù Cristo Superstar pensi di essere quello che loro dicono tu sia?”

La verità vi renderà, se non liberi, più competitivi.

Buona Pasqua e buona pasquetta.

Implicazioni del marketing totale: persone e marche si confrontano ad armi pari, lo spot (anti)Doritos.

Questo post comincia con lo spot Dorito, guardatelo cliccando qui (anche se l’avete già visto, dura solo 1,16 minuti) e poi leggete.

L’avete visto? Fino al secondo 43, secondo me il più bello spot Dorito mai realizzato (qui una compilation dei migliori 11 della storia).

Ha l’autoironia che solo le grandi marche possono permettersi, la passione dei protagonisti per il prodotto è talmente caricaturale da diventare coinvolgente, la produzione è ottima (scenografia, regia, fotografia, recitazione). La forza della sceneggiatura è dimostrata dal fatto che lo spot non ha bisogno di dialoghi per far passare il messaggio, cosa che lo rende un spot perfetto per il mercato globale che richiede di andare all’essenza superando la barriera della lingua.

Talmente bello e forte che persino quando appare la prima scritta “Dorito può contenere tracce di foresta pluviale” ho pensato che Dorito avesse lanciato un’iniziativa per la salvaguardia di x ettari di foresta. Giuro. A voi non è successo?

Poi se volete vi guardate i vari commenti dei fan di Doritos, di chi dice che era ovvio, di chi vorrebbe del contradditorio (che per definizione non può esserci nella comunicazione pubblicitaria), ecc…

Per me il punto è che questo spot dimostra con una chiarezza raramente vista prima che le persone e le marche oramai si confrontano ad armi pari perchè:

- la diffusione della “pubblicità” dipende oggi principalmente dal contenuto (messaggio) e dalla qualità della forma piuttosto che dalla forza (leggi budget) della pianificazione.

- le tecnologie audiovisive digitali hanno ridotto fortemente i costi di produzione, riducendo la differenza nella qualità degli spot dovuta lìalle disponibilità finanziarie.

- la creatività fatta per passione è mediamente di quella fatta per lavoro (e se sono un giovane regista che deve lavorare semigratis per Doritos, forse non mi cambia molto lavorare gratis contro Doritos).

- le (persone) nelle ONG sembrano aver preso coscienza che il marketing serio è “Truth well told” (come recita il motto dell’agenzia di pubblicità McCann & Erickson) e non manipolazione per irretire e dominare le persone. In altre parole il marketing è una tecnica, uno strumento, che non ha in sè un’etica ma prende quella di chi lo usa. D’altra parte è (anche) grazie al marketing ed alla pubblicità che a suo tempo cadde il governo Pinochet in Cile.

Consumers (people) never sleep, per parafrasare Neil Young. Gestire delle marche ai tempi del marketing totale significa ricordarsi di essere sotto scrutinio costantemente, ovunque e per sempre. E cercare di ricordarsi che le persone (i consumatori) sono bravi almeno quanto te, se non di più.

Da professionista di marketing (forse) è questa la causa del mio bruxismo, ma da cittadino non posso che esserne contento.

Il marketing totale ed il villaggio globale (più gli auguri di Natale).

Il concetto di marketing totale è figlio, inconsapevole, di quello di villaggio globale.

Ricordo che “marketing totale” è il termine che ho coniato qualche mese fa per indicare il nuovo ambiente competitivo in cui le marche sono sotto lo scrutinio del mercato sempre, ovunque e continuamente. E’ un concetto nato da riflessioni diverse (qui il primo post di febbraio a cui ne sono seguiti altri), però a posteriori mi sono reso conto della sua riconducibilità al concetto di “villaggio globale”.

Ma cos’è il concetto di “villaggio globale”? E’ un concetto esposto per la prima volta da Marshall McLuhan nel 1962, divenuto di grandissima popolarità anche grazie alla sua comprensibilità intuitiva.

Copio e incollo da Wikipedia (si, l’ho fatta la donazione):

Per villaggio globale si intende un mondo piccolo, delle dimensioni di un villaggio, all’interno del quale si annullano le distanze fisiche e culturali e dove stili di vita, tradizioni, lingue, etnie sono rese sempre più internazionali.

Il mondo nuovo apertosi nel Novecento è per McLuhan caratterizzato da una decentralizzazione, che sposta il punto primario di interesse e di osservazione (e di finalizzazione) dalla soggettiva visione nella dimensione di villaggio, alla spersonalizzata visione globale, concetto che ampliò in “War and Peace in the Global Village” (1968), segnalando come la globalizzazione del villaggio “elettrico” apportasse e stimolasse più “discontinuità, e diversità, e divisione” di quanto non accadesse nel precedente mondo meccanico.

Non è quindi un caso che quando si parla di “villaggio globale”, quasi tutti mettono l’attenzione sul “globale” e tralasciano il “villaggio”.

Dai tempi di MaLuhan però si è verificato un cambiamento importante: si è realizzata la rivoluzione digitale (per sintetizzare).

Se i mezzi di comunicazione di massa (di McLuhan) hanno creato la globalizzazione geografica, la rivoluzione digitale ha creato la “villaggizzazione” sociale. In altre parole la rivoluzione digitale permette alle persone di agire attivamente da abitanti (villici) di quel villaggio globale che prima potevano solo vedere.

Considerando che secondo il rapporto Unicef del 2012 il 50% della popolazione mondiale vive in città e che le popolazioni dell’Europa Occidentale e delle Americhe sono quasi completamente urbane, è facile dimenticare (o non aver mai saputo, nel caso dei più giovani) quali sono i meccanismi della vita di paese con il rischio di focalizzarsi sempre di più sul “globale” e dimenticarsi del “villaggio”.

Senza voler fare qui dell’antropologia d’accatto il villaggio/paese è un posto dove tutti sanno tutto di tutti, non solo riguardo al presente, ma anche al passato, che gioca un ruolo più rilevante nel definire le persone di quanto non succeda in città (“Se tu vuoi farti una vita, devi venire in città” cantava Giorgio Gaber).

“Tu di chi sei?” chiedevano ad uno scrittore spagnolo di Madrid quando tornava al paese natale dei genitori in Estremadura. Più o meno quello che mi chiedevano i vecchi quando entravo in osteria a Budoia  a chiamare il nonno.

“E tu chi sei?”

“Biscontin”

“Biscontin quale?”

“Mio nonno è Cristiano”

“Ah, Biscontin Mastela”.

Uscendo dall’anedottica, in un paese quello che abbiamo fatto in passato, continuerà in una certa misura a definirci per sempre (Aroldo per tutta la vita è rimasto quello che da bambino è salito sul motocarro dello zio, ha tolto la marcia e l’ahho tyrovato ribaltato in fondo alla discesa).

E quello che facciamo nel presente sarà sotto gli occhi e nei commenti di tutti. “Il paese è piccolo e la gente mormora” diceva Giorgio Faletti. Una battuta, ma anche un’espressione che esprime sinteticamente l’ineluttabilità del chiacchericcio dei social networks.

In sintesi nel villaggio si è sotto scrutinio (chiaccherati) da sempre, sempre e continuamente. E dal villaggio globale non si può nemmeno andare via per rifarsi una vita da un’altra parte.

Sono questi i presupposti concettuali per capire come sviluppare strategie efficaci (di successo) nell’era digitale, riscoprendo alcuni fondamentali ed abbandonandone altri.

Auguri a tutti un Natele di serenità e di speranza: chiudete gli occhi ed aprite i cuori.

Ci ritroviamo dopo l’Epifania.

Social communication: to syncro or not to syncro?

Mi sono (un po’) riposato e quindi eccomi con il post preannunciato domenica scorsa.

Circa un anno fa mi sono trovato coinvolto in uno scambio di battute su facebook riguardo alla correttezza o meno di sincronizzare i profili social, poi la settimana scorsa ho partecipato su twitter ad una discussione più articolata sullo stesso argomento, nata dagli spunti al riguardo sorti nei seminari organizzati al forume wine2wine di Vinitaly.

Per sintetizzare il mondo si divide in due grandi categorie (che bello: sognavo da anni di scrivere questa frase): quelli che sincronizzano i propri profili social in modo da pubblicare in automaticamente sui vari medium e quelli che invece pubblicano post/aggiornamenti di stato specifici per ogni social.

I primi lo fanno principalmente per praticità, i secondi per accuratezza. Aggiungo che ho l’impressione che i secondi guardino i primi con una certa dose di sussiego, considerando il mancato adattamento del messaggio ad ogni medium una pigra sciatteria (l’ozio, si sa, è il padre dei vizi) ed una negligente mancanza di attenzione e rispetto nei confronti dei propri lettori.

Chi ha ragione? Dipende! (anche questa è una di quelle espressioni classiche che sognavo di scrivere da anni).

Klout, che è un sito/strumento di misurazione dell’influenza in rete, consiglia di collegare i network per aumentare il proprio punteggio Klout. La teoria classica della comunicazione indica di gestire in modo specifico ogni medium per:

- essere rivolta direttamente al consumatore;
- espressa nel linguaggio che il consumatore utilizza normalmente;
- concentrata su una sola idea;
- concentrata sull’idea chiave identificata dalla ricerca di mercato;
- avere un trattamento unico e competitivo;
- essere credibile, non ingannatoria;
- essere semplice, chiara e completa;
- avere un messaggio combinato strettamente con il prodotto (servizio) che promuove;
- sfruttare pienamente il mezzo utilizzato;

Queste sono le regole di una buona pubblicità che utilizzava nel 1988 (ossia, preistoria) una grande agenzia pubblicitaria multinazionale (la Publicis se non ricordo male). Le trovate commentate, ragionate ed integrate con altre considerazioni più recenti nel mio vecchio post “Teoria e tecnica della comunicazione (digitale)”.

Tornando a noi: dipende. Dipende da diversi aspetti, che vado ad analizzare partendo da quello che faccio io.

Io collego i diversi social networks in cui sono presente in una sola direzione. Linkedin è collegato a Twitter che è collegato a Facebook. Il mio ragionamento quindi è che tutto quello che pubblico su Linkedin ha senso che vada anche su twitter e tutto quello che va su twitter ha senso che vada anche su facebook. Non viceversa, nè tra fb e twitter, nè tra twitter e linkedin.

Ho anche un profilo Instagram e fino ad oggi quello che ho pubblicato su Intragram l’ho sempre collegato a Twitter, quindi fb.

Ho anche un profilo Google +, che sostanzialmente non uso.

Mentre scrivo mi chiedo se Whatsapp sia o meno un social network; fino ad oggi non l’ho mai considerato tale e quindi per il momento lo escludo dalla trattazione di questo post.

Ecco quindi, secondo me, da cosa dipende la scelta se, e cosa e quanto, collegare i diversi profili social.

1-Praticità/tempestività: la tempestività nella comunicazione sui sociale è cruciale. La praticità della sincronizzazione aiuta la tempestività. Se devo scegliere tra accuratezza e tempestività, io non ho dubbi nel scegliere la seconda.Una cosa detta perfettamente, ma in ritardo vale molto meno di una cosa detta in modo approssimativo ma nel momento giusto. Quindi l’equilibrio tra praticità ed accuratezza, ossia collegamento o targettizzazione della comunicazione social, dipende dalle risorse di tempo e persone che potete dedicarci. Se ne avete tante potete permettervi di personalizzare ogni contenuto rispetto al medium che utilizzate, viceversa collegate.

2-Coerenza/identità: non crediate che questo punto sia in relazione con il precedente, perchè non è così. Collegare i propri social network in modo da pubblicare la stessa cosa in contemporanea su tutti è garanzia di identità e di coerenza della comunicazione.

Io dico spesso che l’ideale sono marche dalla personalità articolata perchè questo permette di stare nei diversi contesti nel modo migliore, senza perdere se stessi. In altre parole, non è necessario essere integralisti per essere coerenti. Però bisogna stare attenti anche a non essere schizofrenici, contraddicendo se stessi a seconda del medium in cui mi trovo.

3-Riduzione della ridondanza: ho scritto “riduzione” perchè, come ho detto diversi anni fa, la rete è pervasiva. Quindi un certo livello di ridondanza è inevitabile.

Cosa intendo per ridondanza? Il fatto che parte dei miei amici di facebook sono anche i miei follower di twitter e i istagram, nonchè i miei contatti di Linkedin. E questo malgrado il mio tentativo di mantenere facebook nella sfera del privato. Il motivo per cui di fatto non uso Google+ è proprio perchè in questo caso la sovrapposizione dei contatti con gli altri social sarebbe massima. Non posso evitare lo “spam” di dire la stessa cosa più volte alla stessa persona sui diversi social networks, ma collegandoli la dico nello stesso modo e così lui/lei potrà riconoscerla subito e capire di averla già vista.

Cito testualmente la dichiarazione di Leslie Petry, Direttore Marketing della società di media intelligence “Aggregate Knowledge” di San Mateo, California: “Un sacco di aziende oggi stanno parlando/raggiungendo alle persone, ma non capiscono che stanno parlando alle stesse persone attraverso una molteplicità di canali diversi, e che forse gli stanno parlando così tante volte da generare una immagine negative per la marca”

Questo punto HA una relazione con il punto 2, nel senso che minore la sovrapposizione delle audiences tra i diversi social networks e minori sia i problemi di ridondanza che quelli di identità e coerenza.

4-Contenuti: la vostra comunicazione si caratterizza per il contenuto informativo o per l’intrattenimento? Nel primo caso il rischio di perdita di efficacia comunicativa implicito nel collegare i diversi social e minore rispetto al secondo. L’informazione infatti ha una base fattuale che non cambia sui diversi medium, mentre l’intrattenimento fatto nella forma sbagliata rispetto al medium …. non intrattiene.

5-Fonte: io collego, parzialmente, i social network perchè tutti i miei profili sono personali quindi la valutazione dei punti 1, 2 e 3 tendono verso la sincronizzazione (per il punto 4 posso decidere di volta in volta riguardo ai social più eterogenei e trasversali che sono, secondo me, facebook ed instragram). Dovendo gestire dei profili aziendali è (forse) più probabile avere maggiori risorse, una personalità meno definita, delle audiences meno sovrapposte e contenuti prevalentemente caratterizzati dall’intrattenimento. Quindi la valutazione dei punti precedenti si sposta verso la targettizazione. Dipende dalla dimensione e della strutturazione dell’azienda: l’artigiano, anche se è azienda, si avvicina di più al caso dei profili personali; la multinazionale al caso dei profili aziendali.

Attenzione però: non so per quanto durerà questa distinzione tra individui ed aziende. Nella società digitale la comunicazione si basa su rapporti tra pari, ossia, in sintesi, tra persone, poco importa se fisiche o giuridiche.

Concludo notando che tendenzialmente coloro che hanno meno di 25 anni collegano i propri profili social (e non sono nè andranno su fb). Se tanto mi da tanto, al di là di tutti le mie elucubrazioni qui sopra, è molto probabile che il futuro sarà questo.

Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 6: le politiche di PERCEZIONE (già promo-pubblicità).

Anche il post di oggi parte in teoria un po’ in discesa perchè sul futuro di questa parte del marketing ho già riflettuto sempre lo scorso 19 maggio, quando ho introdotto le’evoluzione di “distribuzione” in “presenza” e “promo-pubblicità” in “percezione” (per amor di precisione ricordo che i termini inglesi originali nella teoria kotleriana classica sono “place” e “promotion”).

Dei due termini frutto delle riflessioni nate dalla voglia di mantenere la “4P” anche in italiano “Presenza” è quello che è sembrato generalmente più indovinato per descrivere i nuovi contesti di mercato, mentre “Percezione” è stato spesso giudicato più una forzatura formale per amor di “P” piuttosto che l’espressione di un diverso punto di vista.

Confesso che la cosa un po’ mi ha stupito perchè in realtà già il termine inglese “Promotion” mi è sempre sembrato il meno efficace dei quattro (pro memoria: gli altri tre sono product, price e place) per l’aderenza solo parziale alle attività che contiene.

Sempre seguendo l’enunciato del Kotler in “Marketing Management” all’interno di “Promotion” ci sono le attività di comunicazione che forniscono al consumatore ragioni d’acquisto, tipicamente pubblicità e PR+passaparola, le attività di promozione che forniscono al consumatore incentivi all’acquisto, promozioni di prezzo, concorsi, ecc…, e le attività di vendita diretta che argomentano l’acquisto con un mix di comunicazione e promozione, come le vendite telefoniche per esempio.

Proprio perchè “promozione” mi sembrava un termine riduttivo a rappresentare questa varietà di concetti strategici e tattici, io in italiano ho sempre utilizzato il (brutto) termine “promo-pubblicità”.

PERCEZIONE però e me è sembrato un sostanziale passo in avanti nel significare il risultato ultimo dell’integrazione di tutte le attività intraprese dalla marca, non solo quelle appartenenti alla funzione Promo-pubblicitaria.

Come ho già scritto in più di una occasione, tutti gli elementi che determinano la forza di una marca si possono ridurre e sintetizzare nelle due dimensioni della PERCEZIONE e del grado di CONOSCENZA che il mercato ha della marca.

E’ evidente l’influenza sulla percezione che ha dell’aspetto del prodotto/servizio nel suo senso più ampio che comprende materiali e forma della confezione, dell’etichetta, la caratterizzazione grafica e tipografica, ecc..

E’ altrettanto assodato il ruolo del prezzo nel far percepire l’esclusività e la qualità di un prodotto/servizio ed il conseguente ruolo delle promozioni, di prezzo e non, nel rafforzare o indebolire la percezione suggerita dal prezzo.

Forse meno evidente, ma sicuramente chiaro il peso che gioca nella percezione la scelta dei modi e canali distributivi. Il tipo di presenza suggerisce delle preconfigurazioni in termini di qualità, esclusività, accessibilità, ecc…

Da tutto questo preambolo deriva che le politiche di comunicazione/promozione, ossia Percezione, nel marketing futuro dovranno necessariamente tener conto dell’INTEGRAZIONE tra tutti gli elementi del sistema della marca (ok oggi ho deciso che parlo come quelli veri).

Ma perchè l’integrazione sia efficace è necessario che sia coerente nel tempo e nello spazio, ed il modo più efficiente per avere un’integrazione coerente è ESSERE (concetto che oramai, avrete capito, vedo alla base del marketing del futuro).

Pura teoria? Mica tanto, eccovi l’esempio di Fulvio Bressan, produttore vinicolo friulano di fascia alta.

Il 22 agosto del 2013 Fulvio Bressan fa un commento fortmente razzista sul Ministro Kyenge sul suo profilo facebook.

Immediatamente inizia la discussione sui social network tra sostenitori e detrattori di Bressan. Il giorno dopo la notizia viene coperta dai principali blog del vino italiadni e da alcuni in lingua inglese.

A questo punto la viralità diventa inarrestabile, la presa di posizione di Bressan su un tema politicamente caldo come il razzismo in generale e quello nei confronti del ministro Kyenge in particolare trova spazio in un articolo di “Repubblica” che viene poi ripreso dal Guardian e via via fino a testate negli U.S.A., Svizzera, Francia, Sudafrica, Nuova Zelanda, India.

La guida dei vini Slow Food, i cui valori sono “buono, pulito e giusto”, decide di non recensire il vini di Bressan per la suo prossima edizione e lo stesso fa Monica Larner, una delle principali e più seguite critiche enologiche statunitensi per i vini italiani.

Non ci sono notizie precise sulle reazioni di importatori/distributori/consumatori dei vini di Bressan.

Qui il link al post con la sintesi della vicenda pubblicata a suo tempo dal blog Intravino.

L’esempio è particolarmente interessante per la sua chiarezza dovuta a diversi aspetti:

- l’automatica coincidenza tra l’essere Fulvio Bressan e la marca Bressan, sia per la piccola dimensione aziendale sia per la voluta e ricercata identificazione del viticoltore ed enologo con i sui vini. L’essere è unico, senza distinzioni e separazioni tra il Bressan viticoltore, il Bressan enologo ed il Bressan che parla (scrive) ai sui amici (contatti) di facebook.

- di conseguenza la percezione è il risultato dell’integrazione della comunicazione nei diversi modi, tempi e stili dell’essere unico. Il pubblico tirerà le somme di eventuali distonie ed incoerenze, arrivando ad una percezione “netta” e su questa base si rapporterà con la marca.

- il contenuto, in questo caso il razzismo, è il principale fattore che determina l’interesse relativamente al messaggio, più che la sua forma/stile.

- l’estensione e la profondità che può raggiungere il passaparola tramite i social, che a loro volta rimbalzano sui mezzi di comunicazione ufficiali (tradizionali e non) rende sostanzialmente incontrollabile già oggi la diffusione della comunicazione. Per il futuro possiamo solo aspettarci una ulteriore riduzione della capacità/potere delle organizzazioni nel controllare il contesto comunicativo in cui operano.

Dite che questo esempio è da manuale proprio perchè relativo ad una realtà semplice, come una piccola azienda vinicola?

In realtà le stesse considerazioni si potevano fare relativamente alle dichiarazione di Guida Barilla e la presenza di famiglie gay negli spot della sua azienda (“mai uno spot con i gay”). Qui in realtà c’è un elemento nuovo: fino a che punto è giusto identificare l’essere del marchio Barilla con l’essere dei suoi azionisti?

Oppure si potevano fare riflettendo sull’effetto che ha avuto la morte dell’orsa Daniza nell’immagine del Trentino come ESSERE un  territorio vocato alla natura.

Allora la gestione efficace della percezione nel marketing del futuro dovrà partire da una profonda ed onesta introspezione che definisca in modo chiaro e condiviso l’essenza dell’organizzazione/marca.

Da questo sarà possibile sviluppare contenuti rilevanti perchè coerenti e forti perchè integrati in tutte le espressioni dell’organizzazione/marca.

Di conseguenza discenderanno anche gli stili, più che le modalità, delle diverse attività che veicolano la percezione.

Credo sia giusto sottolineare come questo processo abbia molto a che fare con l’interno dell’organizzazione/marca e pochissimo a che vedere con il consumatore o target market.

Parlando di marketing sembra strano, però non è voluto a priori: è semplicemente la conseguenza della linearità del ragionamento, ma probabilmente si giustifica pensando alla crescente frammentazione dei segmenti di mercato.

Nel momento in cui diventa difficile/impossibile definire le caratteristiche che identificano un segmento di mercato sufficentemente grande da avere un senso economico saranno più le persone ad intercettare le marche e non viceversa.

Concludo ricordando che se siamo, e lo siamo, tutti nel mercato dei contenuti più che di segmenti di consumatori, sarebbe opportuno parlare di audiences di ascoltatori. Ad ogni modo sempre di persone si tratta.

Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 5: le politiche di PRESENZA (già distribuzione).

Ok il post di oggi è facile perchè il futuro delle distribuzione l’ho già presagito quando ho cambiato 2 delle 4 P del marketing, ribattezzando la “distribuzione” in “presenza” (qui il link al post del 19 maggio 2013, tempus fugit).

La distribuzione del futuro sarà quindi basata sulla presenza dei prodotti/servizi nei luoghi fisici e/o virtuali dove sono presenti i (potenziali) consumatori.

Gli esempi di scaffale virtuale parlano al presente (avanzato per carità) più che al futuro, visto che le esperienze di Tesco nelle stazioni della metropolitana in Sud Corea e Peapod a nelle stazioni del trasporto pubblico di Chicago sono rispettivamente del 2011 e del 2012.

Più che di ispirazione, siamo oramai nella fase di valutazione dei risultati ed adattamento della tecnologia per la sua diffusione, come spiega questo articolo sul cammino fatto da Tesco su questa strada.

La rivoluzionarietà del concetto è sintetizzata nella dichiarazione di Mike McNamara, group CIO di Tesco: “Il merchandising virtuale ci permette di caricare scaffali virtuali con prodotti virtuali semplicemente premendo un bottone. Non dovendo più fare il laborioso processo di allestire fisicamente nuovi assortimenti, adesso possiamo provare INFINITAMENTE più combinazioni di assortimenti e formati. Per i nostri clienti questo significa che possiamo adattare gli assortimenti dei nostri negozi alle richieste locali ed allo stesso tempo mantenere un’ottima gestione del planogramma, necessaria per avere un’operatività efficiente.

Visto  che ultimamente ho letto da più parti che l’evoluzione verso la società digitale sta indebolendo il concetto di “marca”, mi sembra utile sottolineare come la riconoscibilità ed il significato valoriale della marca siano cruciali in una situazione di scaffale virtuale. Bisogna però essere marca, come scrivevo lo scorso 24 agosto , perchè solo a chiacchere e distintivo non si va molto lontano.

Bene: sono in giro per i fatti miei, trovo uno scaffale virtuale, ho 5 minuti per fare la spesa, guardo i prodotti che mi interessanoe confermo l’acquisto facendo l’occhiolino. Poi come faccio ad averli fisicamente?

Ho già detto che non sono così convinto sul proliferare dei droni. E’ più una cosa di pelle, ma se devo cercare di razionalizzare forse è perchè il drone funziona se il cliente è in uno spazio preciso e facilmente accessibile (poi è sicuro che da qui al 2024 i droni saranno in grado di aprire le porte “digitando” la password a distanza).

Il futuro della società invece secondo me vedrà un aumento di mobilità. Questo apre l’opportunità ad intercettare il cliente nei sui percorsi che fa per i suoi scopi personali. Tesco, ancora loro, l’hanno capito e sono stati i primi ad organizzare un e-commerce su larga scala che prevede la possibilità di ritirare l’ordine in un punto vendita a scelta. Non sono costretto a stare a casa ad aspettare la consegna, sulla strada di casa passo a raccogliere l’ordine che ho fatto virtualmente. Le ricerche prima, ed i risultati poi dimostrano che circa il 50% delle persone preferisce questa formula a quella della consegna a domicilio.

Si sfruttano di più gli spazi fisici del negozio, dove la funzione di “deposito” diventa preminente su quella di esposizione della merce e si utilizza il personale, meno impegnato nella gestione degli scaffali. Come fossero tanti Amazon aperti al pubblico.

Per tutto quello acquistabile e fruibile on-line il concetto è il medesimo: non sarà il cliente ad andare nel negozio, ma il negozio ad andare dal cliente. In questo caso senza neanche i problemi di logistica per la consegna.

L’autentica realizzazione del regno del consumatore, liberato dalla schiavitù di dover ANDARE a fare la spesa.

 

 

 

 

 

 

Il futuro del marketing spiegato da Katy Perry e Milla Jovovich, ovvero il marketing TOTALE.

A Natale mi chiama un’amica ed ex-collega per farmi gli auguri, chiaccheriamo del più e del meno e lei ad un certo punto mi fa “Lorenzo ti dò uno spunto per un post: esiste ancora il marketing?”

L’argomento è monumentale e quindi ho deciso di affrontarlo dal lato pop. Il bello è che avevo deciso titolo e taglio del post già da una settimana e questa mattina sul sito de “La Stampa” mi trovo la notizia che Katy Perry è la prima persona a superare i 50.000.000 di followers su twitter. Fortuna o segnale che sono ancora in grado di cogliere lo zeitgeist?

In realtà la questione di se e come esista ancora il marketing l’ho già affrontata in diversi post nel corso degli anni. Ho provato qui sotto a fare una bibliografia sintetica: mi sono venuti i brividi accorgendomi che alcuni risalgono al 2007 e che non trovo più quelli scritti nel 2006, tra cui il primo che era il fondamento del blog.
Teoria e tecnica della comunicazione digitale; 05/01/2013
Quale futuro per la pubblicità? 28/10/2012
Marketing marketing myopia; 3/06/2011
Terapie contro la marginalizzazione del marketing; 19/09/2010
La marginalizzazione del marketing non ha toccato il fondo; 14/09/2010
(Quando) imploderà il marketing? 28/02/2010
A che punto è la notte? 4/11/2009
Kotler marketing for results n.5 e ultimo; 16/12/2007
Il rinascimento del marketing? 24/07/2007.

Torniamo a Katy Perry che, secondo me, rappresenta (un ottimo) marketing presente.
Il posizionamento trasmesso dai video nel corso di questi 5 anni è stato attuale, originale, e differenziante. I video comunicano un’immagine di Katy Perry un po’ freak, meno omologata rispetto ai soliti artisti pop, ma sostanzialmente innuocua (si tratta pur sempre di un prodotto di consumo di massa). Guardate e ditemi se siete d’accordo “Hot N Cold”, “U r so gay” “California Gurls” “Roar – lyrics video”.
Soprattutto è un comportamento confermato da Katy Perry nelle sue apparizioni pubbliche. Qui poco importa che sia dovuto al fatto che Katy Perry abbia abbastanza controllo sullo show business per fare quello che vuole, oppure al fatto che lo show business abbia trovato condivisibile il modo di essere di Katy Perry o, infine, che Katy Perry sia una grandissima attrice che recita benissimo una parte (io comunque propendo per la prima ipotesi; riuscirò anch’io a tornare a vivere come se fossi un cartone animato!).
Fin qui tutte cose fatte bene, ma niente di nuovo.
La principale lezione da imparare è che il marketing oggi è digitale o non è. Affermazione quasi banale, ma, soprattutto in Italia, temo ancora necessaria. Nel 2006, praticamente preistoria, ai tempi del lancio del sito YourFun per Keglevich cercavo di spiegare al mio Amministratore Delegato che era sbagliato e fuorviante distinguere tra reale e virtuale perchè tutto poi succede nella testa della persona, che è unica. Molto meglio utilizzare i termini on e off line e solamente per distinguere le specificità operative dei diversi ambiti piuttosto che quelle strategiche (con la stessa logica per cui si fanno distinzioni su base geografica).
La ragione è presto detta: oggi Katy Perry può mandare un messaggio a 50.000.000 di persone a costo zero, disinteressandosi di pianificazione media e comunicati stampa. Per di più 50.000.000 di contatti tutti in target al 100% (come dite? Che tenendo conto dei fake il numero effettivo è più basso? Perchè credete che durante i breack pubblicitari tutte le persone rilevate dall’auditel siano sedute sul divano a guardare lo schermo?).
L’implicazione del mondo digitale, dove vivono persone digitali, è che il marketing oggi è personalizzato (dopo Nutella, si stanno diffondendo gli imitatori di Coca Cola nella personalizzazione di prodotti di largo consumo). Le tecnologie lo permettono ed i consumatori se lo aspettano.
E’ questo che permette di stabilire i famosi legami emotivi tra le marche e le persone.
Il limite del marketing di Katy Perry oggi, dico io, è nei contenuti sostanzialmente istituzionali della comunicazione. Se guardate il profilo facebook trovate quasi esclusivamente aggiornamenti di stato che comunicano concerti, uscita del disco e vari eventi legati alla cantante Katy Perry. Pochissimi riferimenti alla persona.
Su twitter si trova qualche notizia/opinione/impressione personale in più, ma la sostanza non cambia. Tra l’altro io NON sono d’accordo di tenere twitter separato da facebook (concordo invece sul tenere facebook separato da twitter), se non altro per la forte sovrapposizione dei contatti tra i due social.
Sembra quasi che la persona Katy Perry sia più evidente nelle sue apparazioni fisiche che nella presenza on-line. Potrà continuare così o dovrà evolvere verso il futuro del marketing?
Il futuro del marketing è Milla Jovovich!
- Perchè il futuro si basa tutto sui contenuti e quindi bisogna avere qualcosa di interessante da dire.
- Perchè il futuro si basa si basa sulla definizione chiara e completa della propria identità in modo che i consumatori (le persone) a cui interessa se ne accorgano quando li incrociamo.
- Perchè il futuro si basa su una perdita del controllo (del contesto) della marca, gestibile solo con un’identità che sia anche solida perchè autentica.
- Perchè il futuro si basa su legami paritetici tra marche e persone, ossia tra persone e persone.

Tutto questo lo trovate nel profilo facebook di Milla Jovovich.
quando l’ho visto sono rimasto stupefatto. Sembra il mio, nel senso che sembra quello di una persona qualunque con le foto dei bimbi, della settimana bianca, dei colleghi di lavoro.
Dà veramente l’impressione che come me e voi Milla Jovovich utilizzi facebook per condividere pezzi di vita con i suoi amici, non importa che poi li vedano anche gli oltre 3.000.000 di fans. Anzi li fa diventare davvero “amici” ad un diverso livello di amicizia.

Io davvero non mi spiego come sia riuscita a far accettare alle case di produzione ed i colleghi la pubblicazione di tutte le istantanee del “dietro le quinte”.

Non credo che oggi ci siano aziende in Italia (e forse anche nel mondo) in grado di accettare e praticare una simile trasparenza.

Il bello è che molto probabilmente vedere Milla Jovovich cadere in moto nelle prove del film non toglie mistero al film, ma anzi aggiunge curiosità nel vedere alla fine come è venuta la scena.

Il futuro del marketing quindi è il marketing totale, ossia quello in cui l’esperienza della marca mantiene sempre le promesse, in ogni luogo ed in ogni momento.

Per tornare alla domanda iniziale: il marketing totale è ancora marketing? Ognuno si risponda da sè, se ritiene che la risposta abbia importanza.

P.S. Prima di essere accusato di scrivere post sessisti, eccovi il profilo facebook di Justin Bieber. Direi da marketing presente più che futuro.